I NUMERI SONO MALEDETTAMENTE TESTARDI

È il Centro Studi Confindustria (CSC) che si è incaricato, sabato scorso, di lanciare il sasso nello stagno: mentre tutti si riempiono la bocca con i contributi europei del 2021, se mai arriveranno, l’economia italiana torna indietro di 23 anni e precipita più in basso di almeno il 10% (in realtà questo numero è ancora sottostimato: si vedano i miei articoli del 1 Agosto e del 24 Agosto). L’offensiva mediatica governativa insomma non inganna gli imprenditori, che denunciano l’assenza di validi programmi e molti timori per la seconda metà dell’anno.

 

L’OTTIMISMO DI GUALTIERI

Hai voglia a far parlare il ministro Gualtieri di incentivi all’automazione e di prospettive di ripresa per il 2021: i numeri dell’economia reale purtroppo sono maledettamente testardi. Confindustria vede invece prevede già il quarto trimestre 2020 “in rallentamento”, a differenza di quanto proclamato dall’esecutivo. “Stiamo iniziando a vedere un calo degli ordinativi, una ripresa che non sarà a ‘V'”, ha spiegato Carlo Bonomi durante la presentazione del rapporto del Centro studi. “Tutti i vagoni devono correre”, ha aggiunto commentando la lenta ripresa della produzione industriale.

P.I.L. -10%, EXPORT -14%, INVESTIMENTI -16%, OCCUPAZIONE – 10%

Tra l’altro le previsioni del CSC non si limitano al P.I.L. : per l’anno 2020 si delinea un tracollo senza precedenti dei consumi delle famiglie italiane, una battuta d’arresto degli investimenti del 15,8% e un calo dell’export del 14,3 per cento. Per quanto riguarda i fondi Europei, Bonomi dice la sua:


Il problema non è dei fondi ma del come si utilizzano. Se per fare un’opera pubblica serve il triplo della spesa rispetto ad altri Paesi…”.

Ad esempio, lo scorso Venerdì Fitch ha pubblicato una serie di rapporti dedicati all’andamento economico di varie regioni del mondo tra cui l’Italia.

 

 

Ebbene, dei soldi messi a nostra disposizione dal Fondo europeo per gli investimenti strutturali nel piano 2014 – 2020, l’Italia ne ha usati solo il 40%. Gli altri sono rimasti inutilizzati.

CSC ha poi precisato che il 2020 vedrà anche quasi mezzo milione di posti di lavoro perduti, oltre alla chiusura di moltissime attività economiche. Ma i numeri relativi alla Cassa Integrazione Guadagni (CIG) sono addirittura peggiori: la CIG sta ammortizzando un impatto dell’emergenza Covid sull’occupazione pari nel 2020 a 2,45 milioni di Ula (“unità”equivalenti a posti di lavoro a tempo pieno) cioè il -10,2% di tutta la forza lavoro.

IL CALO DELL’OCCUPAZIONE…

È difficile prevedere quante di quelle persone oggi in CIG torneranno effettivamente al lavoro nel 2021, perché la domanda di lavoro tornerà sì probabilmente a salire, ma sarà molto inferiore ai licenziamenti (solo +4% le ‘Ula’ previste nel 2021). Dunque non abbastanza da arrestare il calo di occupati. Si prevede insomma che i posti di lavoro si contrarranno anche nel 2021, di altre 230.000 unità.

Al di là della necessaria diplomazia, insomma, il lancio del guanto da parte degli industriali consiste nello sfidare il governo a elaborare stavolta valide riforme e programmi sostanziali, soprattutto se arriveranno finanziamenti per 200 miliardi dalla comunità europea. Anche un gatto morto infatti rimbalza al termine di una caduta dall’alto, ma il PIL italiano dopo la piccola ripresa del terzo trimestre rischia di puntare di nuovo in basso, tanto per l’incertezza quanto per il peso della tassazione.

… E NUOVE TASSE

Purtroppo però il ministro dell’economia ha deluso gli industriali anche dal punto di vista della politica fiscale: niente incentivi fiscali se non agli investimenti ESG. La legge di bilancio in corso di approvazione infatti sarà ancora più penalizzante per i redditi più elevati (come se la loro tassazione fosse stata bassa) con il risultato che incentiverà ancora una volta la fuga dei capitali e dei cervelli, oltre a rendere più costoso il ricorso ai motori a combustione di fossili, come diesel e benzina. Senza contare l’ulteriore giro di vite nei controlli ipertecnologici anti-evasione. Così come è risultato poco incoraggiante il Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza, che sarà presentato solo nello “scheletro” a Bruxelles il prossimo 15 Ottobre assieme alla manovra per descrive i progetti di riforma e l’investimento: non concluso per divisioni interne alla maggioranza.

AUMENTA LA DIPENDENZA DALL’UNIONE EUROPEA…

Ma soprattutto ciò che sembra ormai certo è che -molto probabilmente- per soddisfare il debito pubblico in scadenza crescerà la dipendenza del nostro Paese dalle istituzioni europee: secondo l’osservatorio sui conti pubblici italiani guidato da Carlo Cottarelli, per l’anno in corso il fabbisogno lordo di finanziamento è previsto a 494 miliardi, di cui 316 di titoli in scadenza e 178 di deficit: BCE/Banca d’Italia e il fondo SURE dovrebbero assorbirne la metà, 252 miliardi, di cui 225 miliardi dalla BCE/Banca d’Italia. Conseguentemente, il debito in rapporto al Pil sarà detenuto da istituzioni europee per 37 punti percentuali (il 23 percento del debito totale), mentre i restanti 121 dai mercati finanziari.

GLI INDICATORI DI FINANZA PUBBLICA PER IL ‘20 E ‘21SECONDO COTTARELLI


QUASI 500 MILIARDI DI FABBISOGNO PUBBLICO NEL 2021

Per il 2021, il fabbisogno di finanziamento è stimato in 495 miliardi, di cui 372 di titoli in scadenza da rinnovare e 123 miliardi di ulteriore deficit. L’ammontare preciso di titoli che sarà assorbito dalla BCE dipenderà da decisioni di politica monetaria ancora non prese.

Tuttavia le dichiarazioni della presidente della BCE Christine Lagarde fanno supporre che la situazione deflazione perduri fino a fine 2021 e che gli acquisti di titoli di stato continueranno anche oltre la scadenza attuale del programma PEPP (giugno 2021). Ne deriva che anche per il 2021 quasi la metà del fabbisogno (43 per cento) sarà finanziato dalle istituzioni europee, in particolare: 190 miliardi tramite titoli già posseduti dalla BCE e nuovi acquisti nell’ambito del programma PEPP, 25 miliardi dalle risorse del Next Generation EU (che si compone di due strumenti: la Recovery and Resilience Facility e il React EU: il supporto all’Italia è composto da sovvenzioni, cioè somme a fondo perduto di cui dovrebbe ricevere circa 65 miliardi tramite RRF e 10 dal React EU, e prestiti di cui l’Italia dovrebbe ricevere circa 128 miliardi; le sovvenzioni non aumentano deficit e debito, in quanto a fondo perduto, mentre i prestiti andranno a ingrossare il debito pubblico).

…E ARRIVA IL M.E.S.

Il restante 57 per cento dovrà essere raccolto sui mercati finanziari, che finanzierebbero in tal modo circa 281 miliardi del fabbisogno per il 2021. L’eventuale ricorso al MES -non menzionato nella Nadef (Nota di aggiornamento al Documento Economico Finanziario: è un documento che il Governo italiano presenta alle Camere entro il 27 settembre di ogni anno per aggiornare le previsioni economiche e finanziarie del DEF in relazione alla maggiore disponibilità di dati ed informazioni sull’andamento del quadro macroeconomico e di finanza)– diminuirebbe la necessità italiana di finanziamento sul mercato di circa 7 punti percentuali (36 miliardi in meno).


Stefano di Tommaso




RISK-OFF

Se il Presidente dei presidenti e la sua First Lady sono rimasti infettati nonostante l’imponente cintura di sicurezza che gli si stringeva attorno, allora questo vuol dire che la temutissima “Seconda Ondata” del virus è forse in arrivo in tutto il mondo, con conseguenze economiche e sociali che si possono prevedere solo in parte. Non ci sono infatti soltanto timori di fame e devastazioni derivanti dalla possibilità di nuovi lockdown, ma anche nuove opportunità, nuove tendenze e, ovviamente, ulteriore cautela.

 

Questa in estrema sintesi la tesi prevalente sui mercati, e ciò non significa necessariamente che, in caso di una devastante seconda ondata pandemica, i mercati finanziari subiranno un’altra batosta (ma nemmeno ai tempi della prima ondata l’avevano subìta immediatamente: è servito quasi un mese di tempo perché ogni titolo andasse giù, prima di risalire più di quanto era sceso), ma significa quasi certamente che nuove tempeste di volatilità potrebbero fare la loro comparsa.


PERCHÉ I LISTINI AZIONARI POTREBBERO RESTARE ALTI

I motivi di cautela circa l’impatto negativo della nuova impennata dei contagi sono davvero numerosi:

  • Il fatto che essi stessi provocheranno quasi certamente nuovi interventi di supporto (finanziamenti alle banche, immissioni dirette e indirette di liquidità, ennesimo quantitative easing) da parte delle banche centrali;
  • La possibilità di nuove politiche di supporto agli investimenti infrastrutturali da parte delle amministrazioni governative, spaventate dal rischio di una nuova, pesante recessione;
  • Il risultato degli ultimi rilevamenti sui prezzi che indicano il secondo mese consecutivo di “deflazione” di fatto in Europa e quindi c’è quasi certamente da attendersi una nuova fase di acquisti di titoli a reddito fisso sul mercato aperto da parte delle medesime banche centrali, con conseguente ulteriore discesa dei tassi d’interesse;
  • Il fatto che gli investitori torneranno a selezionare allocazioni di portafoglio più prudenti e più “liquidabili” in caso di nuova corsa alle banconote e ai beni rifugio;
  • La possibile ulteriore discesa della velocità di circolazione della moneta che presumibilmente forzerà al ribasso anche le quotazioni immobiliari e il ruolo della speculazione (notoriamente alimentata dal credito);
  • Il possibile ritorno in gloria di tutto il comparto industriale che ruota attorno alle tecnologie digitali, medicali e alimentari.

Tutto ciò dovrebbe “di norma” sospingere gli acquisti di titoli azionari, tanto per il moltiplicatore delle valutazioni che dovrà tenere conto dei nuovi minimi nei tassi di interesse (innalzandole dunque) quanto per la possibilità che le imprese più solide invece possano distribuire un dividendo, mentre nel reddito fisso esso sembra oramai scomparso. E se gl’indici delle borse ne risulteranno confortati, allora il mercato dei capitali potrebbe trarne nuovo vigore e proseguire la sua navigazione più o meno fortunata (ivi compresa la partecipazione alle quotazioni in borsa delle imprese più innovative) osservata durante quasi tutto l’anno corrente.


LA PANDEMIA È UN ACCELERATORE DEGLI EVENTI

Come si è sempre detto: la pandemia è un acceleratore degli eventi. E potrebbe esserlo ancor più la sua seconda ondata, a condizione di non devastare troppo l’economia reale o sinanco la società civile e le sue stesse basi democratiche, già messe a dura prova dallo stato di emergenza. L’accelerazione degli eventi può comunque comportare effetti positivi accanto a quelli negativi, l’arrivo di gravi disgrazie invece no. E come sarà la seconda ondata non riesce a prevederlo nessuno.

In uno scenario “moderato” insomma, il salto nelle abitudini comportamentali, l’uso più intenso delle telecomunicazioni, la necessità di nuova efficienza della distribuzione porta a porta, l’accentuarsi della prevenzione delle malattie e persino della tendenza a mangiare più sano, potrebbero modellare la società civile più radicalmente di quanto stesse già avvenendo prima del virus, forgiandola verso una nuova “resilienza” alle disgrazie in corso ma anche verso il progresso dell’umanità.

Insomma non tutto il male potrebbe venire per nuocere, a condizione di non farsi spazzare via nel frattempo dai forti venti che soffiano alla vigilia dell’ennesimo possibile sell-off (solo possibile, non probabile). L’ulteriore volatilità attesa (si è visto che l’indice VIX ha già fatto un grosso salto in avanti nell’ultima settimana) infatti non aiuta affatto a vedere chiaramente le tendenze di fondo dei mercati.


Il problema però è che una “seconda ondata” del virus con tutto ciò che può comportare, non è oggi inserita nei modelli di valutazione dei titoli azionari. Dunque potrebbe sconvolgere i comportamenti degli investitori, innanzitutto alzando ulteriormente la volatilità.

I DANNI ALL’ECONOMIA REALE


Diversa è la narrazione che riguarda l’economia reale, già in ginocchio nella prima metà dell’anno, qualora costretta da un secondo lockdown generalizzato, potrebbe subìre la batosta finale intorno a Natale. con il risultato di ulteriori perdite dei posti di lavoro, indigenza delle classi più deboli, e nuovo tormento per le filiere distributive e, in definitiva, anche per il commercio internazionale. Minori redditi significano minori consumi, che comportano un rinvio degl’investimenti e minor gettito fiscale. La recessione insomma, soprattutto se si propagherà la percezione di un suo prolungamento a tutto l’anno che verrà, deprimerà indubbiamente le aspettative di valore.


Quello indicato però è soltanto uno dei possibili scenari, e nemmeno il più probabile. È piuttosto possibile viceversa un prolungamento delle misure di prevenzione e distanziamento che condizionerà i comportamenti umani ma non fermerà di nuovo le attività economiche, anzi: la diffusione dell’immunità di gregge (si stima che almeno l’1,4% della popolazione mondiale sia entrata in contatto con il virus, rimanendone immune) e quella dei vaccini (anche se si calcola che inizialmente risulteranno efficaci soltanto su 1/4 della popolazione che lo assume) potrebbero garantire una relativa normalità alla vita sociale.

Certo però che già solo l’estensione delle attuali misure di prevenzione farà altri danni e prolungherà lo stato comatoso dei settori industriali più colpiti. E questo fatto non potrà che indurre cautela in chi investe i propri e gli altrui risparmi.

IL RISK-OFF E LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI

Sono questi i motivi per i quali, anche se al momento non è possibile prevedere un “sell-off” generalizzato (cioè la svendita dei valori finanziari), è invece divenuta molto probabile una nuova fase di “risk-off” (cioè di atteggiamento più prudente degli investitori) con la conseguente possibile ampia rotazione dei portafogli titoli verso lidi più sicuri e rendimenti più sobri ma meno volatili (quali ad esempio le public utilities, l’agricoltura, i medicinali di base) o verso quei settori che hanno già brillato ai tempi del primo lockdown (tecnologie medicali, alimentari e digitali, commercio elettronico, servizi online) o addirittura verso i classici beni-rifugio come oro e diamanti, capaci meglio di altri di passare inosservati attraverso le bufere della storia umana per consegnare nel tempo il loro valore originario.

In questo scenario è invece più difficile che continuino ad avere ampio risalto i titoli cosiddetti “ESG” (Environmental, Social, and Governance), perché in tempi di crisi quelle nobili cause rimangono meno impellenti degli altri bisogni.

DOLLARO FORTE O DOLLARO DEBOLE ?

È poi possibile è che, con una vittoria ora più probabile di Joe Biden come presidente degli USA, il dollaro “torni a deprezzarsi, indipendentemente dall’esito delle elezioni presidenziali statunitensi di novembre” (la vittoria democratica accelererebbe i cali della valuta) afferma Ubs Wealth Management e vedrebbe il dollaro indebolirsi piú rapidamente rispetto a uno scenario in cui i repubblicani mantengono il controllo su almeno un ramo del Congresso “a causa della prospettiva di un aumento della spesa fiscale”).


Un’altra scuola di pensiero però ritiene che, nei momenti di difficoltà generale, il dollaro potrebbe apprezzarsi come valuta di riferimento (come è successo alla fine di Marzo scorso). Non siamo di questo parere stavolta perché la monetizzazione dei debiti pubblici -operata dalle banche centrali per finanziare i disavanzi di stato- comporta un “debasing” delle principali valute (con la conseguenza che esse alla lunga perdono potere d’acquisto) e, sicuramente, l’America è più attiva degli altri in questo processo.


Il dollaro debole e i rendimenti reali negativi dei Treasury Bonds potrebbero sospingere non soltanto le quotazioni dell’oro, ma anche quelle dei listini azionari americani, notoriamente i più liquidi nelle fasi di incertezza, mentre è più difficile fare previsioni per il petrolio, che non potrà non subìre una minor domanda dovuta al possibile calo di viaggi e trasporti ma potrà anche beneficiare dell’eventuale debolezza del Dollaro e della stagione favorevole ai rialzi perché è alle porte l’inverno.


Stefano di Tommaso




BANCHE: È L’ORA DELLE FUSIONI

Le banche europee fanno fatica da tempo a raggiungere le performances delle loro concorrenti d’oltreoceano in termini di dimensioni, specializzazione e soprattutto di redditività. Ma in quest’ultimo scorcio del 2020 il tema è divenuto quello della sopravvivenza: l’avvento delle “fintech” (anche quelle assolutamente nostrane) pone una sfida severa in termini di riduzione dei costi, ma anche di innovazione dell’offerta, di semplicità di interfaccia con il cliente, di immediatezza e specializzazione, tutte qualità che finora sono state largamente assenti nel panorama delle banche italiane. Questa situazione sta provocando un’ondata di fusioni e acquisizioni che controbilancia ampiamente i timori degli investitori!

I VALORI AZIONARI MOLTO SOTTO LA PARI

I risultati dell’immobilismo degli anni passati, espresso da un settore ampiamente protetto dalla concorrenza (e fortemente legato ai rapporti politici e governativi) sono sotto gli occhi di tutti: a partire dal fatto che la capitalizzazione di borsa espressa dai titoli azionari del settore bancario resta ampiamente sotto la pari con i mezzi propri. Anzi, in qualche caso si trova tra il 20% e il 30% dei valori contabili, come per Banco BPM, BPER, Unicredit e Credito Valtellinese.


Ma soprattutto sono le performances dei titoli azionari del settore che -sino a ieri- ne hanno fatto più le spese, generando tuttavia oggi un’ottima opportunità di acquisto di quelle azioni, sospinte da aspettative di sempre più impellenti aggregazioni tra banche. Il grafico che segue è ancora più impietoso, dal momento che relega agli ultimi posti le banche italiane (con le uniche eccezioni di Intesa San Paolo e Unicredit) tanto in termini di Prezzo/Valore dei Mezzi propri, quanto in termini di valore assoluto della capitalizzazione di borsa.


Non è una novità l’interessamento in tal senso della Banca Centrale Europea, che ha più volte sollecitato ulteriori aggregazioni, ma la pandemia COVID-19 ha sicuramente portato i piani alti del sistema creditizio ad una sorta di fibrillazione, come del resto già anticipato nel precedente articolo: https://giornaledellafinanza.it/2020/09/07/banche-luci-ombre-sul-settore/


LA REDDITIVITÀ AI MINIMI

La redditività del sistema è infatti scesa ai minimi storici anche per la caduta dei saggi di interesse imposta dalle banche centrali, mentre si teme una nuova ondata di insolvenze sui crediti erogati a causa della pesante recessione economica. Non è un caso perciò se l’indice europeo dei titoli bancari quotati non è risalito dopo il lockdown come quello generale (grafico qui sopra).


Come si può vedere però dal grafico sopra riportato, il problema riguarda tutta Europa ma risulta particolarmente macroscopico in Italia, dove i riflettori si stanno accendendo solo adesso sulle possibili aggregazioni delle altre banche, dopo che Intesa San Paolo ha conquistato il controllo di UBI banca in piena era-Covid con un’OPA non consensuale, e dopo che diversi istituti di media dimensione hanno detto apertamente di essere pronti a contrarre matrimonio (o lo hanno detto i loro azionisti di controllo, come nel caso di MPS) .

Il sistema bancario d’altra parte resta in Europa assolutamente frammentato, come si può vedere dai due grafici qui riportati:



OGGI TUTTI SCOMMETTONO SULA FUSIONE BANCO-UNICREDIT

E questo fatto costituisce un’ulteriore ostacolo alle aggregazioni bancarie, perché al di sotto di determinate dimensioni esse generano un miglioramento assai marginale della posizione di mercato. Ragione per cui la fibrillazione di cui si parlava riguarda soprattutto i grandi nomi tra le banche italiane, prima fra tutte Unicredit, rimasta “da sola” fino ad oggi a mettere ordine in casa propria, ma spinta in tal senso dalla mossa anticipatoria di Intesa San Paolo che ha portato via dal mercato una delle “altre banche” di maggiori dimensioni.

Oggi tutti scommettono perciò in una possibile fusione di Unicredit con la numero tre (una volta aggregata UBI) sul mercato italiano: il BancoBPM per le dimensioni innanzitutto: il mercato internazionale premia in questo momento le aggregazioni bancarie ma soltanto a partire da certi numeri. Gli analisti sono pressoché tutti concordi: le aggregazioni bancarie tra soggetti di piccole dimensioni non cambiano lo scenario perché non attivano quei processi di effettivo consolidamento e razionalizzazione dei costi che resta la chiave della sfida del settore per i prossimi anni.


LA DIMENSIONE CONTA

Ma ora qualcosa è cambiato, innanzitutto perché ai prezzi attuali quei titoli, capaci di esprimere buoni dividendi, sono come dicevamo un buon affare (il grafico qui sopra parla chiaro: le banche più penalizzate al momento sono proprio Unicredit e Banco BPM). Ma in particolare lo sono quando presentano un modello di business sostenibile nel tempo. E quali sono le banche che presentano quella sostenibilità? Quelle più grandi ovviamente, perché come scherzosamente si dice : “size matters”!

Significative economie di scala potrebbero infatti attendersi tanto dagli investimenti nelle piattaforme tecnologiche e nelle analisi dei dati necessarie per tenersi al passo con la digitalizzazione dell’economia, quanto dalla possibilità di ottimizzare la rete degli sportelli bancari, sempre più obsoleti e poco frequentati, ma allo stesso tempo commercialmente necessari per rimanere in prossimità della clientela.

LA SOGLIA DEL 20% (QUOTA DI MERCATO)

Ecco perché l’unione del secondo e del terzo operatore di mercato avrebbe molto senso: porterebbe la risultante dell’aggregazione dall’attuale 11% di quota di mercato dei servizi bancari (di Unicredit) ad un prospettico 18% e potrebbe avvicinarla significativamente alla leader nazionale, Intesa, che ha una quota di mercato del 20%. La soglia del 20% di quota di mercato in ciascun Paese dove sono presenti è divenuto ultimamente peraltro l’obiettivo di tutti i principali operatori bancari europei.

Anche dal punto di vista finanziario l’operazione Banco-UniCredit avrebbe molto senso, dal momento che i titoli sono entrambi quotati al listino principale italiano e che di conseguenza l’eventuale esborso di denaro da offrire agli azionisti della target (BancoBPM) sarebbe del tutto opzionale e, nell’ipotesi positiva, probabilmente non superiore al 40% in contanti. In tal caso le quotazioni dei titoli azionari se ne avvantaggerebbero senza alcun dubbio, generando essi stessi dunque un valido razionale perché l’operazione si faccia. Votiamo perciò decisamente a favore!

Stefano di Tommaso




È DI NUOVO L’ORA DELL’IMMOBILIARE?

L’anno 2020 non è stato affatto favorevole al comparto immobiliare. Prima il grande crollo delle quotazioni dei mattoni che vengono affittati alle attività della distribuzione più o meno tradizionale (centri commerciali compresi), poi il clamoroso successo in borsa dei titoli tecnologici e quello dei titoli “difensivi”dagli effetti della pandemia (ivi compresi ancora molti titoli tecnologici e “digitali”) sono due fattori che hanno decretato come risultato una pessima performance del settore legato all’investimento sul mattone. Anzi, più i titoli tecnologici crescevano di valore e più restavano a terra i fondi immobiliari quotati e le società di investimento in proprietà immobiliari.

 

GLI IMMOBILI NON SONO CALATI TUTTI ALLO STESSO MODO

Che si tratti di fondi immobiliari o società quotate di investimento in immobili il risultato ad oggi non cambia: le quotazioni delle società legate agli investimenti tradizionali in attività immobiliari sono scese parecchio con l’arrivo del COVID ma non sono quasi risalite come invece hanno fatto le azioni di tante altre, forse con l’esclusione degli immobili legati ai centri di calcolo (data centers) e quelli dedicati alla logistica pura, dal momento che hanno indubbiamente potuto beneficiare dell’espansione del commercio elettronico, almeno per contrastare la caduta. Sebbene la maggior parte dei dati disponibili riguardino le società e i fondi americani (il grafico qui riportato fa riferimento a questi ultimi), la tendenza di fondo resta probabilmente molto simile su scala globale:


PERCHÈ SONO STATI LASCIATI INDIETRO DAL MERCATO?

I motivi del grande crollo sono stati diversi: dalla mancata ripresa dell’inflazione fino alle grigie prospettive dell’economia reale e dei consumi tradizionali, fino alla caduta verticale della velocità di circolazione della moneta che ha sottratto liquidità al mercato, in particolar modo nel segmento degli investimenti più limitati. Anche la bassa quotazione del petrolio potrebbe aver influito sulla scarsità di domanda per investimenti immobiliari a causa della minor pressione per il rinnovamento degli edifici esistenti dal punto di vista dell’efficienza energetica.

Ma l’esperienza insegna che persino un gatto morto, quando precipita in strada, rimbalza un po’ e forse è -nel peggiore dei casi- quello che stiamo osservando adesso con la fine dell’estate e il parziale cambiamento dello scenario macroeconomico, a partire dalle indicazioni fornite dalle banche centrali: maggiore impegno nel cercare di far risalire l’inflazione dei prezzi e maggiore stabilità delle prospettiva di bassissimi tassi di interesse non possono che spingere i mercati finanziari a tornare a strizzare l’occhio al comparto immobiliare.

Quantomeno per il fatto che i livelli di ipervenduto raggiunti negli ultimi mesi hanno creato essi stessi un’opportunità di guadagno relativamente a una tipologia di beni -i valori immobiliari- che hanno sempre dato grande soddisfazione a chi vi ha creduto. Sii veda il grafico qui riportato (dove per REIT si intende “Real Estate Investment Trust”) basato sulle performances di un ventennio fino a prima del COVID:


DUE IMPORTANTI NOVITÀ

Come appena indicato però da fine Agosto ci sono due importanti novità che potrebbero fornire una spiegazione logica ad una nuova crescita delle quotazioni immobiliari: L’ azzeramento dei tassi di interesse per un orizzonte di tempo sufficientemente lungo e il maggior vigore con il quale le banche centrali intendono perseguire l’obiettivo di perseguire la ripresa dell’inflazione dei prezzi.

Due fattori che mettono in risalto le principali qualità dell’investimento immobiliare: la sua resilienza alla svalutazione monetaria e la capacità di generare un reddito positivo (gli affitti) anche quando il mercato finanziario lo nega. Fino a ieri queste qualità venivano fortemente contrastate dalla possibilità che i valori immobiliari continuassero a scendere, ma -seppur in presenza di una forte recessione globale- dopo il convegno dei banchieri centrali di Jackson Hole, le cose sembrano essere cambiate un po’ in meglio.


C’è da dire che il mercato borsistico mondiale in assoluto non promette bene dopo tutta la corsa effettuata in ripresa dal calo della pandemia, ma c’è un ampio spazio per fare un arbitraggio tra l’indice generale e quello immobiliare (riferito allo scorso venerdì) e lo si può vedere nel grafico comparativo (in fucsia il FTSE MIB e in nero l’indice settoriale delle società immobiliari):


LE NUOVE TENDENZE POSSONO FAVORIRE IL “REAL ESTATE”

Del resto anche in funzione della recessione in corso e della politica monetaria ultra-espansiva, sui mercati finanziari di cambiamenti nell’aria ce n’è più d’uno: dal progressivo “debasement” delle principali valute di cambio (ne stanno stampando oggettivamente moltissime in più), alle conseguenze dell’accentuarsi dei debiti pubblici, dalla progressiva riduzione dell’interscambio internazionale di merci e servizi al rischio di un rialzo delle aliquote fiscali (che potrebbe partire dall’America, se vincesse Biden, ma dopo un istante si estenderebbe al resto del mondo), fino agli effetti sull’economia (e sulla finanza) della promessa generalizzata di ampi sussidi per gli investimenti eco-sostenibili.

Molti nuovi scenari promettono di cambiare parecchio le carte sui mercati, ma la probabilità che l’inflazione riprenda piede e, con essa, vengano riscoperti i beni rifugio, si coniuga bene con la promessa di tenere molto a lungo ugualmente bassi i tassi di interesse e, dunque, di tornare a favorire il rapporto tra rendita immobiliare e rendita finanziaria!


Stefano di Tommaso