AUTUNNO CALDO

L’economia reale non potrebbe andare peggio in questo periodo, uno dei più neri che si ricordi nel corso del settantennio seguito alla fine della seconda guerra mondiale, principalmente a causa dei mesi di lockdown che hanno mandato in tilt i bilanci di molte imprese, ma anche a causa della cosiddetta “seconda ondata” della pandemia globale da coronavirus, che continua a costringere alla paura i comportamenti collettivi. La recessione in corso sembra inoltre destinata a durare più di quanto si fosse sperato all’inizio, questo ovviamente ha delle conseguenze, non soltanto negative ma che sono destinate a creare importanti e talvolta sorprendenti trasformazioni.

 

Che la recessione economica in corso alla fine farà molti danni continuiamo a ripetercelo da tempo, ma per il momento vari fattori ne hanno attutito l’impatto: dagli interventi delle banche centrali che, insieme alle garanzie e ai sussidi pubblici, hanno cercato di rimpiazzare la liquidità che smetteva di circolare, fino ai risparmi dei cittadini e alle risorse delle aziende private che hanno aiutato le famiglie a sopravvivere pur costretti a limitata mobilità e pur sottoposti a grandi bombardamenti mediatici circa il rischio di venire colti dal “contagio di ritorno”.

LA RIDUZIONE DEI POSTI DI LAVORO

Il punto è che probabilmente tutto parte dalla crescente inoccupazione. Evito apposta il termine disoccupazione perché è legato al concetto di richiesta di lavoro insoddisfatta e alle relative statistiche che analizzano quante richieste rimangono inevase, mentre il fenomeno della riduzione dei posti di lavoro si estende parecchio oltre quando consideriamo anche tutte le risorse umane che oramai pensano di tirare avanti con lavoretti, o consulenze o collaborazioni saltuarie e/o quelle che a cercare un lavoro non torneranno più e/o infine coloro che hanno ricevuto qualche forma di sussidio e sperano di tirare avanti così. Il numero complessivo di tutti costoro infatti forse ammonta al triplo degli attuali “disoccupati” e amplifica non poco il problema della recessione italiana.


Dopo la sostanziale stagnazione dei primi due mesi del 2020, il sopraggiungere dell’epidemia ha investito il mercato del lavoro con cali dell’occupazione tra marzo e giugno senza precedenti. Il tasso di occupazione è sceso al 57,6% (non dei cittadini, bensì di quelli in età da lavoro e in buona salute) nel secondo trimestre 2020 e la maggior flessione è stata soprattutto per i giovani dai 15 ai 34 anni. Gli occupati sono diminuiti in totale di 470.000 unità rispetto al 1° trimestre e di 841.000 unità rispetto al pari periodo 2019. Non è difficile ipotizzare che alla fine dell’anno il numero di posti di lavoro distrutti dall’attuale congiuntura avrà ampiamente superato il milione.

La crisi del lavoro è stata mitigata dalla cassa integrazione e dal cosiddetto “smart working” (che però ha comunque ridotto i consumi nei centri cittadini e quelli legati ai trasferimenti casa-ufficio). Ma una parte delle soluzioni temporanee relative alla sospensione dei licenziamenti o all’attivazione del tele-lavoro avranno presto termine, e in quel momento la conta dei posti di lavoro ancora in essere si ridurrà ancora, inevitabilmente.

GLI EFFETTI SULL’ECONOMIA

L’inoccupazione o la scarsa occupazione ovviamente abbattono la fiducia nell’economia, riducono i consumi e la circolazione della moneta anche perché riducono la richiesta “sana” di credito al consumo e di mutui-casa, e soprattutto spingono a consumare almeno parzialmente i risparmi accumulati nella speranza che alla fine passi “a’nuttata”. Tutti fattori recessivi che generano in molti casi un’onda lunga, destinata a durare anche quando si potrà vedere (almeno a livello internazionale) qualche germoglio di ripresa.

Tutto questo significa che l’effetto per l’economia della riduzione dei posti di lavoro non è mai così immediata e che, anche ammesso (e non concesso) che da qui a pochi mesi arrivino le vaccinazioni di massa e l’incubo dei contagi venga totalmente meno, comunque tale effetto continuerà a colpire ancora per mesi i prezzi delle case (anche perché sono sempre meno coloro che riescono a pagare regolarmente gli affitti), i consumi e il commercio, il turismo e gli altri servizi “non essenziali”. E difficilmente tutto ciò verrà compensato dalla maggior spesa per apparecchiature informatiche e di telecomunicazioni, anche perché è palese che i beneficiari di questi ultimi comparti dell’economia poco hanno a che spartire con quelli danneggiati dei settori che hanno subìto i danni maggiori.


In pratica assisteremo alla cosiddetta “media del pollo” di Trilussa (se lui ha due polli e io neanche uno per la statistica ne abbiamo uno a testa) per quanto riguarda i consumi e le disponibilità economiche, con grande disagio per la popolazione più anziana, più povera e con minore scolarità, che dovrà contare su sussidi pubblici che inevitabilmente non saranno mai così copiosi come dovrebbero essere per adeguarsi al tenore di vita che avanza sotto lo stimolo di quella parte della popolazione che resta attiva e cavalca le nuove tecnologie. Si sta ampliando insomma, con il reflusso dell’ultima recessione, la schiera dei “nuovi poveri” che spesso erano partite iva artigiani e commercianti, piccoli e piccolissimi imprenditori ed ex-borghesi che stanno terminando di consumare i risparmi accumulati nel tentativo di preservare lo stile di vita raggiunto in precedenza.

LA TRAPPOLA DEI MERCATI PER I PICCOLI RISPARMIATORI

Anche la prevedibile elevata volatilità dei mercati finanziari da qui in avanti rischia di decimare le schiere della fascia di popolazione appena descritta, che inevitabilmente subisce il fascino dei guadagni facili in borsa senza apprezzarne appieno i rischi, soprattutto quando parliamo di “trading online”, per quanto l’idrante delle banche centrali stia inondandola di liquidità e cercando di preservare l’integrità dei mercati finanziari. Ma non potrà impedire che se ne agitino le acque, causando più di un naufragio delle piccole imbarcazioni.

Le borse cioè resteranno probabilmente “toniche” nonostante sia presumibile che continueranno ad esserci taluni pesanti episodi di elevatissima volatilità, ma è anche evidente che l’uso eccessivo di stimoli monetari da parte delle banche centrali porta nel tempo inevitabili conseguenze in termini di creazione di bolle speculative e di distorsione dei mercati, oltre evidentemente ad ulteriori record negativi dei rendimenti dei titoli obbligazionari e di mercato monetario. I risparmiatori perciò non potranno che continuare, man mano che si estinguono i titoli a reddito fisso, a sostituirli con titoli azionari. Ma questi titoli appaiono carissimi e, come tali, a forte rischio di ribasso.


Qualcuno avrà tuttavia notato che nell’ultima settimana i titoli del NASDAQ americano (la borsa telematica americana dei titoli più piccoli e di quelli più innovativi) hanno subìto in media una correzione del 10% del valore: un’enormità che non si vedeva, con quella intensità, da molto tempo. Ma anche quella è una media del piffero, dal momento che anche dopo la correzione resta elevatissima la capitalizzazione dei titoli FAAMG (Facebook Amazon Apple Microsoft e Google), assurta oramai a totalizzare da sola un quarto del valore di tutta Wall Street, mentre le quotazioni di molti altri titoli minori (che magari sarebbero ugualmente dei colossi qui in Europa) si sono ridotte più che proporzionalmente. Il “parco buoi” come una volta si definiva in borsa la massa dei piccoli speculatori “fai da te” non potrà che farne le spese.


LA RECESSIONE “IMPORTATA”

Ma c’è chi fa osservare che “quando l’America starnutisce in Europa arriva un monsone” e, notoriamente, il 90% delle crisi che colpiscono il nostro Paese sono originate da fenomeni pregressi negli Stati Uniti d’America, sia per cause direttamente imputabili a ripercussioni globali, che per il semplice fatto che colà le cose avvengono sempre in anticipo. E l’America al momento si confronta con grossi problemi nonostante il mercato finanziario vada benissimo e nonostante la ricchezza delle sue aziende: la disoccupazione è a livelli record e stanno salendo i crediti impagati, mentre i ristoranti chiudono, le compagnie aeree falliscono e le case delle grandi città sono sfitte.


L’Italiano medio continua ad ascoltare tutti i giorni le litanìe dei telegiornali con le sirene dei ministri al governo, i quali irresponsabilmente continuano a parlare di ottimismo e di fiducia in un rapido ritorno alla normalità, ma quello stesso Italiano medio inizia anche a rendersi conto che ciò è semplicemente un “bidone”, una presa per i fondelli dovuta alla necessità di non generare un disastro per la maggioranza di governo alle prossime elezioni regionali. La recessione in corso insomma non poteva essere in assoluto priva di conseguenze ma rischia di esserne rigonfia a casa nostra, dove i fondamentali dell’economia partivano già deboli e le risorse pubbliche per ammortizzare gli sbalzi sono praticamente già state consumate.

Arriveranno forse ingenti risorse dall’Europa che potranno compensare l’esiguità dei sussidi pubblici, ma la sensazione netta (se non la certezza) è che arriveranno “a babbo morto”, cioè l’anno prossimo e quindi dopo che la frittata di un pessimo autunno dell’economia per il nostro Paese avrà lasciato sul campo molti posti di lavoro e molti fallimenti, con conseguenti manifestazioni di piazza e sommovimenti popolari, di gente che non ce la fa più e che inizia ad essere stufa delle mezze verità erogate dagli organi di informazione di massa. Di lotte sindacali invece se ne possono prevedere ben poche sia perché l’operaio medio iscritto al sindacato è oggi vicino alla pensione, che perché c’è troppa vicinanza politica tra i partiti al governo e le cosiddette rappresentanze operaie.

MA PERCHÉ GLI IMPRENDITORI ITALIANI FUGGONO ?

Difficile però pensare che tutto ciò sinora descritto non avrà ulteriori riflessi nella vita economica e, ancor più, in quella politica del Paese. Anche i giovani impegnati nelle cosiddette “start-up” (cioè nel lancio di nuove iniziative e nuove tecnologie) avranno senza dubbio delle ripercussioni dagli effetti prolungati e poco attutiti della recessione in corso, con la conseguenza prima che molte di esse avranno vita breve, impedendo al nostro Paese quel vitale ricambio generazionale delle imprese che ne assicurava in passato la vitalità, e con la conseguenza seconda che altre ancora (probabilmente le migliori) emigreranno all’estero, cioè dove la tassazione è più bassa, la burocrazia quasi inesistente, credito e capitali facili da trovare.

 

 

 

 

 

 

Cosa che, almeno dal punto di vista fiscale e produttivo, le grandi aziende italiane hanno oramai scelto da tempo, pur senza tanto clamore. Nessuno si chiede per quale motivo da molti decenni quelle condizioni sopra indicate per fare business che gli imprenditori vanno a cercare fuori dei nostri confini non si riesce ad averle anche a casa nostra?

Se accadesse e diventasse un obiettivo condiviso, magari prima o poi troveremmo anche il modo di riuscirci, nonostante i problemi legati al debito pubblico. Eppure non è difficile da capire…

Stefano di Tommaso




BANCHE: LUCI & OMBRE SUL SETTORE

Le quotazioni nel settore bancario hanno subìto una pesante flessione durante il periodo del Lockdown, dalla quale non si sono mai riprese del tutto (vedi grafico qui sotto) ma, proprio adesso che l’economia reale ha subìto il peggior contraccolpo a causa della seconda ondata pandemica, i titoli bancari, anche grazie al fatto che sono rimasti su valutazioni molto limitate, potrebbero bizzarramente rimbalzare nelle loro quotazioni che invece in teoria dovrebbero risentire delle maggiori insolvenze.

 

La borsa d’altronde anticipa sempre le tendenze e anche stavolta, dopo pesantissimi ribassi e se rimarremo in assenza di altre brutte notizie, potrebbe essere arrivato il momento della svolta per il settore. Vediamo un po’ di indicazioni che lo riguardano.


LA NECESSITÀ DI UN PROFONDO CAMBIAMENTO

Un recente report di McKinsey che analizza il settore e i bilanci bancari del 2019 conferma impietosamente una tendenza decennale alla riduzione dei ricavi e dei margini di profitto e indica, per far fronte alle potenziali perturbazioni e alle sfide alla redditività, la necessità per le banche europee di ripensare in fretta il modello di business tradizionale, introducendo maggior attenzione alle esigenze dei clienti, migliorando il dialogo e il servizio offerto con forti investimenti tecnologici e con miglior formazione del personale.

La pandemia da un lato ha visto le banche al centro di molte politiche di incentivi allo sviluppo ma dall’altro lato ha anche accentuato i timori degli investitori per ulteriori forti perdite sui crediti deteriorati. Il risultato è stata un’ulteriore limatura ai multipli già penalizzati espressi dalle borse valori, soprattutto in Europa, dove il settore ha ampiamente sotto-performato l’indice generale e ha mancato di recuperare del tutto il valore perduto con la pandemia.


Mark Twain scriveva che “Un banchiere è uno che vi presta l’ombrello quando c’è il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere”. E le banche nel corso del 2020 hanno assecondato una tendenza che vede nuovi depositi per cospicui ammontari a causa dell’esigenza di accumulare liquidità da parte della popolazione, ma hanno ridotto la loro raccolta obbligazionaria, già in crisi dopo l’introduzione del bail-in. I crediti alla clientela invece, dopo essersi chiaramente ridotti durante il lockdown, grazie alle garanzie pubbliche sono tornati ad espandersi, anche se nel complesso hanno migliorato la loro qualità.

L’IMPATTO DEI “NON PERFORMING LOANS”

Tra le tendenze in atto però è innegabile un aumento della mole di prestiti deteriorati, un’ulteriore riduzione del margine di interesse, la riduzione dei ricavi legati alla gestione dei patrimoni a causa del ribilanciamento verso forme di investimento meno rischiose e per la riduzione delle commissioni di performance, una diminuzione dei ricavi da servizi di pagamento dovuta al minor numero di transazioni, la maggiore difficoltà a ridurre i costi fissi anche a causa dell’ aumento della complessità per adeguare le strutture allo smart working e alle misure sanitarie, un aumento del rischio operativo, anche dal punto di vista del cybersicurezza.

Tuttavia la capitalizzazione del sistema è migliorata nel corso dell’ultimo quinquennio, mentre si sono ridotte le dimensioni della quota di prestitò deterioriati. Il grafico qui riportato era stato esibito dal Governatore Visco nel corso delle sue ultime “Considerazioni Finali” quest’anno, in piena bufera da pandemia.


RISPARMI DI COSTI E RISIKO DI ACQUISIZIONI GIOVERANNO ?

Secondo una ricerca di Accenture, il 10% degli italiani che prima dell’emergenza Covid-19 preferiva svolgere le proprie operazioni esclusivamente all’interno delle filiali bancarie fisiche passerà gradualmente ai canali digitali, ma questo processo, oramai somatizzato dal sistema, in futuro potrebbe consentire risparmi di costo fino al 15 per cento.

Lo scenario post-Coronavirus sta poi cambiando l’arena competitiva, accelerando quel processo di accorpamenti già in atto prima della pandemia. L’acquisizione da parte di Intesa di Ubi Banca è stata il primo episodio che molti giurano continuerà con una lunga serie di altre aggregazioni. La concentrazione potrebbe poi riguardare non soltanto le grandi partecipate pubbliche (come la Commerzbank in Germania, il Monte Paschi in Italia e la fusione già in corso, con il beneplacito del governo spagnolo, fra Bankia e CaixaBank) ma anche quel che resta del settore privato (ad esempio Banco BPM) e del settore del credito cooperativo, che fa sempre più fatica a dare alle autorità di vigilanza le risposte ai quesiti richiesti.

IL SETTORE ASSICURATIVO POTREBBE ALLINEARSI

Questo condurrà sicuramente a una riduzione del numero di operatori di maggiori dimensioni ma è possibile che riguardi anche i piccoli, che soccombono alle esigenze di investimenti e digitalizzazione. Tra i grandi temi di attualità poi è probabile che il comparto bancario torni a inglobare maggiormente il settore assicurativo e gli altri servizi finanziari, per snellire i costi commerciali e di presenza sul territorio.

Tutto questo non succede solo in Europa. Anche oltre oceano le banche americane dovranno fare i conti con commissioni e prestiti al consumo in riduzione, minore uso delle carte di credito e riduzione dei ricavi da servizi, oltre a una inevitabile crescita delle sofferenze. Però i titoli bancari hanno subìto decurtazioni forse superiori all’effettiva riduzione di redditività attesa, posto che anche molti altri settori economici oggi hanno lo stesso problema ma in borsa i loro titoli volano sospinti da valutazioni sempre più ardite.


I TASSI D’INTERESSE REALI ANDRANNO SOTTO ZERO?

Probabilmente molto dipenderà da quanto la Banca Centrale Europea seguirà pedissequamente il tracciato della Federal Reserve americana: se l’espansione monetaria andrà avanti a oltranza portando sotto zero i tassi d’interesse reali (cioè quelli netti d’inflazione) allora è possibile che questa rappresenterà un’ulteriore cattiva notizia per il sistema bancario, e limiterà le sue possibilità di rimbalzo in borsa. Se invece la linea dura dei tedeschi dovesse limitare il programma di nuovo Quantitative Easing europeo (cioè taglierà le unghie alle mire espansionistiche di Francoforte) allora ci potremmo attendere un deciso rilancio delle valutazioni che oggi vediamo ridotte all’osso.

Stefano di Tommaso




QUANTO VALGONO LE AUTOSTRADE?

Tutti hanno notato il successo in borsa della società Atlantia, ex Autostrade SpA, che controlla all’88% Autostrade per l’Italia (ASPI) e che è a sua volta controllata al 30% dalla famiglia Benetton tramite Edizione Holding. Il mercato insomma ha plaudito alle possibili evoluzioni del titolo nonostante questo strida fortemente tanto con le responsabilità derivanti dall’evento luttuoso del crollo del Ponte Morandi, quanto con le dichiarazioni del governo Conte che parlava alla nazione di “punizione esemplare” e “revoca della concessione”.

 

L’ACCORDO

A quel che sembra di vedere, l’accordo tra Stato e Atlantia è quasi fatto, e comporta (invece che una punizione) lo scorporo della partecipazione all’88% in Autostrade per l’Italia (ASPI), e l’acquisto da parte di Cassa Depositi e Prestiti della maggioranza della medesima per poi quotarla in Borsa. La valutazione che si favoleggia tra i meglio informati sarebbe oggettivamente generosa: circa 16 miliardi di euro lordi, derivanti dalla di valutazione netta di circa 11 miliardi di euro per l’ASPI oltre a 5 miliardi di euro di debiti bancari di pertinenza. In pratica ad Atlantia verrebbe riconosciuto un prezzo per la cessione/quotazione del proprio pacchetto ASPI pari a più di 14 miliardi di euro al lordo dei debiti, pur tenendo conto dell’esborso ancora necessario per i nuovi controllanti (pari a circa altri 14 miliardi di euro) per le manutenzioni ancora necessarie alla rete autostradale per metterla definitivamente in sicurezza.

Come dire che in quell’accordo le Autostrade per l’Italia sono state valutate -nell’ipotesi di perfetto stato di manutenzione che era previsto dalla Concessione- la bellezza di 30 miliardi di euro, pari a circa 15 anni di ricavi (2 miliardi l’anno) e a 60 anni di profitti futuri nell’ipotesi (tutta da verificare) che questi rimangano pari al 25% del fatturato. Una valutazione decisamente generosa che avrebbe dovuto soddisfare gli appetiti dei Benetton, e invece non è ancora detto che lo sia, perché Atlantia sta tenendo in piedi anche altre ipotesi.

CHI PAGA ?

Dall’accordo di cui hanno parlato i giornali si deduce anche che Edizione Holding (cioè la famiglia Benetton), per la sua quota parte di spettanza per il controllo del 30% di Atlantia possa monetizzare indirettamente circa 2 miliardi di euro netti dalla vendita di ASPI da parte di Atlantia, pagati sostanzialmente dalla Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe controllare ASPI (oggi scissa nella nuova società Autostrade Concessioni e Costruzioni), dai risparmiatori che dovrebbero sottoscrivere un aumento di capitale per la quotazione in borsa dell’ASPI controllata da CDP, e dagli utilizzatori delle Autostrade che dovranno pagare agli investitori il 25% in più del pedaggio autostradale perché questo si trasformi nel loro profitto.

LA POSSIBILE ASTA

Ma tutto quanto sopra c’è il rischio che non venga ritenuto sufficiente dai Benetton e dai loro managers, dal momento che Atlantia ha preso tempo per la conclusione dell’operazione e oggi sembra intenzionata a tenersi in mano fino all’ultimo istante la scelta tra la quotazione in borsa di Autostrade per l’Italia (ASPI) è la sua cessione attraverso un’asta competitiva a cui potrebbero partecipare altri grandi operatori del mondo, oltre naturalmente ai tedeschi e ai cinesi già soci.

Dunque la valutazione dell’ASPI potrebbe addirittura crescere ancora in funzione del fatto che la quota di controllo del capitale, invece che in mano alla Cassa Depositi e Prestiti, potrebbe andare a qualcun altro qualora offrisse di più, e questo elemento ha contribuito allo “strappo” al rialzo in Borsa di Atlantia. Già infatti la valutazione di 11 miliardi netti per ASPI porta il calcolo del valore teorico di Atlantia a circa 18 euro per azione (contro gli attuali 14,8€ e contro i 12€ di Aprile di quest’anno, prima dell’annuncio, dunque con un potenziale maggior valore del 20% rispetto alle attuali quotazioni).

MA QUALCUNO POTREBBE AVERE DA RIDIRE…

Ma è probabile che l’ipotesi di un’asta competitiva che veda CDP in minoranza resti soltanto tale, dal momento che l’opinione pubblica avrebbe molto risentimento in un caso del genere, dal momento che comunque già in applicazione dell’accordo con CDP il titolo Atlantia si troverebbe a crescere di quell’ulteriore 20% e nella comoda situazione di risultare, nel momento più basso della recessione economica che ha investito il mondo, nella qualità di potenziale investitore straliquido e senza debiti. Se alla fine il progetto di Cassa Depositi e Prestiti dovesse vedere la luce, sarebbe per Atlantia una situazione di vero privilegio, dopo quello che ci si poteva aspettare all’indomani del disastro del ponte di Genova.

IL NODO DELLE GARANZIE

Resta tuttavia un’altro nodo non da poco da sbrogliare nella trattativa con Atlantia: quest’ultima non vorrebbe concedere manleve per le responsabilità pregresse ai nuovi titolari della concessione ASPI.


Con il disastro del Ponte Morandi alle spalle dopo il quale ancora nulla è stato deciso dai giudici e con un possibile cambio di maggioranza in Parlamento nel giro di pochissimi anni, l’argomento non è irrilevante, perché senza manleva di Atlantia c’è il rischio che oltre al danno per il Paese ci sia anche la beffa del fatto che un organismo pubblico come la Cassa Depositi e Prestiti debba rispondere lei dei danni che verrebbero addebitati ad ASPI.

E questo sarebbe veramente troppo: si è mai vista la cessione di una società senza alcuna garanzia da parte del venditore circa le malefatte pregresse? Mai. E speriamo di non doverlo vedere per la prima volta con i quattrini dei cittadini. Ma la minaccia di una vendita privata del cespite ASPI probabilmente serve proprio a controbilanciare la richiesta di garanzie, e a limitarla in cambio di un assenso finale..

Stefano di Tommaso




SULL’OLIMPO DEGLI DEI

Dopo aver risalito la china di una perdita che superava un terzo del valore di capitalizzazione precedente alla crisi pandemica, wall street ieri ha brindato alla vetta raggiunta: +9% rispetto all’inizio dell’anno e dunque ben oltre il 40% dai minimi raggiunti a marzo. I dettagli non contano: l’euforia non è mai stata così alta! Ma -a parte la possibilità che venga rieletto Trump- cosa significhi esattamente questa euforia forse non lo sa nessuno. Lo spirito del branco è esattamente questo: le sensazioni sono contagiose come i virus! Però è impossibile starne alla larga: il turbine di mercato attrae irresistibilmente chi pensava di rimanerne fuori.

 

GLI INDICI (E LE VALUTAZIONI) SONO ALLE STELLE

Gli indici delle borse sono alle stelle, in particolare quelli delle borse asiatiche e americane, ma soprattutto chi vince ogni battaglia è la borsa telematica delle imprese innovative a New York: il NASDAQ, vittorioso dopo che i suoi cavalli di miglior razza (Apple: +3,6% e Tesla:+8,5%) hanno superato ogni record precedente. Tesla addirittura vale 4 volte e mezza quanto ai minimi di Marzo. Mentre Apple ha soltanto poco più che raddoppiato.


A New York tutti parlano del miglior Agosto dal 1986, e non certo riferendosi alla salute o alla meteorologia. Il fatto è che oramai gli investimenti azionari sono divenuti autoreferenziali: il mondo sottostante non è più così importante. Una sensazione chiamata in gergo: “Compiacenza”. Mai stata così alta in precedenza se non tra il 1999 (la bolla della “new economy” e delle “dot-com”) e il 2001:


Possiamo parlare di eccessi di mercato? Di piena bolla speculativa? Certamente si, e si sa bene come finiscono le bolle, di qualunque tipo. Ma oggi però gli investitori istituzionali e professionali, per quanto possano strillare l’allerta per i profitti che scendono e la recessione che imperversa,, hanno due grossi problemi: 1) come fare a starne fuori se tutto va su e la loro performance scende rispetto agli indici di borsa, e: 2) cosa fare della liquidità in eccesso.

Non ci sono quasi alternative all’investimento azionario, soprattutto in America, dove la recessione ha danneggiato le prospettive di quasi tutte le altre categorie di investimento (o “assett class” come si dice oggi) salvo l’oro, l’argento e pochi altri beni-rifugio. E se gli indici di borsa continuano ad andare al rimorchio di qualche pazzo o improvvisato investitore online che dalla sua piattaforma “Robin Hood” la spara sempre più grossa, nessun fondo di investimento può starne impunemente alla larga senza essere tacciato di aver “perso un grande treno”.


Ed è anche per questo che alcune “rockstar” della nuova economia, come “The Hut Group” (alla lettera: il gruppo “la capanna”) che aveva cominciato col vendere in rete i compact disc e oggi propone principalmente integratori alimentari e prodotti di bellezza, ha deciso di quotarsi in borsa. Basato a Manchester ma con forti propaggini americane, europee e nel resto del mondo, ha giudicato impossibile resistere ad una valutazione pari a 35 volte l’Ebitda atteso (non quello storico, bensì quello prospettico, in un anno eccezionale).

THG che ha da poco annunciato di aver superato il miliardo di sterline di fatturato, punta a una capitalizzazione di borsa di 4,5 miliardi e punta a raccogliere mezzi freschi per oltre un miliardo. Per non parlare di alcune altre catene che stanno cavalcando la concorrenza della rete ai negozi tradizionali: il titolo azionario del gruppo Ocado, ad esempio, viene scambiato in borsa a più di 160 volte l’Ebitda dell’anno passato!


E il fenomeno-bolla riguarda ovviamente non soltanto le Initial Public Offers (IPO) delle grandi realtà digitali, bensì anche il boom delle IPO da assegno in bianco (o black check IPOs) o le Special Purpose Acquisition Vehicles (SPAC) che sono costituite e quota in borsa senza alcun contenuto industriale, come un salvadanaio che viene rotto da un’altra azienda, di solito non quotata, che si fonde con la SPAC allo scopo di ritrovarsi i mezzi freschi e l’onore della quotazione in borsa. Dall’inizio del 2020 sono state 51 le SPAC quotate a Wall Street, con una raccolta che ha superato i 20 miliardi di dollari. Ben più del doppio dell’anno precedente. Era dal 2007 che non succedeva.


Dunque siamo arrivati ad una vetta nemmeno immaginabile pochi mesi fa, quando il panico prese l’avvento sui mercati, soprattutto a causa del fatto che le dichiarazioni delle banche centrali vanno a senso unico: continueranno a immettere liquidità almeno sino a quando l’economia reale (e l’occupazione) non miglioreranno significativamente. In pratica ogni peggior notizia per l’economia globale è un toccasana per i mercati azionari, i quali beneficiaranno di ulteriori interventi delle banche centrali!

Insomma la giostra sembra aver trovato il suo moto perpetuo, sino a quando… non lo sarà più. È di totale evidenza che sulla giostra di chi investe bisogna restarci con un piede solo, pronti a scendere al minimo segnale di scricchiolio per l’eccesso di peso a bordo. Ma quando ciò avverrà non è dato di sapere, perché l’intero establishment si sta abbeverando a questa fonte inesauribile che sono le banche centrali che alimentano la fonte dei quattrini. E dunque chi li ottiene dal mercato è come se avesse vinto mezzo giro gratis: per una bella parte paga pantalone!


In altre parole è come se il mondo si dividesse in due: chi sta sull’Olimpo degli Dei (le società quotate o che possono emettere titoli di mercato) e che, da quelle vette, quasi quasi gode delle disgrazie dell’umanità perché significano ottenere ancor più liquidità. Non per niente Zeus, che sedeva al vertice dell’Olimpo, veniva rappresentato con una Cornucopia in mano. La macchina da stampa delle banconote delle banche centrali può vantare una funzione assai simile.

E dall’altra parte nel mondo c’è chi invece sta sotto (cioè tutti gli altri). Molto ma molto più in basso: a fare i conti con le banche che non erogano crediti, i clienti che non pagano e con quelli che ti raccontano che hanno problemi ancora peggiori. In pratica il mercato dei capitali appare oggi come un biglietto per il paradiso della liquidità a go-go e delle valutazioni da capogiro.

Per chi può permetterselo dunque non è così difficile scegliere da che parte stare in questi casi, ma occorre farlo in fretta, prima che suoni la campanella di fine ricreazione!

Stefano di Tommaso