IL PIL ITALIANO A -14,3% NEL 2020

È guerra di numeri sull’andamento dell’economia, e quasi nessuna testata di giornale o rivista sembra oggi interessata ad esprimere scientificamente la variazione reale del Prodotto Interno Lordo (PIL). Noi ci vorremmo provare a partire dai dati che sembrano certi: con una contrazione del PIL trimestrale del 12,4% sui 3 mesi precedenti e del 17,3% sull’anno precedente l’Italia archivia infatti il peggior secondo trimestre dell’anno da un quarto di secolo a questa parte. La pillola è molto amara nonostante alcune statistiche la indolciscano facendo notare che -rispetto ai due mesi di lockdown- i dati relativi ai consumi nazionali in Giugno e Luglio si siano ripresi. Bella forza!

 

DI QUANTO È DECRESCIUTO IL PRODOTTO INTERNO LORDO ?

Il fatto che -qualora il prodotto interno lordo nazionale da oggi in poi nel resto dell’anno non crescesse né decrescesse- chiuderemmo il 2020 con una variazione negativa già acquisita del 14,3%, dovrebbe significare che la variazione cumulata negativa nel primo semestre rispetto al PIL totalizzato al 31.12.2019 sfiora il 29%. Se perciò il PIL 2019 è stato pari a 1788 miliardi di euro, questo potrebbe dire che ad oggi (prima di tener conto dei doverosi calcoli di aggiustamento del dato per tener conto della variazione dei prezzi nonché dei fattori di calendario e destagionalizzazione) esso si dovrebbe essere ridotto della bellezza di 256 miliardi. Una riduzione che se dovesse restare l’unica registrata fino a fine 2020 corrisponderebbe al 14,3% del PIL annunciata dall’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT).

Ma è una vera enormità e soprattutto un numero che moltiplica per cinque i 50 miliardi di contrazione di cui parlano in questi giorni i media, e non è nemmeno paragonabile alla manovra da €25 miliardi che il governo varerà ad Agosto. Il ministro dell’economia si è affrettato a esprimere una previsione di rimbalzo del PIL di ben il 15% nel terzo trimestre, cosa che potrebbe anche essere, ma della quale nessuno può esser certo dal momento che anche tutto il resto del mondo soffre una crisi economica con pochi precedenti storici.

LA PRODUZIONE INDUSTRIALE VA ANCHE PEGGIO

I dati sulla produzione industriale non sono meno sconfortanti: nonostante una risalita di Luglio su Giugno (+7,5%) nel complesso del secondo trimestre la caduta dell’attività stimata dal Centro Studi Confindustria (CSC) è più che doppia rispetto a quella rilevata dall’ISTAT nel primo (-19,2% contro -8,4%). È il quinto calo trimestrale consecutivo, che porta a -30% la variazione cumulata dal secondo trimestre del 2019. La produzione industriale peraltro potrebbe rimbalzare assai meno del totale del PIL nel prosieguo dell’anno, dal momento che il cambio dell’Euro/Dollaro è ai massimi di periodo


(essendo cresciuto dal Lockdown ad oggi di circa il 10%) e rende meno competitive le esportazioni, che sarebbero diminuite comunque, dato che la decrescita economica globale si stima superiore al 4% nell’anno. L’aspettativa del CSC per la produzione industriale italiana a fine 2020 è di un terribile -15% .


IL CONFRONTO CON L’EUROPA E L’AMERICA

Ma la guerra dei numeri -edulcorati dai media- non agevola tra l’altro il confronto con l’andamento dell’economia nel resto del mondo. Tra i pochi elementi che conosciamo (quasi) per certi vi sono la variazione negativa del PIL italiano nel secondo trimestre (come detto il 12,4% rispetto al primo trimestre), da paragonare con il meno 12,1% della media europea, il meno 13,8% della Francia, il meno 18,5% della Spagna, il meno 10,1% per cento in Germania e il meno 8,25% degli Stati Uniti (non il 32.9% americano che è un dato annuale e va quindi diviso per 4 per essere paragonabile con gli altri). Questo vuol dire che la nostra economia nello stesso periodo si è contratta quasi il doppio di quella americana e oltre il 20% in più di quella tedesca.

MENTRE LA DEFLAZIONE MORDE

Altra (quasi) certezza riguarda la “deflazione” dei prezzi al consumo (cioè la riduzione dei medesimi): a Luglio l’indice dei prezzi al consumo (Consumer Price Index: CPI) cala da -0,3% a -0,4% su base annua (cioè la deflazione in Italia monta), da confrontarsi invece con una riduzione della deflazione in Spagna (passata in Luglio dal -0,9% al -0,3%) , con un’indice sceso dallo 0,4% allo 0,2% (comunque positivo anche in Luglio) e addirittura una variazione in crescita dell’indice CPI in Germania (è salito in Luglio dallo 0,5% allo 0,8%). In pratica la deflazione cresce soltanto da noi. Nel grafico che segue :

Andamento dell’indice CPI in Italia


Perché però il dato sull’inflazione/deflazione è fortemente relativo? Perché dipende da quali beni mettiamo nel paniere dei prezzi di riferimento. L’ISTAT contempla oltre 1300 voci diverse di consumo popolare, ma certo non tiene conto di tutto. Se andiamo a guardare il costo del chilometro percorso in autostrada infatti scopriamo che ogni anno è cresciuto ben di più del paniere ISTAT di riferimento, e la stessa cosa riguarda il prezzo di numerosi alimenti essenziali (dal pane, al latte, alla frutta e alla carne) mentre i prezzi di altri beni di consumo, quali ad esempio la componente energia della bolletta o l’abbigliamento e gli accessori, sono decresciuti vistosamente.

La variazione dei prezzi è dunque diversa praticamente per ogni bene o servizio e non è mai facile comprendere a cosa si riferisca il dato medio dell’inflazione (o deflazione) del paniere ISTAT. Ma già la deflazione dei prezzi non è di per sé una bella notizia, perché ha un forte effetto pro-ciclico sulla recessione, tendendo ad accentuarla. Va ancor peggio se questa si accompagna alla risalita dei prezzi degli alimenti essenziali, impoverendo ulteriormente il potere d’acquisto di salari e stipendi.

IL DENARO DELLE BANCHE CENTRALI NON SI TRASMETTE ALL’ECONOMIA

Un quadro generale -quello italiano soprattutto- indubbiamente poco esaltante, con ben poche consolazioni se guardiamo a chi sta peggio di noi, cui si aggiunge la certezza che la mancanza di inflazione dei prezzi rafforzerà le banche centrali nella loro convinzione a incrementare la dose di liquidità da immettere sui mercati finanziari. Un fatto positivo per certi versi (smina alla radice il rischio che i titoli pubblici con cui si finanzia il Tesoro di ogni nazione non trovi le risorse) ma anche negativo per altri versi, dal momento che alimenta quell’inflazione “finanziaria” che abbiamo visto far crescere a dismisura i prezzi di taluni beni rifugio tra i quali i metalli preziosi e che alimenta la crescita delle disparità economiche tra chi gode ottimi ritorni dagli investimenti finanziari e chi soffre con non mai la crisi recessiva dell’economia reale, quali i percettori di salari e stipendi, i pensionati e i lavoratori in genere.

È tempo che le banche centrali d’altronde avvisano i loro rispettivi governi circa la necessità di accompagnare le facilitazioni finanziarie con altrettante misure espansive di politica fiscale. Ma per vari motivi soltanto ora, dopo esser stati colpiti da una delle recessioni più dure dal dopoguerra, i primi governi stanno decidendosi a metter mano al portafoglio, e quello italiano non è certo tra i primi della fila! Proprio adesso che ne avremmo un disperato bisogno (almeno per i numerosi mesi a venire fino al 2021, nei quali il Recovery Fund europeo resterà soltanto un sogno).

UN’IMPRESA SU TRE A RISCHIO SOPRAVVIVENZA

Molti osservatori concordano sul fatto che – alle condizioni attuali- un’impresa italiana su tre è a rischio di sopravvivenza. La fotografia è dell’Istat che spiega che il 38,8% delle imprese italiane, pari al 28,8% dell’occupazione, circa 3,6 milioni di addetti, e al 22,5% del valore aggiunto, circa 165 miliardi di euro, ha denunciato l’esistenza di fattori economici e organizzativi che ne mettono a rischio la sopravvivenza nel corso dell’anno”. Il “pericolo di chiudere l’attività” è più elevato tra le micro imprese: 40,6%, 1,4 mln di addetti, e le piccole imprese: 33,5%, 1,1 mln di occupati) ma assume “intensità significative” anche tra le medie (22,4%, 450mila addetti) e le grandi (18,8%, 600 mila addetti).


Cos’altro servirà ai nostri governanti per riuscire a smuoverli?

Stefano di Tommaso




È L’ORA DELLE OBBLIGAZIONI CONVERTIBILI

I mercati finanziari affogano nella liquidità immessa dalle banche centrali e, anche per questo motivo, la volatilità delle borse valori negli ultimi mesi è stata importante, così come ci si aspetta possa esserlo ancora nel prosieguo dell’estate. Per molti investitori però l’alternativa più classica, i titoli a reddito fisso, hanno cessato di essere un’opzione valida dal momento che hanno portato quasi a zero i loro rendimenti, mentre le obbligazioni convertibili, per le medesime ragioni, sono balzate agli onori della cronaca finanziaria segnando il record di emissioni, e soprattutto possono costituire una valida opportunità anche per le imprese che cercano di mettere “fieno in cascina” per il prossimo autunno e che vogliono attrarre gli investitori.

 

IL MERCATO DEI CORPORATE BOND È IN ESPANSIONE

Secondo un’indagine svolta dalla banca americana Merril Lynch, quasi il 30% delle principali obbligazioni nel mercato globale sono corporate bond cioè prestiti obbligazionari emessi da una società privata per ottenere finanziamenti non dalle banche bensì dal mercato dei capitali. Chi sottoscrive queste obbligazioni ottiene rendimenti in genere più elevati rispetto ai titoli di Stato e -nella misura in cui l’emittente dei titoli non fallisca- ottiene di conservare intatto il capitale investito. Il rischio di “default” è controllato attraverso il “rating” (cioè la probabilità di ripagare il debito) che viene assegnato all’emittente sulla base di solidità, prospettive e rischi. I titoli emessi possono essere a tasso fisso o variabile, e possono essere convertibili o portare in dote un “warrant” che consente la sottoscrizione di titoli azionari a determinati prezzi prefissati.

Ma sono soprattutto le obbligazioni convertibili che -a partire dall’arrivo del “lockdown” in poi e soprattutto nelle ultime settimane, hanno più solleticato l’appetito degli investitori, a causa delle altalenanti prospettive delle borse valori e dei limitatissimi rendimenti che circolano sui mercati finanziari, a seguito dei continui interventi delle banche centrali per assicurare liquidità al sistema finanziario.

Se dunque i “corporate bond” possono offrire rendimenti più elevati rispetto ai titoli di stato o a quelli emessi dalle maggiori istituzioni finanziarie, comunque si tratta di rendimenti decisamente in calo in assoluto, mentre con le obbligazioni convertibili i sottoscrittori ottengono la possibilità di partecipare agli incrementi di valore dei titoli azionari emessi dallo stesso debitore, pur mantenendo la “protezione” fornita dall’opzione di tenere il titolo nella sua configurazione obbligazionaria.


I SETTORI INDUSTRIALI PIÙ INTERESSANTI PER I SOTTOSCRITTORI

Ovviamente non risulta irrilevante l’appartenenza delle società emittenti ai diversi settori economici: i più colpiti dalla pandemia sono risultati i settori del commercio tradizionale, delle compagnie aeree, del turismo, nonché i produttori di abbigliamento e accessori, quelli del lusso, i bancari e gli assicurativi, che hanno subìto un calo delle quotazioni a causa dell’aumento del rischio di fallimento. Quelli privilegiati dagli investitori sono stati i titoli emessi da società attive nei settori “digitali” (dalla sicurezza informatica ai servizi online fino al software) e, ovviamente, quelli dei media e delle telecomunicazioni. Neutralità invece è stata espressa in media per il settore automobilistico (già in precedenza gravemente colpito dalla sfiducia degli investitori) salvo i produttori di veicoli elettrici e di servizio (trasporto e batterie, ma anche sistemi di pulizia, disinfezione, ecc…) per i quali è invece cresciuto a dismisura l’interesse di chi investe.

Anche la morfologia delle società emittenti ha inciso non poco nella selezione operata dagli investitori: le società di maggior dimensioni, quelle più attente al controllo dei costi, quelle con importanti programmi di investimento eco-sostenibili e, soprattutto, quelle che hanno avuto la capacità di rivedere radicalmente il proprio modello di business adeguandosi alle nuove tendenze, sono state senza dubbio le favorite.

Molti fondi di investimento hanno negli ultimi mesi rivisto la loro politica di raccolta di capitali per indirizzarli verso le obbligazioni “corporate” e convertibili, ottenendo buoni risultati sul fronte del consenso espresso loro

I criteri adottati dagli investitori sono poi risultati un’importante stimolo nei confronti delle imprese, molte delle quali hanno mostrato una decisa capacità di adattamento alle esigenze evidenziate da mercato dei capitali, moltiplicando le loro emissioni di bond in sostituzione delle richieste di finanziamento alle banche, andando ad emettere titoli convertibili e adottando programmi di investimento “ESG” (cioè con caratteristiche di eco-sostenibilità) o addirittura rivedendo alla radice i propri sistemi di governo aziendale, il proprio livello di digitalizzazione del business e adottando politiche di controllo dei costi basate su applicazioni internet e partnership digitali relative tanto agli approvvigionamenti quanto alla distribuzione dei prodotti finiti.


LE INDICAZIONI DEGLI INVESTITORI AIUTANO A CREARE VALORE

Tutto questo non solo ha permesso loro di incrementare le proprie possibilità di ottenere finanziamenti dal mercato dei capitali, ma ha anche contribuito positivamente ai risultati aziendali e, in definitiva, alla creazione di valore per i propri azionisti.

Se guardiamo all’indice Morningstar Eurozone corporate bond tra aprile e giugno, il rimbalzo è stato significativo: +4,63% contro il -1,88% del più ampio Morningstar Eurozone core bond, che comprende, tra i titoli investment grade, anche i governativi.


Ma soprattutto a livello di volumi le obbligazioni convertibili hanno fatto un deciso balzo in avanti: è stato calcolato da NN Investment Partners che nel mondo, a seguito dell’emergenza COVID, negli ultimi tre mesi (Aprile-Giugno) ne sono state emesse per 67 miliardi di Dollari, contro un volume medio degli ultimi dieci anni di circa 100 miliardi. E se le aspettative di ripresa di elevata volatilità sui mercati azionari sono corrette è lecito attendersi che questo boom possa continuare.

E’ in definitiva un’opportunità di mercato che oggi appare decisamente interessante, non soltanto per chi investe, ma anche per chi cerca capitali. E che si dovrebbe di conseguenza valutare in fretta di andare a cogliere, finché si è in tempo per farlo!

Stefano di Tommaso




ORO E ARGENTO PUNTA DELL’ICEBERG DEI NUOVI ASSETTI GLOBALI

Con l’oro che arriva a toccare i 1900 dollari e l’argento che -rispetto ai minimi di Marzo- cresce di oltre il 70%, tutti i chiedono cosa sta succedendo: i metalli preziosi vanno a ruba perché l’inflazione è destinata a prendere la scena oppure la bolla speculativa che li riguarda è arrivata sul punto di scoppiare? Niente di tutto questo, probabilmente. Le ragioni storiche e contingenti per la corsa dei preziosi sembrano tutt’altro che effimere, mentre il mondo si affretta a trovare un nuovo assetto che, ovviamente, nessuno sino ad oggi è sembrato davvero in grado di prevedere.

 

PIÙ DOMANDA CHE OFFERTA

L’argento e gli altri metalli “nobili” non costituiscono soltanto una riserva di valore: sono anche una materia prima sempre più richiesta per usi industriali (l’argento è utilizzato ad esempio per il 52% in impieghi industriali contro il 10% dell’oro): il recente piano di ecosostenibilità dell’Unione Europea stimolerà l’uso dell’ argento nei pannelli solari, nei frigoriferi e nell’elettronica (serve per le reti 5G), oltre a quello del platino (nelle auto a idrogeno) e del palladio (per abbassare le emissioni nelle tradizionali auto a benzina). Il rame è destinato a beneficiare enormemente dell’atteso aumento delle vendite di veicoli elettrici.

C’è inoltre un fattore che aiuta indubitabilmente le quotazioni degli stessi metalli: sul fronte dell’estrazione dei medesimi, causa lockdown dovuti al Covid-19, l’offerta di metalli industriali e preziosi, già calante per effetto degli scarsi investimenti recenti, è stata ulteriormente limitata. Messico, Perù, Bolivia, Cile e Sudafrica sono tra i paesi più colpiti dal virus, che ha imposto gravi limitazioni allo sviluppo di progetti per le strutture minerarie in questi paesi.


LA LIQUIDITÀ NE SOSPINGE LE QUOTAZIONI

Dunque l’offerta di metalli preziosi è scesa mentre la domanda si è accresciuta, principalmente a causa della crescita della liquidità in circolazione.

Lo scorso lunedì mi trovavo a scrivere: “C’è tanta liquidità sul mercato che trova pochissime alternative all’investimento azionario ma che al tempo stesso deve confrontarsi con un periodo di decrescita infelice dell’economia e con una disoccupazione che, corrispondentemente, è destinata ad accrescersi ulteriormente anche perché lo sviluppo digitale comporta ben pochi nuovi posti di lavoro. Cosa che deprimerà probabilmente i consumi anche una volta terminata l’emergenza-virus e forse, alla lunga, anche i profitti aziendali. Se ciò accadrà sarà probabilmente la ragione principale per la quale le borse non solo non scenderanno, ma non saliranno nemmeno, dato che i multipli dei profitti sono già alle stelle.”

Se la liquidità sui mercati sale verticalmente non lo si deve soltanto alle politiche di stimoli monetari praticate dalle banche centrali: c’è anche lo sviluppo del debito che cresce in tutto il mondo, a partire da quello delle pubbliche amministrazioni per passare a quello aziendale e finire con quello individuale. Da quando Trump è divenuto presidente il debito pubblico americano è cresciuto del 12% circa, cioè di 3mila miliardi di dollari, arrivando a sfiorare i 26mila miliardi. Una crescita media del 3% all’anno nei 4 anni, in buona parte finanziata dalla Federal Reserve Bank of America (Fed).

Trump è però solo un comprimario nel Guinness americano dei primati del deficit, con Reagan che durante i suoi due incarichi ha incrementato il debito pubblico del 184% (ma allora le cifre in gioco erano basse) mentre Obama è riuscito a far crescere il debito di 8700 miliardi, cioè del 78% (quasi il 10% all’anno in 8 anni). Spesso un supporto significativo al collocamento del maggior debito (e non solo in America) è venuto dalle banche centrali che lo hanno acquistato, con il Giappone al primo posto dove quasi tutto lo straordinario debito pubblico (siamo intorno a 2 volte e mezza il prodotto interno lordo) è stato acquistato dalla Banca del Giappone.

Ma bisogna anche notare la Fed è andata molto oltre l’acquisto dei titoli di Stato di nuova emissione se nei soli ultimi tre mesi ha iniettato sul mercato americano una liquidità netta di 3.000 Mld, superiore all’intero debito pubblico italiano (che ha appena toccato i 2.500 Mld). In tutto il mondo si calcola che la base monetaria globale sia cresciuta di ben 8 trilioni di dollari. Cioè tutte le banche centrali del mondo stanno cooperando per combattere uno dei problemi peggiori legati alla recessione economica innescata dal coronavirus: l’abbassamento della velocità di circolazione della moneta e il conseguente rischio di deflazione, che innescherebbe un circolo vizioso di aspettative al ribasso.

Per prevenire il problema e stimolare investimenti pubblici e privati, le banche centrali sono intervenute ancora una volta massicciamente, tanto indirettamente con supporti all’erogazione di credito da parte del sistema bancario, quanto direttamente sul mercato a comperare titoli, con il risultato di immettere liquidità in abbondanza.

IL “DEBASEMENT” DELLE PRINCIPALI VALUTE DI CONTO

L’unico aspetto negativo è legato al “debasement” delle principali valute di conto, dal momento che la moltiplicazione della moneta sul mercato ha creato di fatto un’ “inflazione dei prezzi delle attività finanziarie” e ha abbassato fin sotto lo zero assoluto i tassi d’interesse, creando le premesse per scardinare il Dollaro e le altre principali divise monetarie dal loro ruolo di valute di riserva.


Quest’ultimo fattore ha giocato non poco nel successo di mercato di oro e argento: l’acquisto dei metalli preziosi storicamente è risultato vincente come riserva di valore nel lungo termine ma è, per definizione, privo di reddito. Ora se i mercati finanziari arrivano ad esprimere tassi d’interesse negativi per molte attività finanziarie, un’investimento come quello nei metalli preziosi che non ha reddito si configura come una soluzione migliore del reddito negativo!

Un altro fattore di attenzione nello scandagliare il successo tra gli investitori dei metalli preziosi riguarda il fatto che questi ultimi non hanno bandiera e non sono confinabili in un solo Paese. Dunque se io compro oro o altri preziosi non corro il rischio di vedere erosa la mia riserva di valore in funzione dell’andamento dell’economia dove ho investito.

Il combinato disposto dei due fattori sopra elencati ha fatto diventare molto appetibili i metalli preziosi e fornito un shock negativo all’andamento del Dollaro, il principale rivale dell’oro, il quale perde di appetibilità quale “riserva di ricchezza” e sembra destinato a continuare a svalutarsi anche nei confronti delle altre divise, rischiando di perdere anche il suo ruolo di valuta di riferimento per gli scambi internazionali.

LA “MANINA” SEGRETA DI CINA E RUSSIA

Il fenomeno è lento e imponente nei suoi numeri globali, ed è sostenuto dall’intervento congiunto di diverse economie asiatiche, tra le quali Cina e Russia, che hanno sospinto non poco i loro acquisti di riserve auree, per svincolarsi dal Dollaro e al tempo stesso per sostenere la forza delle rispettive valute: un altro fenomeno che ha giocato non poco nella crescita di prezzo di oro e argento.

Ciò che è in gioco è nientemeno che la supremazia -tecnologica e finanziaria- dell’Occidente, annegato in un eccesso di debito e nel declino morale e culturale delle proprie istituzioni (valute monetarie comprese) e sinanco della propria società civile.

Se questo è vero non deve stupire che le principali valute occidentali perdano progressivamente terreno nei confronti delle più genuine riserve di ricchezza che la storia ricordi: i metalli preziosi. E se non interverranno altri fattori a distorcere il quadro delineato, il processo di debasement delle principali divise occidentali (e dunque della riserva di valore incorporata dai metalli preziosi)sembra destinato, pur tra alti e bassi, a proseguire a lungo.

Stefano di Tommaso




I MERCATI SONO IN BOLLA SPECULATIVA PERMANENTE?

Il Nasdaq è alle stelle ma le sue oscillazioni fanno sempre più paura, dati i livelli raggiunti dalle quotazioni di buona parte dei titoli che vi sono quotati. È sostenibile nel tempo tutto questo? Probabilmente non lo è, anche se ciò non significa necessariamente che ci sarà un crollo dei listini azionari, anzi…

 


A chi continua a pensare di mantenere un approccio scientifico nell’analisi e selezione degli investimenti quanto segue non piacerà: i mercati finanziari si mostrano sempre più dissociati dall’andamento dell’economia reale e sta montando una bolla speculativa anche grazie ad una sorta di “gioco” di privati investitori che dipende sempre più dal trading online (dunque non professionale), dalle valutazioni stratosferiche che riguardano molti titoli “tecnologici” e dalla liquidità messa in circolo dalle banche centrali e grazie alle garanzie pubbliche.

LE PIATTAFORME DI TRADING ONLINE STANNO CAMBIANO TUTTO

In realtà la speculazione incide principalmente sulla volatilità delle borse ed è quest’ultima che potrebbe essere così tanto in crescita da oscurare o far dimenticare le tendenze di fondo che anzi, di questi tempi, sono quasi assenti. È una situazione perfetta per attirare i giovani (e talvolta meno giovani ma non meno inesperti) nuovi speculatori, esaltati dalle emozioni in grado di dare loro piattaforme per il “trading online” come RobinHood, Ameritrade e Charles Schwab, il cui traffico è cresciuto, dal periodo del Lockdown in poi, anche del 170%.

Avevamo già assistito negli ultimi anni a fenomeni come la “bondification”, cioè all’acquisto di titoli azionari (principalmente da parte di fondi pensioni e altri ex-investitori in titoli a reddito fisso) unicamente allo scopo di sperare di percepire un flusso di dividendi futuri che potesse sopperire alla quasi assenza di rendimenti dei titoli obbligazionari. Sembrava già una rivoluzione e, comunque, una tendenza che avrebbe sostenuto le quotazioni dei titoli azionari con nuovi flussi di denaro in arrivo.

Ma quel fenomeno è nulla al paragone con altri come la “gamification” dell’investimento azionario, cioè l’investimento azionario vissuto come in una sala giochi, cosa che lo sta trasformando in una sfida online sempre più estrema, come si è visto recentemente a proposito del titolo Tesla (automobili elettriche di concezione fortemente digitale), andato sugli scudi fino a pochi giorni fa per poi conoscere alti e bassi da montagne russe e, soprattutto, valutazioni implicite nelle quotazioni espresse dalla borsa che non trovano riscontro nella realtà degli utili futuri attesi.

IL CASO TESLA

Tesla oggi ha superato la capitalizzazione di borsa di tutti i colossi automobilistici suoi principali concorrenti (messi insieme).


Con la “gamification” i listini azionari sono divenuti il regno del “passaparola” e delle voci incontrollate, mentre l’assioma del comportamento razionale dei mercati ad opera degli investitori professionali è oramai un argomento che afferisce al passato storico. Nelle borse si è anche affermata la predominanza dei colossi cosiddetti “FAAMG” (Facebook, Amazon, Apple, Microsoft e Google) che attirano sempre più gli investitori nonostante gli elevati multipli per la loro grande capacità di fagocitare quasi tutti gli altri business, sebbene dalla sigla sia escluso un peso massimo come Netflix, arrivata sopra al 20.mo posto nella classifica delle più grandi soprattutto a causa di multipli dei profitti cresciuti moltissimo durante il “lockdown”.

LA RECESSIONE TAGLIERÀ I PROFITTI AZIENDALI?

In realtà, dopo l’arrivo della recessione indotta dalla pandemia, dopo il sempre più pervasivo intervento delle banche centrali nell’affossare definitivamente i tassi di interesse globali sotto lo zero e nell’immettere nuova moneta in circolazione, e soprattutto dopo che le nuove tecnologie digitali stanno rivoluzionando tanto il mondo dell’industria quanto le modalità di consumo da parte dell’umanità, non è per nulla facile prevedere dove andranno a finire i profitti aziendali. Anzi si sa per certo che per molte imprese essi sono già andati a zero e che per altre i risultati saranno a lungo negativi. Ma si sa anche che il mondo sta cambiando così tanto da rendere difficile comprendere quanto ancora potranno dominare il mondo gli attuali colossi digitali e se, per le imprese che oggi registrano ampi profitti, ci sarà ancora un futuro luminoso.

Ma intanto c’è qualcuno che fa affari d’oro, e le borse lo premiano


Molte imprese “digitali” stanno indubbiamente spiazzando le imprese appartenenti a molti settori tradizionali (si veda ad esempio il dominio dei grandi tour operators digitali sulle aziende alberghiere, accumulando valore implicito anche quando regalano a costo apparentemente pari a zero numerosi servizi online, in cambio di preziose informazioni sull’identità dei loro “clienti” e sulle preferenze di questi ultimi. Questa attività spesso viene esclusa dal calcolo del “prodotto interno lordo” che, per definizione, non recepisce le attività economiche svolte a titolo gratuito o barattate con informazioni e “profili-utente”, ma le borse registrano invece le crescite di valore. Questo in parte spiega la divaricazione del valore espresso dalle borse, in crescita soprattutto nel comparto dei titoli “digitali”, e l’andamento del prodotto interno lordo, in caduta verticale in buona parte del mondo a causa della pandemia.

LA DIGITALIZZAZIONE ECONOMICA RIDUCE I POSTI DI LAVORO


La digitalizzazione dell’economia è forse il motivo principale, assieme alla prospettiva di un lungo periodo di tassi d’interesse bassi o bassissimi, per cui nessuno si aspetta davvero nè un’elevata inflazione e neanche un nuovo crollo delle borse valori, quanto piuttosto un lungo periodo di volatilità e incertezza.

C’è tanta liquidità sul mercato che trova pochissime alternative all’investimento azionario ma che al tempo stesso deve confrontarsi con un periodo di decrescita infelice dell’economia e con una disoccupazione che, corrispondentemente, è destinata ad accrescersi ulteriormente anche perché lo sviluppo digitale comporta ben pochi nuovi posti di lavoro. Cosa che deprimerà probabilmente i consumi anche una volta terminata l’emergenza-virus e forse, alla lunga, anche i profitti aziendali. Se ciò accadrà sarà probabilmente la ragione principale per la quale le borse non solo non scenderanno, ma non saliranno nemmeno, dato che i multipli dei profitti sono già alle stelle.

MA LA VOLATILITÀ POTREBBE AUMENTARE

Una volta eliminate le ipotesi estreme (crollo rovinoso o grande apprezzamento delle borse valori) quel che resta per i prossimi mesi promette tuttavia di essere per i mercati finanziari tutt’altro che un mortorio, dal momento che la volatilità dei corsi azionari potrà conoscere nuovi massimi nella seconda metà dell’anno, movimentando non poco la speculazione sui listini in funzione della politica (sono in cantiere elezioni in molte nazioni del mondo), delle statistiche, che prima o poi torneranno a restituire un quadro più veritiero delle principali grandezze macro-economiche e, soprattutto, delle matricole dei listini azionari, alcune delle quali potrebbero rivelarsi come opportunità di investimento molto interessanti.

Stefano di Tommaso