LO SPETTRO DELLA “SECONDA ONDATA”

Mentre le borse asiatiche e quelle americane segnano nuovi massimi, la“seconda ondata” della pandemia da Covid-19 torna a gettare un’ombra sulle prospettive di ripresa economica. In molti paesi esteri infatti la recrudescenza del virus sta tornando a sollevare di nuovo scenari apocalittici di altre misure di distanziamento sociale e, con esse, di nuovo preoccupazioni per l’andamento congiunturale. I mercati finanziari non potranno far finta di niente, rischiando perciò di restare ondivaghi e incerti per tutta la seconda parte dell’anno.

 

Per una volta noi che viviamo a sud delle Alpi stiamo meglio che altrove: il virus a casa nostra sembra aver perduto buona parte della sua forza e oggi non miete quasi più nuove vittime. Ma oltre confine e, soprattutto, oltreoceano, la recrudescenza dei contagi che viene registrata lascia temere che anche noi Italiani torneremo a importarli. E allora addio a quel che resta della stagione turistica. Addio alla ripresa di sport e spettacoli. E addio alle speranze di risollevare in fretta la spiacevole situazione finanziaria che affligge il nostro Paese.

Ma soprattutto in caso di “seconda ondata” come ne affronteremo le conseguenze economiche? Con quali risorse? L’Italia da quasi un ventennio non dispone più di autonomia monetaria, e dallo scorso Marzo l’erario chiaramente sta riscuotendo assai poco come gettito fiscale. Non solo: la globalità dell’emergenza sanitaria ha indubbiamente ridotto le esportazioni e quasi azzerato l’afflusso di turisti.

Dunque il Paese si troverà decisamente a corto di risorse se l’Unione Europea non riuscirà a trovare presto un’intesa. Probabilmente non basterà prorogare lo stato di emergenza al governo in carica, se non troverà altro modo di sostenere le finanze degli italiani. Così come non gli riuscirà tanto facilmente a chiudere di nuovo fabbriche e locali pubblici in caso di nuova emergenza.

Quella dello scorso trimestre aveva mobilitato le istituzioni europee per erogare moneta (principalmente sotto forma di acquisti di titoli di stato) e soprattutto finanziamenti (buona parte dei quali non è poi davvero arrivato). E l’annuncio di quel flusso di denaro è bastato a suo tempo a dare tono ai mercati finanziari, a diminuire gli spread e a riportare alla fiducia gli investitori. Ma molti hanno già dimenticato che anche quando quei finanziamenti finalmente arriveranno, poi andranno anche restituiti e che ciò non sarà facile se nel frattempo non saranno stati fatti adeguati investimenti e non sarà arrivata una solida ripresa. Ciò vale tanto per i privati quanto per le imprese. E tanto in Italia come dall’altra parte del pianeta: è il mondo intero a ritrovarsi più indebitato dopo il virus.


Mentre il debito globale perciò sale a dismisura, sarebbe cosa buona se i finanziamenti europei in arrivo in Italia andassero principalmente ad alimentare le grandi opere infrastrutturali che ancora mancano, perché queste ultime non soltanto darebbero uno sprint alla ripresa, ma si ripagherebbero inoltre da sole.

Invece la sensazione è che -soprattutto in caso di seconda ondata- i finanziamenti europei risulteranno tanto insufficienti per volume quanto tardivi nell’erogazione, con la conseguenza che invece di agire quale volano della ripresa essi potrebbero a malapena servire a tamponare nuove falle del sistema sanitario e del welfare, ma senza far ripartire davvero lo sviluppo economico.


Le speranze di un rapido sollievo dalla disperazione dei mesi più tetri appena finita potrebbero in tal caso fare posto alla constatazione che la recessione economica potrebbe invece andare avanti parecchio a lungo. E per di più con pochi strumenti a nostra disposizione per contrastarla. La spaccatura in seno alle diverse anime dell’Unione Europea su come reagire alla recessione non potrebbe essere più profonda. E di conseguenza paesi come il nostro si troverebbero a fronteggiare una gran voglia di fuggire dall’ingessatura finanziaria che l’Europa ci comporta. E sarebbe un peccato perché l’ipotesi qui sotto riportata privilegiava il nostro Paese.


Eventuali nuove emergenze sanitarie (che per fortuna a casa nostra al momento non si intravedono) potrebbero dunque stroncare sul nascere la ripresa e di conseguenza azzoppare i listini di borsa. Questo Conte lo ha capito benissimo e sta cercando di mettere le mani avanti, prorogando ogni misura cautelare possibile e facendo pressing sulla Germania perché richiami all’ordine i cosiddetti “paesi frugali” (cioè egoisti). Anche la Merkel ha compreso l’antifona e sta facendo quel che può per evitare di affossare definitivamente l’intesa tra i membri dell’Unione.

Ma altri fattori potrebbero congiurare perché l’Italia non si risollevi. Come l’ondata di fallimenti e di altre procedure concorsuali (che sono appena cominciate) o come l’eccesso di rivalutazione dell’Euro sul Dollaro e sulle altre valute maggiori, che renderebbero ancor meno competitive le nostre esportazioni.

La stessa sopravvivenza di questo governo è oggi più che mai in discussione. E un eventuale governo di larghe intese in sostituzione di quello giallo-rosso sarebbe percepito da tutti come un pannicello caldo. Quasi inutile si fini della capacità di gestire una nuova crisi da Covid. Per non parlare dell’avvicinarsi della possibilità di nuove elezioni, che facilmente spalancherebbero la porta ad un ricambio delle maggioranze in parlamento.


Chi si trova a investire il proprio risparmio o quello degli altri non può però chiudere tutti e due gli occhi e sperare soltanto che non succeda. Proprio perché sui mercati le cose vanno ancora relativamente bene, bisogna tenerne conto e adottare le necessarie precauzioni. Limitando i rischi e mettendo in conto il fatto che un nuovo scoramento collettivo potrebbe essere all’orizzonte.

Questa ovviamente non è una buona notizia per la borsa e sinanco per i titoli a reddito fisso. Ma potrebbe risultare semplicemente in un prolungamento (magari a tutto l’autunno) della “traslazione laterale” dei mercati, una sorta di letargo, interrotto soltanto da ampie oscillazioni dovute alla volatilità endemica che deriva dall’incertezza di fondo.

Stefano di Tommaso




AVIDITÀ O TIMORE?

Le borse di tutto il mondo hanno appena avuto il loro miglior trimestre dal 1998 recuperando -in media- quasi del tutto le perdite dovute al Coronavirus. E questo nonostante l’economia reale non sia mai stata così malata come negli ultimi mesi: si prevede per il 2020 una recessione globale ben più dura di quella del 2008. Due estremi opposti che hanno mandato in tilt gli uffici studi di tutto il mondo! La recessione deve indurre a prudenza e selettività chiunque: industriali, investitori, banchieri, governi e risparmiatori. Eppure chi lo ha fatto ha perduto le performances favolose del miglior trimestre delle borse da 22 anni a questa parte. Chi ha ragione? E cosa succederà in futuro? Sarebbe corretto temere che l’eldorado borsistico non possa durare oppure è lecito attendersi che l’economia reale riprenderà presto vigore e bisogna comportarsi di conseguenza?

 


Per provare a rispondere a tale quesito iniziamo a prendere atto del fatto che le nazioni più importanti e più organizzate hanno deciso di mettere in campo tutte le loro forze in questo periodo per contrastare la recessione in corso, e ciò ha indubbiamente favorito le quotazioni di quei mercati finanziari dove è affluita la grande liquidità immessa dalle banche centrali e dove è stata operata una maggiore selezione verso i settori economici che hanno prospettive di crescita e verso le aziende più sane che sorpasseranno le altre.

Ecco dunque una prima risposta: alcune nazioni hanno reagito meglio e più velocemente alla crisi da distanziamento sociale e alcuni settori ne sono stati addirittura favoriti. Addirittura ci sono aziende (ad esempio nel farmaceutico e negli strumenti medicali) che hanno tratto profitto dalla situazione. Ma adesso, dopo la “riapertura” le aspettative sono alte e al tempo stesso le conseguenze pratiche della recessione economica globale diventeranno più tangibili (fallimenti, disoccupazione, rivolte sociali). Allora cosa succederà?

LA FORTE DIVARICAZIONE

La divaricazione delle sorti tra i diversi settori industriali si rispecchia anche nella diversa performance tra nazione e nazione e tra azienda e azienda. Il risultato di questo scompiglio, rapidissimo dal momento che è in atto solo dalla fine di febbraio, non potrà non influire sull’economia reale, perché il moltiplicarsi degli insoluti bancari lascerà a secco di risorse finanziarie molte attività meno dinamiche in un momento -quello della profonda recessione che stiamo attraversando- in cui la loro disponibilità sarebbe risultata più importante che mai. Ci saranno invece probabilmente ulteriori profitti per le imprese dei settori più attraenti ma questo genera un’inflazione delle loro valutazioni. In borsa ciò comporta ottime prestazioni dei listini ma anche volatilità e insicurezza. Non è ben chiaro dunque se in generale occorra essere ottimisti o pessimisti, se sia opportuno cavalcare la tendenza in corso verso le tecnologie e la sanità ovvero cercare le occasioni dimenticate perché vi è più valore da recuperare.

DATI CONTRASTANTI

Dal punto di vista generale anche le statistiche forniscono elementi contrastanti:

  • La recessione è appena iniziata e -per quanto ogni ciclo stia accelerando moltissimo rispetto al passato- essa svilupperà le sue conseguenze ancora in un periodo di almeno un semestre. Molte imprese dunque falliranno e molti posti di lavoro saranno perduti. Questi fatti a loro volta non potranno non avere un impatto negativo sui consumi e sugli investimenti, alimentando un circolo vizioso di discesa dei salari che bisognerebbe riuscire a contrastare.
  • La pandemia non sembra dare molta tregua a livello globale: la seconda ondata del virus ha già ripreso a fare vittime (anche se per fortuna non Italia) e lascia presumere che talune misure di prevenzione che hanno indubbiamente danneggiato produzione, consumi e investimenti andranno avanti ancora per mesi. La spesa sanitaria ovviamente si accrescerà così come i debiti pubblici con cui in buona parte è finanziata.
  • Le banche centrali di tutto il mondo con la crisi da virus hanno ripreso in grande stile i programmi di stimolo monetario per contrastare la caduta del moltiplicatore del credito e la riduzione della velocità di circolazione della moneta, ma soprattutto per comperare i titoli di stato che vengono emessi per pagare l’ulteriore spesa pubblica. Ciò ha indubbiamente ridotto sotto lo zero i tassi di interesse.
  • Alcuni governi nazionali hanno poi anche intrapreso ulteriori programmi di sostegno all’economia: hanno garantito finanziamenti e stanno avviando grandi opere infrastrutturali: tutte cose che da un lato rilanciano le aspettative delle imprese e che dall’altro lato generano distorsioni, ad esempio nell’ambito dell’Unione Europea.
  • La ripresa delle attività produttive, sebbene in regime di relativa sicurezza sanitaria e con alcune limitazioni, ha poi indubbiamente rilanciato i settori industriali più tecnologici e, sebbene ciò contribuisca alla ripresa economica, lo spettro del fallimento o della chiusura delle attività che non si sono fortemente digitalizzate si farà sempre più reale.

LA TRAPPOLA DELLA LIQUIDITÀ

L’incertezza ha spinto molti investitori a preferire la liquidità, ma nel farlo essi hanno mancato una forte crescita dei listini azionari. Ragione per cui oggi chi è rimasto sulla liquidità aspetta soltanto il momento giusto per rientrare in borsa.

Cosa se ne deduce dunque per le prospettive dei mercati finanziari? Ottimismo o pessimismo? Avidità o paura? I segnali sono, appunto, contrastanti e probabilmente i due sentimenti, lungi dall’essere contrapposti, saranno entrambi presenti, alimentando l’insicurezza dei mercati e la loro variabilità.

IL DIGITALE PROMUOVE NUOVI MODELLI DI BUSINESS

Da un lato infatti i processi scatenati dalla pandemia stanno accelerando il cambio dei connotati del capitalismo e delle logiche di mercato, inflazionando sempre più il valore delle imprese che esprimono prospettive tecnologiche nel lungo termine e togliendo invece importanza a quelle della “old economy” e alle industrie tradizionali, esaltando i vantaggi della grande dimensione aziendale e penalizzando parallelamente il compenso del lavoro umano, sostituito progressivamente dalle macchine e dall’intelligenza artificiale. La possibilità di fare tutto da remoto riduce inoltre le esigenze di spostamento ma esalta i servizi online e di consegna a domicilio, riducendo il valore degli spazi commerciali o costringendo a rivederne l’impostazione. La tendenza ad una rapida ripresa dopo il lockdown infine premia le aziende più appetibili per il mercato dei capitali: nei settori pro-ciclici (quelli che accelerano più della crescita economica) e in quelli fortemente tecnologici. Se le borse andranno perciò ancora più in alto (e non è detto, anzi) andranno ancora più in alto le valutazioni delle nuove applicazioni tecnologiche e nel settore della cura e prevenzione delle malattie.

Dall’altro lato questi cambiamenti costituiranno un incubo per le imprese più piccole, per quelle che faranno sempre più fatica a ottenere credito da un settore bancario che non potrà non subìre i danni delle insolvenze a catena e che per questo motivo ridurrà il volume dei prestiti erogati e per quelle imprese tradizionali che non scompariranno del tutto ma i cui margini risulteranno inevitabilmente compressi e i cui spazi di mercato verranno erosi dai nuovi modelli di business.

MA LE BANCHE CENTRALI FRENANO

Ancora una volta poi sarà fondamentale il ruolo delle banche centrali, cui è ancora una volta delegato il ruolo di fornire ai mercati la liquidità che non si crea dagli scarsi profitti. Ma se le banche di credito ordinario non potranno e non vorranno fare la loro parte nel supportare l’economia reale, saranno i mercati dei capitali a recepire la liquidità in eccesso sul sistema, con il rischio concreto di creare bolle speculative nei settori preferiti dagli investitori. Ovviamente le banche centrali questo lo comprendono molto bene e per questo motivo come si vede dai grafici riportati, al momento stanno tirando i remi in barca.


Anche a livello geografico la crisi giocherà un ruolo nell’accelerazione dei cambiamenti: se la maggior parte della liquidità sarà rivolta al mercato finanziario che più esprime le nuove tecnologie (quello americano) ci sarà una domanda di dollari e una sovraperformance delle borse americane rispetto a quelle europee. A questo proposito però è valida anche la teoria opposta: il dollaro non potrà che svalutarsi perché il suo potere d’acquisto cadrà parallelamente all’eccesso di moneta in circolazione, cosa che non potrà non alimentare alla fine un’inflazione dei prezzi.

Personalmente ritengo improbabile quest’ultimo scenario, perché la disoccupazione e la precarietà dei posti di lavoro implicheranno un tasso di risparmio più consistente che non in passato e dunque una ridotta propensione ai consumi. Ma ritengo altrettanto fondata la teoria secondo la quale l’eccesso di liquidità sui mercati non potrà che alimentare nel medio termine una crescita generalizzata dei prezzi degli altri assets rispetto a quelli che compongono il paniere su cui si calcola l’inflazione. Soprattutto quando, alla fine di questo periodo di incertezza, dovesse ristabilirsi una ripresa generalizzata.

IN ATTESA DI UN PERIODO “LATERALE” IN BORSA

Ma la ripresa potrebbe arrivare dopo un periodo relativamente piatto, come quello descritto, che potrebbe durare anche molti mesi e vedere ulteriori divaricazioni tra le performance settoriali, visto che lo scenario di tassi bassi e spostamento delle attività verso i nuovi modelli di business è appena iniziato e non terminerà così rapidamente. Potrebbe cioè manifestarsi relativamente presto ma non dappertutto: si può ipotizzare che l’invecchiamento della popolazione, le esigenze di contenere le rivolte sociali con il welfare, la necessità di salvaguardare i posti di lavoro e la riduzione del potere d’acquisto del salario disponibile, in certe nazioni renderanno parecchio vischiosa la transizione verso un mondo nuovo, mentre in altre nazioni quei fattori ostacoleranno meno.

L’investimento del risparmio quindi non potrà che seguire logiche di diversificazione globale e settoriale, per evitare di rimanere troppo esposta a rischi sistemici. Avidità e paura potrebbero infatti arrivare nel complesso a bilanciarsi, ma soltanto a livello globale. L’ultima volta che c’è stato uno svarione dei listini azionari (Febbraio) è successo più velocemente che mai prima nella storia delle borse. Così come la ripresa dei corsi (tra Marzo e Aprile): più lenta ma indubbiamente velocissima rispetto al passato.


Per i singoli settori e per le singolare imprese i cui titoli sono quotati, le acque è perciò probabile che restino relativamente agitate, perché gli investitori restano preoccupati e vigili, in attesa di percepire qualsiasi segnale, positivo o negativo, e di poter reagire rapidamente di conseguenza.

Stefano di Tommaso




L’ISOLA FELICE DELLE TECNOLOGIE

Nel bel mezzo della recessione più singolare che la storia ricordi gli analisti continuano a porsi una domanda che prevale su tutte le altre: come sta cambiando il mondo? E quanto è forte il cambiamento? C’è chi dice che (quasi) tutto alla fine tornerà come prima, ma noi non lo crediamo: ci sono sempre maggiori evidenze del fatto che la pandemia ha accelerato il cambiamento della vita dell’uomo e, di conseguenza, dell’economia e dei mercati. E quando ci si chiede se la recessione finirà presto, bisognerebbe farlo per ogni singolo settore industriale. Perché le loro sorti saranno molto differenziate.

LA PANDEMIA HA ACCELERATO IL CAMBIAMENTO

Che la crisi da distanziamento sociale stia cambiando i connotati della nostra società civile è un fatto oramai largamente assodato, anche laddove la vita quotidiana non ne evidenzi con decisione le peculiarità. Lo si può percepire solo in parte direttamente, attraverso la nostra maggior attenzione ai sistemi digitali, tanto per l’istruzione, l’intrattenimento e gli altri aspetti della vita sociale, quanto per la nostra vita lavorativa, che forse è cambiata anch’essa ancor più radicalmente.

Ma soprattutto lo si può percepire indirettamente dall’andamento degli affari, che vanno a gonfie vele per tutti i settori dove prevalgono le innovazioni, le tecnologie scientifiche e quelle digitali (dunque dai presidi igienico-sanitari fino all’elettronica di consumo) e malissimo per tutti gli altri. La crisi economica di una società civile ancora profondamente sotto choc per gli effetti della pandemia morde non poco, dunque, ma non per tutti.

I SETTORI CHE CI HANNO GUADAGNATO

Se da un lato perciò la pandemia (con i timori di una sua seconda ondata) sta forzando la modificazione delle nostre vite quotidiane, limitando persino buona parte delle libertà democratiche e radicalizzando gli scontri sociali e politici, dall’altro lato esiste una terra felice, un paradiso artificiale che non ci tiene nemmeno troppo a mettersi in mostra, costituito dalle attività fortemente tecnologiche, dalla produzione di apparati innovativi di ogni genere sino alla più remota applicazione delle nuove scienze, servizi online e produzione di boccette per la sanificazione delle mani compresi, che invece prospera e cresce.

In questa fantastica isola felice che ha beneficiato del lockdown e delle più recenti tendenze salutistiche, i fatturati salgono, i margini ancor di più e la domanda supera sistematicamente l’offerta. Persino i settori dei trasporti, della logistica e dei servizi a domicilio, che più tradizionali non potrebbero essere, ne hanno parzialmente beneficiato, perché trainati dalla crescita selvaggia del commercio elettronico, dalla discesa del costo dell’energia e dei carburanti, e dal trovare meno ostacoli sulle reti autostradali e ferroviarie. Così come ne hanno beneficiato non soltanto i mostri sacri dell’innovazione e della ricerca scientifica, ma sinanco le industrie che producono filtri e mascherine, che appartengono più alla chimica e al tessile che non a quelli dell’innovazione vera e propria.

La vera domanda dunque non è quanto durerà la crisi economica, ma come cambierà le nostre esistenze, abitudini, preferenze, percezioni e sinanco i nostri valori culturali e sociali. Posto che sta diventando palese che essi ne saranno radicalmente modificati. Non c’è troppo da stupirsene, dal momento che l’economia è sempre stata una scienza sociale, ma quello che invece non può che stranire è la velocità delle modificazioni, che in passato si misuravano con le generazioni e poi con i decenni, e oggi si toccano con mano da un anno all’altro.

Se esiste dunque un’isola apparentemente felice -quella dei business scientifici e tecnologici- almeno per quanto riguarda le sue misurazioni contabili e finanziarie, questa a ben guardarla più da vicino è a sua volta in preda a forti fermenti, sconvolta dalla frenesia delle innovazioni che si susseguono e devastata dalla rapidissima obsolescenza dei suoi fondamenti. È il futuro che avanza, ma che spesso e volentieri travolge e sconvolge al tempo stesso.

E l’America che vediamo in questi giorni in televisione, da sempre la patria di ogni frontiera scientifica e tecnologica, ne rappresenta oggi anche tutti i limiti e i difetti, con le sue svolte radicaliste, le sue estreme tensioni sociali, con l’enorme ricchezza che le tecnologie hanno trasferito a coloro che ne sono stati lambìti e con le grandi questioni che esse sollevano.

I MERCATI LO HANNO CAPITO PRIMA DEGLI ALTRI

Senza fare questa lunghissima premessa sarebbe stato impossibile provare a interpretare l’andamento dei mercati finanziari, apparentemente imprevedibili ed erratici più che mai, in realtà fortemente condizionati da tutto ciò.

Non è un caso che di tutte le borse è oggi il Nasdaq l’indiscussa regina. Non è un caso che a Wall Street siano quasi solo le aziende tecnologiche quelli che guadagnano terreno. E non è nemmeno un caso che tra questi siano forte vincenti i primi cinque o sei titoli azionari del settore (i cosiddetti “over the top” perché sfruttano gli investimenti fatti dagli altri e profittano più di tutti gli altri della loro leadership indiscussa) con distanze siderali da tutti gli altri. C’è ad esempio un fenomeno di mercato come Netflix che capitalizza “solo” 200 miliardi di dollari e che esprime un moltiplicatore degli utili attesi pari a 90 volte, ma che ha sistematicamente surclassato il suo indice di riferimento (il Nasdaq).

L’intero comparto “high tech” è diventato il più importante di Wall Street e pesa sulla sua capitalizzazione complessiva per il 27%, ma i primi cinque titoli per quotati, tutti tecnologici e “over the top” hanno raggiunto da soli un valore pari a oltre un quinto dell’intero indice azionario SP500. Vent’anni fa, nel pieno della bolla della new economy, assommavano a poco più della metà. I titoli sono Apple (1560 miliardi di $), Microsoft (1500), Amazon (1360), Alphabet (cioè Google: 970) e Facebook (660).


E non è infine un caso che anche in tutto il resto del mondo siano quasi soltanto le iniziative più innovative a guadagnare il consenso degli investitori (questi ultimi sempre più globalizzati) sinanco in fase di quotazione. Gli investitori preferiscono comperare matricole sane e orientate al futuro che non i giganti del passato.

E se sono questi ultimi i veri vincitori della lotteria del Covid, è sensato ritenere che tale tendenza continuerà nel tempo? O è piuttosto una moda del momento? Succede quasi sempre che ogni nuova moda generi degli eccessi, da cui il mondo poi nel tempo rientra. Così come succede spesso che le novità affascinino, talvolta abbaglino e talaltra deludano le immense aspettative che hanno generato. È quindi plausibile che ciò sia vero anche stavolta.

LO SPETTRO DELLA DEFLAZIONE

Ma vista da un’altra ottica la situazione, per quanto drogata, presenta caratteristiche strutturali e mostri cambiamenti addirittura epocali. I titoli a reddito fisso sono cresciuti così tanto di valore perché i tassi sono scesi sotto zero. E rischiano di rimanerci a lungo, a meno di nuove fiammate inflazionistiche che ad oggi non si vedono.

Se così fosse, per quanto depurata dagli eccessi, la tendenza di fondo non cambierà così facilmente. In un mondo in cui il resto dell’economia -quella parte tradizionale e non digitale che oggi è sotto schiaffo- segna il passo e rischia di segnarlo a lungo, sono le tendenze di lungo periodo a contare davvero.


I tassi d’interesse sotto zero indicano la messa in congelatore di molte tra le attività economiche tradizionali. La deflazione sottostante a molti dei prezzi di beni e servizi di tipo industriale classico indicano un eccesso di offerta sulla domanda che non è destinato a breve a riassorbirsi, dal momento che i redditi medi scendono invece che salire. Ciò che cresce invece a doppia cifra è la parte più impalpabile dell’economia digitale, quella della condivisione e del baratto informazioni/servizi. Per il prodotto interno lordo non esiste, ma per la finanza è fondamentale! Così come lo è per il nostro stile di vita. Che continuerà a cambiare trainato da queste tendenze.

LA VITTORIA DELL’ECONOMIA DI CARTA

I valori azionari riflettono questi cambiamenti molto meglio di ogni possibile statistica. E infinitamente meglio di ogni teoria economica. Così come sono soprattutto le nuove generazioni a percepirli prima delle altre, e in maniera più pervasiva. Anche in questo i mercati finanziari sono anni luce avanti a quella che in passato veniva chiamata “economia reale” in contrapposizione con “l’economia di carta” della finanza.

Certo, gli interventi delle banche centrali hanno contribuito non poco alla salute dei mercati finanziari ma hanno sovvertito le loro leggi naturali. Oggi che la carta non serve più a scrivere e che il mondo digitale ha sorpassato quello industriale (troppo spesso rimasto al palo) si è rovesciato il mondo: è l’industria produttiva quella che rischia di perdere il contatto con la realtà (producendo più di quanto venderà), non i mercati finanziari, che riflettono e registrano più velocemente che mai le variazioni della vita reale, sempre più basata sulla salute e sulle nuove tecnologie.

Stefano di Tommaso




ITALIA: ECONOMIA A PICCO E VOLATILITÀ IN VISTA, MA LE MATRICOLE DI BORSA DOVREBBERO DARE SODDISFAZIONE

Se la borsa italiana ha reagito piuttosto male all’emergenza COVID, rispetto alla borsa delle borse, quella americana di Wall Street, il confronto tra le rispettive economie reali non potrebbe essere più impietoso. I grafici parlano chiaro: non è un caso che la ripresa dei corsi della Borsa di Milano sia stata significativamente inferiore a quella d’oltreoceano.

 

Dal momento che sul nostro listino principale ci sono soltanto 242 titoli quotati, mi sono permesso di paragonare l’indice delle principali 500 società quotate a Wall Street con l’indice di tutte le 242 quotate al MTA. Il divario, soprattutto dopo la ripresa dal crollo, appare evidente dai grafici qui riportati:

 

Ma l’Italia non è soltanto immersa nell’Unione Europea e nella sua divisa unica, (e l’Unione si stima che vedrà il proprio prodotto interno lordo contrarsi di oltre il 10% nel 2020). L’Italia è anche il Paese che meno ha supportato le imprese nella loro ripresa dell’attività, mancando completamente il bersaglio di fornire liquidità, semplificazione e defiscalizzazione di oneri sociali. L’attuale governo, ossessionato dal compiacere il nord Europa nel non aggravare troppo la situazione debitoria, non è nemmeno riuscito nell’obiettivo dichiarato -secondario in tempi di profonda recessione- di ridurre il carico fiscale e contributivo, nonostante una sorta di “liberi tutti” da parte dei capi-bastone del patto di stabilità europeo!

L’ITALIA È MALATA GRAVEMENTE DI RECESSIONE

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non soltanto la recessione galoppa ad un ritmo che, nel migliore dei casi, sarà vicino al -13% su base annua, ma soprattutto è la spesa degli Italiani che si è inchiodata. I dati di Confcommercio segnalano ad Aprile una riduzione dei consumi del 47% e a Maggio una di quasi il 30% (entrambe su base annua). Il risultato è che nel secondo trimestre 2020 il prodotto interno lordo è stimato ridursi del 22% circa su base annua.

 

Se ci aggiungiamo che la risorgenza del virus (seconda ondata, quella che da noi non ha ancora colpito ma altrove sta già facendo molte vittime) sta cancellando ogni residua speranza della stagione turistica di riprendere quota, è evidente che sono “fritte” tutte le imprese italiane che non esportano (e comunque verso un’economia globale che quest’anno dovrebbe fare -5%, il che vuol dire -8% se rapportata alla crescita demografica).

Sono numeri che si ricordano solo in tempo di guerra. E non è detto sia finita, perché non si sa quanti danni all’economia potrebbe ancora arrecare la seconda ondata della pandemia, già presente altrove nel mondo. Ma soprattutto questi dati si confrontano con un immobilismo della Commissione Europea da primato, che non lascia ben sperare. E tutto questo mentre invece la Germania (autonomamente) e soprattutto l’America e l’Asia stanno lavorando alacremente per elaborare risposte importanti alla crisi economica in atto!

Altro mal di testa per l’intera Europa (a parte la risorgenza della pandemia) è ovviamente la debolezza del Dollaro, che rischia di penalizzare ulteriormente le esportazioni, particolarmente importanti per l’economia tedesca ma la penalizzazione della competitività delle esportazioni rischia di danneggiare soprattutto quelle italiane, caratterizzate in media da una politica di prezzo più basso se comparato ale produzioni tedesche.

LA DEBOLEZZA DEL DOLLARO NON AIUTA

Un modo per contrastare la rivalutazione dell’Euro sul Dollaro ci sarebbe: un’accelerazione delle facilitazioni monetarie della BCE, che ovviamente ne indebolirebbero le quotazioni. Ma non soltanto i paesi germanici ne sono sempre stati allergici, bensì c’è anche il rischio che senza adeguate politiche fiscali governative la maggiore liquidità percolerebbe assai poco fino all’economia reale, stazionando piuttosto sui conti bancari a causa della difficoltà per le imprese (senza adeguate garanzie di stato) a contrarre nuovi debiti.

L’altro versante dove la liquidità dei mercati potrebbe riposare è quello dei titoli borsistici ma, in presenza di pessimi risultati economici delle imprese quotate, è probabile che tanta più liquidità verrà pompata dalle banche centrali, quanto più la volatilità dei corsi ne potrebbe risultare aumentata.

LA BUONA NOTIZIA DELL’INDICE IFO

È in questo panorama che la buona notizia della risalita dell’indice tedesco di fiducia dei responsabili degli acquisti (salito a 86,2 punti da 79,7 a maggio e oltre il consensus fissato a 85) è rimasta annegata: l’eurozona rischia di essere semplicemente un passo indietro rispetto all’avanzata della seconda ondata del virus e gli investitori che fanno liquidità sulle borse, prevalentemente internazionali, lo sanno già.

Ovviamente esistono anche considerazioni che vanno in senso opposto alle brutte notizie: le borse dell’intera Europa e in particolare quella italiana hanno ancora spazio per recuperare quota rispetto alle altre borse del resto del mondo, o per perderne di meno in caso di una nuova, brusca frenata dei listini a livello globale. L’argomento è ancora più valido se si pensa che il grosso del nostro listino è ancora prevalentemente composto da titoli bancari e dell’industria “old economy”. Dunque c’è molto denaro a disposizione per le matricole in arrivo, soprattutto se queste, come dovrebbe essere, appartengono a settori vagamente innovativi o ad aziende fortemente propulsive.

CONCLUSIONI

L’ottimismo sui mercati pertanto non dovrebbe pertanto affievolirsi del tutto, quantomeno a causa dell’abbondanza di liquidità che continuerà a inondare i saloni delle contrattazioni borsistiche, magari generando forti ondate speculative ma senza che si possano prevedere grandi crolli. Salvo il fatto eventuale che la nuova ondata di contagi possa costituire un pericolo così grave da riportare il mondo ancora una volta indietro nella storia, costringendo tutti a rivedere al ribasso i propri programmi, e le proprie speranze.

Però c’è solo il dubbio, la certezza invece proprio no: la speranza è concreta che la seconda ondata possa risultare molto meno letale della prima, e che persino il lockdown -se mai tornasse ad essere necessario- sarebbe meno invasivo: qualcosa avremo pur imparato dal trimestre precedente!

Stefano di Tommaso