I COSTI DELL’INFLAZIONE

Adesso che i vaccini sembrano funzionare, i mercati finanziari finalmente vedono la ripresa economica e che, nonostante ciò, le banche centrali sembrano voler tirare dritto come nulla fosse nella monetizzazione dei debiti di stato, fortemente accresciuti con la pandemia, tutti si aspettano il ritorno dell’inflazione. Questa potrà con sé un prezzo da pagare che rischia di finire sulle spalle di famiglie e piccole imprese, se all’espansione della massa monetaria e degli investimenti “verdi” e in tecnologie non corrisponderà presto un’effettiva creazione di nuova ricchezza. Fino a quel momento anche le borse continueranno a tremare, anche se probabilmente non subiranno alcun tracollo, limitandosi ad accentuare la volatilità.

 

LA MANO INVISIBILE DEL MERCATO NON È SUFFICIENTE

Molti studiosi concordano sul fatto che l’economia moderna sembra essere giunta a un bivio: la “mano invisibile del mercato” ipotizzata da Adam Smith non basta assolutamente più a mantenerla in equilibrio e il “nuovo capitalismo”, per non implodere, deve ricevere costanti stimoli monetari dalle banche centrali e frequenti incentivi di politica fiscale (cioè di spesa e investimenti pubblici) dai governi. E persino con questi essenziali contributi, i danni provocati dai periodi di recessione economica sembrano oramai non essere più socialmente accettabili, anche per il fatto che -per causa di quegli stimoli- la disparità di ricchezza si amplia costantemente, generando tensioni sociali e geopolitiche.

LA TRANSIZIONE DIGITALE HA IL SUO COSTO

La transizione dall’economia industriale del recente passato a quella iper-tecnologica e digitale del prossimo futuro sembra ineluttabile e foriera di creazione di nuova ricchezza, ma nel suo incedere costringe vecchie attività alla chiusura o al ridimensionamento e lascia inevitabilmente ai margini della strada miliardi di esseri umani, che non hanno competenze o risorse per coglierne i benefici. Persino i due baluardi sociali che la modernità considerava essenziali nelle democrazie moderne: la previdenza sociale e la sanità pubblica, oggi appaiono sempre meno sostenibili e sempre più insufficienti a garantire uno standard minimo di sopravvivenza a chi rimane ai margini della competizione economica.

Al momento non è chiaro se il risultato sociopolitico di tali tendenze sarà una deriva assolutista dei governi persino nei paesi più avanzati o se alla fine il sistema troverà un nuovo equilibrio. Ciò che molti temono tuttavia è che alla fine qualcuno dovrà pagare il conto di tutti quegli incentivi pubblici (monetari e fiscali) e che quel momento si avvicina.

PRIMA DELL’INFLAZIONE RIPARTE LA BOLLETTA ENERGETICA

Qui si innesta l’attualissima querelle sull’inflazione (se arriva, quando arriva e con quali conseguenze), sino a ieri rimasta solamente teorica ma di ci oggi se ne intravvedono alla fine i sintomi. Il recente rialzo dei tassi d’interesse negli Stati Uniti d’America si basa su quel timore mentre rimane poco più di una teoria nell’Europa continentale per non parlare dell’Europa peninsulare dove, a a causa di una recessione decisamente più spinta che altrove, una domanda troppo debole di beni e servizi la tiene a bada.

Indipendentemente però dal fato che in alcune zone del mondo (in Asia) la ripresa post-pandemica è già iniziata mentre in America la pandemia i persa ancora ma l’economia sta mostrando una performance molto migliore dell’Europa, la catena di trasmissione dell’inflazione risiede ineluttabilmente nel prezzo dell’energia, che tende ad equilibrarsi in tutto il mondo. È cioè naturale che, con la ripresa dallo zero assoluto della velocità di circolazione della moneta, anche l’inflazione alla fine possa fare capolino, nonostante il fatto che la capacità produttiva globale di beni e servizi continui a crescere ben più dei consumi.

LE BORSE RESTANO A GALLA CON LA LIQUIDITÀ IN ECCESSO

Nel frattempo le banche centrali del resto del mondo continuano a pompare denaro come non ci fosse un domani, sia per finanziare i deficit pubblici che per mantenere in salute i mercati finanziari. Anzi il denaro in borsa affluisce anche dai risparmi privati persino in periodi di forte incertezza come l’ultima settimana, quando sulla sola borsa americana sono affluite risorse fresche per 22 miliardi di dollari.

Negli U.S.A. infatti i tassi d’interesse a dieci anni -pur cresciuti- restano all’1,6% ed è evidente che quel 3,1% in più che corrisponde al premio medio per il rischio nell’investimento azionario genera un’attesa di guadagno sul mercato borsistico pari a 3 volte quella delle obbligazioni. Non stupisce perciò che, nonostante il nervosimo dei mercati cresca e così anche la volatilità dei corsi, soprattutto quella dei titoli tecnologici (che avevano corso di più fino a un mese fa), le borse non crollino. Il costante afflusso di liquidità le sostiene ma ovviamente ne riduce sempre più le attese di rendimento.

Il premio per il rischio nell’investimento azionario è infatti in costante calo, ma le borse restano anche in momenti come questi ai massimi di sempre, conciliando nella sintesi dei loro listini pressioni alquanto eterogenee: da un lato appunto l’attesa di una ripresa dell’economia mondiale dopo i danni causati dalla segregazione sociale, dall’altro lato una serie di spinte al ribasso, a partire dai timori dell’inflazione, per finire con la tentazione di portare all’incasso i forti guadagni realizzati negli ultimi 12-14 mesi, passando dai timori che la pandemia non sia affatto terminata con la sua terza ondata, bensì che ne possa arrivare una quarta e magari anche una quinta, impedendo di fatto un ritorno completo alla normalità.

ANCHE LA SCELTA ECOLOGISTA HA UN PREZZO…

L’inflazione che tende al rialzo è peraltro soprattutto una conseguenza della bolletta energetica, dal momento che i prezzi di molti altri beni e servizi sono in rotta da oramai un quinquennio, con l’unica eccezione delle derrate alimentari, a loro volta fortemente dipendenti dal costo dell’energia. La bolletta energetica è infatti ancora oggi quasi totalmente dipendente dal prezzo del petrolio, nonostante i forti investimenti nelle energie provenienti dalle fonti rinnovabili. E il prezzo del petrolio risente decisamente non soltanto della speculazione, ma anche delle nuove tensioni geopolitiche che dopo le elezioni presidenziali americane, sono cresciute.


Il prezzo del petrolio ha oggi superato i massimi degli ultimi due anni e sembra destinato a crescere ancora, anche a causa dei ridottissimi investimenti che negli ultimi anni hanno riguardato la sua capacità estrattiva, mettendo di fatto un tappo alla possibilità di assecondare con maggiori quantità estratte anche soltanto la ripresa della sua domanda in Asia dove la pandemia sembra imperversare meno. Questi minori investimenti nell’estrazione petrolifera sono a loro volta figli di un forte sbilanciamento dei capitali e degli incentivi agli investimenti verso imprese “ESG” cioè “verdi” o “ecologici” che scoraggiano i primi favorendo i secondi.

Insomma se il costo del petrolio e anche quello di tutta la filiera energetica cresce (tirandosi dietro anche il costo di molte materie prime e dunque le aspettative di crescita dell’inflazione) dipende anche dalla speculazione ma soprattutto dalle politiche energetiche dei governi, che vogliono mostrarsi più sensibili al problema ambientale.

…E LO PAGHERANNO I PIÙ DEBOLI


Ma chi pagherà la crescita del costo della bolletta energetica e i maggiori costi del cibo e delle materie prime che ne discendono? Le famiglie ovviamente, le stesse già sfiancate dal calo dei redditi che è derivato dai vari lockdown (e dalla conseguente disoccupazione) nonché dalle maggiori preoccupazioni relative alle spese mediche e all’accresciuta incertezza.


Ecco dunque dei buoni motivi per rimanere scettici sulla possibilità di una forte impennata del tasso di inflazione (a causa di una domanda globale di beni e servizi destinata a restare debole) ma anche una valida motivazione per essere preoccupati sulla possibilità che i maggiori costi dell’energia portino al rialzo molti costi di produzione, riducendo di fatto i margini di molti comparti industriali. Se ciò accadrà sarà sempre più difficile sostenere i corsi delle quotazioni azionarie senza incrementare il circolo vizioso degli stimoli monetari e fiscali.

L’ esigenza di frenare le emissioni nocive e quella di favorire la transizione tecnologica portano insomma con loro un prezzo da pagare che rischia di gravare, alla fine della giostra, su famiglie ed imprese, favorendo invece l’ accumulazione di ricchezza finanziaria e la crescita delle disparità sociali. La transizione verso una maggior attenzione all’ambiente ha insomma un indiscutibile costo che, con sta già succedendo, senza una crescita parallela dell’economia reale, rischia di venire alla fine scaricato sulle imprese più deboli e sulle classi meno agiate della popolazione.

MA UN RIMEDIO CI SAREBBE

A tale circolo vizioso un rimedio sembra essere noto da tempo, e riguarda lo sviluppo delle grandi infrastrutture, in grado da solo di generare quella ricchezza reale aggiuntiva che oggi sembra mancare all’appello. Ma la politica mondiale sembra esserselo dimenticato, anche perché l’emergenza sanitaria le ha sostituite nel grado di priorità. La conseguenza pratica è tuttavia un rischio sempre maggiore del riaccendersi dell’inflazione e di ulteriore volatilità dei corsi azionari in conseguenza del fatto che i rendimenti reali non potranno che andare sottozero, applicando di fatto una tassa occulta ai risparmi e ai redditi che andrà a colpire soprattutto i più deboli.

La transizione verso la nuova economia, digitale e verde, necessita più che mai di grandi spese infrastrutturali a livello planetario, spese che peraltro potrebbero persino essere gestite in modalità fiscalmente neutrale per l’inflazione e i debiti pubblici.

 

Questo tuttavia richiederebbe una precisa volontà politica e un’attenzione da parte dei grandi organismi sovranazionali che, per vari motivi, al momento non sono ancora arrivate. Forse anche perché molti di questi organismi hanno perduto lo slancio iniziale e sono nel frattempo stati “colonizzati” dai vari portatori di interessi, tanto quanto i governi che li influenzano.

Il benessere dell’umanità dovrà tuttavia passare anche da tali meandri, se non vogliamo che l’intera fase post-pandemica non arrivi a tramutarsi in un gran falò dei risparmi privati.

 

 


Stefano di Tommaso




IL PIANO INDUSTRIALE

Le imprese dovrebbero scrivere e riscrivere spesso e fino alla noia il loro piano industriale. Non soltanto per comunicare e fornire informazione finanziaria. Il piano industriale è soprattutto uno strumento di management: della strategia aziendale, della struttura organizzativa e della valutazione del business che ne consegue. Non soltanto dunque è necessario per esprimere valore all’esterno ma è anche utile all’interno delle imprese per motivarne i protagonisti.

 

COS’È DAVVERO

È uno strumento di gestione dei rapporti con azionisti e finanziatori ma anche uno strumento di gestione delle risorse materiali come di quelle umane, del marketing come del prodotto. È uno strumento di comunicazione ma anche un canovaccio di strategia così come un accurato strumento di gestione della crescita di valore per gli azionisti.

Se un’impresa si accinge ad effettuare investimenti è quasi l’unico modo per conoscerne la validità e per misurarne i possibili risultati. Se un’impresa si accinge a richiedere al mercato capitali e/o finanziamenti il piano industriale è l’unico strumento per affermarne la sostenibilità ma al tempo stesso anche l’utilità. Se un’impresa si accinge ad esplorare nuovi mercati o a lanciarsi in nuovi prodotti il piano industriale è un sistema integrato di ragionamenti che conducono a misurarne non soltanto i possibili risultati numerici, ma anche la possibilità di avere successo nell’iniziativa. Se i detentori del capitale di un’impresa vogliono davvero conoscerne il valore la strada maestra è quella di arrivare all’ultimo capitolo di ogni piano industriale: quello dell’esplicitazione delle ipotesi alla sua base per affermarne a ragion veduta i risultati prospettici.

COSA RACCONTA

Il piano industriale inizia con le informazioni aziendali, posizionando e inquadrando correttamente l’impresa nell’arena competitiva che la concerne con il suo capitale umano e le competenze che esso esprime, con i suoi prodotti e i suoi canali distributivi, con i suoi dati economici e patrimoniali di sintesi. Un buon piano parte dalla fotografia nitida e sintetica di tutto ciò per arrivare ad affrontare, sempre in estrema sintesi, le previsioni economiche patrimoniali e finanziarie che la riguardano per i prossimi tre-cinque anni.

Se la parte iniziale e descrittiva arriva a fare bene tutto ciò allora il piano industriale consente di avere un’insostituibile visione d’insieme dell’impresa e della sua capacità di sostenere le sfide di mercato. Una visione d’insieme che può mettere in luce eventuali incongruenze o criticità, dunque i rischi del business ma anche i vantaggi competitivi dell’impresa e i suoi punti di forza.

La parte che segue del piano (dopo la sintesi iniziale) deve invece scendere in profondità, tanto nella disamina delle forze che esprime l’impresa come di quelle cui deve contrapporsi. Il racconto a questo punto si ramifica e si infittisce di dati, statistiche, confronti, indici e precisazioni. Ma non può essere altrimenti, affinché ognuna delle informazioni fornite in sintesi in precedenza possa essere verificata e accreditata.

COME SI COSTRUISCE

Normalmente il processo di costruzione del piano industriale segue un iter quasi del tutto inverso a quello che riguarda la sua esposizione, elencando vari capitoli che riguardano i singoli aspetti dell’impresa, a partire da una dettagliata analisi del mercato e della concorrenza, delle potenzialità ancora da cogliere, delle tendenze e delle minacce. Fa parte dell’analisi di mercato persino una verifica delle politiche di prezzo (molto più spesso di quanto si possa pensare esse sono errate o non gestite) ma anche delle politiche di costo, che aiutano non poco a verificare la sostenibilità dei margini aziendali nei confronti della concorrenza.

Dopo la disamina del mercato l’impresa deve essere altresì in grado di esaminare la propria struttura, la coerenza delle risorse che esprime con le sfide poste dal mercato e con le necessità patrimoniali e finanziarie che tali risorse interne ed esterne richiedono affinché esse possano fornire il miglior risultato possibile. È alla luce di tutto ciò che si può mettere a raffronto i dati di bilancio del passato con le prospettive dell’anno in corso e di quelli a venire, analizzandone i “ratios” (cioè i principali indicatori e rapporti).

Ma lo sforzo più importante di ogni piano industriale che si rispetti è la disamina ragionata delle numerose ipotesi alla base del piano: le cosiddette “assumptions” che permettono di fornire fondamento a ciascuna delle numerose previsioni che il piano deve necessariamente esprimere.


Sono queste assumptions (erratamente tradotte spesso con “assunzioni”), la loro precisazione e la loro coerenza che permettono di valutare la sostenibilità delle previsioni, soprattutto quando si è lavorato altrettanto correttamente all’analisi del mercato e alle sue implicazioni in termini di strategia e struttura aziendale. Le assumptions si basano sui dati gestionali aziendali, non sui dati contabili dei bilanci. E si verificano necessariamente con le previsioni esplicite di ciascun responsabile di divisione, di area di business e di area commerciale.

È a questo livello che si possono misurare gli impatti delle innovazioni tecnologiche, o di prodotto, mercato, o nella struttura. Sono tutte variazioni delle assumptions e delle loro conseguenze.

QUALI INFORMAZIONI ESPRIME

Il quadro d’insieme che emerge dall’elencazione e dall’esplicita previsione riguardante ciascuna delle assumptions permette di verificare la matrice d’insieme della capacità dell’impresa di acquisire e mantenere competenze interne, di acquistare risorse, materiali e competenze dall’esterno, di utilizzarle efficientemente in ciascun comparto produttivo e di veicolarle con efficacia su ciascun canale distributivo. Esplicitare l’andamento e le previsioni di tutto ciò è essenziale perché le previsioni siano accurate e credibili per chi dovesse verificarle.

È in questa ottica che si configura la criticità del gruppo di comando di un’impresa, non genericamente in base alle qualità dalla reputazione del medesimo. Un team affiatato, opportunamente indirizzato e motivato e soprattutto all’altezza dei compiti che gli sono stati affidati, può riuscire nell’impossibile nonostante una cattiva fama o una relativa anonimia dei suoi componenti. E viceversa un gruppo di grandi e famosi manager non opportunamente gestiti e controllati, poco motivati e magari in lotta tra loro, può risultare estremamente poco performante.

La costruzione del piano industriale termina con l’esplicitazione delle previsioni economiche, patrimoniali e finanziarie in uno o più scenari competitivi, e in uno o più scenari di disponibilità finanziaria. Tali previsioni consentono di guardare ai bilanci e ai rendiconti prospettici esattamente come si può guardare a quelli storici, delineando perciò tanto la capacità dell’impresa di generare cassa quanto quella di crescere. Da queste previsioni si può perciò stimare tanto il valore dell’equity quanto la capacità di variarlo nel tempo, arrivando ad esplicitare la dinamica della creazione di valore per gli azionisti.

L’INFORMAZIONE FINANZIARIA E SOCIO-AMBIENTALE

La comunicazione aziendale e quella finanziaria che conseguono al piano industriale, in funzione dell’accento che pongono su una o più parti, a seconda della loro chiarezza e delle prospettive che intendono evocare, costituiscono la cosiddetta “equity story”, più o meno attraente e convincente per i soggetti che la recepiscono, più o meno capace di esprimere le potenzialità, i punti di forza e di debolezza, più o meno utile per apprezzare non soltanto la validità del business ma anche congruenza degli investimenti che ci si appresta a fare, ivi comprese le dismissioni di cespiti o rami d’azienda, le fusioni con altre aziende o le loro acquisizioni.


Ad esempio l’accento della comunicazione potrebbe risiedere sulla sostenibilità “verde”, sull’impatto positivo per il contesto sociale e ambientale del business (le cosiddette valenze “ESG”), oppure sulla capacità di dominare la tecnologia per restare sempre un passo avanti alla concorrenza, o ancora sulla capacità di contenere al minimo i costi ovvero di variabilizzarli in modo da riuscire sempre a mantenere il margine operativo a livelli elevati.

Il valore d’impresa (l’ “equity value”) infatti non è dato soltanto dalle prospettive di rischio/rendimento dei numeri aziendali, bensì anche e soprattutto dai moltiplicatori di valore che si possono attribuire al settore d’appartenenza e a tali prospettive. Ma soprattutto il valore d’impresa può risultare decisamente esaltato dalla capacità dell’impresa di esprimere coerenza, reputazione e potenzialità di stupire i suoi osservatori. Quest’ultima qualità, spesso sintetizzata con la parola “purpose”, a volte rischia di pesare più della tecnologia, dei risultati prospettici, dell’attrattività del business e della sua eco-sostenibilità.

CONCLUSIONI

Ma senza che l’impresa possa arrivare ad esprimere il massimo degli sforzi per costruire e rendere leggibile il piano industriale, per riuscire a raffrontarlo alle sfide e alle opportunità di mercato e per utilizzarlo per misurare il mix delle risorse che esso richiede, le sarà difficile utilizzarlo al suo interno per orientare, motivare e incentivare i suoi uomini, o spenderlo all’esterno per gestire il suo posizionamento competitivo, per comunicare correttamente e per migliorare la sua credibilità e i valori che esprime.

Stefano di Tommaso




È DI NUOVO “SPAC” MANIA !

La stagione europea delle “Special Purpose Acquisition Companies” (l’acronimo è SPAC: veicoli quotati destinati a fondersi con società non quotate) ha avuto negli anni passati un epilogo deludente: ci sono state soltanto tre nuove SPAC europee nel 2020, per un totale raccolto di 411 milioni di euro. Invece negli Stati Uniti d’America l’anno scorso è andata benissimo: le SPAC lì hanno raccolto 78 miliardi di dollari attraverso 244 “Initial Public Offering” (l’acronimo è IPO, cioè “processi di quotazione in borsa”) su un totale di raccolta delle IPO sulla borsa americana di 168 miliardi di dollari: in pratica un Dollaro su due era destinato a una “blanck check company” (società-assegno in bianco) come le chiamano oltreoceano. Insomma, a New York è boom delle SPAC, e per diversi interessanti motivi.

 

COME FUNZIONANO

Inventate per favorire il processo di quotazione in borsa di nuove matricole, le SPAC puntano a raccogliere denaro da investitori qualificati come società-veicolo caratterizzate dal fatto di quotarsi in Borsa prima di focalizzarsi sulla ricerca di un’impresa con cui fondersi, cercandola in settori nei quali i loro promotori possono vantare competenze distintive. L’azienda-target con cui la SPAC realizzerà la fusione ottiene in tal modo la liquidità già raccolta dagli investitori e la qualifica di società quotata in borsa, mentre promotori e investitori della SPAC si aspettano una bella performance del titolo grazie all’unione del veicolo quotato con una società promettente.


Peraltro il veicolo d’investimento ha tipicamente una struttura che permette a ciascuno dei suoi sottoscrittori di esprimere assenso o dissenso rispetto alla scelta della società che verrà selezionata per la “business combination” (si chiama così il processo di fusione della SPAC con la società-target), rimanendo cioè liberi di recedere dal proprio investimento prima che la fusione abbia compimento.


Date queste premesse è evidente che le valutazioni aziendali delle società-target con le quali puntano a fondersi le SPAC non potranno mai essere elevatissime, dal momento che l’intera operazione è lanciata per poter beneficiare di un apprezzamento successivo alla fusione del titolo quotato. Ma è anche evidente che, con le valutazioni alle stelle raggiunte dai listini borsistici negli ultimi anni, questa tipologia di strumenti finanziari è andata a riempire parte del divario tra le valutazioni “industriali” correnti sul mercato delle fusioni e acquisizioni (non troppo diverse dal passato) e quelle molto più elevate delle società quotate in borsa, che sono lievitate negli ultimi anni a causa dell’enorme afflusso di liquidità proveniente dalle banche centrali.


I FATTORI DEL SUCCESSO DELLE SPAC

Ecco dunque una prima spiegazione del successo recente delle SPAC americane: esse vanno a colmare un divario di valore tra i titoli industriali più promettenti per il futuro e i valori artificialmente elevati delle società quotate, a causa della sovrabbondante liquidità del mercato. Negli U.S.A. dove le valutazioni di borsa sono molto più alte che altrove ciò ha funzionato di più.

Ma esiste anche una seconda spiegazione per il successo delle SPAC a Wall Street: la difficoltà per chi investe di reperire titoli validi sui quali investire che non siano già sopravvalutati! Con le SPAC si semplifica il processo di accesso alla Borsa delle società non ancora quotate e se ne riducono i costi, permettendo al tempo stesso agli investitori di trovare per loro tramite ulteriore diversificazione del portafoglio tra le matricole che si fonderanno con le SPAC, e nei settori più promettenti, tramite l’opera dei promotori delle SPAC.


LE DIFFERENZE CON IL PRIVATE EQUITY

Promuovere una SPAC non è un lavoro molto diverso da quello dei gestori di fondi di Private Equity, ma cambia l’orizzonte temporale (che si accorcia) e cambia anche la struttura operativa, perché i gestori del fondo hanno bisogno di mettere mano alla strategìa delle aziende acquisite e attendere che crescano di valore, mentre i promotori delle SPAC devono solo individuare le aziende più promettenti e sostanzialmente già quasi pronte ad essere quotate, semplificandogli la vita e accelerando il processo di quotazione (rimuovendo anche i rischi che qs ultimo vada storto) in cambio di una valutazione più bassa in partenza di quella che otterrebbero in IPO.

Dunque è denaro di investitori professionali che si riversa in borsa, non denaro dei risparmiatori indistinti che disinvestono da qualcos’altro per entrare in una IPO. La differenza è strategica:come nel Private Equity i sottoscrittori del capitale di una SPAC hanno una logica di medio periodo e sono dunque molto meno pronti a disinvestire subito di quanto lo siano i sottoscrittori di una IPO. Non soltanto: sono mediamente molto più informati dell’acquirente medio di azioni quotate in borsa e dunque molto più capaci di formulare un giudizio sulla possibile target.

LA VELOCITÀ DI AMMISSIONE AL LISTINO

E se i sottoscrittori non hanno richiesto il recesso dall’investimento al momento della “Business Combination” allora vuol dire che l’hanno di fatto anche approvata. Questo rende molto più rilassate le autorità di borsa, che fanno meno domande prima di concedere alle società-target il nulla-osta alla fusione per incorporazione nella SPAC quotata, dal momento che con essa è meno necessario tutelare il pubblico risparmio. E’ perciò molto più breve il processo di ammissione al listino per la società-target.

Certamente tutti gli investitori professionali (anche nel Private Equity) devono comperare bene per vendere meglio, ma quando il momento per il mercato dei capitali è magico come quello attuale e non si tratta di cedere a nessuno la maggioranza del capitale (come spesso è invece richiesto dal Private Equity) alle imprese che possono permetterselo conviene quasi sempre farsi abbracciare da una SPAC e lasciare al comando il proprio management.

Ovviamente negli U.S.A. si possono reperire centinaia di ottime aziende già quasi pronte per la quotazione in borsa e operanti nei settori più promettenti (spesso quelli tecnologici), mentre nel resto del mondo è oggettivamente più difficile. Non solo: nella borsa più grande del mondo la liquidità dei titoli quotati è sempre migliore, e per gli investitori che devono scommettere su una matricola, il sapere che ci saranno più probabilità di disinvestire facilmente, significa parecchio.

IL FENOMENO SI PROPAGA

Ma la sensazione è che il processo di riaffermazione delle SPAC possa presto allargarsi anche al di fuori dei confini americani, insieme al moltiplicarsi di casi concreti che possono testimoniarlo. Ad esempio Jean Pierre Mustier (che ha appena lasciato il ponte di comando di Unicredit) ha già lanciato -in brevissimo tempo- una SPAC europea che punta a fondersi con una Fintech (una banca elettronica): e chi meglio di lui può sapere come sarà il futuro del sistema bancario europeo? Non per niente anche gli investitori sono qualificatissimi (Tikehau Capital e Bernard Arnault di LVMH) e l’importo di tutto rispetto (250 milioni di euro).

Ecco dunque un elemento essenziale affinché il veicolo d’investimento abbia successo tra i suoi sottoscrittori: la qualità dei personaggi che lo animano! Senza i quali è più difficile che l’operazione si completi con soddisfazione.

Ovviamente con un mercato azionario europeo ancora molto al di sotto delle performances americane e asiatiche (le borse emergenti e in particolare quelle dell’area indo-cinese sono oggi ai massimi di sempre), se le considerazioni sopra riportate sono valide, le nuove SPAC nel nostro continente non saranno forse particolarmente numerose.

LA DIMENSIONE CONTA

C’è da aggiungere che è anche la dimensione a farla da padrona: in questi giorni negli Stati Uniti d’America un gigante del settore aerospaziale come “Astra” (anche se fondata solo nel 2016) si quoterà in borsa tramite la SPAC Holicity per una capitalizzazione di borsa che dovrebbe superare i 2 miliardi di dollari, ottenendo da quest’ultima liquidità aggiuntiva per 500 milioni, mentre l’App rivale di Tinder: “Bumble” punta raccogliere un miliardo di dollari in IPO ed è solo per questo motivo (l’importo rilevante) che non ha sposato una SPAC esistente.

La dimensione, insomma, conta anche più di quanto si possa credere, anche nel successo delle SPAC. La raccolta media di 70-100 milioni che si è vista in passato in Italia potrebbe quindi non piacere troppo agli investitori, che sempre più vogliono vedere nel titolo della SPAC dopo la “business combination” non soltanto una buona performance, ma anche la liquidabilità. È perciò possibile che una nuova ondata di SPAC europee abbia in futuro caratteristiche più simili a quelle delle loro cugine d’oltreoceano, rispetto a ciò che si è visto negli scorsi anni dalle nostre parti. Cioè che siano di dimensioni maggiori e che possano esibire importanti credenziali.

Ma d’altra parte il momento particolare dell’economia che stiamo vivendo esige intelligenza e capacità di effettuare importanti investimenti, e molte imprese che in passato non avrebbero mai pensato a quotarsi in borsa adesso si rendono conto che raccogliere capitali da una IPO (o da una SPAC) è una delle opzioni migliori possibili. Le alternative sono il debito, o la cessione o ancora, peggio, il non effettuare investimenti, restando indietro nei confronti della concorrenza o più piccoli di come si dovrebbe.

NE VEDREMO DELLE BELLE?

Dunque quello delle SPAC è denaro degli investitori professionali che va in borsa e vi porta con sé aziende orientate alle tecnologie, alle innovazioni, agli investimenti più rischiosi. Non c’è da stupirsi se poi il valore di tali imprese, una volta portate alla notorietà del listino di borsa e opportunamente capitalizzate, può crescere esponenzialmente. Per questi motivi è decisamente probabile che quest’anno molte nuove imprese si guarderanno intorno per raccogliere capitali freschi e che le migliori tra queste lo faranno tramite la borsa. Ed è soprattutto quando esse sono meno pronte per affrontare un processo di quotazione che può tornare buona la fusione con una SPAC.

Con queste considerazioni è facile concludere che le SPAC aiutano l’economia reale a crescere e ad evolversi, ma non è così scontato predire un lungo futuro radioso per lo strumento. Molti infatti lo vedono come una inutile sofisticazione del processo di IPO. Su queste colonne invece siamo decisamente più favorevoli e ottimisti: difficile disinventare delle buone innovazioni quando per di più esse possono essere ulteriormente affinate. Ed è difficile dissuadere gli investitori professionali dalla ricerca di buone opportunità.

Se attraverso le SPAC un maggior numero di imprese trova meno difficile avvicinarsi al mercato dei capitali senza rinunciare ai propri programmi cedendo la maggioranza del capitale, ecco che ci possono guadagnare tutti e che possono risultare quotate anche società che sarebbero state giudicate forse troppo rischiose in un normale processo di IPO. Qualcuna di queste può finire fuori strada ma la maggioranza di esse può regalare al listino buone performances.

SENZA LIQUIDITÀ E VALUTAZIONI ECCESSIVE LE SPAC ESISTEREBBERO UGUALMENTE ?

Più che probabilmente l’intero mercato delle IPO sta vivendo un momento di grazia a causa della liquidità che vaga sui mercati finanziari. Ma innanzitutto i più prevedono che questa continuerà ad essere immessa in grande quantità per ancora almeno un paio d’anni. Ovvero sino a quando non risulterà chiaro a tutti che la ripresa economica globale si è finalmente materializzata, se non addirittura sino a quando questa immissione di liquidità arriverà a placare i problemi di collocamento dei titoli dei debiti pubblici e potrà arrivare ad alimentare gli investimenti strutturali e infrastrutturali di cui il mondo ha bisogno per completare la transizione digitale e sollevare il benessere collettivo. Argomenti di cui l’economia occidentale ha grande bisogno.

E se quegli investimenti risulteranno essenziali per la ripresa dell’occupazione, allora anche i legislatori troveranno maggior sensibilità al fenomeno delle SPAC, contribuendo forse a prolungarne il successo.

Stefano di Tommaso




VERSO UN SUPERCICLO DELL’ECONOMIA?

La ripresa che tutti aspettano per il 2021 potrebbe arrivare un po’ in ritardo ma, dati alla mano, tutti scommettono che alla fine arriverà. Il mondo ha carenza di vaccini, ma anche di infrastrutture, investimenti, materie prime, gas e petrolio, tassi d’interesse reali e beni rifugio. E potrebbe ricominciare presto a spendere a mani basse per tutto ciò, non appena la pandemia allenterà un po’ la stretta. E se ciò accadrà allora i profeti di sventura per la sorte delle borse potrebbero avere torto.

 

ASPETTANDO L’IMMUNITÀ DI GREGGE

La pandemia non accenna ancora a smettere di fare vittime. Persino nell’imperturbabile Cina la preoccupazione per nuovi focolai è evidente. Anche perché le mutazioni del virus stanno spiazzando tutte le previsioni. Ma fortunatamente i vaccini -seppure in forte ritardo- sembrano (per il momento) essere efficaci anche contro le principali mutazioni del virus. Il grafico del Financial Times qui riportato mostra il maggior numero di dosi già somministrate nel mondo. E come si può vedere l’Italia non è nemmeno citata.


Somministrandoli in deciso ritardo rispetto alla scadenza estiva è possibile che un’altra stagione turistica sia oramai compromessa e che l’Italia dovrà affrontare l’ennesimo anno difficile, in cui il sostegno europeo risulterà fondamentale anche solo perché lo Stato possa pagare le spese correnti e rifinanziare previdenza sociale, cassa integrazione e ristori, rinunciando auspicabilmente al vano tentativo di incassare solo spiccioli dai 40 milioni di cartelle esattoriali arretrate, scendendo in compenso guerra con l’intero popolo dei contribuenti.

Eppure entro la fine dell’anno corrente anche l’Italia potrebbe aver raggiunto una sorta di immunità di gregge: quel fatidico 70% della popolazione, sommando vaccinati e immunizzati da precedenti contagi. A quel punto anche da noi potrebbe arrivare una qualche ripresa di consumi e investimenti. Ma a livello internazionale questo succederà molto prima, a partire dal sud-est asiatico fino a buona parte del continente americano.

IL RUOLO DELLE BANCHE CENTRALI

Dopo un primo anno in cui l’economia mondiale ha dovuto accettare un deciso passo indietro (nonostante la popolazione globale sia invece cresciuta e le disuguaglianze pure, riducendo ulteriormente il reddito disponibile per la parte più povera dell’umanità), le banche centrali hanno provveduto abbondantemente a sopperire alla necessità di monetizzare i debiti pubblici, nonché a quella di rilanciare la crescita. Ciò ha portato i mercati finanziari di tutto il mondo ad affogare di liquidità, a far salire alle stelle le loro quotazioni e al tempo stesso a rischiare di accrescere la loro instabilità.


Anche il moltiplicarsi delle posizioni aperte su strumenti derivativi ha generato un grosso rischio sistemico cui nessuno sta seriamente prestando attenzione. Se poi vogliamo completare il quadro dei pericoli in corso non possiamo non segnalare che la sequela di insolvenze e fallimenti aziendali che inevitabilmente seguiranno una delle recessioni globali più profonde da un secolo a questa parte, costituisce inevitabilmente un ulteriore generatore di rischio, dal momento che il sistema bancario ne risulterà ancora una volta azzoppato e che l’eventuale sussulto che può derivarne sui mercati finanziari basterebbe da solo ad instaurare un panico simile a quello del 2008.


PERCHÉ LA CRISI DEI MERCATI FINANZIARI NON ARRIVERÀ

Eppure ad oggi nessuno si attende davvero una crisi finanziaria epocale, per due importanti motivi: perché la grande liquidità che sorregge i mercati potrebbe -con un po’ di fortuna e di buona volontà- trasformarsi in un’ondata di nuovi investimenti che a loro volta potrebbero alimentare la ripresa dell’occupazione e di conseguenza dell’economia, e perché quella stessa ripresa in alcune parti del mondo (Cina Giappone e sinanco U.S.A.) è già iniziata.

Gli Stati Uniti d’America hanno goduto di ristori di stato quasi istantanei e di una limitata segregazione sociale. Sono inoltre riusciti a somministrare vaccini ad una parte significativa della popolazione molto prima che in Europa e oggi possono già godere di un accenno di ripresa economica. Ma tutto questo i media non lo possono ancora sbandierare ai quattro venti perché ciò significherebbe lodare l’amministrazione Trump.

Degli strumenti di contrasto alla recessione come il “Recovery Fund” non stanno poi vedendo la luce soltanto in Europa ed anzi, in estremo oriente l’economia ha già ingranato (con forte spinta statalista) una ripresa industriale che, tra l’altro, risulterà fondamentale al resto del mondo e in particolare all’America, per soddisfare la ripresa della domanda dei consumi, affinché non parta un’inflazione dei prezzi fuori controllo.

L’AMERICA CORRE E IL RITARDO EUROPEO AUMENTERÀ

La ripresa americana potrebbe poi farsi sentire anche da noi, non appena ci potremo liberare dalle restrizioni alla libera circolazione delle persone e queste ricominceranno a viaggiare e a spendere, anche se in molti si attendono che il consumismo come l’abbiamo conosciuto fino al secondo decennio del ventunesimo secolo probabilmente non si rivedrà più.

Non che ci si possa attendere troppo dal vecchio continente: la contrapposizione delle nazioni che lo compongono (al di là dell’Unione imperfetta degli stati europei) nonché il profondo ritardo con il quale vengono prese le decisioni e lanciati gli stimoli alla ripresa del prodotto interno lordo non fanno ben sperare nell’immediato. Probabilmente il divario con l’America e l’Asia crescerà, così come la deflazione (o la minor inflazione) saranno ancora più evidenti verso la fine dell’anno dal momento che i popoli del nord-Europa frenano sulla monetizzare dei debiti dei paesi meridionali.

IL BITCOIN A 50 MILA DOLLARI NON CI È ARRIVATO PER CASO

Ma l’enorme incremento degli stimoli monetari qualche effetto dovrà pure mostrarlo, e lo si può già percepire dall’arrivo a quota 50 mila dollari del Bitcoin, dalla rincorsa dei prezzi dei beni rifugio e dalle prospettive di rialzo di petrolio e gas. Ed è possibile che proseguirà presto con l’aggiunta della corsa dei prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari, man mano che la ripresa economica globale prenderà corpo.


Nell’attesa che il mondo civile torni a respirare all’aperto e i consumi possano riprendere vigore anche in Europa, gli idranti delle banche centrali sono pienamente in funzione e ci resteranno ancora abbastanza a lungo. E sono queste ultime le vere protagoniste all’origine di un possibile nuovo superciclo dell’economia.

UN SUPERCICLO DI CRESCITA E ABBONDANZA ?

Di conseguenza alla congestione di liquidità che affoga i mercati finanziari i tassi d’interesse continuano ad scendere al di sotto dello zero, i timori di svalutazione delle principali divise di conto valutario si moltiplicano, mentre le valutazioni aziendali continuano a crescere perché c’è più domanda di investimenti che opportunità ancora da cogliere.


Ma questa abbondanza alimenta inevitabilmente l’innovazione e le startup tecnologiche, contribuisce a finanziare le spese infrastrutturali e contribuisce a contrastare l’incremento di disuguaglianze sociali con abbondanti sussidi di stato a ceti sociali e popolazioni indigenti. Anzi: può contribuire all’elevazione delle masse, alla diffusione della conoscenza.

Peraltro della ripresa economica già in atto in Asia e America, alla fine dovrebbero beneficiare non soltanto i Paesi Emergenti, ma anche le esportazioni europee, sebbene ciò non si potrà tradurre così velocemente come in passato in una ripresa dei consumi, mentre con ogni probabilità la ripresa dell’export potrà alimentare la generazione di profitti (con ricavi in crescita e costi stagnanti) e, di conseguenza, un sostegno alle quotazioni dei titoli azionari. Se così sarà non ci sarà nessun crollo delle borse, nemmeno dopo la sbornia degli ultimi anni!

Nel grafico qui riportato una panoramica degli stimoli post Covid a livello globale:


DUNQUE DRAGHI PUÒ FARCELA, E I MERCATI PURE !

È in questo contesto globale (assai fortunato dunque) che si inserisce il tentativo di Draghi di far funzionare una delle coalizioni politiche più sgangherate che la storia della nostra repubblica ricordi. Se il Professore vorrà farsi rispettare dovrà riuscire nell’accelerazione della distribuzione di vaccini, dei ristori di stato alle attività bloccate e dei contributi europei agli investimenti. Un compito non facile ma nemmeno impossibile. E se ci riuscirà, terrà a quel punto sotto scacco le “istituzioni democratiche “ del nostro paese (o meglio impedirà loro di combinare altri disastri) consentendo un più ordinato riassetto complessivo.

A livello globale il fenomeno della maxi-ripresa economica potrebbe risultare molto più accentuato che a casa nostra e, se riuscisse a passare per la ripartenza dei grandi investimenti infrastrutturali di cui il mondo ha bisogno (colmare la carenza di cibo e assistenza medica, il divario digitale e la formazione professionale dei paesi ancora oggi arretrati), allora questa ripresa economica potrebbe anche durare molto a lungo.


SE LA GEOPOLITICA NON CI METTE LO ZAMPINO !

Naturalmente ciò sarà possibile in un mondo che resti sostanzialmente pacifico e privo di forti tensioni internazionali. Se arrivassero le quali lo scenario volgerebbe molto più decisamente a favore di un’inflazione galoppante e di un nuovo contenimento dei flussi commerciali internazionali.

Riuscire ad evitare quel genere di problemi è stavolta ancora più cruciale per le sorti dell’umanità ed è una condizione a dir poco necessaria affinché l’enorme bolla speculativa che ancora oggi sostiene le borse e i titoli a reddito fisso possa riuscire a non scoppiare. Se invece ciò accadesse, distruggerebbe non soltanto speranze e ricchezze di miliardi di individui, ma anche il sogno di tutti coloro che oggi contano sui propri risparmi per sostenere una vecchiaia auspicabilmente lunga e serena.


Stefano di Tommaso