SVALUTAZIONE MA NON INFLAZIONE

La scorsa settimana la banca centrale americana (che spesso guida tutte le altre banche centrali) ha ridotto il tasso di sconto di un quarto di punto ma ha anche lanciato qualche segnale di allarme circa la possibilità di ulteriori passi nella medesima direzione. Si è vista perciò qualche piccola inversione degli andamenti dei mercati: i rendimenti di azioni e titoli a reddito fisso sono leggermente aumentati, dollaro e petrolio si sono apprezzati un po’. La cosa è abbastanza normale: un vecchio detto di borsa recita “buy on rumors, sell on news”, ma questo non significa che le tendenze di fondo siano cambiate. Anzi, gli ultimi dati sull’inflazione nel mondo lasciano sperare che questa non abbandoni i livelli attuali e sia dunque meno probabile una nuova ondata di rialzi dei prezzi, anche grazie al fatto che quelli di petrolio e materie prime rimangono relativamente quieti.

L’ANDAMENTO DEI RENDIMENTI DEI TITOLI DI STATO AMERICANI A 10 ANNI

Ciò continua ad alimentare un pericoloso ottimismo di fondo, nonostante quasi tutti gli indicatori relativi ai mercati finanziari si trovino vicini ai massimi di sempre e rendano statisticamente più probabili eventuali correzioni e picchi di volatilità delle quotazioni. In particolare resta forte la sensazione che gli investimenti sull’intelligenza artificiale possano continuare a trainare lo sviluppo economico americano nonostante il mercato del lavoro non brilli e i consumi non ruggiscano. Quello che però si può notare è che le cose vadano meglio per le grandi multinazionali che possono contare su grande solidità finanziaria e che stanno raccogliendo risorse a mani basse approfittando della grande liquidità dei mercati. Le piccole e medie imprese invece restano meno favorite e si attende di vedere se il costo del denaro continuerà a calare e se la liquidità resterà alta. Lo stesso vale per le banche, motori delle borse europee, le quali tuttavia evidenziano ancora ottime rendite di posizione nonostante la tendenza a una riduzione dei tassi d’interesse.


In generale in tutto il mondo i profitti aziendali delle grandi corporation quotate in borsa continuano a superare le attese, nonostante i dati macro-economici globali siano poco brillanti al di fuori dell’America. Tuttavia l’effetto combinato dell’abbondanza di utili delle società quotate e della grande liquidità dei mercati sta puntellando le quotazioni di qualsiasi cosa, impedendo pericolosi smottamenti. Anzi, le aspettative di fondo degli investitori professionali restano buone, almeno fino a fine anno.


Questo impedisce che criptovalute, metalli preziosi e altri beni-rifugio riprendano la loro corsa al rialzo (anche perché lo hanno fatto già a lungo) anche se l’altro motivo per il quale i risparmiatori acquistano azioni è per contrastare la svalutazione monetaria, dal momento che le aziende sono percepite come attività reali. E più aumenta la svalutazione più è probabile che le criptovalute e gli altri beni-rifugio possano riprendere quota.

L’ANDAMENTO DEL BITCOIN RESTA INCERTO

Molto dipenderà anche dalla complessa situazione geopolitica globale, che finora ha visto l’amministrazione repubblicana americana scatenare molte guerre commerciali che in prima battuta hanno spaventato i mercati ma che in seguito, in modo relativamente inaspettato, hanno fatto segnare diversi punti a suo favore. Trump sta ottenendo infatti un flusso consistente di denaro dalle tariffe doganali e numerose promesse, facilitazioni o risorse per le imprese americane da buona parte degli altri paesi del mondo. Ciò ha limitato le preoccupazioni per il debito pubblico a stelle e strisce e, a sua volta, ha tranquillizzato i mercati.


L’ottimismo di fondo dei mercati tuttavia è principalmente dettato dall’abbondante liquidità immessa dalle banche centrali (che persino la Fed contribuirà ad accrescere) e dalla riuscita della manovra americana volta a ridurre i prezzi delle commodities (materie prime e derrate alimentari). Più volte tuttavia in passato i mercati hanno mostrato miopia e hanno poi improvvisamente cambiato idea. Oggi poi il numero di fattori che potrebbero oscurare l’orizzonte di ottimismo di borse e mercati resta decisamente elevato. In particolare è forte la tendenza di quasi tutte le nazioni del mondo a incrementare i debiti pubblici e a richiedere alle banche centrali di monetizzarne almeno una parte. Questo significa che proseguirà inesorabile la perdita del contenuto di valore intrinseco delle principali divise monetarie, anche se al momento ciò continua, per numerosi motivi, a non tradursi in un cospicuo rialzo dei prezzi di beni e servizi.

IL PREZZO DELL’ORO IN DOLLARI È CRESCIUTO ESATTAMENTE QUANTO LA LIQUIDITÀ DISPONIBILE

Ovviamente tutti sanno che questo disaccoppiamento tra svalutazione monetaria e inflazione non potrà durare in eterno, così come le banche centrali non potranno continuare in eterno a pompare liquidità sui mercati. Alto rimane anche il rischio di nuovi allarmi (che provocherebbero rialzi generalizzati dei prezzi delle materie prime) a causa del numero elevatissimo di situazioni di conflitto locale ove la maggior parte delle nazioni OCSE è (anche militarmente) contrapposta a quelle appartenenti ai BRICS. Eppure per il momento i mercati finanziari si mostrano resilienti e continuano a puntare a nuovi record, principalmente in funzione del fatto che la tendenza di fondo dei tassi d’interesse sembra ancora volta al ribasso.

IL PREZZO DEL PETROLIO SEGUE UN TUNNEL DISCENDENTE

Facile dedurne che la situazione può al tempo stesso restare rosea per un tempo indefinito ma anche che, a un certo punto, quell’eccesso di ottimismo può generare anche improvvise e grosse delusioni sui mercati, alimentando l’instabilità, cioè volatilità e riallineamenti delle quotazioni verso il basso. L’economia tuttavia ha a che fare con le vicende umane e resta, in buona parte, più una filosofia che una scienza esatta (oltre che “triste”, come dicevano Malthus e Carlyle). E per continuare con le citazioni, Oscar Wilde osservava argutamente che nel mondo nulla è più costante della precarietà…

Stefano di Tommaso




I TASSI D’INTERESSE STANNO SCENDENDO

La vera novità degli ultimi giorni non è l’inflazione che non sale, non sono nemmeno gli straordinari profitti che le grandi imprese americane stanno continuando a produrre, né l’oro che storna leggermente le sue quotazioni record, bensì il fatto che non soltanto i tassi d’interesse a breve termine sembrano destinati a scendere ma lo stanno facendo anche quelli a lungo termine.

LE ASPETTATIVE SUI PROFITTI AZIENDALI SONO IN CRESCITA

LA LIQUIDITÀ GLOBALE AIUTA I MERCATI

Perché è questa la vera novità? Per il semplice fatto che i governi di mezzo mondo continuano a produrre deficit di bilancio che necessitano di essere finanziati e che dunque la liquidità in circolazione nel pianeta cresce a un ritmo superiore rispetto al debito e i risparmiatori non temono crisi e recessioni. Altrimenti i tassi a lungo termine salirebbero, perché chi finanzia chiederebbe un prezzo crescente per una merce che va rarefacendosi. E invece accade il contrario: chi è disposto a sottoscrivere titoli a reddito fisso a lungo termine oggi lo fa con un rendimento decrescente.

LA MISURA DELLA LIQUIDITÀ GLOBALE 

LE ASPETTATIVE SONO POSITIVE

Il dato (quello della discesa dei tassi d’interesse a lungo termine) non è privo di conseguenze, anche se occorre ricordare che quanto accade oggi non è detto possa proseguire indefinitamente per il futuro. La prima di queste conseguenze è il “sentiment” dei mercati finanziari, che evidentemente resta positivo, nonostante le quotazioni record dell’oro e di altri beni rifugio possano suggerire l’opposto. E ciò è rafforzato dal fatto che anche i listini delle borse valori, pur dopo una fase di elevata volatilità, sono tornati a nuovi massimi storici. Segno di ottimismo generalizzato, tanto sui mercati che per quanto riguarda l’andamento economico globale.


L’ECCEZIONALISMO AMERICANO PROSEGUE

Altrimenti le attese di profitto delle imprese calerebbero, gli investimenti sull’Intelligenza Artificiale si ridurrebbero, i consumi si placherebbero. E invece no. Almeno per ciò che riguarda la prima economia al mondo: quella americana. Per l’Europa la narrativa non può essere la medesima, e forse nemmeno per l’Asia. Dunque persiste il cosiddetto “eccezionalismo americano”, quello che fino a ieri ha sempre giustificato le extra-performance della borsa di Wall Street e sinanco la relativa forza del Dollaro (che, detto per inciso, non sembra più destinato a scendere contro Euro).

IL “DOLLAR INDEX”

L’EUROPA PAGA I CONTI DELLA GUERRA

L’America non deve infatti finanziare (e coinvolgersi) con una guerra in corso alle sue porte (come invece l’Europa), anzi rischia di guadagnare dagli ordinativi di armamenti in corso di ripida ascesa, e non rischia di vedere prosciugate le proprie riserve energetiche (soprattutto qualora il prezzo del petrolio non rimanesse così basso). L’America non rischia nemmeno il collasso di interi settori industriali (come l’Europa con l’automobile, la meccanica industriale e il lusso) e non rischia oggi di doversi confrontare con grandi crisi politiche e istituzionali (come invece succede a buona parte dei governi d’Europa).


L’INFLAZIONE SEMBRA SOTTO CONTROLLO

Ma c’è anche una seconda conseguenza: se i tassi a lungo termine scendono, le borse non stornano e le quotazioni di petrolio, materie prime e altri beni rifugio non scendono, allora tutto questo vuol dire non soltanto che gli investitori appaiono più ottimisti, ma anche che la liquidità che alimenta il circuito non ha conseguenze sull’inflazione: se investitori e risparmiatori se la fossero aspettata in tialzo non avrebbero comperato più titoli a reddito fisso. Se invece qualcuno paga più care le obbligazioni quotate (perché riducano i rendimenti ) significa che i rendimenti reali (al netto dell’inflazione) non sono percepiti troppo in ribasso.


LA STAGFLAZIONE PUÒ ATTENDERE

E questo nonostante il gran battage della stampa tutta allineata sui grandi rischi per l’economia derivanti dai dazi doganali e dalle guerre commerciali. Sembra un secolo ma soltanto un paio di mesi fa lo spettro della “stagflazione” (stagnazione più inflazione) sembrava gettare nel panico i commenti di ogni economista o analista finanziario! In realtà senza gli introiti derivanti dai dazi doganali il deficit di bilancio governo federale americano darebbe molti grattacapi.


MA C’È TROPPA “COMPIACENZA” SUI MERCATI

Ma cosa succede davvero? E’ davvero tornato il sereno stabile sui mercati? Ovviamente no, non è mai tutt’oro ciò che luccica. Innanzitutto perché non sarebbe la prima volta che la Federal Reserve Bank of America si sbaglia sulle sue previsioni macro-economiche che oggi la spingono a far capire ai mercati che opererà almeno un altro taglio dei tassi d’interesse prima di fine anno. È già successo un anno fa e i tassi a lungo termine all’epoca andarono in direzione opposta (al rialzo). La nuova discesa della volatilità può esserne una misura:


I RISCHI GEO-POLITICI NON SONO DIMINUITI, ANZI !

Ma c’è un’altra considerazione che può agitare i sonni dei risparmiatori: il fatto che il mercato finanziario sembra non voler affatto considerare i rischi di deflagrazione delle crescenti tensioni geo-politiche, dal momento che la situazione in Ucraina/Russia appare sempre più esplosiva, che il Venezuela sembra alle soglie di una nuova guerra civile, che le tensioni commerciali tra America e Cina sembrano destinate a peggiorare, che una parte dei paesi africani sono occupati in sanguinosi conflitti, eccetera eccetera eccetera!


ASPETTIAMO UN NUOVO “CIGNO NERO” ?

Il vero unico grande rischio che la festa dei mercati finisca anticipatamente e inaspettatamente insomma è quello di un nuovo “cigno nero” (per dirla con Nassim Taleb). Un evento geopolitico che possa peggiorare radicalmente le prospettive andando a incidere sulle attese di profitto aziendali, ovvero sul reddito disponibile percepito, o infine sui programmi di investimento a lungo termine (come quelli sull’Intelligenza Artificiale o sui Data Center). Un evento che resta ancora oggi relativamente improbabile, ma che sicuramente i mercati non stanno “prezzando” affatto.


LE ALTRE BANCHE CENTRALI SINO AD OGGI HANNO COLLABORATO

E poi il fatto che i tassi d’interesse scendono non dipende soltanto dall’America. Dipende anche (e parecchio) dalla grande liquidità aggiuntiva che ancora oggi affluisce al Dollaro da buona parte del resto del mondo, che numerose banche centrali immettono in circolazione per una moltitudine di motivi. E dipende dal fatto che le maggiori entrate già in corso nel bilancio federale americano, insieme ai numerosi programmi di revisione della spesa pubblica e agli afflussi di moneta dal resto del mondo lasciano sperare il governo americano di poter gestire senza sforzi l’inevitabile incremento in corso del proprio debito pubblico.


IL COSTO DEL CREDITO STA SCENDENDO

La cosa peraltro alimenta (positivamente) il circuito finanziario abbassando (soprattutto in America) i tassi sui mutui e sui finanziamenti alle imprese, in particolare quelle di minore dimensione, meno facilitate delle altre nella generazione di cassa e mediamente molto meno capitalizzate di quelle di più grandi proporzioni. Anche le previsioni di ribasso dei tassi d’interesse federali aiutano a migliorare l’accesso al credito da parte di cittadini e imprese, cosa che permette loro di spendere e investire.


L’EUROPA FANALINO DI CODA DELLE BUONE NOTIZIE

In Europa al contrario la situazione non appare altrettanto rosea, a causa del fatto che i settori più rappresentati dai grandi titoli azionari che dominano le borse riguardano l’automotive, la meccanica, il lusso e i servizi finanziari. Nessuno dei quali può pensare di godere di ottime prospettive. Ciò nonostante le borse europee possono anch’esse beneficiare della grande liquidità in circolazione e del fatto che molti paesi emergenti continuano a ordinare macchinari, impianti e armamenti europei, nonostante le rispettive industrie siano penalizzate dal maggior costo dell’energia. Sempre che altre guerre (commerciali e non) non riducano anche le vendite di queste industrie.


Stefano di Tommaso




ECONOMIA GLOBALE A DUE VELOCITÀ

Alla fine degli eccessi di mercato e dei dubbi conseguenti circa la sostenibilità di quotazioni troppo elevate, una piccola correzione delle borse è arrivata. Ora è piu lecito chiedersi se sia stato soltanto l’inizio di una svolta nell’atteggiamento di risparmiatori e investitori professionali o se essa sarà classificabile soltanto come una pausa prima che i mercati riprendano la loro corsa. Ma per trovare una risposta occorre guardarsi intorno: come va l’economia reale? Continua l’entusiasmo degli operatori? Le banche centrali hanno finito di restringere la politica monetaria? I tassi d’interesse sono davvero in discesa? La risposta, però, non è univoca…


Cominciamo col dire che la Federal Reserve (la più importante di tutte) ha effettivamente dato segnali di distensione, indicando -a seguito del rischio di togliere troppo ossigeno al sistema bancario- la conclusione del “tapering”, cioè della politica monetaria restrittiva. Questo non significa necessariamente che diventerà espansiva, ma è sicuramente qualcosa.


Anche i rendimenti espressi dal reddito fisso sono scesi un filino, più che altro perché le vendite dei titoli azionari hanno dato luogo ad acquisti dí quelli obbligazionari. La qual cosa è tuttavia un secondo segnale “non-negativo”, perché indica che gli investitori stanno riposizionandosi su un approccio meno speculativo ma non stanno fuggendo dai mercati finanziari, come l’ascesa strepitosa del prezzo dell’oro e degli altri metalli preziosi poteva far pensare.


I principali dubbi tuttavia (al di là delle eccessive valutazioni di molti titoli americani) riguardano l’evoluzione della crescita economica: proseguirà indisturbata dai sempre più impetuosi venti di guerra e dalle crescenti restrizioni commerciali internazionali o alla fine fletterà? Ai listini delle borse (composti principalmente di azioni delle grandi multinazionali) più che altro però interessano i profitti attesi: essi continueranno la loro corsa o dovranno riflettere un contesto generale deteriorato?


La congiuntura economica effettivamente può dar luogo a preoccupazioni in tal senso. Il punto però è che manca la sincronizzazione tra le tendenze delle varie principali economie del mondo: quella americana è passata da una foga nei consumi cospicui (che non si è ancora interrotta) ad un incremento degli investimenti tecnologici e dunque ha sostanzialmente proseguito la sua corsa. Le prospettive americane inoltre sono ottimistiche a causa del “reshoring” (il ritorno di numerose attività industriali) che comporta altri investimenti e nuova occupazione. Si può perciò continuare a parlare di “eccezionalismo americano”.

Quella europea molto meno, anzi è chiaramente in decrescita e gli investimenti tecnologici non controbilanciano molto il calo dei consumi nonostante la maggior necessità di inseguire l’iper-digitalizzazione, richiesta dall’utilizzo crescente dell’intelligenza artificiale. L’Europa in generale deve poi confrontarsi con il problema strategico dei costi della guerra con la Russia e con quello conseguente dell’escalation dei costi di approvvigionamento energetico.

Il settore trainante in Europa (quello dei veicoli da trasporto) resta boccheggiante, almeno per ora. L’impiantistica industriale soffre della caduta verticale del mercato interno, le costruzioni e l’immobiliare hanno fino ad oggi beneficiato degli incentivi europei ma adesso devono fare i conti con la scarsità di risorse pubbliche e il settore bancario, che prometteva grandi profitti non potrà che limitarli a causa della sua (almeno parziale)dipendenza intrinseca dall’industria e dal commercio.

L’economia asiatica (così come quella sud-americana) prosegue la sua crescita in funzione delle prospettive positive dei consumi interni ma indubbiamente deve fare i conti con il calo atteso delle esportazioni verso l’Occidente. Le economie emergenti (esclusa la Cina, che oramai è un colosso) risentono a loro volta della crescita demografica ma stanno subendo il calo dei prezzi delle materie prime (in particolare il petrolio è sceso sotto la soglia psicologica dei 60 dollari) e continuano a soffrire il deflusso netto di risorse finanziarie a favore per lo più degli U.S.A.


\Persino nel caso di una crescita a due o tre velocità (America, India, Cina e Giappone da una parte, Europa dall’altra e in mezzo i Paesi Emergenti) le prospettive complessive non appaiono così rosee. C’è poi lo spauracchio del moltiplicarsi dei conflitti armati. Ė vero che le guerre sono sempre un gran business ma il loro eccesso può sortire il contrario.

Dunque le preoccupazioni generali si addensano come nubi nere all’orizzonte delle prospettive di profitto delle imprese quotate e di quello, ancor più pericoloso, della sostenibilità dei debiti pubblici con le entrate correnti. Una preoccupazione ulteriore in tal senso genererebbe una fuga dai titoli a reddito fisso e una conseguente crisi di fiducia. Un problema più per le prospettive a medio termine che non per l’immediato dei mercati finanziari, i quali oggi risentono più della liquidità in circolazione che delle attese di profitto.


A fronte di una decisa risalita della volatilità dei mercati infatti i grandi portafogli si sono “dovuti” riposizionare su una strategia di contenimento dei rischi, che ha favorito il piccolo calo delle borse e l’ancor minore crescita delle quotazioni obbligazionarie. Se essa proseguirà la tendenza negativanbsp; delle borse non potrà che continuare. Se si invertirà i grandi gestori torneranno a comperare azioni e le borse invertiranno la rotta al ribasso. Quello attuale è perciò (almeno da un punto di vista tecnico) un punto di domanda: prevarrà il Toro (cioè l’ottimismo, o rispunteranno forme dí Quantitative Easing che lo favoriscono) oppure le borse dovranno prendere atto delle zampate dell’orso e vireranno decisamente a “sud”?

A favore della prima delle due possibilità c’è la fondamentale considerazione che l’inflazione (mai completamente sopita a causa della crescente monetizzazione dei debiti pubblici che di fatto svaluta la moneta)erode il reddito fisso e favorisce gli investimenti in attività reali (comprese le azioni che sono pur sempre quote di aziende). A favore della seconda i rischi in aumento della geopolitica e quelli ancor più immanenti dei deficit dei bilanci pubblici che minano la capacità di sostenere non soltanto il debito, ma anche i salari reali (e con essi i consumi).

LA,FIDUCIA DEL CONSUMATORE AMERICANO CONTINUA A CRESCERE

Da notare che il prezzo dell’oro (anch’esso una misura dei timori dei risparmiatori) ha potuto beneficiare non soltanto della domanda che da tempo ha superato l’offerta, ma anche del contesto attuale di attese (forse eccessive) di pesante svalutazione monetaria in un contesto di tassi reali dunque sotto lo zero. Se viceversa i rendimenti dovessero tornare a crescere e il “debasement” (il calo del contenuto di valore delle principali divise monetarie) percepito dovesse ridursi al che le quotazioni del metallo giallo potrebbero ridimensionarsi. Senza contare il fattore minerario: alle quotazioni attuali conviene parecchio di più investire per estrarre altro oro e nel lungo termine la sua offerta potrebbe tornare a sorpassarne la domanda.

Stefano di Tommaso




ALLACCIATE LE CINTURE !

Mercati al bivio, dopo il venerdì nero della scorsa settimana! Dopo l’ennesima esternazione di Trump circa nuovi dazi doganali alla Cina, tutti hanno paura e la paura genera sempre altra paura, soprattutto quando i dati macroeconomici non vengono pubblicati. Perciò le borse sono scivolate del 3%? Forse. Oppure sono scese perché dovevano già scendere, dal momento che stava per esaurirsi un ciclo e ne stava iniziando un altro ? Il momento della verità arriverà con le prime trimestrali d’autunno.

IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO

In realtà il presidente degli Stati Uniti d’America sbraita contro Xi Jin Ping perché sa che non è facile centrare l’obiettivo di rientrare dall’immenso deficit di bilancio ereditato dalla precedente amministrazione federale senza riaccendere il cerino dell’inflazione. E per riuscirvi ha bisogno di trovare accordi con il resto del mondo, Cina compresa, e incassare molti dazi.


L’Europa l’ha già spremuta abbastanza e non riuscirà a fare molto altro. L’Asia (con la Cina sua egemone ) invece resta la gallina dalle uova d’oro, anche se rappresenta il più temibile degli avversari. Quindi serve una manovra a tenaglia, che farà fatica a mettere a segno: i mercati lo sanno bene e per questo si preoccupano. Tuttavia Trump qualche risultato nel frattempo lo sta portando a casa: la crescita economica dell’America è altrettanto importante della riduzione del deficit federale e va alimentata a tutti i costi (guerre comprese, che siano solo commerciali o anche militari) altrimenti le prospettive del debito pubblico peggiorano a vista d’occhio.


RIEMPIRE LE CASSE FEDERALI CON LE DOGANE

E la politica tariffaria è oramai parte integrante della strategia di galleggiamento della finanza pubblica americana: nel resto dei paesi OCSE le entrate fiscali derivanti dalle tariffe doganali non superano il 2% delle entrate, mentre nell’America di Trump si avvicinano al 20%, segno che il traguardo del pareggio di bilancio è più vicino a condizione di tenere il piede sull’acceleratore. Ma quest’ultimo non potrà non avere conseguenze in termini d’inflazione e d’instabilità finanziaria, a meno di non vedere qualche ribaltone sui mercati finanziari, che è esattamente quello che sta succedendo negli ultimi giorni.

SE LE BORSE SCENDONO VANNO GIÙ ANCHE I TASSI A LUNGO TERMINE

I risultati infatti per il momento l’amministrazione parrebbe averli a portata di tiro, dal momento che il calo improvviso dei mercati azionari ha avuto come effetto collaterale il calo dei rendimenti del titolo decennale americano, giunto alla soglia del 4%, come si può vedere dal grafico qui allegato:


Anche il petrolio ha avuto una svolta al ribasso, toccando minimi che non si vedevano dalla scorsa primavera (come si vede dal grafico qui sotto) e evidentemente questa tendenza aiuta non poco a contenere il rischio inflazione dei prezzi.


Le borse poi erano cresciute troppo e troppo presto, perché la vera scadenza alla quale devono presentarsi in ottima forma è a fine anno, cioè tra poco meno di tre mesi. Nel frattempo, visto che non possono soltanto crescere, sarà meglio che arrivino a ridimensionarsi un po’, dando così fiato al mercato monetario (dal quale il Tesoro americano attinge per piazzare i propri strumenti di debito).


QUANTO DEVE SCENDERE WALL STREET PER DICHIARARE IL PANICO?

Il calo improvviso di Wall Street dello scorso venerdì era dunque parte di un disegno superiore, volto a dare respiro all’intero sistema finanziario americano. Non per niente nel corso della settimana si è visto qualcosa di assai poco insolito: i grandi investitori vendevano mentre quelli piccoli acquistavano, fino a quando non lo hanno fatto più e l’indice Standard amp; Poor 500 è sceso del 3% in un solo giorno, come si può vedere dal grafico:


Ovviamente perché si innesti un vero e proprio trend ribassista occorre infrangere supporti importanti (evidenziati dalle linee rosse) e questo non è certo che succederà, ma il rischio è concreto e le ragioni vanno ben al di là delle esternazioni del presidente.

IL PRIVATE EQUITY STAVA GIÀ SCENDENDO

Si guardi ad esempio il paragone dell’andamento dello SP500 (linea bianca qui sotto ) con l’andamento del principale titolo del Private Equity americano (KKR, linea verde) che aveva già iniziato da qualche tempo la sua discesa probabilmente a causa di qualche dubbio sull’abbondanza futura della liquidità dei mercati:


Oppure si guardi un andamento analogo sul fronte del Bitcoin, cioè la principale delle criptovalute (che sono scese tutte più o meno della stessa proporzione), tornato di colpo sotto al livello di fine Agosto:


MOLTO DIPENDE DAL LIVELLO DELLA LIQUIDITÀ GLOBALE

E’ chiaro dunque che i mercati finanziari si aspettano che la liquidità in circolazione non resti così alta per sempre, che i profitti aziendali non restino così rosei per sempre, che gli investitori non continuino a vendere titoli a reddito fisso per comperare azioni per sempre. O quantomeno non subito.


CON L’ORO “BOLLENTE” CI SI PUÒ BRUCIARE LE DITA ?

Ma la vera questione delle questioni sui mercati finanziari è relativa a come si comporterà l’asset class che è stata la superstar dell’ultimo anno: l’oro, giunto a livelli nemmeno pensabili sino a pochissimo tempo fa. Nel grafico qui sotto riportato si può leggere un qualche tentennamento nella prosecuzione della sua pazza corsa verso il cielo, anche perché a comperarlo fino ad oggi sono state soprattutto le banche centrali.


Ma anche le quotazioni dell’oro (si legga il grafico qui riportato), giunto alla sogli psicologica di 4000 Dollari, potrebbero ritrarsi leggermente qualora la sfiducia si propagasse sui mercati. Una sfiducia che non farebbe che aumentare le quotazioni dei titoli a reddito fisso, cioè che ne farebbe ulteriormente calare i rendimenti. Cioè esattamente quello di cui l’America ha bisogno!

Dunque se Trump avesse la bacchetta magica (o la possibilità di influenzare i mercati) potrebbe aspettarsi di meglio? Difficile dirlo. Salvo il fatto che a giocare col fuoco (il prezzo dell’oro è incandescente) si rischia di bruciarsi le dita, quantomeno relativamente alle conseguenze indesiderate della svalutazione monetaria che segue inesorabilmente all’ascesa impareggiabile del metallo giallo. Ma qualcosa occorre pur rischiare, no? Ad esempio l’andamento recente delle borse, in termini aurei, non è stato poi così brillante, anzi! (si veda il grafico qui sotto). Dunque il problema è quello della brillantezza: più sale quella del metallo giallo più scende quella di tutto il resto:


QUANTO DURERÀ LA CORREZIONE?

Tutto bene dunque? Lo scivolone di venerdì scorso è temporaneo. Ovviamente dipende dai profitti che scaturiranno dalle nuove trimestrali, ma se si riesce a trattenere il fiato fino al prossimo mese (perché il ciclo di ribasso che sta per prendere piede potrebbe non durare meno) probabilmente si: i mercati avranno tempo per riprendersi prima di Natale e segnare nuovi massimi, ma nel frattempo il costo del debito americano può rientrare sotto controllo e la (piccola per ora) discesa dei rendimenti dei titoli a lunga scadenza aiuta il mercato monetario e dunque la liquidità futura. A tagliare il costo del denaro a breve termine potrà invece pensare la Federal Reserve (il cui stato d’assedio sembra ben riuscito). E la banca centrale sicuramente risulterà meno preoccupata nel farlo qualora la corsa delle borse dovesse arrivare prendersi una pausa.

Stefano di Tommaso