IL CREPUSCOLO DELLE BANCHE

Chi l’ha detto (e scritto) che il 2021 sarà l’anno della svolta? Praticamente proprio tutti: mai come questa volta il consenso generale degli analisti e accademici è sicuro che la ripresa economica arriverà già nel prossimo futuro! E da alcuni punti di vista è difficile affermare l’opposto: dopo un calo che non si vedeva dall’ultima guerra mondiale affermare che ci sarà un rimbalzo è facile come rubare in chiesa. Succede anche ai gatti morti che precipitano da altezze adeguate.

 

Ma questo non significa che non registreremo anche l’onda lunga dei fallimenti e della devastazione provocata dallo tsunami appena passato, anzi! Più la ricrescita sarà impetuosa, maggiore sarà l’evidenza dei danni e dei danneggiati e dell’aumento delle disparità di questi ultimi rispetto alle imprese e ai settori che potranno affermare di averla fatta franca, cioè quelli più innovativi e quelli più tradizionali (come la sanità, la farmaceutica e l’alimentare).

C’è poi una categoria di mezzo tra le due estremità del sistema economico, che è quella degli intermediari finanziari: spesso innovativi e fortemente digitalizzati, ma anche altrettanto fortemente esposti ai disastri intervenuti nell’economia reale. Con un piede (quello fortunato) nella spirale positiva della grande liquidità che affluisce loro e, anche loro tramite, ai mercati finanziari, ma con l’altro azzoppati dalle inevitabili insolvenze di molti operatori tradizionali e di piccola/media dimensione, soprattutto in Europa e, nell’ambito di questa, soprattutto alle latitudini più basse, dove i viaggi, il turismo, e i servizi (ristorazione in primis) costituiscono buona parte dell’ossatura dell’economia locale.

LE RAGIONI DEI TIMORI

Le banche insomma, non potranno gioire più di tanto dell’accelerazione della ripresa economica prossima ventura, se non troveranno modalità particolarmente agili per gettare alle ortiche le posizioni in perdita accumulate con la pandemia. E anche laddove ne saranno mirabilmente capaci, dovranno fare i conti con un mercato dei capitali sempre più agguerrito nel disintermediarle, con una redditività degli impieghi limitata dai tassi d’interesse più bassi di sempre, con la progressiva riduzione delle commissioni applicabili alla clientela derivante dall’avanzare delle monete e delle tecnologie digitali, e con la necessità di consolidare il settore (almeno in ambito europeo) per trovare la forza di capitale adeguata alle sfide cui sono sottoposte.

A dirlo non è il primo improvvisato bensì addirittura Moody’s, la più nota tra le Agenzie di Rating internazionali. Le quotazioni borsistiche del settore non potevano rimanerne immuni! Per non contare l’ambiente poco favorevole in cui si muovono gli istituti europei.

LO ZAMPINO DELLA LOTTA POLITICA EUROPEA…

Ad esempio gli ostacoli al P.E.P.P. (acronimo di Pandemic Emergency Purchase Programme: una misura di ulteriore intervento monetario posta in essere in aiuto al sistema a metà marzo dalla BCE per €750 milioni e incrementata a €1350 milioni all’inizio dello scorso Giugno) che la Germania intende porre onde “moralizzare” l’intervento della Banca Centrale (ma lo sanno oramai tutti che le vere motivazioni sono quelle di esercitare controllo ed egemonia su chi ne avrebbe più bisogno), così come tutti sanno che la ripresa non sarà né rapina né lineare, anche perché il virus non è ancora stato debellato e non ci sono certezze su quando la pandemia potrebbe concludersi.

… E I VINCOLI POSTI DALLA VIGILANZA

Tra l’altro gli allarmi lanciati dalla Vigilanza sulle banche lasciano poche speranze a quei banchieri che volessero tentare la strada di chiedere nuove risorse al mercato dei capitali: il divieto di distribuzione dei dividendi e la necessità di stanziare ulteriori riserve a fronte dei rischi che incombono lascia ben pochi spazi alle aspettative di guadagno per gli investitori che volessero scommetterci ugualmente, sperando che il risiko delle fusioni e acquisizioni possa generare ancora per un lungo periodo buoni profitti (com’è successo negli ultimi mesi).

MA CONTINUANO LE FUSIONI & ACQUISIZIONI

In effetti quel risiko continuerà praticamente per certo e, con una capitalizzazione media di borsa loro al di sotto della pari con i mezzi propri rilevati dalla contabilità (e verificati attentamente dalla Vigilanza), uno spazio di guadagno ci sarebbe eccome, almeno per gli istituti più penalizzati dai timori generali. Unicredit ad esempio capitalizza in borsa meno di un terzo dei mezzi propri quando invece Intesa Sanpaolo (che è corsa più velocemente sulla strada delle acquisizioni) arriva quasi al 60%.

La sensazione tuttavia è che la festa delle rivalutazioni che conseguono alle fusioni e acquisizioni bancarie sia forse già finita, o quantomeno si sia chiaramente interrotta, nonostante lo scenario macro per le borse valori risulti piuttosto positivo per la maggioranza dei commentatori.

INCERTEZZE E OPPORTUNITÀ

L’incertezza del quadro regolamentare, la lotta politica per l’egemonia nell’unione europea, l’eccessiva rivalutazione della Moneta Unica rispetto al Dollaro degli Stati Uniti (dove la Federal Reserve è stata indubbiamente più veloce e più generosa) hanno congiurato per rendere più basse le loro quotazioni azionarie e più fosche le prospettive della loro clientela, sebbene l’ondata di accorpamenti, tagli dei costi e ulteriori investimenti nella digitalizzazione più spinta non potrà che proseguire con indubbi benefici di sistema.

Il comparto delle banche è insomma ad un crocevia strategico -tra incertezze e opportunità- che getta lunghe ombre sulle prospettive di redditività e generazione di ricchezza che può esprimere, pur risultando speculativamente molto interessante per gli ampi divari esistenti tra le quotazioni di borsa delle principali banche e la consistenza dei loro mezzi propri, divari che potrebbero ridursi mano mano che il settore arriverà ad un consolidamento continentale.


Ci sono cioè ragioni per starne alla larga, ma anche ragioni per scommetterci, ma è pur sempre vero che -una volta che la tempesta si sarà placata- i soggetti che ne usciranno vivi (emagari anche rafforzati) rassomiglieranno sempre meno a quelli che erano prima di esserne stati investiti.

Stefano di Tommaso




UNICREDIT & MPS

La notizia, comparsa ieri sera, ha già fatto il giro del mondo: Jean Pierre Mustier non accetta il ricatto della politica italiana (prendere il Monte dei Paschi senza ottenere adeguate “coperture” dal Tesoro italiano sui veri costi della manovra) e se ne va sbattendo la porta. Il titolo Unicredit scende immediatamente, così come quello di Monte Paschi sale parallelamente. Il mercato in pochi minuti ha decretato con i fatti chi ha guadagnato (MPS) e chi ha perso (UNICREDIT).

 

Ma il mercato non misura con le sue quotazioni l’interesse nazionale, nel bene e nel male. Nel bene perché il fatto che il Tesoro dovrà così subire un minor salasso per aver salvato l’insalvabile: una banca-carrozzone politicizzato, che succhia perdite ai conti pubblici peggio di Alitalia e anche perché nei piani per accorparla Mustier parlava di 8.000 esuberi, dei quali 6.000 in Italia (ma bisognerebbe comprendere se con la sua uscita sono stati davvero evitati o soltanto rimandati).

Nel male perché l’interesse nazionale lo si salvaguarda anche e soprattutto preservando l’integrità dei mercati, la profittabilità delle banche, l’interesse degli azionisti, l’attrattiva per l’investimento di capitali sul territorio: tutte cose ampiamente calpestate col confronto serrato (di cui nessuno parla) che si è prodotto tra Mustier e il nuovo presidente di Unicredit, Padoan, arrivato poco più di un mese fa allo scranno dopo una carriera tutta politica nell’ambito del Partito Democratico.

Mustier a quanto pare ha pronta la poltrona in una banca di tutto rispetto come Hong Kong & Shanghai Banking Corporation (HSBC) mentre non sarà facile trovare una figura altrettanto imponente per guidare Unicredit attraverso il risiko bancario che imporrà a tutti delle aggregazioni e degli efficientamenti.

Che Padoan avesse la missione di mettere insieme le due banche era noto a tutti e, ai tempi, Mustier non si era opposto, ma aveva però preso carta e penna e fatto due conti: quanto costa la “parità” per gli azionisti? Si parlava già allora di 4-6 miliardi, a seconda di come si vedono certe cose. Dunque la partita non era soltanto politica, ma anche patrimoniale: senza un adeguato ristoro da parte dall’azionista di maggioranza del MPS, dall’aggregazione con MPS ci avrebbero rimesso gli azionisti di Unicredit.

Purtroppo la vicenda avrà un seguito doloroso: altri capitali e altri cervelli abbandoneranno il Paese è il titolo Unicredit potrebbe sanguinare ancora quando saranno resi noti i dettagli della fusione con MPS.

La vicenda segna ancora una volta un successo dello strapotere di un partito (il PD) che insieme ai suoi satelliti Azione, Liberi e Uguali, Italia Viva eccetera, pur segnando nel complesso una scarsa popolarità tra gli elettori, controlla quasi tutto lo scacchiere delle posizioni di potere in Italia, con ben poche eccezioni. E segna purtroppo altrettanta vittoria del sistema dei partiti che controlla le istituzioni nazionali sugli interessi economici di quella parte del Paese che, silenziosamente, paga le tasse e le commissioni bancarie e che vorrebbe vedere in cambio un sistema finanziario sano e aperto alle logiche di mercato.

Stefano di Tommaso




VERSO UN MONDO DIVERSO

Difficile fare previsioni sui mercati finanziari o per l’economia reale in questo momento di grandi paure e altrettante speranze, per una serie di motivi di incertezza che cercheremo di esplorare in questo articolo. Tuttavia si può iniziare a scorgere alcune importanti dinamiche che non tarderanno a produrre cambiamenti profondi nel modo di vivere e nei consumi, nel nostro Paese come nel mondo intero, nei diversi settori industriali, nei posti di lavoro e nell’allocazione dei risparmi.

 

IL DIFFICILE RITORNO ALLA “NORMALITÀ”

L’accelerazione degli eventi determinata dal distanziamento sociale imposto dal virus ha cambiato in pochi mesi assai radicalmente lo scenario complessivo, imponendo a buona parte delle imprese operanti nei settori “tradizionali” (diversi dalla cura della salute e dall’alimentare) un forte rallentamento, con conseguenti ingenti perdite patrimoniali e, soprattutto, un’assoluta incertezza relativa al possibile “ritorno alla normalità”, che in qualche caso sappiamo sarà molto lento o addirittura non ci sarà affatto.

Viviamo oggi in un mondo sovraffollato di esseri umani e fortemente “globalizzato”, cioè unificato dalle telecomunicazioni e dalla relativa facilità negli spostamenti, e dunque sottoposto ad un rischio di contagio di malattie e infezioni nemmeno immaginabile fino a pochi anni fa. L’umanità è però mediamente molto invecchiata (cioè non è morta prima) e, nel suo complesso, sta mutando radicalmente le proprie abitudini.

 

CAMBIA LA SOCIETÀ CIVILE…

In questo nuovo mondo, nel quale la nostra cultura, la nostra razza e il nostro modo di vivere non sono più prevalenti e devono fare i conti con minacce nuove, anche l’assetto sociale e civile dei paesi più industrializzati cambia, così come cambiano le modalità di lavoro e le aspettative di valore, la struttura familiare e la propensione alla spesa.

La pandemia è poi arrivata parallelamente a forti sconvolgimenti climatici, che si sono talora trasformati in vere e proprie devastazioni naturali. Tutto ciò ha indotto tanto la popolazione quanto i governi ad una maggior attenzione alle problematiche ecologiche, ambientali ed energetiche, con conseguenti mutamenti delle abitudini quotidiane, delle modalità di spostamento e delle preferenze nei consumi personali.

La pandemia ha poi esasperato la disoccupazione, ridotto le aspettative di reddito e in molti casi ha intaccato le riserve patrimoniali, con la conseguente necessità per ampie fasce della popolazione di tagliare i consumi e ricorrere maggiormente agli ammortizzatori sociali. I bilanci pubblici così come l’industria e le “public utilities” ne stanno ovviamente risentendo.

…E CAMBIANO LE ATTIVITÀ ECONOMICHE


Il fatto poi che molte piccole imprese sono state forzate a chiudere ha determinato per larghe fasce della popolazione un incremento del debito, forti perdite patrimoniali, e ha “drogato” molte attività economiche, divenute fortemente dipendenti dalla spesa pubblica, dall’accesso al credito e da incentivi ed erogazioni dispensate dallo Stato.

La sopravvivenza di soltanto alcuni tra i canali distributivi (principalmente la grande distribuzione e le vendite online) ha contribuito non poco alla selezione della specie per moltissime aziende piccole o tradizionali, o sotto capitalizzate (e dunque fortemente sensibili alle restrizioni del commercio al dettaglio).

Ma il motivo principale del cambio di scenario è la necessità di fare efficienza nei costi e di reperire i capitali necessari ai forti investimenti divenuti necessari per poter restare in affari. Cosa che provocherà non soltanto fallimenti e insolvenze in coloro che non lo stanno già facendo, ma anche e soprattutto un’ondata di cessioni d’azienda, aggregazioni, accorpamenti e tagli generalizzati che a loro volta esprimeranno impatti profondi nell’indotto industriale di ogni sorta, nei servizi, nelle nuove professionalità richieste e nelle diverse modalità di collaborazione..

CAMBIANO ANCHE I GLI OPERATORI FINANZIARI…

Ma se tutto il resto cambia anche gli operatori finanziari saranno costretti a cambiare, ad adeguarsi, a cercare di rispondere a esigenze diverse e a strutturarsi diversamente. Un primo segnale del cambiamento è sicuramente l’internet banking (ovvero il “Fintech”) che sta dando una scossa all’intero sistema creditizio e dei pagamenti, scuotendolo, scombussolandolo e talvolta anche amputandogli qualche articolazione.

Tutto questo processo è stato però ammortizzato per le banche dai guadagni in conto capitale generati dall’arrivo dell’enorme liquidità immessa dalle banche centrali. Questa ha “pompato” la stragrande maggioranza delle quotazioni borsistiche e ha abbassato fino allo zero i tassi d’interesse. Le banche dunque non sono (ancora) rimaste colpite dalle perdite economiche e in conto capitale e hanno trovato così il tempo per i nuovi assetti.

Persino le autorità monetarie e i grandi regolatori sono tuttavia “sotto scacco”, perché la rivoluzione digitale genera pagamenti elettronici che riescono a sfuggire al loro controllo, o quantomeno a ridimensionarlo. Per questo ci vorrà ovviamente più tempo, ma la tendenza è oramai consolidata, nonché sospinta a forza dal progressivo “svuotamento” di valore che le valute di conto subiranno inevitabilmente a causa dell’imponente massa di nuova moneta stampata di fresco e della,svalutazione che ne conseguirà.

…E CAMBIANO I SETTORI PREFERITI DALLE BORSE

In questo mondo che cambia così tanto non possono non rimanerne influenzati anche i mercati finanziari. La grande liquidità che continua ad essere immessa li alimenta, ma ruotano fortemente i portafogli degli investitori, i quali ripongono le loro speranze nelle imprese più grandi, più solide, più innovative o più favorite dalle tendenze in atto.

Spiccano così le quotazioni della robotica, del digitale avanzato, del commercio elettronico, del fintech, delle biotecnologie e della cura della salute in genere. Spiccano anche le tecnologie alimentari e le industrie di trasformazione delle commodities, perché rispondono all’esigenza derivante dall’incremento della popolazione del mondo.

Soffrono parallelamente i servizi tradizionali, il triangolo “lusso-moda-arredamento”, l’automobile e la meccanica tradizionale, l’industria di carbone, gas e petrolio, mentre al pari prendono il volo la mobilità elettrica, la produzione di energie da fonti rinnovabili, l’elettronica di consumo e gli oggetti di intrattenimento domestico.

Le imprese più grandi, quelle quotate in borsa e quelle che possono esibire più solidità patrimoniale hanno indubbiamente beneficiato dell’ondata positiva delle borse, incrementando il divario già esistente con le altre imprese e profittando della necessità per queste ultime, meno capaci di raccogliere capitali e di tagliare i costi, al cambio di strategie, all’abbassamento dei prezzi dei manufatti o sinanco alla (s)vendita tout-court alla concorrenza.

COME EVOLVERÀ

I risultati di tuttI questi cambiamenti si vedranno appieno soltanto nel tempo, ma non è difficile individuare alcune tendenze essenziali che ne derivano e che difficilmente mostreranno nei prossimi mesi un’inversione:

  • L’incredibile ammontare di liquidità che le banche centrali continuano ad immettere sui mercati e che si somma a quella già immessa genererà tassi ulteriormente negativi un po’ ovunque, persino laddove l’inflazione tornerà a mordere, spingendo l’investimento dei risparmi verso impieghi più rischiosi;
  • L’incremento della spesa pubblica che consegue alla parziale monetizzazione del debito esistente e all’azzeramento del costo del debito si rivolgerà soprattutto alla previdenza sociale, alla sanità e alle politiche di prevenzione. Probabile anche una limatura dell’imposizione fiscale nei Paesi che se la potranno permettere, accentuando i divari con gli “altri” (come il nostro);
  • La svalutazione monetaria farà incrementare i prezzi dei preziosi, degli immobili di pregio e delle,”riserve di valore” in generale. Anche i prezzi alimentari non potranno che risentirne e ciò rimuoverà l’ultimo ostacolo alla ripresa dell’inflazione;
  • In un mondo dominato da colossi finanziari e tecnologici degni del distopico “grande fratello” di Orwell è difficile prevedere grandi crolli dei mercati finanziari, ed è sempre più difficile comprendere se prevarrà la liquidità in circolazione (scenario più probabile) o il disconforto per l’andamento negativo dell’economia reale e degli altri settori industriali;
  • la crescita smisurata della disoccupazione che discende dalla sequela di insolvenze, chiusure, razionalizzazioni e aggregazioni aziendali, dalla cancellazione dei posti di lavoro tradizionali e dalla necessità di riqualificazione delle mansioni non potrà che determinare nuove tensioni sociali o addirittura nuovi conflitti bellici, dovuti all’accentuazione delle disparità sociali e politiche.

ANDRÀ TUTTO MALE ?

Come sempre succede -nel lungo termine- probabilmente no, anzi! Ma John Maynard Keynes ricordava che -nel lungo termine- saremo tutti morti. Quel che conta insomma è ciò che succederà più a breve, e questo è più difficile pronosticarlo, soprattutto è impossibile farlo “erga omnes”. Nel mondo che cambia ci saranno perdenti e vincenti.

Anche le sorti del nostro Paese dipenderanno da fattori locali come da fattori europei ed internazionali ed è difficile prevedere quali saranno. Ma una cosa è più certa in Italia che altrove: la necessità e l’imprescindibilità del cambiamento: il nostro è un Paese che è rimasto indietro nella corsa alle nuove tecnologie, alle nuove infrastrutture, al progresso della sanità, alla crescita dimensionale delle imprese e al rinnovamento dei mercati finanziari.

Ora probabilmente l’Italia dovrà adeguarsi più decisamente e più velocemente di altri al mondo che cambia. E questo genera micidiali minacce al business più tradizionale ma anche altrettante incredibili opportunità di guadagno, ma soltanto per chi avrà più risorse a disposizione, più alleanze internazionali, più competenze, più intelligenza e più coraggio.

Stefano di Tommaso




IL MIRACOLO GIAPPONESE

Per quasi trent’anni l’economia giapponese ha registrato, per le statistiche ufficiali, recessione o stagnazione e il più alto debito pubblico che la storia economica ricordi. Ma quel debito pubblico è stato integralmente acquisito (e dunque: “monetizzato”) dalla Banca Centrale e, senza il ricatto dei mercati, il Giappone evidentemente è vissuto meno peggio di quanto il “mainstream” volesse farci credere, dal momento che resta uno delle quattro superpotenze planetarie e soprattutto il suo reddito pro-capite resta tra i maggiori in assoluto. La settimana scorsa poi il balzo del 21% del P.I.L. ha stupito tutti. Qual è il segreto del successo giapponese? E quante similitudini con l’Italia potrebbero farci trarre spunto da un esempio vincente nel combattere tutte le accidie della nostra epoca?

 

Non si tratta di un esperimento, né della discussione tra accademici di una teoria economica. Non è nemmeno frutto della follia di un establishment che vuole giustificare sé stesso. A proposito del Giappone stiamo parlando di dati tangibili, di una società civile che oggi prospera davvero ed è persino molto avanti nelle infrastrutture, nell’organizzazione delle città, nella tecnologia, sinanco nell’assistenza sanitaria come pure nella qualità della vita. Non per niente l’aspettativa di vita in Giappone supera quella dell’Italia che è già una delle migliori al mondo.


E nonostante un numero di anziani più che doppio rispetto al nostro, il Sol Levante ha gestito forse meglio di tutti l’emergenza COVID con un totale di casi positivi pari a 190mila, soltanto lo 0,15% dei 126,5 milioni di individui, con 1873 morti. In italia abbiamo avuto sino ad oggi 1milione381mila contagiati su 60,3 milioni cioè il 2,3% pari anche a 15 volte il numero di contagi in proporzione alla popolazione totale giapponese e 49500 morti, quasi trenta volte di più.

Da questo punto di vista il Giappone ha dato lezioni a politici ed epidemiologi di casa nostra: tutto questo è stato possibile senza mai introdurre un lockdown come quello visto a primavera in Italia, limitandosi a dichiarare lo stato d’emergenza e chiedendo ai cittadini di rispettare stringenti normative igieniche e consigliando riduzioni degli orari dei negozi. Così facendo il Giappone ha limitato parte dei danni economici della pandemia e, qualche giorno fa, ha sottoscritto uno storico accordo commerciale con 14 altre nazioni asiatiche tra le quali Ci a e Corea del Sud, che contribuirà a dare impulso ad un’economia che si regge sui consumi individuali per oltre il 60% del prodotto interno lordo. Il risultato? una crescita del P.I.L. nell’ultimo trimestre pari al 5% (contro una perdita dell’ 8% nel trimestre precedente) e la borsa di Tokyo vicina ai massimi di sempre.


Le similitudini con l’Italia però non finiscono qui: una grandissima propensione al risparmio, grandi capacità tecniche, nessuna materia prima in casa, forte dipendenza dalle esportazioni… Ma mentre in Italia il declino economico si fà più tetro, il Paese del sol levante è oggi-quasi in tutto- ai primissimi posti al mondo nonostante trent’anni di (asserita) stagnazione e l’evidente sovrappopolazione. Come è possibile? Qualcuno mi fa notare che in Giappone -a differenza che da noi- lavorano proprio tutti, che il sistema dei valori etici e sociali è molto forte e che la dedizione all’impresa di appartenenza e agli impegni morali della popolazione è leggendaria. Ma è altrettanto vero che -nonostante numerosi scandali e molto ricambio della classe politica- l’assistenza sociale alle classi più deboli non è mai stata fatta mancare, così come i sussidi alle attività produttive, considerate il pilastro dell’organizzazione sociale.

Non per niente quasi mai un giapponese viene licenziato, quasi mai cambia casacca aziendale e tutti lavorano fino a tarda età. In Italia lavorano (a qualsiasi titolo, anche stagionale) 23 milioni di cittadini su una popolazione di oltre 60 milioni (cioè il 38%) mentre in Giappone su una popolazione di 126,5 milioni (con ultra-sessantacinquenni pari al 29% ma che costituiscono il 13,3% della popolazione attiva, cioè ogni 7,5 persone attive c’è un ultra-sessantacinquenne) quelli che lavorano sono il 65%, dunque il quadruplo dei lavoratori italiani e il doppio in percentuale sul totale della popolazione!

Ovviamente ora il Giappone guarda con apprensione alle sorti dei giochi olimpici di Tokyo, che avrebbero dovuto tenersi nell’estate 2020 e che sono stati spostati al giugno 2021, ma che a quella data -giurano- “si terranno comunque”. Una vera e propria iattura dal momento che il turismo stava letteralmente decollando in Giappone poco prima della pandemia.

Nel corso dell’ultima settimana poi i corsi della Borsa di Tokyo sono tornati ai massimi dal 1991 sfiorando i 30.000 punti dell’indice Nikkei, per poi assestarsi poco al di sotto. Un segno che adesso anche gli stranieri stanno investendo in Giappone e che la sequela di buone notizie che riguardano il Paese e la sua intera area geografica potrebbe non fermarsi qui. Speriamo sia di buon auspicio anche per il nostro Paese!

Stefano di Tommaso