EUROPA: ULTIMA CHIAMATA !

Uno dei principali motivi che hanno portato al governo Mario Draghi è il progetto di investimento dei 221 Miliardi provenienti dal Recovery Fund. Entro il 2026 l’Italia potrà investire 204 miliardi di fondi di Next Generation EU, di cui 191 nell’impianto di investimenti che sta per arrivare in parlamento come Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), da approvare entro fine di Aprile. È forse anche l’ultima occasione per cogliere le opportunità digitali e correggere mali italiani che hanno lontana origine ma che nessuno voleva nemmeno denunciare.

 

IL DIVARIO CON IL RESTO D’EUROPA

Scrive Draghi con realismo e senza retorica: “Tra il 1999 e il 2019, il prodotto interno lordo in Italia è cresciuto in totale del 7,9%. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna l’aumento è stato del 30,2%, del 32,4% e del 43,6%”. E ancora, per mostrare che il problema di fondo è la produttività: “Negli ultimi vent’anni, dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2%, mentre in Francia e Germania è aumentato del 21%”.


“Nel ventennio 1999-2019 gli investimenti totali in Italia sono cresciuti del 66% a fronte del 118% della zona euro” scrive Draghi nella sua sintetica ma efficace radiografia del Paese. Siamo andati avanti con la metà del carburante delle altre economie europee e l’arrivo del virus ci ha fatto molto più male perché eravamo già in declino.

IL PROGRAMMA

Draghi ha definito 6 aree prioritarie:

1) la trasformazione digitale

2) il clima e l’ambiente

3) le infrastrutture

4) la scuola, l’università e la formazione professionale

5) la salute

6) l’inclusione sociale.

Di fatto in queste sei aree c’è il mondo intero: dall’efficienza energetica degli edifici, con accento sulle fonti rinnovabili, al rinnovamento della rete elettrica nazionale, fino alla banda ultra-larga e alla sicurezza informatica, passando dal cambiamento del sistema sanitario fino alla riforma dell’insegnamento.


Alla trasformazione digitale della pubblica amministrazione, del sistema produttivo, del turismo e della cultura 4.0 sono assegnati poco meno di €50 miliardi. Alla transizione ecologica, la missione più grande, €69 miliardi. E dentro questa missione, così come nel capitolo Infrastrutture, c’è di nuovo molta innovazione e tecnologia: economia circolare, mobilità sostenibile, transizione energetica e riqualificazione degli edifici.

Draghi anche imposto un’ incremento degli investimenti ulteriori rispetto ai fondi europei rispetto alla bozza di Conte: valevano €120 miliardi, mentre nel piano di Draghi valgono €166 miliardi, dei quali 31 localizzati in un “fondo complementare” varato essenzialmente per finanziare vari progetti presentati dai ministeri che non sono riusciti a entrare nel Recovery, come l’area del digitale, dalla banda larga alla cybersecurity, che passa da €6 a €13 miliardi. Colao ha proposto poi una grande novità in una delle partite più delicate: nella banda ultra-larga, si passa da un’unica gara nazionale con una sola azienda vincitrice a varie gare (forse oltre una decina) per macroregioni. È l’approccio seguito anche negli Stati Uniti. Permette più concorrenza, il formarsi di diversi consorzi, stime più precise sulla fattibilità e aggira il problema di un blocco dell’appalto su tutto il Paese in caso di contenziosi.

LA PARTE DI PROGRAMMA ANCORA “IN FIERI”

Draghi dovrà anche prima o poi mettere mano ad altre questioni annose e incancrenite che frenano lo sviluppo del Paese, definite “riforme di attuazione del Recovery Fund”. Per fare qualche esempio andiamo dal miglior funzionamento dei tribunali e delle carceri fino alla riforma della concorrenza e allo snellimento delle amministrazioni locali. Per fare un esempio pratico: per ottenere una sentenza sul rispetto dei contratti commerciali in Italia ci vogliono in media oltre 1.100 giorni, contro la metà di Germania, Francia e Spagna.

C’è poi l’evasione fiscale: il divario tra l’incasso teorico dell’IVA (sulla base del prodotto interno lordo) e quello effettivo è tra i 6 e gli 8 punti % in Germania, Spagna, Francia. In Italia è al 24/25%. Sarà pur vero che siamo esportatori netti e che una parte dell’IVA è esente, ma siamo a 3/4 volte il resto del Continente. L’evasione totale resta -soprattutto al Sud- una pratica difficile da estirpare anche a causa dell’elevata tassazione, che scoraggia il comportamento etico.

Per non parlare del “torpore” della Pubblica Amministrazione: “prima dello scoppio della pandemia, il 98,8% dei dipendenti della P.A. in Italia non aveva mai utilizzato il lavoro agile. Anche durante la pandemia, a fronte del potenziale di tale modalità di lavoro nei servizi pubblici essa è stata pari a circa il 36%, con un utilizzo effettivo del 33%. Ma soprattutto: “tale livello è stato minore di circa 10 punti percentuali nel mezzogiorno”.

L’ALTOLÀ ALLA COMMISSIONE E LA “GARANZIA” DI DRAGHI


Certo Draghi non può fare tutto contemporaneamente: è esattamente questo il “sapore” dell’altolà che ha inviato alla Commissione Europea quando quest’ultima avrebbe voluto subordinare l’approvazione degli investimenti previsti nel Piano alla contemporanea definizione anche delle riforme. Ma per “sbloccare” la (motivata) diffidenza dei funzionari di Bruxelles, Draghi ha garantito personalmente di farlo al più presto, ed è proprio qui che scatta “l’ultima chiamata”: garantire vuol dire mettere a rischio la propria immagine e il proprio ruolo, in caso di impossibilità per il Paese di dare pratica attuazione di tali riforme.

E vuol dire anche coraggio, autorevolezza e determinazione, che certo non si sono viste con Conte e i suoi predecessori. Insomma se Draghi dovesse riuscire nel suo difficile programma i prossimi sarebbero anni straordinari per il Bel Paese. Se invece il vecchio sistema prevarrà, allora la crescita ce la potremo scordare, forse per un’intera generazione!

Stefano di Tommaso




SUL CLIMA È APPENA INIZIATA UNA SFIDA SECOLARE !

Mentre la domanda di beni non alimentari lentamente inizia a riprendersi dalla stasi e poi dal torpore indotti dal virus e dalle sue infinite varianti, una certezza oggi inizia farsi strada tra gli intellettuali e gli osservatori dei mercati finanziari: il mix dei consumi sembra oramai essere gradualmente cambiato stabilmente. Molti computer, telefonini e altri strumenti per la connettività, la comunicazione e formazione a distanza, molta spesa per la salute, la prevenzione dalle malattie e il benessere (ivi comprese le biciclette , gli articoli sportivi e gli integratori alimentari) e sempre meno turismo, consumi voluttuari, abbigliamento, moda, accessori, automobili e altri articoli che realizzano o sono realizzati con la generazione di emissioni nocive.

 


IL GREEN DEAL È SOLO L’ANTIPASTO DI UNA“GRANDE ABBUFFATA”

Anzi, la battaglia all’inquinamento ambientale da energie “sporche” cioè generate con carburanti di origine fossile possiamo tranquillamente affermare che si trova soltanto ai suoi albori, e che di conseguenza il primo migliaio di miliardi di dollari stanziati dall’amministrazione Biden per incentivare il “Green Deal” rappresenta probabilmente soltanto un moderato antipasto della “grande abbuffata” di investimenti infrastrutturali e degli ampi incentivi alla produzione di energie da fonti rinnovabili, di sistemi di riduzione delle emissioni carboniose e agli investimenti per il contenimento della spesa energetica, destinata a raggiungere nei prossimi anni (o meglio addirittura: decenni) probabilmente dei veri e propri eccessi, così come è accaduto per le altre rivoluzioni culturali che hanno preceduto quella appena iniziata.

Se questa intuizione si rivelerà corretta, allora probabilmente gli investimenti necessari sul fronte della lotta alle conseguenze climatiche e ambientali dello sviluppo economico “vecchia maniera”saranno immensi e decreteranno grande successo degli operatori economici che si sono posizionati su tale linea, nonché rovinosi fallimenti per quelli che non lo avranno fatto.

Se cioè l’ondata verde si rivelerà cioè per quello che sembra (una vera e propria rivoluzione culturale in grande stile in buona parte imposta dalle èlites finanziarie e industriali) allora l’orientamento globale alle iniziative basate sulle risorse energetiche eco-compatibili e climaticamente neutrali potrebbe diventare non soltanto una assoluta necessità per le imprese che vogliono sopravvivere, bensì anche una vera e propria guerra “ideologica” a quelle tradizionali, uno slogan “di bandiera” destinato ad immancabili e ovvie esagerazioni e fors’anche ad una lunghissima durata.

LE “RIVOLUZIONI CULTURALI” CAMBIANO L’ECONOMIA

Le rivoluzioni culturali accadono raramente in ciascuna generazione di esseri umani e -da un certo punto vista che in questo caso è quello socio-economico- possono essere riconoscibili in maniera pressoché inequivocabile. Non è soltanto l’insistente propaganda mediatica e politica a permetterci di riconoscerle chiaramente e a far sì che arrivino a caratterizzare inevitabilmente qualsiasi filosofia di comportamento, di consumo e qualsiasi fenomeno sociale e di costume, marchiando a fuoco nella psicologia collettiva l’effigie del demone di volta in volta da combattere ed esorcizzare, ma è anche l’effettiva importanza delle motivazioni alla base della loro affermazione per l’intera umanità a determinarne il successo e la profondità dei cambiamenti che esse provocano.

Se nell’alto medioevo la rivoluzione culturale da portare avanti a qualsiasi costo poteva essere quella della salvezza dell’anima dell’umanità, con la conseguente lotta al paganesimo o alle eresie (che arrivò anche allora a veri e propri eccessi e alle guerre di religione), così invece a cavallo tra il secolo scorso e quello che lo ha preceduto è stata in Occidente la rivoluzione industriale a propagarsi per molti decenni, sino a diventare il “mantra” che ha radicalmente cambiato l’economia e i consumi globali e i connotati degli insediamenti umani e delle abitudini prevalenti. Oggi, dopo due secoli dal suo avvio nell’Inghilterra vittoriana, ci sono dei paesi del mondo che stanno ancora lavorando allo sviluppo dell’industrializzazione locale.

Allo stesso modo abbiamo appena assistito nell’ultimo ventennio a una nuova -e forse più sconvolgente- rivoluzione culturale che è la trasformazione digitale. Un vasto fenomeno partito poco più di vent’anni fa che con ogni verosimiglianza ha soltanto appena iniziato a provocare degli immensi cambiamenti nelle abitudini di vita e nelle modalità di interazione, consumo e lavoro dell’intero genere umano.

Possiamo infatti tranquillamente classificare la trasformazione digitale come una nuova rivoluzione culturale che probabilmente proseguirà per ancora molti decenni. Un’ondata storica e globale di modificazioni e sconvolgimenti delle abitudini di vita altrettanto importante e prevalente quanto la rivoluzione industriale che non soltanto ha cambiato per chissà quanto tempo ancora venire le nostre modalità personali e collettive di azione e interazione, ma che probabilmente continuerà a svilupparsi, allargarsi a macchia d’olio in direzione di ogni aspetto della vita umana e del soddisfacimento delle sue esigenze, oltre che in direzione dei meandri più reconditi del pianeta (dove non è ancora talvolta nemmeno arrivata) e con modalità ulteriori di ancora tutte da scoprire.

LO “SPIAZZAMENTO” DELLE ATTIVITÀ TRADIZIONALI

I riflessi economici, sociologici e persino culturali e aspirazionali della trasformazione digitale sono probabilmente soltanto appena iniziati (sebbene essa abbia preso piede oltre quarant’anni fa, da quando è partita la produce i primi computer ad uso personale) e le sue conseguenze sono ancora tutte da osservare anche in termini valoriali e finanziarie, favorendo quegli operatori economici che vi si sono allineati e penalizzando gli altri.

Questo fenomeno di “spiazzamento” di chi non cavalca le rivoluzioni culturali o addirittura vi si contrappone, sembra accadere per tutte le rivoluzioni culturali della storia umana, indipendentemente dal lasso temporale in cui si sviluppano e forse anche indipendentemente dal fatto che le medesime si possano addirittura accavallare l’una sull’altra, andando talvolta a sovrapporsi con effetti tutti da immaginare man mano che l’evoluzione dell’umanità accelera e si radicalizza.

Se però tutto questo è vero allora probabilmente stiamo assistendo oggi all’avvio di una delle più importanti, durature, e finanziariamente rilevanti “rivoluzioni culturali” che l’umanità abbia mai affrontato: quella della riduzione dell’impatto in termini di conseguenze ambientali e climatiche di qualsiasi attività: da quelle industriali, commerciali, di consumo, di intrattenimento, spostamento e trasporto, a quelle di sviluppo economico, finanziario e sociale e per gli investimenti che ne saranno trainati.

Arrivo ad esprimere questa idea con cotanta enfasi sulla base del fatto che stavolta l’importanza della posta in gioco è capitale: gli sconvolgimenti climatici, ambientali e sulla salute, nonché il benessere e forse anche la sopravvivenza dell’intero ecosistema naturale sono inequivocabilmente a rischio. La presa di coscienza collettiva sta finalmente arrivando ma soprattutto la rivoluzione culturale che ne deriverà è con ogni probabilità di portata infinitamente superiore a quella della trasformazione digitale.

LO ZAMPINO DEI GRANDI INTERESSI ECONOMICI

Ma la progressiva presa di coscienza collettiva non è sufficiente a spiegare un fenomeno la cui portata sembra oggi davvero storica e dilagante: innanzitutto è una “moda” che oggi viene cavalcata e addirittura alimentata dalle èlites culturali, politiche e finanziarie dell’intero pianeta, ma è anche necessario che sia così perché essa comporta gigantesche necessità di denaro, di intelligenza e focalizzazione dell’attenzione collettiva per riuscire ad ottenere effetti tangibili sul clima, sulla salvaguardia dell’ambiente e sulla tenuta dell’ecosistema planetario. Gli investimenti richiesti sono infatti stavolta infinitamente superiori a quelli che erano risultati necessari per la dare corpo alla rivoluzione industriale e sinanco alla trasformazione digitale. Anzi: non c’è proprio paragone!

Se tuttavia è verosimile che la nuova rivoluzione culturale “verde” rispecchia esigenze planetarie, essa necessita altresì di investimenti senza precedenti e di conseguenza è destinata a sconvolgere le abitudini collettive per chissà quanto tempo a venire, allora anche le sue conseguenze in termini sociali, economici e valoriali provocheranno una tale ondata di cambiamenti e trasformazioni che risulteranno altrettanto mastodontiche, sconvolgenti, e prevalenti, fino a ridisegnare radicalmente le modalità di vita e attività dell’umanità, i suoi insediamenti abitativi, produttivi e di vita sociale, nonché le tecnologie all’uopo necessarie. La loro portata è probabilmente tale che persino individuare le linee guida di tali trasformazioni risulta poco praticabile al momento.

Molte attività industriali stanno infatti già iniziando ad essere penalizzate e i loro valori in gioco risulteranno nel tempo dunque sempre meno attraenti, mentre altre attività che provocano conseguenze per l’ambiente risulteranno progressivamente addirittura vietate o contingentate, altre ancora che lo favoriscono saranno invece pesantemente sussidiate o incentivate o addirittura totalmente condivise a prezzi “politici”, così come in precedenza è accaduto per taluni prodotti industriali che era possibile distribuire a bassissimo prezzo e per talune informazioni e servizi disponibili gratuitamente “online”.

IL RUOLO IMPRESCINDIBILE DELLA POLITICA

Ma una cosa è praticamente certa: a differenza delle precedenti rivoluzioni culturali ed economiche come lo sviluppo dell’industria moderna e della trasformazione digitale, nella prossima ondata “verde” saranno soprattutto le pubbliche amministrazioni, i governi, la politica, le banche centrali e gli organismi sovranazionali a doversi muovere per primi, a risultare decisivi per compiere significativi passi in avanti. E senza di loro quasi nulla potrà svilupparsi.

Sarà insomma un meccanismo fortemente “top-down”, in cui saranno più che mai le èlites e le posizioni di potere a dettare le danze, a trarne i maggiori profitti e a indicare la linea da seguire al resto dell’umanità. Così come saranno probabilmente i mercati borsistici e finanziari a beneficiarne maggiormente, non foss’altro per la grande necessità di capitali che dovranno essere coinvolti nelle nuove tecnologie a supporto delle necessità climatiche!

Le conseguenze per l’uomo della strada saranno di fatto negative così come per le attività economiche più tradizionali e di minori dimensioni, oltre che estremamente durature, ma si esplicheranno più lentamente di quanto potranno invece risultare immediatamente rivoluzionati dalla nuova ondata “verde” i valori finanziari, gli assetti politici e quelli di potere che ne conseguiranno.

Senza prendere coscienza della portata del fenomeno appena iniziato e delle radicali conseguenze che esso determinerà si rischia dunque di perdere di vista l’impatto che ciò potrà avere su praticamente ogni ambito dell’esistenza umana e ogni angolo del mondo abitato. Lo studio delle analogie con le precedenti “rivoluzioni culturali” può aiutarci a immaginare tali conseguenze soltanto in parte, anche perché la brusca accelerazione della storia dell’umanità che stiamo osservando ne provoca, appunto, anche l’accavallamento.

Allacciate le cinture di sicurezza dunque, se all’arrivo dei prossimi tsunami economici e finanziari provocati dalla rivoluzione “verde” non vogliamo risultare tra i travolti e i dispersi! Il mondo si fa sempre più interessante, ma comprenderlo e, per quanto possibile, anticiparne le tendenze, sarà altresì più complicato che mai!

Stefano di Tommaso




LA RIVINCITA DELL’IMMOBILIARE

Le borse sono alle stelle, le attese di ripresa economica sono alte e, persino in Italia, con le speranze di un rimbalzo post-vaccini, tutti si aspettano per quest’anno grandi risultati. Bella forza -si dirà- persino un gatto morto, quando precipita al suolo, un po’ rimbalza! Ma mentre i timori sulla tenuta delle quotazioni record delle borse sono quantomeno fondati (seppur attenuati dalla scarsità di alternative disponibili per i risparmiatori: i titoli a reddito fisso rendono poco e gli investimenti alternativi risultano scarsamente liquidabili, c’è una categoria di investimenti che invece teme molto meno di subire un tracollo: quella degli investimenti immobiliari.

 

L’INFLAZIONE SPINGE I VALORI REALI

Le motivazioni per una ripresa dei valori immobiliari sono molte, un po’ in tutto il mondo, ma principalmente è l’arrivo dell’inflazione dei prezzi che le sovrasta. L’inflazione, soprattutto se moderata e graduale, è spesso stata invocata dalle banche centrali, tanto allo scopo di contrastare il suo pericoloso opposto: la deflazione, quanto perché vista come strumento di contrasto all’eccesso di debito che si è accumulato nel mondo.

Gli sforzi per stimolare l’inflazione sono tuttavia stati vani per molti anni, fornendo un’ implicita conferma alla teoria di “stagnazione secolare” di Lawrence Summers, basata sull’eccessivo arricchimento ed invecchiamento del mondo occidentale e sul vistoso calo delle nascite di quasi tutti i paesi non-emergenti. La necessità di produrre stimoli monetari alla crescita economica aveva peraltro portato i rendimenti dei titoli a reddito fisso i ono allo zero in America e sotto lo zero in Europa. Soltanto negli ultimi mesi sono leggermente risaliti.


Ciò è successo anche quando è arrivata la pandemia, che ha anzi provocato un’enorme incremento dell’intervento delle banche centrali, chiamate non soltanto a fare la loro parte nel fornire stimoli alla ripresa economica o quantomeno azioni di contrasto alla recessione che è conseguita all’isolamento sociale imposto in quasi tutto il mondo, ma anche a sottoscrivere i titoli di debito governativi in scadenza.

LA SVALUTAZIONE INDOTTA DALLE BANCHE CENTRALI

L’enorme massa di moneta aggiuntiva immessa nel sistema finanziario non ha inizialmente provocato alcuna inflazione, anche perché il moltiplicatore del credito agiva in senso contrario, il commercio elettronico internazionale ha avuto forti effetti deflattivi, così come l’hanno avuto l’avvento delle nuove tecnologie e il crollo del prezzo dell’energia. Anche i contenuti prezzi delle materie prime hanno giocato nel tenere -sin troppo- a bada il tasso di inflazione. La recessione globale e il conseguente calo degli investimenti poi hanno agito come ulteriori freni alla velocità di circolazione della moneta, deprimendo l’effetto inflattivo che l’aumento della massa di moneta disponibile poteva avere sui prezzi.

Poi però sono arrivati i vaccini, con il conseguente “rimbalzo” delle aspettative sull’andamento dell’economia, soprattutto laddove la pandemia ha colpito prima ed è stata contrastata poi più efficacemente: il sud-est asiatico. Ma anche negli Stati Uniti d’America le aspettative di ripresa hanno giocato la loro parte, perché oltreoceano l’effetto combinato delle politiche fiscali espansive e degli stimoli forniti dalla banca centrale (la FED) è stato particolarmente efficace nel rilanciare l’economia ancor prima che la pandemia potesse essere considerata sotto controllo.


Con l’arrivo della primavera una serie di fattori “deflattivi” si è dunque sopito, lasciando spazio, inizialmente, al rilancio dei prezzi delle materie prime energetiche (principalmente petrolio e gas), e poi alla rincorsa di quasi tutte le materie prime. Per molti motivi il rialzo dei prezzi dei fattori di produzione non si è ancora riversato sui prezzi di servizi e prodotti finiti, anche perché il costo del lavoro resta basso e la capacità produttiva globale resta ben superiore alla domanda, ma si capisce oramai che è solo questione di tempo, dopodiché l’inflazione tornerà a risalire-probabilmente con qualche strappo rispetto ad una auspicata ma quasi impossibile gradualità e, conseguentemente, ad essere un problema.

Difficile insomma dominare e moderare la rincorsa dei prezzi che rassomiglia al paradosso fisico-matematico del “gatto di Schroeder” (o c’è o non c’è, o addirittura c’è, al tempo stesso in cui non c’è). Ogni prezzo infatti ha una storia a sé e non è mai così facile fare una media sensata del loro andamento collettivo. Da tempo però ne vediamo uno maggiore per il valore monetario dei grandi “asset” quali i terreni, i fabbricati più appetibili e contendibili e le grandi “utilities”, mentre l’inflazione dei prezzi ancora non risulta visibile per molti dei prezzi al consumo.

Il risultato è pertanto, prima ancora che l’inflazione torni a mordere pericolosamente (come molti temono), la ripresa generalizzata dei valori immobiliari, soprattutto perché la loro misura è espressa nella cosiddetta “fiat money” (moneta legale oramai priva di valore intrinseco) emessa dai principali paesi industrializzati, quella stessa moneta che oggi rischia di risultare troppo abbondante man mano che la sua velocità di circolazione si rialza.

MA I TASSI NON CRESCERANNO QUANTO L’INFLAZIONE

C’è anche un altro fattore (oltre a quello di ovvia difesa dall’inflazione dei prezzi) che tende a sospingere nel tempo le quotazioni immobiliari: la necessità per le banche centrali di mantenere bassi i tassi d’interesse, quand’anche l’inflazione l’intendesse negativi al netto della svalutazione monetaria, onde mantenere sotto controllo la capacità delle nazioni di onorare il “servizio del debito” pubblico.

Mentre infatti i tassi d’interesse finanziari possono risultare fortemente controllati dal prestatore di denaro di ultima istanza, i rendimenti degli immobili dipendono invece principalmente dalla legge della domanda e dell’offerta e, quando la loro domanda torna a salire, l’offerta non può che seguire con molta vischiosità a causa della tempistica necessaria a portare sul mercato nuova offerta. Per i terreni è poi letteralmente impossibile. Il risultato di una maggior domanda nell’utilizzo di beni immobiliari pertanto, in un regime di tassi di interesse fortemente sotto controllo, non può essere che il rialzo dei relativi valori, così da rispettare le percentuali del mercato finanziario innalzando il denominatore.


OVVIAMENTE NON È TUTT’ORO CIÒ CHE LUCCICA

Ci sono tuttavia dei limiti oggettivi a tale fenomeno, dei quali bisogna tenere conto nel formulare delle -pur rosee- aspettative: buona parte degli immobili esistenti possono, anche dal punto di vista estetico ma ancor più dal punto di vista dell’efficienza energetica, essere considerati obsoleti. Essi perciò necessitano di costosi interventi di riqualificazione che sono accentuati dall’emergenza climatica, che impone maggior isolamento termico e migliori sistemi di illuminazione. In generale il contenuto di impiantistica nei valori immobiliari continua a crescere, limitandone l’accrescimento di valore perché quest’ultima va periodicamente ripristinata.

C’è poi il rischio che molte strutture logistiche possano risultare obsolete relativamente ai nuovi standard che la necessità di efficienza dei processi impone, mentre l’intero settore turistico, recettivo e dell’entertainment (svago e intrattenimento ludico-sportivo) sarà probabilmente da rivedere non poco a causa del fatto che talune ulteriori precauzioni sanitarie rispetto al recente passato saranno probabilmente un’esigenza ancora per molti anni a venire. Tutti questi investimenti nel tempo per interventi di ripristino e di efficientamento vanno dunque dedotti dai valori stimati per gli immobili e ne limitano fortemente la crescita.

I valori degli investimenti immobiliari subiscono poi una immancabile falcidia in funzione della loro liquidabilità. Maggiore è la quale, minore è la falcidia. Nel mondo che si evolve ad un ritmo sempre maggiore tuttavia le esigenze, le abitudini e le richieste cambiano sempre più velocemente, con il rischio pertanto che i rendimenti degli immobili possano subìre forti oscillazioni, come in passato non si erano mai viste. Anche questo fattore pertanto non può che moderare la risalita valori immobiliari.

Però tutti questi fattori limitativi del valore di liquidazione dei beni immobiliari (e dunque delle attese di crescita dei loro prezzi) generano un interessante fenomeno: anche in presenza di inflazione la rendita monetaria dei valori immobiliari non può che attestarsi ben al di sopra di quella dei corrispondenti valori finanziari, non foss’altro perché deve tener conto dei rischi, degli oneri manutentivi e delle future svalutazioni della componente impiantistica degli immobili. Ma la maggior cassa generata nell’immediato può risultare molto attrattiva!

MA LA VERA DIFFERENZA LA FA LA GESTIONE PROFESSIONALE

C’è infine un altro fattore che può sospingere nel tempo i valori immobiliari: la loro gestione “professionale”. In passato infatti erano i privati che volevano diversificare o anche soltanto cercare riparo dall’inflazione a comperare direttamente appartamenti e altri cespiti che poi tendevano a non gestire efficentemente o addirittura a non gestire affatto, se non per riscuoterne una pigione. Il mondo civilizzato è ancora pieno di frazionatissime proprietà di unità immobiliari che per ovvi motivi sono gestite con maggior oneri intrinseci e con minore capacità di rapida riconversione, al variare delle tendenze.


Il risultato economico della gestione “all’antica” delle proprietà immobiliari è tuttavia molto deficitario, e si è creata una inevitabile deriva verso sistemi più professionali di gestione dei valori immobiliari, capaci di assicurare loro una verifica rapida della miglior messa a reddito e un efficientamento più elevato. Cosa che ne migliora le performances finanziarie e che va man mano ad aumentarne corrispondentemente il valore economico.

È oggi in corso un processo di concentrazione della proprietà e di professionalizzazione della gestione che richiederà nel complesso molti decenni, ma che genera altresì opportunità di guadagno al di sopra della media per gli operatori più avanzati e più organizzati. I quali a loro volta offrono ai piccoli investitori la possibilità di partecipare ai loro guadagni. Nella borsa italiana gli organismi quotati di investimento nel settore immobiliare sono le SIIQ (società di investimenti immobiliari quotate) e i fondi (ETF, exchange traded funds) immobiliari. La quota di investimenti del risparmio nel mondo sta decisamente crescendo a favore degli immobili, man mano che si diffonde la loro gestione professionale.


Anche in questo caso la dimensione degli operatori aiuta a migliorarne le performances, ma anche la diversificazione internazionale e intersettoriale può fare premio. Le migliori opportunità di investimento nel settore immobiliare non risiedono dunque nell’acquisto diretto dei cespiti, bensì nella sottoscrizione dei titoli quotati emessi dai maggiori operatori del settore. L’andamento dei titoli di investimento immobiliare in Italia dopo la crisi pandemica e sino ad oggi non è stato all’altezza di quelli americani, ne invece si sono ripresi appieno. Come si può vedere dal confronto dei due grafici qui sotto riportati:


Titoli che, in presenza di un processo di concentrazione del settore (positivo per le quotazioni) e in presenza di possibili tensioni inflattive (che generano prospettive, seppur attenuate dai fattori sopra elencati, di rivalutazione) hanno un potenziale di crescita del valore di scambio oggi spesso superiore a quello di corrispondenti titoli industriali, commerciali o tecnologici, anche perché costituiscono una via di mezzo con gli investimenti nel reddito fisso, una “Asset Class” quest’ultima oggi particolarmente difficile da dominare in presenza di evidenti tensioni al rialzo dei tassi e del rischio che possano arrivare presto ad esprimere rendimenti reali (cioè al netto dell’inflazione) negativi. Tanto la prospettiva di aumento dei tassi (che fa calare i valori dei titoli a reddito fisso) quanto quella di rendimenti reali negativi induce prudenza nell’investire oggi nel reddito fisso.

L’investimento negli organismi collettivi immobiliari invece -soprattutto quando sono quotati e godono di buona liquidabilità e diversificazione- può utilmente sopperire al rischio di aumento dei tassi di interesse.

Stefano di Tommaso




AD OVEST (FINALMENTE!) QUALCOSA DI NUOVO

L’Occidente, ed in particolare l’America, si candida ancora una volta a condurre i giochi economici nel momento di più importante ripresa degli ultimi decenni, mentre l’Asia, pur in forte spinta, rischia di confrontarsi con forti problemi di inflazione, che deprimono le attese sui mercati finanziari. E chi l’avrebbe mai detto? Addirittura l’Europa, anche nota come il “vecchio continente”, attira gli investitori istituzionali, non soltanto perché prospetta una ripresa della crescita e delle esportazioni, ma anche perché presenta forti aspettative di fusioni e acquisizioni, che notoriamente fanno “bene” alle borse.

 

Eravamo stati abituati al paradigma imposto quarant’anni fa da Fernand Braudel, soprattutto quello contenuto nei tre volumi di Civiltà materiale, economia e capitalismo, XV-XVIII secolo (1979), secondo il quale il centro dell’economie nel mondo -quello dove la crescita economica è più forte, i capitali si ammassano e i prezzi salgono più velocemente- si sposta gradualmente da oriente verso occidente e, dopo essere passato dall’Europa all’America all’inizio del secolo scorso, negli ultimi decenni è migrato ulteriormente oltre il Pacifico, dove oltre al Giappone ha investito la Cina e si appresta nel prossimo futuro a toccare l’India.

Una visione sistemica e in un certo senso realistica dell’evoluzione della crescita economica, ma che stavolta rischia di apparire un po’ esagerata, dal momento che -a giudicare da quel che sta succedendo nel 2021- sembra proprio che la prossima locomotiva economica globale sarà ancora una volta l’America, e questo proprio mentre la crescita globale è prevista per quest’anno nientedimeno che a oltre il 6% (qualcuno dice anche il 7%), cioè come non si vedeva dalla fine della guerra fredda.


Ed è esattamente da quarant’anni che la crescita economica negli Stati Uniti d’America non appariva così forte, seppure a causa dell’effetto “rimbalzo” dopo i disastri causati dai blocchi della mobilità sociale in tutto il mondo. Certamente, anche la Cina registrerà una crescita impetuosa quest’anno, così come molti dei Paesi “Emergenti” quantomeno quelli del sud-est asiatico, ma la sensazione è che senza quella americana la festa del,rimbalzo sarebbe finita molto in fretta. E che dunque è tutta da rivedere la storiella del lento declino cui è destinato l’Occidente.

Certamente una crescita impetuosa non può che portare con sé effetti “reflazionari” sui prezzi dei fattori di produzione, quantomeno per la legge della domanda e dell’offerta. E dunque sono fondate le attese di ripresa dell’inflazione, oggi già visibili soprattutto relativamente alle materie prime e al costo dell’energia, anche perché la domanda sta montando più dell’offerta. Così come sono fondati i timori degli investitori a proposito della tenuta dei livelli-record cui sono giunte le borse e, in generale, tutti i valori sui mercati finanziari, quantomeno a causa della crescita che l’inflazione non mancherà di indurre sui tassi di interesse.

Ma gli analisti finanziari sembrano tutti piuttosto tranquilli perché una crescita economica globale importante non potrà che risollevare le attese di altrettanto margine di profitto per le società quotate in borsa, controbilanciando così il più elevato tasso di sconto al quale andrebbero attualizzati i profitti futuri.

L’Occidente insomma sta combattendo i pregiudizi che lo caratterizzavano imponendosi nuovamente come il baricentro dell’economia mondiale! E non soltanto in America, bensì anche in Europa c’è da aspettarsene delle belle. Soprattutto in borsa.

È infatti soprattutto in Europa -anche perché qui ci si aspetta che l’inflazione colpirà assai meno- che oggi si concentrano le attenzioni di chi investe in asset finanziari: i listini azionari della vecchia Europa, anche a causa del fatto che qui le borse nel precedente decennio hanno corso molto meno che oltreoceano. Non soltanto dunque l’indice pan-europeo Stoxx Europe 600 SXXP è rimasto alla fine della scorsa settimana al livello record di 436, cioè ai massimi da molto tempo a questa parte, ma al tempo stesso quelli delle azioni cinesi e di Hong-Kong sono invece scesi sui timori di una fiammata inflazionistica fuori controllo.

Un altro fattore che tiene banco in Europa e tiene altresì le aspettative dei mercati azionari più elevate che altrove, è l’attesa di un’ondata senza precedenti di fusioni e acquisizioni, dovute più all’improcrastinabile esigenza di consolidamento dei mercati europei che non all’improbabile sopravanzare dei profitti delle imprese europee rispetto a quelli delle imprese americane o asiatiche. Ad esempio la prospettiva -quantomai realistica- di cessione delle Autostrade Italiane ad una cordata capitanata da quelle spagnole per la modica cifra di 10 miliardi di euro (nonostante le magagne che affliggono buona parte della rete viaria e nonostante l’improbabile evenienza di una “punizione” da parte della politica). Una di quelle operazioni che -da sole- tengono svegli i listini.

Ovviamente l’Italia è il fanalino di coda della carovana continentale, non soltanto per la scarsa capacità di fare efficienza e profitti di buona parte delle imprese nazionali, ma anche perché per l’economia della Penisola si prospettano i peggiori danni d’Europa causati da un lockdown mal gestito e di conseguenza senza grandi risultati in termini pandemici e questo non mancherà di riflettersi sull’insufficienza dei consumi interni, sul peggioramento delle partite creditizie e sull’altrettanto insufficiente prospettiva di gettito fiscale che contribuirà -ancora una volta- a far crescere il debito pubblico di cui oggi nessuno più parla ma che prima o poi tornerà a fare scandalo.


Ma l’Italia è anche il Paese dove le sofferenze bancarie si sono finalmente ridimensionate in assoluto (nel mese di gennaio lo stock delle sofferenze lorde è rimasto invariato a 51,7 miliardi: rispetto a 12 mesi prima le sofferenze sono diminuite di 20,2 miliardi). L’Italia è il Paese dove il tasso di risparmio resta tra i più elevati del mondo e di conseguenza dove la raccolta di depositi bancari (soprattutto quelli liquidi in conto corrente) cresce costantemente nell’ultimo semestre (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato).


L’Italia è anche il Paese dove le prospettive inflazionistiche sono tra le più basse, anche perché sono ai minimi storici i moltiplicatori monetario e del credito (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato) nonché la velocità di circolazione della moneta. Tutto questo la rende un ambiente estremamente favorevole per la speranza di una ripresa dei livelli listini azionari. Di seguito un grafico che esprime la stima dell’inflazione mensile italiana e, a seguire, il grafico italiano dei due moltiplicatori: monetario e del credito.



Stefano di Tommaso