VALUTARE LE AZIENDE IN TEMPO DI COVID

Le rarefatte transazioni tra acquirenti e venditori d’azienda di questi ultimi mesi incontrano l’ultimo e più aspro degli ostacoli quando, superata finalmente ogni perplessità relativa ai danni che può provocare la recessione in corso a chi resta “aperto” o addirittura a chi scommette sulla ripresa, accantonata ogni perplessità circa le aspettative di durata e gravità della recessione, saltati a pié pari i timori circa le conseguenze in termini di calo dei consumi derivanti dell’aumento della disoccupazione e delle spese sanitarie, essi si imbattono inevitabilmente nel dilemma della determinazione del valore d’azienda e delle condizioni accessorie alla sua compravendita.

 

Il ragionamento più frequentemente ascoltato nelle ultime settimane poggia i suoi fondamenti sull’eccezionalità (è difficile ripetibilità) della situazione contingente: in dottrina le ipotesi di valore debbono prescindere da fattori giudicati eccezionali o difficilmente ripetibili, per asserire che esse si basano sui flussi di reddito “normali” attesi in futuro, sul valore “normale” dei cespiti e degli avviamenti commerciali, sulle transazioni simili e comparabili nel resto del mondo e sui multipli di valore espressi dai mercati finanziari. Ecco un piccolo esempio di fattori “eccezionali” che possono aver influito sul bilancio dell’anno in corso e dai quali bisognerebbe teoricamente prescindere:

FATTORI CORRETTIVI A CAUSA COVID

  • Problemi e ritardi dei fornitori costi legati alle possibili dispute
  • Ordini dei clienti cancellati e opportunità perdute con i medesimi
  • Chiusura o ridotta attività degli stabilimenti produttivi, dei punti vendita e dei servizi generali
  • Problemi con il personale derivanti dalla ridotta sicurezza, o da assenze per contagi
  • Costi aggiuntivi per i responsabili sicurezza, la sanificazione degli ambienti, le barriere sui luoghi di lavoro, i disinfettanti e i termometri obbligatori
  • Costi relativi alla transizione dei dipendenti al lavoro da remoto
  • Perdite economiche o riduzione dei margini derivanti dalla riduzione delle vendite
  • Aumento dell’indebitamento per coprire le esigenze di cassa che ne conseguono
  • Sbilancio patrimoniale derivante dalla minor copertura degli oneri finanziari

Come dire cioè che bisognerebbe prescindere dall’intera sequenza di disgrazie, ostacoli e costi derivanti dalla situazione che viviamo. Ma poi bisognerebbe anche prescindere dalla scarsissima “profondità” e liquidità del mercato delle compravendite aziendali che incide sulla quasi assente offerta di capitali, dal fatto che noi Italiani ci troviamo geograficamente posizionati in uno dei paesi più colpiti al mondo dalla recessione e dalla crisi delle finanze pubbliche. Poi dovremmo prescindere dal fatto che ne conseguono aspettative per il prossimo futuro tutt’altro che rosee, anche laddove la pandemia dovesse scomparire in fretta.


Bisognerebbe forse, ma nessuno può farlo. Innanzitutto perché quasi nessuna azienda è una multinazionale globale con mercati totalmente diversificati, con finanze sempre in ordine e con numerosissimi managers di grande livello che lottano per assicurare le performances. E, non essendolo, quasi ogni impresa dipende moltissimo dalla qualità delle (poche) persone che la conducono: se queste hanno sbagliato in precedenza, è possibile che sbaglieranno ancora. E poi nel 2020 molte tendenze di fondo hanno mostrato una notevole accelerazione, sbaragliando settori economici già in difficoltà e favorendone altri. Dunque alcuni settori mostrano valutazioni basate su multipli migliorati e altri viceversa.

IL 2021 NON SARÀ COME IL 2019

Ma il 2021 non sarà come il 2019 anche perché gli eventi eccezionali lasciano sempre solchi profondi, dei quali bisogna riuscire ad accorgersi e tenerne conto, soprattutto lavorando su quell’unico vero strumento che permette di asserire con un minimo di scientificità il valore prospettico: il piano industriale! E un vero piano industriale tiene conto di quello che -realisticamente- il management è in grado di realizzare, tenendo conto della statistica, delle analisi di mercato, delle tendenze dei costi e delle reazioni della concorrenza.

Per molte imprese italiane il 2021 ad esempio si prospetta assai più povero del 2019, come la crisi del 2009 ha lasciato uno strascico anche per gli anni successivi, ed è altrettanto possibile che problematico sarà anche il 2022: dunque adottare piani e valutazioni d’azienda con previsioni di un andamento aziendale per l’anno prossimo simile a quello del 2019 sembra letteralmente inappropriato, quantomeno nei settori industriali tradizionali e laddove le vendite dipendono di più dall’andamento dei consumi.

Ecco che ne emergono numerose conseguenze in termini di valore d’impresa: quelle più internazionali e che esportano maggiormente possono probabilmente vantare prospettive più solide di quelle che lavorano soltanto sul mercato interno. E dunque migliori valutazioni. Lo stesso vale per le più grandi e per quelle che possono beneficiare di maggior capitalizzazione.

Le perdite in conto economico subìte in molti casi nel 2020 hanno infatti ridotto drasticamente in taluni casi le dotazioni patrimoniali, aumentando la quota di debito e dunque i rischi di default. Dunque la capacità di generazione di cassa sarà la favorita tra tutte le variabili-chiave nella determinazione dei moltiplicatori del reddito e così pure il metodo dei flussi di cassa attesi sarà da privilegiare rispetto ad altri criteri.

MA BISOGNA TENER CONTO DEL CALO DEI TASSI DI INTERESSE

Ma l’anno in corso ha visto accentuata la discesa dei tassi di interesse nominali e il crollo letterale di quelli reali (se, come sembra, un po’ d’inflazione è destinata a risvegliarsi). Questo fa sì che i moltiplicatori del valore (che sono l’inverso dei tassi d’interesse ai quali si scontano i flussi futuri attesi) dovranno tenerne conto e crescere per questo motivo. Ovviamente soprattutto per le imprese di maggiori dimensioni, mentre questo fattore sarà meno importante per le imprese più piccole, dove i fattori di rischio sono prevalenti.

Quindi un’altra cosa che sta cambiando è l’accentuarsi della differenza di valori tra imprese di dimensioni diverse: le maggiori sembrano destinate a guadagnare terreno rispetto alle minori e quelle quotate in borsa rispetto a quelle non quotate, perché beneficeranno maggiormente delle scarse alternative fornite dal reddito fisso all’investimento del risparmio gestito.

“Come si può dedurre dal grafico qui riportato, la quotazione in borsa assicura più elevati moltiplicatori di valore, oltre che visibilità e “liquidità” all’investimento azionario…” chi rileva il controllo di un’impresa quotata (soprattutto se non è costretto a lanciare un’Offerta Pubblica di Acquisto) può contare su una pluralità di alternative qualora dovesse ripensarci e rivenderla. La rarefazione delle compravendite aziendali dovuta alla pandemia genera invece la richiesta di un maggior “premio per l’illiquidità” dell’investimento, e un accresciuto divario tra imprese quotate e non quotate.


Infine una ulteriore nota sull’indebitamento : la pioggia di aiuti e garanzie derivata alle imprese di ogni dimensione dalla pandemia ha reso disponibile negli ultimi mesi della liquidità aggiuntiva anche a quelle che viceversa non avrebbero facilmente ottenuto del credito.

E SE LE FONTI DI FINANZIAMENTO SI INARIDISSERO A CAUSA DELLA RECESSIONE?

Ma le stagioni -anche quelle del credito- si alternano e la “bonanza” non durerà in eterno. Anzi: non è difficile pronosticare nuove difficoltà per il sistema creditizio derivante da una nuova ondata di insolvenze dopo la recessione. Così come non è difficile prevedere che le risorse a titolo di debito che saranno necessarie alle imprese che vogliono tornare a crescere e investire potranno essere più scarse dopo l’attuale congiuntura.


Di queste e di altre “diversità” rispetto al 2019 bisognerà tenere conto nei piani industriali e nelle prospettive che questi delineano: le imprese più capaci di generare cassa o anche soltanto di attingere risorse dal mercato dei capitali incontreranno minori limitazioni al riespandersi del capitale circolante netto, all’esigenza di rinnovo degli investimenti produttivi e alla necessità di espansione internazionale. E le loro valutazioni dovranno rispecchiare tali caratteristiche.

Un interessante rapporto del Cerved calcola che con la crisi pandemica le imprese italiane potrebbero perdere 47 miliardi di euro di capitale, di cui 10 miliardi a causa dei default e altri 37 miliardi a causa della riduzione dei ricavi. Anzi. In uno scenario macroeconomico di previsione severo, questo valore potrebbe crescere fino a 68 miliardi (di cui 19 miliardi a causa di default e 50 miliardi a causa della riduzione di scala).


In definitiva con gli eventi eccezionali dell’anno in corso e con le variate prospettive che ne discendono è divenuto assai più arduo, più complesso, più delicato e meno verificabile il giudizio di valore che un esperto può attestare.

OGNI IMPRESA DEVE PIANIFICARE ATTIVAMENTE IL SUO FUTURO, E ANCOR PIÙ IL SUO VALORE

Ma le stesse considerazioni devono soprattutto orientare gli imprenditori, dal momento che -se vogliono chiamarsi tali e non bottegai, giocatori di poker o commercianti improvvisati- essi devono lavorare al loro piano industriale e alla gestione attiva del valore d’azienda che ne può conseguire onde cercare di costruire tutti i giorni (o almeno evitare di erodere) il valore dell’impresa in cui credono e hanno riversato risorse ed impegno.


L’indeterminatezza degli scenari economici impone di non abbassare la guardia, anzi! Di iniziare ad utilizzare strumenti e metodologie che in passato si adattavano soltanto alle grandi multinazionali, perché la caduta delle barriere geografiche, informative e tecnologiche ha portato la globalizzazione a livelli esasperati. E ha innalzato conseguentemente tanto le opportunità quanto le minacce.

Stefano di Tommaso




L’EUROZONA ACCENTUA I DIVARI

Nonostante sia vero che il prodotto interno lordo dell’eurozona è cresciuto nel terzo trimestre di quasi il 13% rispetto a quello del secondo semestre (in cui era però sceso di quasi il 12% rispetto a quello ancora precedente) è altrettanto vero che le conseguenze delle nuove restrizioni causate dalla pandemia rischiano di arrecare di nuovo grossi danni all’economia europea nell’ultimo trimestre dell’anno: quello iniziato il 1.di ottobre, nel quale tutti si aspettano un’altra contrazione del prodotto interno lordo europeo mentre gli U.S.A., la Cina e buona parte del resto del mondo dovrebbero invece registrare un segno positivo (anzi: il PIL cinese scoppia di salute).

 

L’EUROZONA RIMBALZA NEL 3° TRIMESTRE MA NON COME DOVREBBE

Dopo che si era consolidata una previsione per l’economia europea attorno al -5,5% per il 2020 e una crescita “di rimbalzo” del 4,4% nel 2021, oggi lo scenario si fa più grigio perché non è più così probabile che la pandemia possa terminare nel giro di un paio di mesi.

Non solo, ma le rigidità strutturali dell’industria continentale e, soprattutto, quelle del mercato del lavoro (l’Italia ad esempio ha appena rinviato al nuovo anno la possibilità per le imprese di licenziare i lavoratori in eccesso, di fatto nascondendo la polvere sotto il tappeto), lasciano una grigia prospettiva addosso all’economia europea mentre prevedono che, chiunque vinca le elezioni americane, il prodotto interno lordo americano potrebbe tornare alla quasi-normalità già alla fine del primo trimestre 2021.

LA DEFLAZIONE EUROPEA È UN ALTRO INDICATORE DI PROBLEMI ECONOMICI IRRISOLTI

Passo dopo passo l’Europa sta accumulando con l’America un divario economico, industriale e sociale (le retribuzioni sono in media molto inferiori a quelle di oltreoceano) che non è più soltanto contingente.

Anche l’indice dei prezzi al consumo (grafico qui a sinistra, in forte ribasso rispetto a quello americano, riportato sopra) riflette la situazione di “stallo” dell’eurozona, accelerata dalla pandemia.

 

E questo non può che riflettersi (già oggi, ma ancor più in futuro) nel divario tra America ed Europa che riguarda le valutazioni d’azienda e le quotazioni borsistiche, soprattutto se non arriveranno drastici cambiamenti al sistema di amministrazione europea, che a tutt’oggi non sono affatto in programma. Possiamo allora dedurne che l’Europa è destinata ad un sicuro declino? Non esattamente, o meglio: non tutta l’Europa, come vedremo più avanti.

IL CAMBIO DELL’EURO NON FAVORISCE LE ESPORTAZIONI EUROPEE

Si salvano poche eccezioni tra le imprese europee fortemente esportatrici, che devono tuttavia confrontarsi ugualmente con il robusto corso dell’Euro, anche a causa di un deciso ritardo accumulato dalla Banca Centrale Europea nei confronti della sua omologa americana (la Federal Reserve) nell’erogare facilitazioni monetarie. Se vogliamo chiederci perché ciò avvenga si potrebbe rispondere -facilisticamente- che dipende dall’avversione della Germania per la svalutazione intrinseca della divisa comune, (di cui è l’azionista di maggioranza), ma nel farlo si commetterebbe un’ ingenuità colossale: quella di considerare ottusi i tedeschi!

In realtà il cambio dell’Euro si mantiene più basso di come dovrebbe se la sua bilancia commerciale fosse soltanto tedesca. Dunque alla Germania conviene restare nell’Euro, per “annacquare” gli effetti sulla divisa del proprio sbilancio import/export a favore dell’export. Le ragioni per le quali non vuole però allineare la divisa comune all’andamento del Dollaro sono da cercarsi altrove.

L’ITALIA E’LA PIÙ SVANTAGGIATA DALLA CRISI

Per coloro che nei mesi scorsi hanno invece preso familiarità con i due meccanismi predisposti dalla Comunità Europea (e nemmeno ad oggi davvero pronti) : il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) e il Recovery Fund e con le “condizionalità” che questi si portano dietro, adesso si capisce meglio il gioco delle èlites industrial-finanziarie che tirano le fila dei governi europei filo-franco-tedeschi: evitare che l’intervento massiccio della banca centrale a favore dei suoi membri meridionali renda inutile il ricorso a quegli strumenti e alle “condizionalità” che essi si portano dietro e che sono tanto dare ai paesi “frugali” per moralizzare (e soggiogare) il resto dell’Unione. Condizionalità che permetteranno al nucleo duro del governo europeo di tenere di fatto sotto schiaffo le economie dei paesi più deboli impedendone la fuoriuscita “all’inglese” anche quando i partiti che sorreggono gli attuali governi filo-franco-tedeschi dovessero perdere la maggioranza !

CRESCONO I DEBITI DEI PAESI DEBOLI VERSO I PIÙ FORTI

Secondo l’interpretazione sopra riportata il divario economico che l’Europa sta scientemente lasciando che si crei con il resto del mondo è probabilmente il “prezzo da pagare” affinché l’Unione Europea venga cementificata con il debito dei suoi membri più deboli nei confronti di quelli più forti. Si starebbe creando -insomma- tra i paesi forti e quelli deboli dell’Unione un altro divario, questa volta interno: di ricchezza, di autonomia legislativa e di funzionalità della pubblica amministrazione che -entro certi limiti- sarebbe visto con favore dalle èlites al comando, al fine di solidificare l’attuale assetto politico comunitario.

CRESCE ANCHE IL DIVARIO CON LA CINA

Ma il divario più pericoloso l’Eurozona lo “starebbe” accumulando con la Cina, che accelera da un lato la sua crescita e la sua influenza sull’Unione, e dall’altro amministra con quest’ultima l’interscambio di importazioni/esportazioni decisamente a proprio favore, senza che alcuna pressione venga fatta ufficialmente dalla Commissione Europea. Il condizionale è tuttavia d’obbligo perché sembra proprio che altre “pressioni” di carattere strettamente informale e riservato, vengano invece fatte da Germania e Francia, esclusivamente a loro favore.

Non è un mistero infatti il legame economico e finanziario profondo che unisce la Cina in particolare con la Germania, e il fatto che le esportazioni di macchine e impianti tedeschi, -così come le numerosissime sedi cinesi delle industrie tedesche- siano state fondamentali per lo sviluppo economico della Cina.

 

LA GERMANIA OTTIENE PER SÈ DALLA CINA UN MIGLIOR TRATTAMENTO

La Cina rappresenta una minaccia economica per qualunque altra economia nel mondo, ma indubbiamente conviene tanto a lei quanto alla Germania fare accordi che favoriscano solo quest’ultima per ottenere in cambio un rapporto commerciale a proprio vantaggio nei confronti dell’Unione nel suo complesso. Con qualche sfumatura diversa si può affermare che ciò accade anche per la Francia.

GLI IMPRENDITORI SONO COSTRETTI A EMIGRARE

Alle imprese e agl’imprenditori “de’noantri” non rimane che farsene una ragione perché, se anche l’intera nostra penisola va a rotoli, resta sempre loro la possibilità di spostare oltralpe la sede legale, i propri rapporti bancari e il centro dei propri interessi, lasciando pur sempre al di sotto di una certa latitudine fabbriche, inquinamento, sanità e previdenza sociale precari, in linea con il minor costo di ruoli aziendali meno qualificati.

Se così sarà allora probabilmente i ruoli di comando dovranno invece essere ricoperti da stranieri o da italiani che avranno studiato e si saranno trasferiti nel nord Europa e che masticano le lingue straniere molto meglio dei loro genitori, se vorranno essere protagonisti. D’altra parte è esattamente ciò che sta già accadendo da un bel po’ di anni alle nuove generazioni delle famiglie di quasi tutti i miei conoscenti. Senza troppe illusioni sulla possibilità di invertire la tendenza in corso.

IL CALO TURISTICO COLPISCE SOPRATTUTTO IL MEDITERRANEO


Mentre la pandemia sta facendo diventare molto più economico e conveniente considerare le nostre colline, montagne e spiagge come i posti ideali dove venire (dal nord Europa) a passare il fine settimana o le vacanze programmate, una volta terminato l’allarme generale. Il nostro turismo cioè sembra destinato ad una sostanziale svendita, a favore di chi può comperarselo, anche a causa del colpo mortale inferto dal virus.

Di seguito una preoccupante statistica sulle presenze alberghiere nel periodo Gennaio-Agosto 2020/2019


Forse è anche per questo che i “ristori” pubblici alle imprese turistiche, alberghiere e di servizi sono stati così risicati: adesso che sono quasi tutte indebitate fino al collo e in vendita, valgono infinitamente meno e possono essere comperate dagli stranieri. È la cosiddetta “nuova normalità”, solo che è difficile affermare che ce la siamo scelta noi!

Stefano di Tommaso




COME AFFRONTARE LA SECONDA ONDATA?

Come cambia lo scenario economico e finanziario globale con la recrudescenza della pandemia? Chi vince e chi perde? Dove investire e cosa fare con le imprese in crisi? Proviamo ad analizzarlo insieme ma con una certezza sempre più forte: adesso lo scenario può cambiare parecchio, eccome!

 

MILANO PERDE, IL NASDAQ VINCE

Da inizio anno l’indice principale della Borsa Italiana, il FTSE MIB, ha perso più del 20% del proprio valore, cadendo rovinosamente quando è arrivato il lockdown e riprendendosi assai stancamente quando la paura sembrava essere passata.
Nello stesso periodo (da inizio anno) la borsa americana telematica dei titoli più tecnologici -il NASDAQ- è invece cresciuta quasi del 30%, segnando perciò una miglior performance di quasi il 50% relativamente alla borsa di Milano.

A livello globale i titoli azionari di maggior capitalizzazione (indice MSCI WORLD) sono andati assai meglio di Milano, ma nel loro complesso hanno di poco superato la parità (+4,5%) da inizio anno ad oggi, perché in realtà la loro è la classica “media del pollo” di Trilussa (se tu hai 2 polli e io nemmeno uno per la statistica abbiamo un pollo a testa).

La morale di queste divergenze è perciò assai semplice nella sua sintesi sebbene infinitamente complicata da mille fattori distorsivi a livello analitico:

 

 


quando accadono cose come quelle che osserviamo in questo disgraziatissimo anno bisestile ci sono titoli, settori e zone geografiche del pianeta che rispondono molto meglio di altri alla sfida dei tempi. E le borse non fanno che riflettere tali diversità.

MA I MERCATI FINANZIARI SI ADEGUANO PRIMA DELL’INDUSTRIA

I mercati finanziari a livello globale stanno dunque rispondendo piuttosto bene allo choc da recessione improvvisa (e ora anche ripetuta), mentre ci sono settori dell’economia reale che, indubbiamente, stanno soffrendo molto più di altri i timori di contagio e le limitazioni agli spostamenti della gente. Peggiore è invece il mercato dei capitali italiano, che sconta una limitata liquidità dei titoli, la costante fuga dei capitali verso l’estero e il fatto che gran parte dei settori economici rappresentati dai titoli quotati sono di tipo tradizionale.

Ci sono taluni comparti industriali che, viceversa, stanno guadagnando dalla situazione pandemica, vuoi per oggettiva loro necessità (tutto il settore medicale e farmaceutico, ad esempio) vuoi per il cambiamento delle modalità di consumo (a casa e non in strada, digitale e non meccanico, più alimentare e meno discrezionale), vuoi infine per i timori di disoccupazione o di riduzione del reddito disponibile con il conseguente calo dei consumi.

Per non parlare della transizione dei consumi correnti verso nuove necessità domestiche (ivi compreso il consumo di energie da fonti rinnovabili), verso la nuova elettronica di consumo (quella informatica, principalmente) e verso la prevenzione dalle malattie. Due fattori che non potranno che proseguire agendo da fattori di cambiamento delle abitudini pregresse, non soltanto in funzione delle necessità del momento.

Anche verso i protagonisti di queste tendenze i mercati finanziari -che sono per definizione globalizzati e iper-reattivi- si sono spinti prima di altri, riducendo la loro esposizione verso i settori tradizionali. Ed è anche per questo che le borse stanno soffrendo meno di quanto soffra l’industria per la crisi economica che invece attanaglia l’economia reale e in particolare i consumi individuali e i settori più tradizionali.

“CAVALCARE” LA TIGRE DEL VIRUS

Per le imprese beneficiate dall’opportunità di prosperare nella situazione attuale però la pandemia non è comunque una passeggiata di salute: la vera sfida per queste ultime è quella di riuscire a organizzarsi per funzionare efficientemente, e soprattutto di trovare capitali e molto coraggio per “cavalcare la tigre” e investire nonostante lo scenario negativo. E non è mai facile.

Per quelle colpite dalla disgrazia di subire invece la crisi, cioè il calo del fatturato e/o delle limitazioni esterne alla normale operatività, la sfida è assai più ardua: si può riuscire a resistere alla caduta degli incassi solo investendo per restringere i costi e le sovrastrutture, per vendere altrove e per stimolare la domanda con azioni mirate. Ma bisogna trovare i capitali per farlo -nonostante le previsioni non rosee e la diminuita valutazione aziendale- e non sono mai scelte facili o sicure.

Ma ciò non è probabilmente sufficiente in casi -come quello che stiamo vivendo- di prolungamento della crisi: con il calo, dei fatturati molte delle imprese colpite dalla pandemia dovranno decidere aggregarsi tra loro (cosa che spesso significa riuscire comperare le proprie concorrenti o decidere di esserne acquisite, perché le fusioni tra pari sono molto rare). Ma spesso non c’è alternativa: occorre agire per non farsi soffocare dai costi fissi e per riuscire nel frattempo a finanziarsi per superare il momento, oltre ovviamente ad affrettare la ricerca strategica di nuove e più adeguate modalità di fare business, nuovi e inesplorati mercati, o nuovi settori collaterali al proprio, con i quali arrivare a colmare il divario delle vendite.

Ovviamente, per queste ultime imprese, è ancora più arduo trovare il coraggio di investire nel pieno della tempesta (quando la visibilità è scarsa), il coraggio di affrettare le decisioni difficili, di adeguare le proprie strategie e strutture ad un ambiente più rarefatto e meno facile da interpretare, soprattutto poi se sono localizzate in un Paese che sembra non accorgersi delle accresciute difficoltà di lavoro e che, invece di venire loro incontro, impone ugualmente ulteriori regole e limitazioni a chi vuol evitare di chiudere bottega.

MA IL VERO BOOM È QUELLO DELLA DIGITALIZZAZIONE !

Si è detto dunque che bisognerebbe comunque investire, efficientare, internazionalizzare, Ma -più di ogni altro ragionamento- riprende con forza, ora che una terribile seconda ondata pandemica spaventa tutti, la necessità di affidare le proprie vendite al mercato online, l’operatività corrente alle tecnologie digitali e al tele-lavoro, la produzione di beni e servizi alle infrastrutture informatiche, le riunioni, le consulenze e le relazioni con il resto del mondo alle telecomunicazioni, ovviamente ciò vale per coloro che possono permettersi di farlo, di investire anche su questo e di rispondere in tempo reale al mutato scenario e al fatto che la concorrenza può arrivare da molto lontano.

Il commercio elettronico è quindi il vero “game-changer” ed è anche la sfida più severa, perché non potrà che aumentare nel tempo e proseguire nello strappare quote di mercato alla distribuzione tradizionale.

Questo significa altresì che la maggior dimensione aziendale è senza dubbio premiata rispetto alla piccola e alla piccolissima, e che la dimensione internazionale è favorita rispetto ad una struttura localizzata soltanto in un Paese.

L’ASIA SOPRAVANZA L’OCCIDENTE

Significa anche avere un grosso vantaggio se si è già operativi in estremo oriente, dal momento che quella parte del mondo sembra al momento aver scansato quasi del tutto la seconda ondata del virus e sembra più che mai trainata da un’economia cinese che riesce a crescere nonostante la recessione. Ma la Cina h anche un altro vantaggio: l’incremento delle vendite sul proprio mercato interno. Una intera generazione di nuovi cinesi benestanti (si stima che nel totale esso ammontino a 288 milioni) si appresta ad accrescere i consumi e questo, soprattutto, sembra accadere più che proporzionalmente alla crescita del prodotto interno lordo.

La Cina è anche il maggior protagonista delle esportazioni tramite vendite online al resto del mondo, e fa da traino per tutti i paesi limitrofi anche con il proprio indotto industriale.

In questo contesto i capitali si spostano alla velocità della luce e stanno premiando in tempo reale le imprese asiatiche per i migliori risultati, ma anche per la miglior possibilità di crescere e trovare i finanziamenti per farlo.

MA IN OCCIDENTE SI CONTERÀ DI PIÙ SUGLI AIUTI PUBBLICI

In Occidente invece i finanziamenti -se escludiamo quelli assistiti da garanzie e sostegni statali- risulteranno assai meno disponibili nelle zone geografiche (sud Europa e sud America) e nelle industrie più danneggiate (quelle tradizionali, di servizi, del turismo, dell’abbigliamento e degli accessori), anche perché le fonti di raccolta dei depositi bancari in territori come il nostro si assottigliano al di fuori delle banche centrali. E se le banche avranno meno quattrini da prestare è più fallimenti cui far fronte, dovranno contare di più sui finanziamenti delle banche centrali ma ridurranno ugualmente il moltiplicatore del credito e la liquidità in circolazione.

E qui veniamo al punto più dolente: la deriva globale in atto porta le amministrative pubbliche occidentali (per i più vari motivi) a intervenire a difesa di privati e imprese, ma così facendo l’economia è portata a dipendere più di prima dagli interventi di stato, rimane condizionata da straripanti (e irripagabili) debiti pubblici, e soprattutto sarà caratterizzata dalla più o meno irrefrenabile propensione delle banche centrali alla stampa di denaro fresco. Cosa che ovviamente prima o poi produrrà effetti collaterali, a partire dall’impennata dei prezzi nominali di oro e altri preziosi, di beni rifugio e forse sinanco di public utilities, immobili e infrastrutture di altro genere (quelle per le telecomunicazioni e i data-centers, ad esempio).


NON L’INFLAZIONE MA ALMENO IL “DE-BASING” DELLE VALUTE

Due tendenze di fondo quindi se ne deducono e probabilmente non potranno restare ignorate nemmeno in futuro: la prima è la necessità di maggior collaborazione tra qualsivoglia operatore economico e la macchina politica e amministrativa, visto che da quest’ultima provengono (e proverranno) grandi sussidi ma anche maggiori interferenze e, di riflesso, anche con il sistema bancario, sempre più beneficiario (ma anche dipendente) dagli incentivi e dalle garanzie di stato; la seconda è l’inevitabile conseguenza del “de-basing” delle valute di conto, dal momento che la loro stampa straripante non può che determinare nel tempo una riduzione del potere d’acquisto delle maggiori divise di conto, anche se non necessariamente dell’inflazione, la quale resta un concetto dai contorni squisitamente politici ed è manovrabile quasi a piacere da chi amministra le statistiche.

Il concetto inflazione è infatti quasi sempre riferito al livello di prezzi al consumo di un paniere di beni di necessità per l’uomo della strada, mentre non contempla né l’impennata dei prezzi di tutti i beni di scarsa reperibilità (ivi compresi i preziosi, gli oggetti e gli immobili di lusso, e gli alimentari non “standard”) né la discesa costante dei prezzi dei manufatti industriali e tecnologici, a causa della sempre maggior efficienza dei canali distributivi e delle economie di scala e di esperienza delle produzioni sempre più automatizzate. Un buon metro invece per misurare la perdita di potere d’acquisto delle principali valute è la misura del prezzo dell’oro:

Difficile perciò è fare previsioni sull’inflazione (senza stare a lungo a specificare e precisare) ma quasi ovvio è invece tener conto del progressivo “svuotamento“ del valore intrinseco delle principali unità di conto del denaro circolante (e dunque non soltanto del Dollaro, che anzi potrebbe riservare sorprese, ma anche dell’Euro e dello Yen). Uno “svuotamento” che con ogni probabilità è soltanto appena iniziato e proseguirà a lungo man mano che l’economia globale riprenderà vigore e , con essa, la velocità di circolazione della moneta nonché il “moltiplicatore del credito”, oggi a terra entrambi.

I risparmiatori dovranno tenerne conto perché, al pari dell’inflazione, quello “svuotamento” di valore saccheggerà le loro riserve per la vecchiaia. Dovranno spostarsi più velocemente verso altri tipi di investimento e, probabilmente, di nuovo verso i beni-rifugio.

LA PIÙ GRANDE “I.P.O.” DELLA STORIA SARÀ CINESE

Dal punto di vista degli investimenti vien da sé pertanto il privilegiare innanzitutto i mercati asiatici, anche perché l’afflusso dei capitali in quella direzione lì tonifica ben al di là delle performances reddituali delle aziende che essi rappresentano. Non è un caso che la più grande operazione di collocamento azionario della storia stia per avvenire i questi giorni in Cina, a favore di un operatore attivo nel pagamenti digitali (la ANT FINANCIAL) e collegato tanto alle telecomunicazioni quanto al commercio elettronico (ALIBABA): si parla di una raccolta di denaro fresco da 30 miliardi di dollari!

Mentre in ottica di medio termine sembra relativamente sconsigliabile investire in titoli di stato (persino americani) dal momento che facilmente i debiti pubblici che essi rappresentano saranno il più possibile “monetizzati”, cioè acquistati dalle banche centrali che stamperanno denaro per farlo, svalutandone il contenuto intrinseco, come peraltro è già successo in Giappone (una volta si diceva “in America lo fanno da anni” e valeva per qualsiasi cosa, ma tempo per il futuro che si arriverà a dirlo per la Cina).

Dal punto di vista invece delle scelte degli industriali e degli altri operatori economici il discorso è più complesso, dal momento che l’aspettativa di una rapida ripresa dell’economia reale -nutrita durante i mesi più bui della prima ondata- sembra oggi allontanarsi di nuovo e per motivazioni più profonde: più che il calo dei consumi sembra il loro spostamento verso altri settori a prevalere e a condizionare (non si capisce quanto stabilmente) le dinamiche future.

NON RINVIATE LE SCELTE: IL VIRUS E’ UN ACCELERATORE

Dunque chi sperava di poter rinviare “sine die” la ristrutturazione delle proprie attività, il loro efficientamento e la loro crescita verso una dimensione globale, sperando ancora in un rapido ritorno alla “normalità”, dovrà da adesso in poi iniziare a ricredersi, e di conseguenza accelerare la programmazione urgente di scelte assai più impegnative. Quasi chiunque dovrà ristrutturare di conseguenza il proprio business, la propria struttura organizzativa, le modalità di lavoro, e sinanco qualora al momento il problema non sembri urgente dal punto di vista finanziario, magari anche grazie a garanzie e incentivi pubblici (che non potranno -questi no- proseguire in eterno), dovrà farlo ugualmente, e anche con una certa urgenza.

La pandemia -si è detto- è soprattutto un acceleratore degli eventi: guai a farsi trovare impreparati di fronte a nuovi scenari e nuovi mercati, perché quelli vecchi potrebbero non tornare quasi più, mentre quelli nuovi potrebbero essere stati già occupati dalla concorrenza!

Stefano di Tommaso




IL COVID PUÒ INNESCARE UNA NUOVA RECESSIONE IN EUROPA?

L’economia europea non ha reagito molto bene alla prima ondata del virus: l’economia ha subìto una flessione importante ‘nella prima metà del 2020, ma poi ha performato relativamente bene nel terzo trimestre, mostrando segni di speranza tanto nei consumi quanto per le esportazioni. Ora però il quadro rischia di volgere di nuovo al brutto, dal momento che una nuova fase di virulenza sembra costringere quasi tutto il vecchio continente a decise restrizioni della circolazione delle persone, accentuando le conseguenze negative dei pregressi problemi di rigidità e divisioni all’interno dell’Unione.

 

E dopo così poco tempo dopo la prima devastante frenata dell’economia, una seconda potrebbe portare con sé inevitabili conseguenze nefaste per il prodotto interno lordo dell’Unione Europea, ma ancor più per le aspettative degli operatori economici, che sino a ieri erano date per decisamente positive nell’anno che verrà.

LE PREVISIONI DEL F.M.I.

Cruciale, per comprendere la vera posta in gioco al momento, la tabella rilasciata poche ore fa dal Fondo Monetario Internazionale relativamente alle previsioni di crescita (o decrescita) dell’anno in corso e del prossimo:


A parte il fatto che, con le ultime restrizioni e con gli ultimi decreti, il -10,6% italiano previsto per fine 2020 rischia di ritornare ad essere più vicino al -13% precedentemente ipotizzato, ma il vero problema sta proprio nelle aspettative che, come si può leggere qui sopra, erano fino ad oggi decisamente ottimistiche per la ripresa economica nel 2021. Il 75% dei posti di lavoro dell’Unione a 19 Stati è infatti legato alla fornitura di servizi (da quelli turistici e di intrattenimento sino a quelli per la cura della persona) ed è intuitivo che saranno questi di nuovo i primi ad essere colpiti dai “coprifuoco” serali e dalle nuove restrizioni imposte per motivi sanitari.

Sulle aspettative di rapida e decisa ripresa riportate nella tabella del FMI anche il mercato finanziario aveva trovato una stabilizzazione dei corsi e, anzi, sinanco nuovo ottimismo, come dimostra una recente indagine del Wall Street Journal tra i gestori di patrimoni, dove si evidenza che la maggioranza di questi è decisamente rialzista per i prossimi 12 mesi. E se tali aspettative oggi dovessero venir disattese a causa della nuova ondata e del ritardo con cui sembrano destinati ad arrivare sul mercato i vaccini, allora la musica potrebbe cambiare parecchio anche sui mercati finanziari.

E QUELLE DEGLI ECONOMISTI EUROPEI

Il Financial Times infatti ha pubblicato i risultati di un sondaggio tra gli economisti europei che mostra una tendenza molto limitata alla crescita per il 2021:


È L’ITALIA CHE NE SOFFRE MAGGIORMENTE

Una vera e propria doccia fredda per le valutazioni d’azienda e, di conseguenza, per le prospettive dei mercati azionari continentali, che dovranno essere riesaminate alla luce delle più magre prospettive. Ma per il ns. paese, la cui economia è basata sulle esportazioni e sul turismo, è forse ancora peggio.

In Italia l’indice destagionalizzato delle attività economiche di IHS Markit (che misura le aspettative degli operatori economici) comincia a segnalare l’allarme! Ha registrato infatti a Settembre il valore di 48.8, appena superiore al 47.1 di Agosto ma molto al di sotto della neutralità (50.0), mostrando una produttività del settore terziario ancora in contrazione. La risposta è probabilmente nel grafico che segue, vista la forte dipendenza del ns. paese dal turismo.


Ma non è finita, dal momento che si pensava che la combinazione del pacchetto di facilitazioni monetarie (acquisto titoli di stato e obbligazioni) da 1350 miliardi di euro della Banca Centrale Europea, sommato all’annuncio del cosiddetto “Recovery Fund” che avrebbe invece sospinto le “politiche fiscali” degli stati europei più deboli, sembrava avrebbe potuto scongiurare definitivamente la prospettiva di deflazione dei prezzi nell’area euro.

RISALE IL RISCHIO DI DEFLAZIONE

Ma adesso anche questa certezza sta venendo meno: con il nuovo scenario l’ammontare stanziato dall’autorità monetaria sembra oramai del tutto insufficiente (nonostante il fatto che nulla di diverso è sinora stato deciso ai vertici della BCE), mentre l’erogazione dei 750 mln del Recovery Fund, già pochini se rapportati all’intervento del governo americano a sostegno dell’economia, oggi rischia anche di essere ulteriormente rinviata a non prima della fine del 2021, a causa delle forti divisioni emerse nelle ultime ore tra i membri dell’Unione Europea.

Quindi una nuova prospettiva di recessione, insieme al rischio sempre più palpabile di non riuscire a contrastare la tendenza alla deflazione monetaria (che va a braccetto con l’eccessiva forza dell’Euro e a sua volta dovuta anche al calo del cambio del Dollaro, che riduce la competitività delle esportazioni europee), rischia di guastare completamente la festa ai “money manager”, che pensavano di poter limitare gli sforzi entro la fine dell’anno mantenendo le posizioni in essere e archiviando una performance delle borse niente male rispetto ai rischi affrontati ai tempi della prima ondata.

IL DECLINO DELL’EUROPA CONTRASTA CON LA CRESCITA ASIATICA

Il 2021 poi vedrà alcune importanti tornate elettorali (come le politiche tedesche) che fanno pensare improbabili nuovi passi in avanti nella solidificazione e armonizzazione delle politiche fiscali europee, con il risultato che gli squilibri, anche in termini di P.I.L. non tarderanno a proseguire.

La gravità della situazione da un lato e l’imminenza delle nuove elezioni potrebbero dunque irrigidire ulteriormente le resistenze degli stati più ricchi dell’Unione al processo di compattamento dell’Unione Europea, perpetuandone i numerosi errori di politica monetaria che stanno creando un divario sempre maggiore con le economie asiatiche: è notizia fresca l’accelerazione imposta dalla Cina alla propria economia nell’ultimo mese (Settembre) rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (+4,9%).

L’Euro-zona permane dunque in uno stato di problematica incompletezza del processo di unificazione politica ed economica proprio mentre la nuova ondata pandemica mette in ginocchio le sue economie più deboli. Dunque la risposta è sì: la seconda ondata pandemica può innestare una nuova recessione in Europa, e la motivazione sta proprio in quella costruzione politica incompiuta.

Ed è del tutto evidente che ciò non può durare in eterno: in assenza di iniziative di rilievo da parte dei vertici dell’Unione, prima o poi i legacci monetari e finanziari che tengono insieme i suoi 19 membri (quasi gli unici, ad oggi) si sfalderanno, a meno che non intervenga una nuova volontà unificatrice, cosa che però al momento non è dato di scorgere, nemmeno al più lontano orizzonte.

Stefano di Tommaso