SARÀ L’ANNO DELLE FUSIONI & ACQUISIZIONI

Non soltanto le fusioni e acquisizioni nel mondo sono in decisa rimonta negli ultimi due trimestri del 2020 (+33% nel terzo trimestre) ma addirittura è lecito prevedere un vero e proprio boom di queste operazioni nel corso del 2021. Vediamone insieme le motivazioni ed i fattori in gioco.

LA RECESSIONE HA COLPITO DURAMENTE

Il nuovo corso dell’economia mondiale parte nel 2021 con la conta delle numerose vittime della pandemia, oltre quelle della recessione economica che ha seminato scompiglio in tutto il mondo. L’economia mondiale nel corso del 2020 è prevista aver flettuto per circa il 4%, cosa che, al netto di una crescita demografica di almeno il 3%, si traduce in una delle più pesanti recessioni dal dopoguerra ad oggi!

Il rimbalzo che tutti prevedono nel 2021 sarà tuttavia assai modesto e probabilmente smentirà molte ottimistiche attese, per una lunga serie di motivi che rischiano di portare questa breve lettura assai fuori tema. Fatto sta però che la prima delle premessa perché il 2021 possa essere incorniciato come l’anno delle fusioni e acquisizioni è proprio questo: l’importante flessione dell’economia mondiale e in particolare di quella italiana (il Prodotto Interno Lordo è previsto scendere dalle statistiche ufficiali nell’interno del 9% ma in realtà è possibile che il suo calo andrà ben oltre le due cifre percentuali).


Il calo generalizzato dei ricavi paradossalmente però è possibile torni a far crescere le valutazioni d’azienda, intese come multiplo dell’EBITDA (il margine operativo lordo), dal momento che è opinione diffusa e accettata il fatto che ciò che (di negativo) è accaduto nel 2020 rimarrà probabilmente senza uno stabile seguito.

LA RICERCA DI SOLUZIONI “ESTERNE” PASSA PER ACQUISIZIONI E FUSIONI

La crisi economica infatti costringe molte impree a cercare soluzioni “esterne” all’eccesso di costi sui ricavi, alla necessità di investire capitali che non ci sono e di contrarre finanziamenti che non arrivano o tardano ad arrivare. Spesso queste soluzioni sono una mera cessione tout-court (magari anche soltanto parziale), altre volte (le migliori) le soluzioni “esterne” si traducono nell’ingresso di un investitore di private equity o di capitali che provengono dalla quotazione in Borsa (nell’anno 2020 le matricole a Piazza Affari hanno superato la ventina di unità, tutte tranne una al segmento A.I.M.).

L’investimento azionario resta infatti -per i prossimi anni- sostanzialmente da privilegiare rispetto a quello in titoli a reddito fisso, ma soprattutto le imprese che crescono spesso trovano nelle aziende acquisite quel capitale umano e quelle innovazioni che fanno fatica a sviluppare autonomamente. Questo spiega la sistematica acquisizione di aziende di piccola dimensione anche da parte dei gruppi industriali famigliari, ancora molto presenti ed attivi in italia.

Non è da sottovalutare infine una soluzione -possibile ma assai poco frequente- nel nostro Paese ai problemi della sotto-capitalizzazione e della ridotta dimensione aziendale: l’aggregazione tra due o più imprese che mettono a fattor comune le proprie forze per sostenere gli investimenti, le spese per la digitalizzazione e la diffusione internazionale dei loro prodotti, nonché gli investimenti in innovazione e sviluppo.

 

IL RITARDO ACCUMULATO NELLE FUSIONI E ACQUISIZIONI

Le fusioni e le aggregazioni tra imprese sono fisiologicamente poco frequenti nei paesi dove è meno sviluppata la “democrazia finanziaria” (se ancora si può chiamare così la diffusione dell’investimento azionario tra il pubblico), laddove più debole è la cultura di “governance” diffusa, in quei distretti industriali dove passa in secondo piano il rispetto degli interessi delle minoranze e dove sono meno attive le autorità che sorvegliano il rispetto delle regole societarie.


Dove invece queste funzioni sono esaltate nessuno sente il bisogno di tutelarsi con il controllo assoluto della maggioranza delle azioni e le imprese riescono ad avere una pluralità di soggetti che ci investono, che le aiutano a crescere e che si organizzano tra loro per farlo. Il nostro Paese è stato un campione di tali manchevolezze e il risultato è stato quello di disperdere il capitale di rischio che gli imprenditori sono capaci di investire perché quando c’è una fusione le risorse di tutti vanno verso lo sviluppo del business.

Mentre quando occorre acquisire un’impresa il venditore spesso e volentieri indirizza il denaro ottenuto all’acquisto di immobili o di beni voluttuari. Non solo: la ridotta dimensione aziendale che è tipica del nostro Paese discende spesso dall’incapacità degli imprenditori di “fare squadra” ed organizzarsi per sostenere la crescita del business. Probabilmente il buon clima e il buon cibo che è possibile godere a poco prezzo nella Penisola hanno fatto la differenza!

MA NEL 2020 ARRIVA LA CONCORRENZA: QUELLA GEOGRAFICA…

Ma il 2020 è stato un anno di grande accelerazione, tanto dell’innovazione tecnologica, necessaria per sostenere con la digitalizzazione delle imprese la possibilità di far fronte alla difficoltà di viaggi e interscambi, quanto del commercio elettronico, che spesso ha beneficiato dell’impossibilità per il consumatore di recarsi presso spazi fisici di shopping, quanto infine della concorrenza internazionale, a causa del fatto che il mondo si è diviso sempre più tra Oriente e Occidente: con il primo che ha praticamente continuato a correre e il secondo che si è fermato. Ovviamente le imprese asiatiche non sono rimaste a guardare e stanno selezionando ulteriori acquisizioni (soprattutto nel nostro Paese, dove costano meno) per completare la loro strategia globale.

…E QUELLA TECNOLOGICA !

Ma una seconda e forse più insidiosa competizione con prodotti e servizi tradizionali arriva dalle nuove tecnologie. Stanno mettendo K.O. il settore finanziario ad esempio (e infatti proprio dalle banche, dalle assicurazioni e dai gestori di patrimoni ci si aspettano le più eclatanti operazioni di fusioni e acquisizioni nell’anno che sta arrivando). Ma stanno anche rivoluzionando i servizi tradizionali e i prodotti più classici con l’industria (cosiddetta) 4.0, cioè con l’automazione sempre più spinta che riduce i costi e i tempi delle produzioni e mette fuori gioco le industrie che in passato hanno goduto di forti vantaggi di prezzo oggi spesso ingiustificati.

IN EUROPA SI VENDERANNO LE AZIENDE A ASIATICI E AMERICANI


Un altro fattore che potrebbe sospingere in Europa il flusso di acquisizioni che molti prevedono avrà luogo a partire dalle Americhe e dall’Asia sono i valori d’ azienda: spesso più bassi di quelli d’oltreoceano a causa di mercati finanziari meno liquidi, minori dimensioni aziendali, schiacciamento dei margini di guadagno a causa dei fattori appena citati.

Non soltanto l’elevato allarme sanitario ha spesso ridotto in ginocchio gran parte delle imprese, ma anche il contesto sociopolitico appare svantaggioso nel vecchio continente, con l’ovvia conseguenza che un mercato interno più asfittico è un eccesso di regolamentazione geopolitica rendono poco appetibile la continuità del business per le imprese europee, e spingono verso una loro cessione a investitori e concorrenti che provengono da situazioni più favorevoli.

IL MERCATO FINANZIARIO SPINGE VERSO LE AGGREGAZIONI

Ulteriori fattori che potranno sospingere non poco la (s)vendita di numerose belle imprese agli stranieri sono la scarsità moneta e la scarsità di capitali reperibili nel vecchio continente ed in particolare nella penisola italica! Spesso la scarsità di capitali viene compensata dall’abbondanza di capitali di rischio che è possibile reperire in Borsa. Ma questi ultimi premiano soprattutto le capacità di aggregazione tra imprese e la qualità delle possibili acquisizioni. Il risultato è che il flusso (che si prevede consistente nel 2021) di nuove Initial Public Offering determinerà anch’esso una consistente mole di fusioni e acquisizioni.


Si veda ad esempio il grande “boom” in America delle “special purpose acquisition companies” (ovvero SPAC), società-contenitore quotate in borsa prima ancora di essere attive, destinate a fondersi con società che hanno necessità di quotarsi in Borsa e di raccogliere denaro liquido.

E L’UNIONE EUROPEA NON CI AIUTA

L’accelerazione tecnologica, derivante dalla globalizzazione e la necessità di detassare i pesanti investimenti necessari e accrescere le dimensioni aziendali, costituiscono senza dubbio i paradigmi più diffusi dell’evoluzione industriale nel terzo millennio. Ebbene: nonostante ciò sia chiaro a tutti, quasi nessuna iniziativa è stata presa per favorire l’allineamento delle imprese europee a tali direzioni.

Anzi! La prospettiva di dover sostenere con pesanti carichi fiscali i disavanzi pubblici invece di ottenere degli incentivi per sostenere la competizione internazionale tende a deprimere le aspettative degli imprenditori. Non stupisce di conseguenza che chi investe valuti meglio la cessione delle imprese europee ai colossi atlantici e pacifici piuttosto che investire nel loro rafforzarmento in un contesto sfavorevole e arretrato, dove è più difficile ottenere credito e adeguate valutazioni d’impresa.


Le aspettative insomma contano non poco. E nel nostro Paese in particolare risultano piuttosto depresse. Non c’è da stupirsi se questo comporterà un incremento delle dismissioni di marchi, immobili e cespiti strategici, un’accelerazione delle cessioni d’impresa e un conseguente calo dell’occupazione. Se non fosse per la scarsa considerazione di cui gode la nostra classe politica, sarebbe lecito persino pensare che lo faccia apposta!

Stefano di Tommaso




AZIENDE IN (S)VENDITA

La stanchezza e la disillusione albergano decisamente nella generazione degli imprenditori che sono a cavallo tra coloro che hanno vissuto dapprima la guerra mondiale e poi il boom economico (e che spesso hanno fondato l’azienda di famiglia) e i loro figli, che invece sono nati negli anni ‘80 e ‘90, tra mille agi e ricchezze, con la possibilità di girare il mondo e imparare le lingue straniere e in totale familiarità con i computer, con la nuova sfera digitale e con il mondo incantato dei social network. La pandemia ha procurato ingenti perdite, tristezza e delusione, agli ex “baby-boomers” che avevano sognato l’Europa unita, una maggior adesione dell’Italia agli standard internazionali, e più di ogni altra cosa avevano sognato di aver costruito solide certezze per le generazioni a venire.

 

LO SCORAMENTO DI UN’INTERA GENERAZIONE

Soprattutto il virus ha portato allo scoramento un’intera classe di persone che sino all’anno precedente magari stavano sperando in un nuovo salto dimensionale della loro piccola e media azienda, nell’internazionalizzazione del proprio business, nello sbarco in Borsa, e nella possibilità di accumulare un tesoretto per la vecchiaia. Il virus in un solo semestre ha spesso strappato loro non soltanto qualche membro della famiglia, ma anche la dignità e l’orgoglio. Ha talvolta azzerato l’orologio della storia riportandoli indietro di un ventennio o più, e facendoli chiedersi se hanno ancora voglia di lottare come prima.

Ma più ancora il Covid li ha portati a chiedersi se anche stavolta ce la potranno fare, dal momento che l’ambiente sociale, burocratico e istituzionale che nel nostro Paese circonda le imprese è oggettivamente assai peggiorato. E se la risposta dovesse essere negativa allora essi rischiererebbero di sommare alla delusione di una vita (l’azienda quasi al tappeto) un’ulteriore e più cocente delusione, quella di scoprire di non essere più capaci come prima di farcela “a prescindere” (ovviamente non in assoluto, bensì con riferimento alle superiori difficoltà).

LA DIFFICOLTÀ OGGETTIVA DELLE IMPRESE IN ITALIA

Questa lunga premessa non ha la pretesa di un’analisi sociologica della classe media imprenditoriale italiana, ma sicuramente nasce dal riscontro quotidiano con decine e decine di storie famigliari e industriali assai tese, di situazioni di grande incertezza. E da quel riscontro emerge spesso la voglia di farla finita con il nuotare controcorrente, con le tasse che salgono invece di scendere, con un mercato di sbocco sempre meno italiano e con un confronto sempre più teso con dipendenti, collaboratori e consulenti, anche loro rimasti a mezz’acqua a cercare di tirare avanti tra la Cassa Integrazione che non arriva, clienti e fornitori che non pagano o non consegnano, è sempre più precarietà economica.

La premessa però mi sembrava doverosa per spiegare come mai molti di questi imprenditori di prima e seconda generazione hanno la fortissima tentazione di vendere tutto (se ci dovessero riuscire) a fondi, concorrenti e stranieri. Oppure quella di chiudere baracca e far saltare il banco, di chiedere a banche e fornitori un concordato preventivo o la ristrutturazione dei debiti, e ancor più di invocare l’insolvenza ovvero una transazione tombale nei confronti dell’Erario, il vero molosso che resta quatto e furtivo ad attendere che le acque si calmino per tornare a colpire ancora, con le sue 31 milioni di cartelle esattoriali che attendono soltanto il via dalla politica, dal governo e dalle istituzioni per raggiungere le loro case già ai primi giorni del nuovo anno.

MA SONO IN VENDITA ANCHE LE AZIENDE MIGLIORI

Eppure, senza arrivare a parlare delle devastazioni aziendali che si riscontrano nel turismo, tra gli hotel, i ristoranti e gli snack bar, non ci sono soltanto le aziende andate in sostanziale crisi, o addirittura a un passo dal baratro. Ci sono anche quelle che vanno bene oppure ancor meglio, come i produttori di beni di prima necessità, di generi e manufatti alimentari, i fornitori di prodotti digitali, di servizi per le connessioni digitali, le telecomunicazioni, l’informatica e le riparazioni in genere, e soprattutto di presìdi medici e farmaceutici, di articoli per il primo soccorso e sinanco i produttori di piccoli apparecchi per l’auto-diagnosi, la rilevazione della temperatura corporea, della,saturazione dell’ossigeno nel sangue e la misura della sua pressione. Poi ci sono quelle che non sono andate né bene né male, ma che comunque si leccano le ferite procurate dai due-tre mesi di lockdown e dal calo dei consumi.

Ebbene anche e soprattutto tra molte di queste imprese albergano migliaia di piccoli e medi operatori economici che non vedono l’ora di farla finita, di approfittare del fatto che hanno potuto “passare ‘a nuttata” per realizzare un valore d’impresa magari addirittura accresciuto, per incassare e mettersi a riposo, contemplando con distacco lo spettacolo di varia umanità, che affolla l’ambiente del business all’alba della possibile ripresa.

I motivi per questi ultimi sono ancora più palesi, rispetto a quelli -assai ovvi- di ha visto la propria azienda andare in ginocchio: la concorrenza internazionale infatti mon demorde, anzi accelera. Il fisco italiano rischia di farsi ancora più vorace con il salto quantico del debito pubblico, con l’imminente cambio di governo, con l’incombere dell’era-Biden e di con le minacce di rinnovato rigorismo brandite dagli altri paesi dell’unione europea.

LA RECESSIONE NON È FINITA

E soprattutto molti di loro sanno che è in arrivo una nuova stagione di rallentamento degli investimenti, di stretta del credito, di deflazione e di peggioramento dei tempi e delle speranze di incasso, d’involuzione del mercato interno, giunto quasi all’autarchia, al fai da te e all’autarchia, non soltanto per difficoltà oggettive, ma anche e a maggior ragione per l’incertezza che regna sovrana, un’incertezza che induce al risparmio anche chi deve tirare a campare, nel dubbio di non poter far studiare i propri figli, non poter provvedere alle proprie cure mediche o a quelle dei famigliari.

L’ambiente economico italiano appare insomma (anche per l’anno a venire) assai deteriorato, e in particolare risulta tale più quello atteso o percepito dall’uomo della strada che non quello realmente riflesso da dati, previsioni scientifiche e statistiche. È naturale che tutti coloro che lo percepiscono così difficile vogliano prepararsi per il peggio: capitalizzandosi ulteriormente nel migliore dei casi, o cercando di accumulare liquidità e riserve all’estero, oppure sperando aggregarsi in fretta con uno o più concorrenti e clienti, o infine di vendere tutto al primo che arriva e fuggire all’estero.

Queste sono le premesse per una stagione economica sicuramente difficile all’arrivo del nuovo anno, ma anche gravida di importanti novità. Queste sono le premesse perché si realizzino -nell’anno che verrà- diverse migliaia di fusioni, acquisizioni, accorpamenti, cessioni di rami d’azienda, di cespiti immobiliari, di marchi non più sfruttati e di attività sostanzialmente al palo.

L’ARRIVO DEI “NUOVI PADRONI”

Sono le premesse perché nuovi e più acuti speculatori arrivino sul mercato interno a fare man bassa, ad acquistare crediti deteriorati, attività che hanno richiesto procedure concorsuali, infrastrutture più o meno fatiscenti e, più ancora di tutto il resto, ad assumere personale specializzato, reclutare talenti e laureandi, e a comperare per pochi quattrini magazzini, empori e alberghi in crisi, ville al mare e in montagna.

Non sono pazzi, anzi la sanno più lunga, perché nessuna crisi è per sempre, nessun malgoverno resta in piedi all’infinito, nessun membro dell’unione continentale potrà restare compresso troppo a lungo. Ma per poter scommettere sull’oscillazione del pendolo bisogna avere le spalle grosse, la capacità di attendere, la possibilità di diversificare internazionalmente il rischio, e la credibilità necessaria per accedere senza problemi al mercato dei capitali.

Tutte cose che spesso non sono alla portata dei nostri imprenditori, troppo spesso rimasti in passato nella piccola dimensione in nome di un apparente benessere procurato dall’acquisto di Porche o Ferrari, della villa al mare, dello yacht in Sardegna, dell’appartamento a New York, Londra o Parigi. Per le imprese che invece hanno potuto realizzare il “salto della quaglia” e hanno potuto tirar fuori il collo oltre le nebbie della crisi, che hanno raggiunto dimensioni e organizzazione adeguate, il momento appare assolutamente dorato!

I RICCHI OGGI SONO PIÙ RICCHI

Per questi ultimi abbondano i capitali (in Borsa e tra gli investitori professionali) pronti a rifornire le loro imprese, i finanziamenti non costano più nulla, i mercati di sbocco americani e asiatici tirano di nuovo, i valori delle loro imprese sono addirittura cresciuti, le nuove iper-tecnologie promettono guadagni strabilianti e le stock-option attirano le menti migliori per maneggiarle con cura e trarne sicuro profitto.

Persino i vaccini oltralpe sembrano più vicini che a casa nostra a debellare l’infezione del secolo, mentre qui ci si chiede se quelli somministrati da una difficoltosa macchina statale avranno rispettato la catena del freddo, funzioneranno davvero, se ce ne saranno abbastanza e con quanto ritardo saranno finalmente (per chi ci crede) disponibili.

Ma anche per chi non ci crede (o è preoccupato per i possibili danni collaterali che può arrecare) il vaccino costituirà ugualmente un toccasana economico, perché -per quanto imperfetto e potenzialmente pericoloso possa essere- se la sua diffusione di massa permetterà di nuovo alla gente di uscire di casa, produrre, guadagnare, consumare e comperare, avrà avuto almeno questo effetto positivo. E c’è da scommetterci che da noi arriverà a tale effetto un bel po’ in ritardo rispetto al resto del mondo.

Ecco perché gli imprenditori (soprattutto quelli che sono stati più fortunati in questo periodo di contagi) non vedono l’ora di vendere agli stranieri! Fino a quando non cambierà davvero qualcosa nel nostro Paese le imprese piccole continueranno a soffrire, a non poter sfruttare le loro capacità e le loro innovazioni e a doversi indebitare e aggregare magari forzosamente, non foss’altro che per riuscire a pagare le tasse e ad evitare guai giudiziari ai loro titolari…

Stefano di Tommaso




LE BORSE SONO SOPRAVVALUTATE?

Un ampio dibattito sul futuro dell’economia sta prendendo piede in questi giorni in cui si cerca di buttarsi alle spalle le devastazioni economiche generate dal Covid e si guarda con speranza ed apprensione all’avvicinarsi del nuovo anno: sono giustificati gli attuali livelli dei principali indici riguardanti i listini azionari?

I GRANDI DILEMMI

Viviamo in momenti travagliati, in cui chi governa il mondo, l’economia, la moneta e le finanze altrui si trova a fronteggiare scelte difficili e a partecipare a dibattiti che promuovono grandi dilemmi. Vediamone alcuni:

  • fanno bene le banche centrali ad inondare ancora di liquidità i mercati finanziari proprio mentre la “congestione dei risparmi” (il cosiddetto “savings glut”) genera un rialzo innaturale dei corsi azionari a causa del fatto che ci sono in giro più quattrini che opportunità di investimento?
  • fanno bene i gestori dei fondi che investono i risparmi della gente ad accettare rendimenti negativi sui titoli obbligazionari e valutazioni stratosferici quelli azionari? O dovrebbero restarsene alla larga dai mercati finanziari sintanto che non si rimettano i piedi sulla terra?
  • e fanno bene i governi a preparare ingenti programmi di spesa pubblica allo scopo di rilanciare l’economia anche se -per farlo- accrescono il loro indebitamento oltre la soglia della sostenibilità contando sulla monetizzazione di quest’ultimo? Cosa che, in periodi ancora una volta caratterizzati da spinte deflattive e da una bassissima velocità di circolazione della moneta, non sembra generare svalutazioni monetarie immediate.

LA “MODERN MONETARY THEORY”E LA (MANCATA)SPECULAZIONE

I teorici della Modern Monetary Theory (MMT: moderna teoria della moneta) rispondono di si, dal momento che in tempi di tassi negativi la sostenibilità del debito non è in discussione e nemmeno lo è (per il momento) la credibilità delle istituzioni e delle autorità monetarie. Soprattutto coloro che sostengono le altre teorie economiche, cioè quasi tutte quelle che la hanno preceduta, rischiano di avere oggi ben pochi argomenti per andare in direzione opposta, date le circostanze.

Ma c’è un’altra categoria di soggetti che sostiene di si: gli (ex) speculatori! Nessuno di essi ha le spalle abbastanza forti da sfidare al ribasso i budget trilionari delle banche centrali! In altre parole nessuno può andare avanti abbastanza a lungo per scoprire il “bluff” dell’eccesso di quantità di moneta in circolazione (sempre che ce ne sia davvero in eccesso).

LA RINNOVATA VOLATILITÀ

D’altra parte l’interconnessione, la digitalizzazione, la conseguente fulminea velocità di reazione dei mercati finanziari e la (quasi) libera circolazione dei (grandi) capitali hanno fatto sì che il mondo sia caduto in una profondissima recessione in pochi mesi di tempo e potrebbe far sì che ne esca (quasi) altrettanto velocemente. Se così fosse appunto nessuno oserebbe speculare al ribasso nell’imminenza di una possibile ripresa economica globale. Se non per brevissimi periodi di tempo.

Ed è esattamente ciò che sta succedendo: i mercati vanno avanti a strattoni, sulla scia di questo o quell’annuncio, questo o quello slogan, questo o quel timore o entusiasmo, come si è visto per l’arrivo dei vaccini o per i rischi di nuovi shock petroliferi e da scarsità delle derrate alimentari.

LE NUOVE TECNOLOGIE SOSTENGONO LE SPERANZE

Ma l’innovazione tecnologica continua a correre e a segnare radicalmente il mutamento del nostro stile di vita, il miglioramento delle cure per la salute, la velocità di circolazione delle idee e della scienza, la disponibilità di cibo e la possibilità di contrastare con decisione le grandi minacce che affliggono l’umanità: la deriva ambientale ed ecologica, la possibilità di nuovi conflitti armati, di grandi rivolte popolari e sociali, il rischio di nuove guerre di religione e di nuove ondate terroristiche, il rischio di scarsità delle risorse naturali, dell’acqua potabile e di energia a buon mercato (in questo momento anzi nessuno pone nelle proprie previsioni scenari apocalittici).

Non solo: la possibilità per una qualsiasi “startup” di aggregare digitalmente e virtualmente fattori di produzione sparsi in giro per il mondo, tecnologie e competenze diffuse, canali commerciali virtuali che si creano (e si distruggono), e con la velocità di un lampo, può far sperare che l’industria si rinnovi velocemente, e che di conseguenza i margini aziendali riprenderanno a migliorare. Può far sperare che alcune nuove iniziative imprenditoriali diventeranno grandi in un batter d’occhio e che il coraggio e la determinazione nel portare avanti le innovazioni possa generare (molta) ricchezza ben prima di registrare (scarsi) profitti.

IL RINNOVAMENTO INNALZA LE QUOTAZIONI

Se così fosse allora farebbero bene gli investitori a prepararsi a convivere con ulteriori sopravvalutazioni di aziende iper-tecnologiche con buone prospettive, con rendimenti e generazione di cassa (quasi) inesistenti e con ulteriori sostanziali aspettative di crescita della ricchezza del pianeta, sebbene spalmate nel lungo e lunghissimo termine. Se ci si vuol credere è quel che oggi sta succedendo con il titolo Tesla, salito di quasi il 700% da inizio anno dopo soli cinque trimestri in cui ha potuto segnare un utile e con una prospettiva di crescita del fatturato pari al 50% nel solo 2021.

E farebbero bene gli investitori a comportarsi di conseguenza all’altra tesi che adesso essi sostengono: e cioè che il futuro del mondo -e di conseguenza i migliori profitti- risiedono soprattutto in tutti quegli angoli della Terra dove ancora esistono povertà, emarginazione e risorse naturali ancora da sfruttare. In una parola: nei Paesi (cosiddetti) emergenti.

Farebbero bene ipotizzando ciò che non è tuttavia alla lunga mai ipotizzabile: e cioè che non arriveranno più altre grandi guerre, carestie, epidemie, rivolte sociali e svalutazioni monetarie. Ma come diceva John Mainard Keynes nel lungo periodo siamo tutti morti!

MA LE CATASTROFI ARRIVANO UGUALMENTE

L’attuale congiuntura economica ci ricorda sicuramente che gli eventi catastrofici prima o poi arrivano e anche che non avvisano nessuno prima di bussare alla porta della storia. La pandemia e la recessione globale che stiamo vivendo sono infatti arrivate in modalità subitanee ed in circostanze imprevedibili. Hanno falciato milioni di vite umane e hanno impresso un’accelerazione all’evoluzione degli eventi che sino a ieri risultavano inimmaginabili.

E pur tuttavia i mercati finanziari hanno reagito negativamente all’arrivo della crisi ma poi, in piena recessione globale, sono assurti a nuovi massimi, come se la questione fosse già stata archiviata. Hanno avuto timore per le iper-valutazioni dei colossi tecnologici ma poi hanno continuato a comprarne i titoli ben più dei cosiddetti titoli “value” (cioè con sostanziali valori fondamentali patrimoniali e di generazione di cassa), una categoria che appartiene oramai più alla (storia della) filosofia che non alla realtà dei fatti.

 

 

LA DIVERGENZA DEI MOLTIPLICATORI DI VALORE

E, se proprio volessimo crederci, una giustificazione razionale ci sarebbe: se l’attuale pandemia ha agito da potente acceleratore degli eventi, allora tutte quelle aziende che si sono posizionate sullo sfruttamento di tecnologie del futuro potrebbero ritrovarsi nel presente più presto di quanto si ritenesse in precedenza. Una conseguenza pratica di ciò è la forte divergenza dei moltiplicatori di valore tra i diversi settori economici: quelli della “old economy” restano bassi mentre quelli più innovativi e con maggiori prospettive di crescita sono alle stelle. Ma esiste anche la legge di gravità, che alla fine di ogni meraviglioso volo nell’aere riporta inesorabilmente a terra ciò che si era levato in precedenza. E dunque anche chi non crede troppo a tutte le meravigliose tecnologie del futuro potrebbe alla lunga aver ragione.

Dunque a cosa dobbiamo credere? Ai disfattisti armati di sano buon senso (ma oggi profondamente antistorici) o ai visionari che hanno scommesso sulle biotecnologie, l’intelligenza artificiale e le energie da fonti innovative e rinnovabili e sino ad oggi se ne sono riempite le tasche?

MA SE NESSUNO PUÒ PREVEDERE IL FUTURO CHE ACCELERA…

La verità è che nessuno può affermare di conoscerne la risposta, ma è ancor più vero che ogni teoria, nel lungo termine, può risultare corretta, così come un orologio rotto può segnare due volte al giorno l’ora esatta. L’unica, ingombrante verità è che non esistono più i trend di lungo periodo né le giustificazioni razionali per scommetterci sopra. L’accelerazione della civiltà umana porta chi investe a dover seguire delle tendenze che possono durare anche pochissimo tempo. E sbaglierebbe se non lo facesse. Ma sbaglierebbe anche se volesse persistere nel lungo termine sulle proprie convinzioni, quali che esse siano.

…ALLORA BISOGNA PUNTARE SUL BREVE TERMINE!

E poi se al momento le banche centrali continuano a immettere liquidità sui mercati ci sono almeno altrettante probabilità che crescano di valore quanto quelle che le loro quotazioni si sgonfino, ma anche che la loro volatilità continui a restare elevata, proprio in funzione dell’impossibilità di contrastare le masse di liquidità che arrivano a ondate.

La disconnessione con la realtà della strada non potrebbe essere maggiore per i mercati finanziari. Ma anche la divergenza tra ricchezza (che continua ad accrescersi) e povertà (che aumenta anch’essa) non è forse mai stata così elevata. Lo aveva anticipato l’economista Thomas Piketty in un bestseller (“Il capitale nel XXI secolo”, 2014, Bompiani Editore) sollevando un vespaio di polemiche, ma ora sta succedendo davvero.

I mercati finanziari si limitano a prenderne cinicamente atto. Ma non potrebbero fare diversamente: non starebbe a loro ergersi a censori. E finchè la politica e la cultura umana non riporteranno le lancette della storia alla democrazia e alla volontà collettiva di contrastare le grandi disuguaglianze, non si può pensare che lo facciano i mercati finanziari.

Stefano di Tommaso




VIZI PRIVATI NELLE PUBBLICHE VIRTÙ

La notizia è da far rabbrividire: l’Istituto di Finanza Internazionale (l’associazione mondiale delle maggiori banche commerciali, diretta emanazione dei grandi poteri che governano l’economia globale) ha annunciato che il debito globale (privato più pubblico) alla fine di questo catastrofico anno arriverà a sfiorare i 280 trilioni di dollari (250mila miliardi di euro), cioè ben oltre le quattro volte (432%) il prodotto mondiale lordo.

 

DEBITI CHE NESSUNO RIMBORSERÀ

Ovviamente tutti si chiedono se mai una tal mole di debiti verrà rimborsata, ben sapendo che i debiti pubblici sono principalmente effetto dei disavanzi correnti e che pertanto l’unica speranza (almeno per questi ultimi) è che vengano in buona parte “monetizzati” cioè acquistati dalle stesse banche centrali che battono moneta, annacquando il valore intrinseco di quest’ultima.

La prospettiva di per sé non può certo lasciare tranquilli i piccoli risparmiatori, i quali sanno bene che, prima o poi, in un modo o nell’altro, saranno loro a pagare il conto della grande abbuffata.

LA GRANDE ABBUFFATA

Ma ancora peggiore rischia di risultare la “risposta coordinata” che il “World Economic Forum” (cioè il congresso globale dell’Economia: un’altra emanazione dei poteri forti che tengo oggi in pugno i destini dell’umanità) vorrebbe cercare di imporre alla politica e alle istituzioni, vale a dire: il “Great Reset” (che potremmo tradurre come la “grande ripartenza” o il “grande ripristino”).

Cosa potrebbe significare questa grande ripartenza è facile intuirlo: dal momento che l’economia mondiale ha subìto uno choc paragonabile a quello dell’ultima guerra mondiale e che per uscirne servono molti quattrini (leggi: altri debiti pubblici), il World Economic Forum si propone di “orientare” tale piano globale per la ripresa economica nella direzione più lucrosa per i suoi ispiratori.

La “roadmap per la ripresa” a parole dovrebbe ispirarsi ai migliori intenti possibili, quali il progresso economico dell’umanità, il controllo delle minacce per l’ambiente, nuove infrastrutture pubbliche e il decollo della digitalizzazione del mondo. Nei fatti tutti restano pronti a mettere sopra le mani a un bel pacchetto di miliardi (ad esempio quelli del mitologico “recovery fund” europeo) che, ancora una volta, pagherà Pantalone (leggasi: gli stati nazionali i quali a loro volta ruberannomrisorse ai risparmiatori delle generazioni future), per fare affari d’oro in occasione della nuova “grande abbuffata”.

Ecco ad esempio cosa si aspettano per il 2021 i grandi gestori dei patrimoni:

È proprio così che bisogna denominare questo “great reset” : “grande abbuffata” se si vuol dare un nome realistico al florilegio di buoni intenti che ammanta i grandi interessi che si scatenano al riguardo. Intendiamoci: qualcosa il mondo dovrà pur fare, lo sappiamo. Restare a guardare la devastazione economica (e sociale) che ha lasciato questa infezione da supervirus sarebbe anche peggio, ma garanzie di effettivo allineamento degli interessi superiori dell’umanità a quelli delle grandi famiglie che governano la finanza globale non ce ne sono! Anzi!

 

I GRANDI INTERESSI DIETRO AGLI INTERVENTI PUBBLICI

Il rischio concreto che si intravede è infatti quello di un rinnovato interventismo statale nell’economia di prossimi anni, dietro al quale non potranno non celarsi squallidi interessi di parte. Ne vogliamo un esempio? Si pensi alle priorità che si stanno esaminando per l’utilizzo in Italia del denaro che dovrebbe provenire dal recovery fund:

Leggete bene: ben 550 miliardi per la “ripresa e resilienza dell’economia” (qualcuno può tradurre?) e soli 9,4 miliardi per il “programma europeo per la sanità” (aiuto! cos’è?). E da questo punto di vista, intendiamoci, tutto il mondo è paese! Dietro ai grandi incentivi per le energie da fonte rinnovabile si celano strabilianti “fregature” come quella dell’attuale bolletta elettrica per il cittadino medio: 150 euro di cui 50 per consumi elettrici e 100 euro per “altri oneri”! Chi ha guadagnato con i meravigliosi incentivi per i campi fotovoltaici (che oggi sono già in buona parte esauriti)? La famiglia dell’operaio o del piccolo commerciante? Niente affatto.

Il rischio insomma è che dietro al nuovo interventismo nell’economia ci siano importanti interessi di parte e che ci si possa allontanare sempre di più dal rispetto per la democrazia economica, per la parità delle regole del gioco, per il risparmio privato e -in definitiva- dal rispetto per il diritto all’autodeterminazione dell’individuo.

IL MONDO NON HA BISOGNO DEL “GREAT RESET”

La maggioranza delle imprese del settore privato è già al lavoro per adeguarsi ad un futuro che sembra comunque orientato alla più avanzata digitalizzazione, allo sviluppo delle nuove tecnologie e agli investimenti per migliorare l’efficienza. Il settore pubblico dovrebbe occuparsi di più della previdenza sociale, della sanità e della sicurezza dei cittadini, possibilmente sgravandoli dei mille oneri che oggi sono a carico di chi si ostina a tenere in piedi la propria impresa, anzi favorendone la crescita, l’internazionalizzazione e la formazione di chi ci lavora.

Una volta insomma erano i grandi capitalisti a chiedere un mercato più libero dagli interessi della politica (che si proponeva finalità di sostegno alle classi più disagiate tassando la rendita finanziaria). Oggi siamo quasi all’opposto: soprattutto a casa nostra sono i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori e i micro-proprietari di immobili quelli più tassati mentre le grandi multinazionali sono libere invece di andare a pagare una piccolissima aliquota di tasse in qualche paradiso fiscale come l’irlanda del nord o l’olanda! Figuriamoci cosa significherà l’ulteriore debito pubblico per coloro che più facilmente sono presi di mira!

Stefano di Tommaso