FASE TRE

Ottobre 2020, la pandemia sembra aver finito di rompere l’anima ai cittadini di quasi tutti i paesi più avanzati del mondo, le produzioni e le distribuzioni sono riprese (a stento) e la temuta “seconda ondata” c’è stata ma -con un po’ di fortuna- ha prodotto danni limitatissimi, sebbene abbia fatto sì che le misure di prevenzione si siano di nuovo moltiplicate. Il solleone di uno degli anni più caldi degli ultimi secoli ha contribuito a ridurre a quasi zero il numero dei nuovi contagi e l’industria farmaceutica ha prodotto a tempi da record il famoso vaccino, mentre una serie di altri farmaci, dal “Redemsivir” al plasma sanguigno sintetico con gli anticorpi, hanno fatto il resto, limitando quasi a zero il numero di morti collegati al virus. L’umanità insomma può tirare un sospiro di sollievo, ma alcuni Paesi come l’Italia non rassomigliano che assai lontanamente a quelli dell’anno precedente.

 

UNO SCENARIO DISTOPICO

Le norme igieniche e di semi-isolamento sociale che sono state introdotte (e che nessuno sa se e quando verranno completamente revocate) scoraggiano ancora quasi ogni forma di assembramento, ivi comprese celebrazioni tradizionali, danze, party, conventions e congressi, e sinanco cene di gala. Al loro posto numerose iniziative “virtuali” sofisticate e strutturate permettono quasi ogni forma di “incontro” e stanno entrando nel vissuto quotidiano, costringendoci peraltro a rinnovare gli apparati tecnologici, ivi compresi gli impianti audio-video. Sono passati pochi mesi da Marzo 2020 e sembra già un’eternità. Anche dal punto di vista sanitario la “telemedicina” si è fatta velocemente strada con l’ausilio dell’intelligenza artificiale e il “tracciamento” delle persone è diventato obbligatorio e pervasivo. Sciami di nuovi droni si apprestano ad inseguire chi non vi si adegua.

Nel grafico qui accanto le previsioni di Aprile 2020 nell’Unione Europea (Italia: meno 9,5%), ma siamo arrivati ad Ottobre e le cose nel frattempo sono andate ancora molto peggio!

Paesi come l’Italia, fortemente dipendenti dalla valorizzazione del loro patrimonio culturale e turistico stanno rivedendo impostazioni e strategie, dopo una stagione estiva andata quasi completamente a buca e dopo che numerosissimi fallimenti e chiusure hanno costellato il settore dell’accoglienza e dell’intrattenimento, ivi compresi ristoranti, pizzerie, stabilimenti balneari, parchi giochi, cinema e palazzetti dello sport, tutti ancora sottoposti a rigidi controlli anche se nessuno ne conosce più esattamente il perché.

Per lo stesso -ignoto- motivo giornali e i telegiornali continuano imperterriti a dare bollettini e statistiche come se non ci fosse un domani, mentre gli spostamenti tra regione e regione restano contingentati o comunque attentamente monitorati. Ovviamente il risultato dal punto di vista economico è una disfatta clamorosa!

Il problema è che le riserve di ricchezza cui il Paese ha attinto sino all’estate iniziano a scarseggiare per chiunque, il nuovo governo “di salvaguardia” è finalmente riuscito a convincere le banche a erogare prestiti (con la garanzia pubblica) a quasi tutti, ma questa non ha coperto i circa 80-90 miliardi di euro di prestiti che a Gennaio scorso erano già classificati in incaglio o “UTP” (unlikely to pay), che sono rimasti sul groppone delle banche che li hanno dovuti svalutare di circa 2/3. Dunque le banche vedono ridotti i mezzi propri di circa 50 miliardi proprio quando avrebbero più bisogno di capitale per incrementare le erogazioni di credito.

LO SPREAD ALLE STELLE

Ma anche per i prestiti garantiti dallo Stato, evidentemente nessuno sa bene come farà per restituirli, lasciando in giro la convinzione che una buona parte di essi si trasformerà in incaglio e il debito pubblico italiano -per questa ragione- aumenterà ancora considerevolmente rispetto alle statistiche ufficiali. Così lo spread BTP/Bund è cresciuto durante l’estate arrivando alla fatidica soglia dei 400 punti, e rendendo più che giustificate le critiche che arrivano ancora da Berlino (via Bruxelles). La frittata -come si dice – è ormai fatta, e gli “aiuti” europei sono stati fino a quel momento solo dei finanziamenti che, in tempi di deflazione furibonda, assomigliano più a un cappio al collo del Paese che non a veri sostegni, preludendo ormai a nuove tasse e prelievi forzosi nelle tasche dei cittadini.

LA FUGA DEI CAPITALI

Anche per tali motivi coloro che possono stanno provvedendo a spostare all’estero tutti i capitali che riescono, oltre ai figli e, quando possibile, anche alle loro residenze fiscali. La fuga di capitali ha ovviamente ridotto la disponibilità delle banche ad erogare prestiti (pur garantiti) e ha ridotto l’interesse delle imprese a richiederli per effettuare investimenti (quelli non strettamente tecnologici, che invece risultano sempre più imprescindibili), ma soprattutto ha limitato decisamente gli investimenti mobiliari e immobiliari, rendendo asfittico il programma di P.I.R. e facendo crollare i prezzi di palazzi e capannoni.

È perciò sempre più difficile quotare matricole alla borsa di Milano così come emettere bond e minibond. Anche le acquisizioni di imprese si sono di fatto interrotte anche perché tutti si aspettano di vederne scendere ancora le valutazioni, mentre il numero di richieste di procedure concorsuali è letteralmente esploso, determinando un allarme nei tribunali competenti che hanno ripreso solo parzialmente il lavoro ordinario e accentuato i ritardi.


Si parla quindi di svendita degli immobili, nonostante le agevolazioni (colte quasi solo dagli stranieri e dai fondi) per la loro riconversione. Si parla anche per la prima volta di licenziamenti di dipendenti pubblici e dell’inevitabile asta delle principali infrastrutture di Stato (porti, aeroporti, acquedotti, elettrodotti, aree demaniali, ferrovie e ospedali), in modalità non troppo dissimili da da quelle vista cinque anni addietro in Grecia. Anche stavolta è stata Berlino (via Bruxelles) a suggerire tali manovre, dal momento che per il Recovery Fund Europeo (quello che a Maggio veniva indicato come il bazooka comunitario per il rilancio dell’economia dei Paesi periferici) si profilano ulteriori ritardi e magagne burocratiche sino a fine anno, che molti sospettano essere strumentali.

Dal punto di vista sociale il Paese è altrettanto allo stremo e la cosa, ovviamente, alimenta lo scontento popolare. Ma per i più -che accettano fatalisticamente il loro nuovo destino- non si tratta oggi di trovare colpevoli, bensì risorse per il sostentamento, prima fra tutte la liquidità. Il “de-moltiplicatore” del credito e la fuga dei capitali, le nuove tasse e l’elevatissima disoccupazione (si parla di altri 4 milioni di connazionali in età da lavoro) hanno prosciugato anche quella poca liquidità in circolazione che si vedeva sino a Maggio-Giugno.

In queste condizioni (Prodotto Interno Lordo sceso quasi del 20% su base annua) le imprese non sono riuscite a trasferire sui prezzi di vendita i maggiori costi a causa delle misure di salvaguardia e delle altissime imposte che devono sostenere (in parte future, perché al momento nessuno ancora le versa), e dunque lavorano quasi tutte in perdita. Anche per questo motivo qualcuna di aggrega, molte chiudono e altre vengono svendute agli stranieri. È il prezzo da pagare per la crisi cui è giunto il Paese, una crisi che però, in cambio della man bassa delle acquisizioni a buon mercato da parte della concorrenza nordeuropee, costringerà l’intera Unione a fare scelte molto pesanti dal punto di vista politico: o si finirà per mutualizzare (o più probabilmente per monetizzare ancora) i debiti pubblici e investire sul rilancio economico dei paesi periferici, oppure bisognerà rinunciare alla moneta unica.

LA DISOCCUPAZIONE GALOPPA

Ma questa è teoria da discutere nell’inverno che seguirà. Adesso è finita l’estate e lo Stato si chiede se potrà pagare stipendi e pensioni e i problemi prevalenti sono quelli contingenti: i sotterfugi per aggirare la carenza di risorse sono tutti esauriti e ora o si riesce a riattivare seriamente le esportazioni o il Paese rischia la bancarotta e l’arrivo della Troika.

In questa situazione un notevole numero di persone non ha di fatto più alcun lavoro (sul totale di oltre 60 milioni di abitanti il numero degli occupati nel Paese si calcola sia sceso a meno di un terzo: 18-19 milioni, più della metà dei quali in part-time o smart-working, mentre produzione e esportazioni sono affidate a pochissime imprese sopravvissute al lockdown e al loro indotto. Ovviamente i dipendenti delle seconde stanno meglio dei commercianti, artigiani e professionisti in bolletta, dei disoccupati, dei pensionati e dei dipendenti pubblici. Questi non possono perciò che contare su erogazioni di Stato che arrivano con il contagocce, e finiscono per dipenderne politicamente e psicologicamente.

COME EVITARE UNA TALE DISFATTA ?

Il potenziale scenario d’autunno appena delineato appare fortemente distopico, pur riferendosi ad un periodo di tempo che è soltanto di 4 o 5 mesi avanti rispetto ad oggi. Il problema è che, una volta caduta nella trappola, l’Italia farebbe molta fatica a rialzarsi e ne dovrebbe sopportare un costo molto elevato. Non solo: se si arriverà ad un autunno “caldissimo” anche i conflitti -politici e sociali- esploderanno e la società civile inizierà a desiderare fortemente l’uscita dall’Unione Europea o, peggio, a subire una repressione di qualsiasi tentativo di disordine sociale degna di uno stato di polizia sudamericano.

Meglio sarebbe perciò riuscire prefigurare sin da oggi quali strategie adottare per evitarne il realizzarsi, rafforzando gli istituti di credito e favorendo il recupero di ossigeno delle imprese, stra-semplificando la burocrazia, incentivando gli investimenti, invocando una maggior cooperazione internazionale in supporto al nostro Paese e lavorando seriamente alla possibilità di un cospicuo rientro dei capitali italiani all’estero.

Di seguito una matrice recentemente pubblicata da McKinsey delle misure cui dare priorità perché le imprese possano recuperare:


Come si può vedere nell’asse delle ascisse, nella gestione della crisi il fattore tempo gioca un ruolo importantissimo, dunque bisognerebbe fare presto! Ma da parte di chi, dal momento che -si dice- il governo in carica è sull’orlo del baratro e oramai in punta di dimissioni?

IL POSSIBILE RUOLO DELLE ISTITUZIONI

Difficile rispondere nei fatti a questa domanda, anche se dal punto di vista teorico la Costituzione della Repubblica avrebbe una risposta chiarissima al riguardo: le Istituzioni democratiche e i loro vertici: dal Presidente della Repubblica ai Presidenti delle Camere fino alle presidenze di tutte le altre Corti e Consulte che dovrebbero presiedere al loro buon funzionamento.

Ma questi ultimi, si sa, a casa nostra hanno sempre avuto una scarsa autorevolezza e un‘altrettanto forte dipendenza dai giochi politici e, di conseguenza, pochissima vera voce in capitolo. Forse è anche per questo motivo che il nostro destino nazionale sembra oggi tristemente segnato.

Stefano di Tommaso




L’OTTIMISMO DELLE BORSE È PREMATURO?

Per le borse valori il “toro” è il simbolo delle aspettative al rialzo delle quotazioni, mentre l’ “orso” è quello del ribasso. Un’antica saggezza tra operatori insegna che l’arrivo della fase “orso” (che oggi giungerebbe dopo un decennio di fase “toro”) si compone normalmente di tre stadi: quello della delusione,che è di norma piuttosto rapida, quella della negazione, che consiste in un temporaneo rimbalzo e infine quella dell’accettazione, che consiste nella vera e propria discesa, disseminata però di altri dubbi, incertezze e sussulti e dunque più graduale. Secondo i profeti della fase “orso”, nonostante tutto ciò si stia sviluppando alla velocità della luce, oggi staremmo comunque entrando nel terzo stadio, che prevede un’incerta ma profonda discesa delle borse. Sarà così? Vediamolo.

 

LE INDICAZIONI DEI GRAFICI

Innanzitutto per trovare degli strumenti di osservazione prendiamo l’analisi tecnica: i graficisti che osservano le borse hanno pochi dubbi: in meno di un mese da fine febbraio a fine marzo Wall Street (la regina delle borse) perde quasi esattamente un terzo del suo valore di capitalizzazione: la più precipitosa di tutte le cadute della storia. Dopodiché interviene un importante rimbalzo che rintraccia circa i due terzi della discesa, ma questo rimbalzo sembra già oggi avviarsi alla sua conclusione.

Oggi possiamo notare delle resistenze allo sviluppo della ricrescita delle quotazioni che si fanno sempre più forti e che potrebbero dunque preludere ad un nuovo, più graduale ma anche più prolungato ribasso.


LE INDICAZIONI DELL’ECONOMIA REALE

Come secondo strumento di osservazione prendiamo allora l’analisi fondamentale: quella che mira a individuare ragioni sostanziali di ottimismo/pessimismo sulla generazione di profitti, da sempre giudici ultimi delle sorti di ciascun titolo quotato. Ebbene questa ha il problema di osservare il mondo con lo specchietto retrovisore: i dati arrivano ex-post e le estrapolazioni delle tendenze non sono quasi mai attendibili. Dunque non può ancora fornire risposte univoche, nemmeno ex-post.

Quel che sappiamo è che l’attività economica è sostanzialmente precipitata negli ultimi mesi, in corrispondenza dell’obbligo di distanziamento sociale ordinato da tutti i governi del mondo per prevenire un’eccessiva diffusione del contagio. Ma nessuno è in grado di prevedere quanto e quando potrà ritornare alla normalità, anzi molti sostengono che nulla sarà più come prima. Se fosse, la notizia non sarebbe positiva per i profitti: la norma è che solo alcuni riescono a beneficiare della nuova normalità, mentre i più soccombono.

Non a caso a beneficiare dello scrollone sono stati i titoli che esprimono più scienza (anche medica), tecnologia e modelli di business innovativi (persino nella distribuzione), mentre hanno sofferto quasi tutti gli altri, ma soprattutto quelli legati all’industria di vecchio stampo e ai servizi tradizionali. Nel grafico qui riportato sono dette “suspenders” le imprese dell’indice SP500 che, non potendo fornire notizie positive in merito al loro andamento, hanno questa volta evitato di fornire indicazioni circa i profitti (le cosiddette “earnings guidances”).


LE VARIABILI MACROECONOMICHE

Infine è importante anche osservare le possibili risultanze dell’analisi macroeconomica: quella che monitora gli effetti dei grandi flussi di capitale e degli aggregati monetari, degli effetti netti degl’interventi delle banche centrali e del moltiplicatore del credito, della velocità di circolazione della moneta e dei trend dei consumi, delle politiche fiscali e del reddito disponibile.

Quest’ultima fornisce indicazioni a dir poco contrastanti, se non esattamente opposte a quelle sin’ora osservate: i governi dei paesi più avanzati stanno oggettivamente facendosi in quattro per allentare vincoli e tasse, fornire stimoli e incentivi alla ripresa economica e tutto ciò mentre le banche centrali stanno letteralmente monetizzando il più possibile i debiti pubblici e caricando di munizioni le banche commerciali affinché eroghino quanto più credito possibile. Qualcuno stima che le sole banche centrali di tutto il mondo abbiano in programma di immettere complessivamente nel sistema la bellezza di 30mila miliardi di dollari (una vera enormità se si pensa che la più grande di tutte (la FED) ha un bilancio di “soli” 6mila miliardi di dollari). Tutti incentivi alla ripresa delle quotazioni, non alla loro riduzione.


Non stupisce al riguardo il comportamento del principe dei beni-rifugio: di fronte al probabile “de-basing” di tutte le principali valute di conto monetario (viene stampata più moneta senza una crescita corrispondente dell’economia reale) le quotazioni dell’oro sono schizzate al rialzo e si pensa che continueranno a farlo ancora a lungo, mentre il prezzo dell’energia (un indice “reale” dell’attività economica globale) era dapprima crollato e oggi è sembrato riprendersi rapidamente.

Ma soprattutto le banche centrali stanno facendo di tutto per riuscire ad ampliare l’offerta di moneta e la sua velocità di circolazione, e sono state le principali artefici della ricrescita delle quota sui mercati finanziari. I tassi d’interesse di conseguenza sono tornati a flettere verso lo zero assoluto e, in questo modo, hanno tra l’altro disinnescato ogni possibile timore sulla sostenibilità dei debiti pubblici.


Non stupisce di conseguenza che il loro operato venga oggi messo in dubbio da tutti coloro che avrebbero preferito approfittare della crisi per propri scopi. Ma è inutile attribuire a ciò significati profondi: si tratta di pura lotta geopolitica, niente di più e niente di meglio.

COSA DEDURNE ?

Un altro vecchio adagio di borsa è il famoso “sell in May and sail away”. Esiste una ragione oggettiva dietro a questa indicazione “stagionale”: passata la stagione dei dividendi e prima della ripresa autunnale la statistica indica chiaramente una tendenza al ribasso delle quotazioni borsistiche.


Ma il punto è che siamo arrivati a Maggio in piena bagarre post-virus. Tutte le pubbliche autorità stanno facendo la loro parte per risollevare il mondo da quella che potrebbe rivelarsi come la più difficile crisi economica da quasi un secolo e per questo motivo sino ad oggi sui mercati nessuno ha avuto la forza di contrapporsi alle autorità monetarie speculando al ribasso.

D’altro canto la tensioni geopolitiche globali, oggi quasi nulle a causa del “lockdown”, potrebbero tornare ad acuirsi in fretta tra America e Cina, in Medio Oriente, nel sud-est asiatico e sinanco tra i Paesi dell’Unione Europea, e per le difficoltà che si troveranno ad affrontare tanto le economie emergenti quanto quelle decotte (come la nostra) se non troveranno adeguato (e sollecito) supporto esterno. E nel caso peggiore nessun Quantitative Easing potrà risultare sufficiente a sostenere la fiducia degli investitori e i valori di mercato.

Vinceranno i paladini del libero mercato, che stavolta coincidono con i più biechi e violenti speculatori di borsa, o gli interventisti “keynesiani” dei governi e delle banche centrali, i quali tra mille contorcimenti cercano di fare tutto il possibile perché la crisi economica non si aggravi ulteriormente?

Difficile rispondere, ma dipende anche da quanto potranno (e vorranno) spingersi in avanti nei loro interventi di sostegno i banchieri e i politici. E quanto essi saranno sensibili alle sirene della grande finanza. Che vedono nei disastri economici anche delle enormi possibilità di fare profitti, facili e veloci.

Stefano di Tommaso




LA DIVARICAZIONE DI DUE MONDI

Ci siamo abituati, negli ultimi anni, a vedere i mercati finanziari muoversi più o meno all’unisono attorno a tutto il globo, quasi indipendentemente dalle specificità dell’economia di ciascun Paese e dall’andamento delle aziende che ne costituiscono i singoli listini azionari. È una delle numerose ricadute della globalizzazione più estrema che la storia umana ricordi, ma questa non è necessariamente una regola per il futuro.

 

LA REGOLA DEI PROFITTI

Se c’è una lezione che nei miei quasi quarant’anni trascorsi a guardare i mercati finanziari ho appreso, è che il valore delle imprese dipende sempre e comunque dalle aspettative che riguardano i profitti futuri, o quantomeno la creazione di valore corrispondente. E oggi ci troviamo a osservare uno stranissimo mercato che, dai minimi cui era precipitato lo scorso fine Marzo ha riguadagnato in poco più di un mese dal 20% al 30%.


Ora che il mondo sembra aver superato almeno la prima ondata della pandemia (se ne teme infatti una seconda) i listini azionari di tutto il mondo hanno vissuto un andamento a “V” profonda a una velocità come non s’era mai visto prima. Andamento che ha spiazzato ogni possibile ragionamento di fondo, anticipando prima e lo shock economico cui il mondo sta appena oggi iniziando ad andare incontro, e poco dopo la susseguente ripresa attesa dell’economia, che invece dovrà iniziare a materializzarsi in un futuro ancora non ben precisato.

Non c’è dubbio circa il fatto che nel primo semestre del 2020 i profitti aziendali non potranno non risentire del crollo del fatturato subìto da molti settori dell’economia, e le aziende non potranno non prestare molta attenzione ai rischi generali di mercato conseguenti alla destabilizzazione profonda del sistema economico. Ci saranno quasi ovunque perciò minori profitti, sebbene si possa anche auspicare che la riduzione non sarà che temporanea. Ma quest’ultimo auspicio è anche una certezza? Tutti noi dovremmo convenire su un “no” corale e scontato. È soltanto un auspicio.

LA PIOGGIA DI LIQUIDITÀ IN ARRIVO

D’altra parte i mercati finanziari risentono positivamente dell’importante aggiunta di liquidità che proviene dallo sforzo coordinato delle banche centrali di tutto il mondo (parliamo di circa 3mila miliardi di dollari di liquidità che in totale sarà iniettata nel sistema finanziario dalla sola Federal Reserve americana, e probabilmente di tre volte tanto nel totale globale). Un importo da capogiro, capace di far lievitare le quotazioni di qualsiasi “asset” finanziario, a prescindere da ogni altra considerazione più o meno oggettiva. Anche per questo banale motivo i tassi di interesse rasentano dovunque lo zero assoluto e, fortunatamente, a questi tassi quasi nessun debito pubblico appare insostenibile.

Il mondo però non appare economicamente uniforme, anzi! Ci sono intere aree continentali, come la nostra, che indubbiamente appaiono meno capaci e meno veloci nel reagire alle emergenze, e le imprese che ne fanno parte ne registrano altrettanto indubbiamente uno svantaggio.

MA LE DUE SPONDE DELL’ATLANTICO SI ALLONTANANO

È più difficile affermare infatti che la liquidità in arrivo dai mercati finanziari possa riscattare le difficoltà economiche che stanno incontrando molte imprese italiane, le quali peraltro sono molto spesso troppo piccole per resistere è troppo lontane dalle dinamiche delle borse valori per poterne beneficiare. La ripresa dei profitti aziendali insomma, per quanto possa essere veloce e incentivata dalla pioggia di liquidità sui mercati, non sarà affatto la medesima a Milano come a New York o a Shanghai.

Se dunque la borsa americana già compie un azzardo morale a scommettere sin da ora su una pronta ripresa dell’economia interna dallo shock subìto, quella italiana sta probabilmente sognando ad occhi aperti nel prevedere già oggi un recupero dei profitti aziendali in media nel Paese. In media però. Come sempre sulla battigia ci saranno vincitori e perdenti dopo che lo tsunami del COVID avrà finito di fare danni, e questo dipenderà non soltanto dalle qualità intrinseche delle imprese, bensì anche dalla salute generale dell’ecosistema in cui esse sono immerse.

È una sin troppo facile profezia perciò prevedere ampi scostamenti tra gli andamenti dei listini azionari delle principali piazze finanziarie del mondo, come pure un’accentuazione delle differenze di performance tra i diversi settori economici. I profitti delle imprese americane saranno probabilmente molto migliori di quelli delle loro corrispondenti italiane, così come quelli delle imprese “digitali” correranno ben più di quelli delle imprese della “old economy”. E con essi i valori aziendali.

E LE BANCHE CENTRALI SONO SEMPRE PIÙ “CENTRALI”!

Se c’è un’altra cosa che -non tanto dai quarant’anni di mia esperienza sui mercati, quanto piuttosto dalle vicende degli ultimi dieci anni- ci viene indicato con chiarezza, è che in borsa non bisogna mai andare in direzione opposta a quella delle banche centrali. Il loro potere continua a crescere ed è sempre più capace di piegare i mercati “a prescindere” dall’andamento dell’economia reale.

Se i mercati salgono a causa degli interventi delle banche centrali perciò è difficilissimo per chi opera in borsa spuntare profitti andando in senso inverso. Ma è altrettanto vero che nessun indirizzo è “per sempre”. E un occhio all’andamento dei profitti aziendali resta altrettanto necessario, perché alla lunga i titoli quotati si riaggiustano sempre per tenerne conto, anche se quanto “alla lunga” non è dato di sapere.

L’unica cosa che rimane da fare è perciò seguire il trend (che resta oggi al rialzo) restando però ben vigili, perché la fortuna è cieca, ma c’è anche la sua antitesi che si aggira sui mercati, e ha una vista da falco!

Stefano di Tommaso




PER LE BANCHE D’EUROPA È PASSATO IL MOMENTO PEGGIORE?

Mentre Wall Street ha recuperato ad oggi più del 30% dai minimi di Marzo, le borse valori europee nello stesso periodo in media hanno recuperato soltanto il 21% delle quotazioni e addirittura le banche del vecchio continente sono ancora sotto del 44% rispetto ai massimi di Febbraio. Perché? Per la deludente risposta europea -fiscale e monetaria- alla minaccia generata dal virus, considerata scoordinata e tardiva, ma anche perché molte tra le quotate europee appartengono a settori pro-ciclici, come l’energia, il turismo e, appunto, il credito. I titoli delle banche sono quelli che hanno performato peggio dopo il lockdown. Ma qualcosa sta cambiando…

 

In aggiunta alle considerazioni precedenti bisogna ricordare che, con l’arrivo del virus, l’Europa ha registrato una riduzione nel pagamento dei dividendi annuali ben superiore a quella registrata negli USA. Inoltre la forte componente di banche quotate sul totale dei listini ha senza dubbio accentuato il divario, dopo l’invito della Banca Centrale Europea alle proprie vigilate a non pagare affatto dividendi, onde non disperdere risorse.

Non che sia andata meglio nel resto del mondo, dove comunque, dopo i disastri del 2008, quasi nessun banchiere se l’è sentita di versare denaro ai propri azionisti, riducendo i mezzi propri in un frangente così delicato. Di seguito nel grafico l’indicazione di Bloomberg circa la riduzione dei dividendi negli USA nei principali settori economici:


LE DIFFERENZE CON IL 2008

Ma è esattamente a proposito delle analogie con la crisi del 2008 che vorremmo fare qualche considerazione, perché indubbiamente allora la crisi originò proprio dalle banche, mentre quest’anno esse potrebbero costituire la soluzione!

Certamente, quando arriva una recessione tra i titoli più “pro ciclici” -cioè che risentono di più del cambiamento- ci sono quelli delle banche. E il motivo è semplice: se le attività economiche vanno in crisi, più prestiti faranno fatica ad essere ripagati e peggio si troveranno i prestatori di denaro.

Nel 2008 però le banche erano forse troppe, sotto capitalizzate, illiquide e deboli. Oggi è praticamente il contrario: un forte processo di concentrazione è avvenuto e le banche del 2020 si trovano in una situazione di salute molto migliore, oltre a essere molto più monitorate (e finanziate) dalle rispettive banche centrali. In passato i governi hanno dovuto salvarle, mentre oggi sono le banche che stanno aiutando i governi a erogare liquidità al sistema economico, ovviamente in cambio di un profitto.


Anche il mercato dei prestiti deteriorati oggi è molto più liquido ed efficiente, dunque più capace di aiutare gli istituti di credito a “scaricare” gli attivi “tossici”. Il mercato borsistico inoltre ha già incorporato nei pesanti cali di prezzo (il 40% in Europa dai massimi di Febbraio, quasi il doppio che negli USA) buona parte delle perdite previste.

L’INTERMINABILE DISCESA DELLE QUOTAZIONI

Il processo di recupero di valore delle banche europee (dopo la crisi del 2008-2009) si è interrotto già nel 2014 e, come si può vedere qui sotto dal loro grafico di settore, dopo una significativa ripresa tra il 2016 e il 2017, è seguito uno dei ribassi più accentuati della storia economica (90 punti sul massimo di periodo di 140):


Come però abbiamo visto più sopra, oggi il mix dei fattori è molto differente da quello della crisi dei prestiti sub-prime -una dozzina di anni fa- e, a questo punto, si può sperare in un rimbalzo delle quotazioni dei titoli finanziari, soprattutto man mano che le banche centrali continueranno ad intervenire sul mercato, facendolo ovviamente tramite le banche, e man mano che arriverà una ripresa, magari altrettanto veloce quanto la recessione in corso.

MA ORA QUALCOSA È CAMBIATO !

La pro-ciclicità del settore del credito non agisce infatti soltanto in senso negativo, soprattutto una volta che gli ostacoli al pagamento dei dividendi dovessero finalmente essere rimossi. Negli ultimi giorni si è visto infatti un deciso rimbalzo dei titoli bancari. Nella tabella qui sotto (aggiornata a qualche giorno fa) possiamo vedere, nelle tre colonne più a destra: il rimbalzo delle quotazioni , le perdite da inizio anno e quelle degli ultimi 12 mesi:


Ma ciò che appare ormai sempre più chiaro ad analisti e politici man mano che la crisi si accentua, è che ancora una volta la parte del leone nel salvare il salvabile la dovranno fare le banche centrali: dovranno andare avanti ancora a lungo a stampare almeno altrettanta tanta moneta quanta ne è stata bruciata dalla crisi, senza nemmeno incorrere peraltro in alcun rischio di re-flazione dei prezzi. Oggi infatti lo spettro peggiore che si prospetta è quello di una deflazione secolare, non l’inflazione, che è il suo contrario. E le banche centrali non potranno che agire finanziando le banche ordinarie.

Se l’economia dovesse perciò rispondere rapidamente agli stimoli che stanno arrivando (la famosa ripresa “a V profonda” che Wall Street ha anticipato con il proprio andamento, che si può vedere dal grafico qui riportato):


allora le imprese potranno di conseguenza sperare in un rapido sollievo dalla crisi post-virus, ma avranno a maggior ragione un grande bisogno di liquidità, che non potrà che provenire dalle banche centrali e dalle loro braccia operative: le banche ordinarie, che costituiscono da sempre il canale privilegiato attraverso cui agiscono.


In generale il ragionamento potrà risultare valido anche per tutti gli altri servizi finanziari, sino ad oggi particolarmente colpiti dai ribassi. In fondo in Cina, dove l’intera vicenda del virus è circa un mese in anticipo rispetto all’America, è esattamente quello che oggi sta succedendo.

Ce lo auguriamo, così come ci auguriamo che le banche tornino a poter esercitare appieno la loro funzione vitale per l’economia reale, perché senza la loro presenza staremmo tutti un po’ peggio!

Stefano di Tommaso