QUANTO LE IMPRESE SONO PRONTE AD AFFRONTARE SCENARI INCERTI?

Ormai è chiaro: nei prossimi mesi la parola chiave sarà incertezza

 

La pandemia, che stiamo affrontando, inevitabilmente porterà ulteriori cambiamenti: nella vita delle persone, nei modelli di consumo, nelle relazioni personali e tra soggetti economici. Ma ad oggi nessuno ha la sfera di cristallo per comprenderne a fondo la vastità e l’intensità.

Stiamo tenendo duro in questo periodo, raccontandoci che tutto andrà bene, ma dobbiamo iniziare a lavorare concretamente perché ciò accada, dotando noi stessi e le nostre attività di strumenti di azione e reazione.

Per le imprese sarà necessario dotarsi di nuovi tool di lavoro, in particolare in ambito gestionale, in grado di dare certezza a scenari incerti. Sembra un ossimoro, ma è la nuova realtà che ci attende.

I piani economico-finanziari, base delle strategie e delle linee di azione di tutte le aziende, dovranno essere rivisti non una, ma più volte, in modo cadenzato e proattivo, e poi ancora reattivamente rispetto ad eventi endogeni che impattano sulla gestione aziendale ed in particolare sui flussi di cassa.

Misurazione e simulazione

A tutti piace dire che le proprie scelte di business si fondano sui numeri. Ma quali? Quelli del passato? Ci basiamo su trend e serie storiche? Certamente sì, ma in una realtà dominata dall’incertezza è fondamentale creare proiezioni sul futuro, basate su scenari possibili, per poter reagire in modo rapido ed affrontare via via con maggior sicurezza il futuro.

Alla misurazione continua e costante vanno affiancati processi di simulazione, sapendo che ci sono variabili che possiamo controllare e variabili per le quali abbiamo aspettative, ma nessuna certezza.

La maggior parte delle imprese hanno ormai da tempo inserito nella propria gestione strumenti e tool di misurazione, sia perché obbligate dalle norme di legge, sia perché funzionali alla gestione e allo specifico business. Ma quante sono in grado di fare previsioni e simulazioni di scenario con buona correttezza?

La liquidità è il driver

Nell’immediato la liquidità è fondamentale per le necessità di cassa, nel medio e lungo termine la gestione dei flussi finanziari rimarrà essenziale per la sopravvivenza e la crescita delle imprese.

Un ottimo conto economico affiancato da una pessima gestione finanziaria porta inevitabilmente alla crisi, magari senza averne contezza tale da poter prendere provvedimenti.

Il legislatore ha da qualche tempo introdotto l’obbligatorietà del rendiconto finanziario in fase di bilancio, ma per la maggior parte delle imprese si tratta di un adempimento realizzato ex post, oggetto di discussione in fase di rendicontazione di fine anno, quando ormai i giochi sono fatti.

Strumenti ad hoc

Eppure esistono ormai da tempo strumenti in grado di supportare l’imprenditore nella gestione finanziaria della propria attività: tools facilmente implementabili in tutte le piccole e medie imprese che offrono:

· il monitoraggio continuo e puntuale dell’andamento della liquidità, attraverso l’incrocio di tutte le informazioni finanziarie (ingressi, uscite, conti correnti, affidamenti bancari)

· la misurazione degli scostamenti tra budget e consuntivi di cassa (quanto i miei clienti sono bravi pagatori? cosa faccio se un fornitore mi offre uno sconto in cambio di un pagamento immediato?)

· la creazione di scenari differenti, intervenendo su tutte le variabili (tempi di incasso di ogni singolo cliente, tempi di pagamento dei fornitori, gestione degli affidamenti).

Andrà tutto bene se sapremo organizzare la nostra attività in un mondo differente. Cosa aspettiamo a iniziare?


Eugenio Guagnini Meardi

 

 




IL CONTO DA PAGARE

L’altro giorno il Sole 24 ore ha intervistato il ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, che lancia un ovvio allarme circa il debito pubblico, destinato a gonfiarsi a causa del collasso economico causato dal lockdown da pandemia. “I debiti vanno pagati” ha affermato quest’ultimo, che non si è limitato però ad affermare un ovvio principio, bensì è arrivato ad affermare un’altra cosa probabilmente ovvia ma nient’affatto scontata: con i risparmi privati! E qui casca l’asino: non aspettavamo gli Eurobond?

 

LA QUESTIONE DELLE QUESTIONI

Il ragionamento ruota intorno alla più banale delle domande: se il gettito fiscale si interrompe durante il lockdown e l’Erario italiano -già pesantemente caricato di debito nel passato- ottiene finanziamenti europei e fornisce la “garanzia di Stato” ai nuovi debiti dei cittadini italiani verso le banche (che si tradurranno almeno per una parte in ulteriori nuovi debiti di stato verso le banche), come farà lo Stato a rimborsarli tutti, se non attingendo a nuovi balzelli a carico degli stessi cittadini per i cui debiti oggi fornisce quella garanzia?

La sostenibilità del debito pubblico italiano era già al limite prima della serrata, adesso è chiaramente andata oltre e, con i nuovi debiti verso l’Europa, diventerà solo una chimera. Ma se l’Europa ci “aiuta” fornendoci nuovi finanziamenti e non contributi a fondo perduto, non è altrettanto ovvio che anch’essa, come le banche, si aspetti il rimborso dei medesimi?

BAMBOLE, NON C’È UNA LIRA !

Messina non parla della strada che sarebbe senza dubbio più auspicabile per l’Italia (e più sperata persino dai nostri politici): quella di più acquisti di titoli dello stato italiano da parte della B.C.E., senza i quali sarebbero già oggi carta straccia. Una strada che -in tempi di deflazione, potrebbe persino non costare alcunché agli altri membri dell’Unione. Non parla nemmeno di Eurobond, che evidentemente considera improbabili.

Egli segnala invece un elemento molto caro ai paesi della Nuova Lega Anseatica : l’Italia è molto ricca di risparmi privati, circa 9000 miliardi di euro. Se solo una piccola ulteriore parte di essi verrà investita in titoli di stato (oggi è solo il 3%) allora non ci sarà un problema di finanziamento del debito pubblico.


Si ma come riuscirci? Non ci si può attendere di indirizzare “spontaneamente” una maggior quota del risparmio privato alla sottoscrizione di titoli di stato. Ma secondo Carlo Messina bisogna arrivare (con incentivi e con vincoli) ad ottenere alla fine lo stesso risultato.

Il Tesoro italiano d’altra parte se non farà qualcosa del genere (che si chiama in gergo tecnico “repressione finanziaria”) potrà soltanto sperare che il ministero delle finanze escogiti nuove forme di gettito fiscale o dichiarare bancarotta. Ma Messina mette le mani avanti: “In questa situazione non si può imporre alle famiglie italiane, anche a quelle con redditi da 100 mila euro, di pagare dazio con prelievi tipo imposte patrimoniali o sul reddito. Ugualmente non è accettabile pensare di fare affidamento soltanto alle soluzioni attualmente in discussione sui tavoli europei.

Insomma, come avrebbe detto quel famoso impresario teatrale impersonato dall’impassibile Ernesto Calindri: “bambole, non c’è una lira!”. E magari ci fosse stata ancora la Lira. Adesso ne avremmo potuta stampare qualcuna in più…

LA PROPOSTA DI CARLO MESSINA

Gli avvoltoi delle agenzie di rating hanno già iniziato da tempo a volare intorno al possibile default nazionale, segnalando che l’orizzonte del nostro merito di credito è negativo e che entro tre anni deve chiaramente imboscarsi una strada di riduzione del debito pubblico o di maggior supporto da parte dell’Unione Europea. Un vero e proprio avvertimento, in pratica: se non otterrete maggiori aiuti vorrà dire che vi dichiareremo insolventi oppure che avrete trovato il modo di ridurre il debito. Non per niente il nostro rating è giunto alla soglia psicologica dei 250 punti (oltre i quali c’è l’allarme di tutti) e non l’ha superata soltanto perché la BCE è nuovamente intervenuta, andando ben oltre i limiti “normali”. Ma pur sempre provvisoriamente. Poi bisognerà fare qualcosa.

E Messina dice proprio questo: cioè che occorre fare dell’altro: “creare le condizioni affinchè gli italiani si convincano a spostare parte della loro ricchezza verso l’acquisto di titoli che potremmo chiamare bond sociali”, meglio se sostituendo quelli stranieri oggi in portafoglio e meglio ancora se li si potesse far rientrare dall’estero, dove si stima che essi ammontino ad almeno 100 miliardi di euro.

L’unico particolare (non citato dal CEO di Intesa San Paolo) è che gli italiani non si fidano dei propri politici. Se non ne saranno costretti, allora dovranno ottenere un trattamento davvero speciale. Dunque perché non vincolare al loro acquisto almeno una parte di quei 26 miliardi cui ammontano i fondi di Trattamento Fine Rapporto? In gergo tecnico si chiama “vincolo di portafoglio” e una misura del genere si è già vista in passato con le riserve bancarie e assicurative. E non è detto che non si ricorra di nuovo anche a “canalizzare” sui bond sociali anche queste ultime.

Ma visto che questo non basterà, ecco allora che Messina profila anche l’idea di “valorizzare il patrimonio immobiliare di proprietà pubblica”. Magari vincolandone la proprietà al rimborso dei “bond sociali” e innestando sulle cedole di questi ultimi un trattamento fiscale di favore. Sempre meglio che lasciar mettere le mani su quelli di proprietà privata, si potrebbe dire. E soprattutto sempre meglio dell’intervento, in stile Grecia 2016, di una nuova Troika a trazione tedesca che, invece di favorire l’investimento delle varie banche sovranazionali nel nostro Paese, vada dritta all’assalto delle infrastrutture di stato, com’è successo ad Atene.

UN RETROGUSTO AMARO: QUELLO DI ESSERE STATI ABBINDOLATI

È certamente un ragionamento che non fa una piega, salvo quel retrogusto amaro che lascia in bocca il suo assaggio: la constatazione di fatto che la situazione non sia esattamente quella che i telegiornali di regime ci proprinano mattina e sera: cioè che dall’Europa stanno arrivando aiuti molto consistenti.

È invece probabile -come è successo con la Grecia- che l’Europa non abbia intenzione di regalarci proprio un bel niente. Anzi vuole finanziarci (per non creare problemi all’Euro), ma poi Iole farci pagare per intero l’affitto del suo ombrello, ora che piove. Si perché se non ci fosse nell’aria questa possibilità concreta: che accanto alla pedissequa -seppur dissimulata-accettazione del Meccanismo Europeo di Stabilità possa profilarsi, tempo qualche mese, l’intervento della Troika, (magari anche questa sotto le false spoglie di un nuovo aiuto condizionato) il CEO di Intesa San Paolo non avrebbe messo in gioco la sua credibilità andando a immaginare delle possibilità teoriche alternative. Il rischio è reale: che siano le ultime, dopo le quali il fondo del barile sarà stato raschiato.

IL CONTO DA PAGARE

Il conto da pagare, degli italici eccessi precedenti ma anche del prolungato lockdown da virus, insomma, non sarà a carico dell’Europa, bensì interamente di noi italiani, e non sarà soltanto limitato alla canalizzazione forzosa di almeno una parte dei nostri risparmi, bensì anche a numerosi condizionamenti (e riduzioni) delle spese pubbliche (e dunque delle pensioni, della sanità, della scuola e degli altri investimenti di “utilità sociale”). Un po’ ce li siamo meritati.

Ma visto che la sciagura non l’abbiamo creata noi e che il mondo corre velocemente verso una delle peggiori deflazioni che la storia ricordi, un aiutino in più da parte della Banca Centrale Europea potevamo anche sperarlo. Se stamperà più denaro ben difficilmente questo creerà inflazione. Anzi avremo ugualmente il problema di un Euro troppo forte. Come lo hanno sempre voluto i tedeschi, ma come le nostre aziendine esportatrici hanno sempre sperato che non fosse.

Stefano di Tommaso




FASE DUE

Molti amici e conoscenti (praticamente tutti) hanno ironizzato sull’affollamento di esperti e task forces nominate dal governo per governare e coordinare i quali ci vorrebbe a sua volta un’altra task force. E quale sarebbe il lavoro di tutti i 450 “saggi” ingaggiati da Conte&C. a vario titolo se non l’ individuare una strategia di uscita dal pantano economico-sanitario in cui lo stesso governo si è andato a cacciare per aver reagito in maniera tardiva e poi esagerata, scomposta e inefficace, alla minaccia del virus? Come si dice in questi casi: il pesce puzza dalla testa!

 

UNA FOLLA DI “AMICI” INSIEME AI VERI “SAGGI”

In effetti sembra che ancora una volta il Palazzo più che chiedersi davvero cosa fare adesso abbia trovato l’ennesima buona scusa per distribuire prebende e favori a destra e a manca. Non solo: da decenni la numerosità dei ministri, viceministri (non capisco perché abbiano cambiato nome ai sottosegretari: forse il termine rassomiglia troppo a quello di “sottopanza”?) e “componenti di gabinetto” dei numerosissimi ministeri di Roma è tristemente nota per essere una delle più affollate e al tempo stesso i nostri governi sono tra i meno efficaci al mondo.

Anche per questa tradizione di scarsa concretezza quasi nessuno dei miei concittadini crede davvero che questo governo si preoccupi del bene della nazione quanto piuttosto di come fare a sopravvivere fino a fine legislatura (e magari oltre)! Ma l’Italia avrebbe invece un disperato bisogno di veri manager, scienziati, filosofi e strateghi per trovare una via di uscita dal tunnel dove s’è infilato il paese.

Avremmo bisogno di indirizzare intelligentemente le poche risorse economiche disponibili per creare le pre-condizioni e dotarsi degli strumenti che possano sprigionare nuove energie ed effettiva crescita, Industriale, culturale e sociale. E dovremmo evitare di diventare il primo caso di declino conclamato per un Paese che era una delle maggiori potenze industriali d’occidente.

Avremmo bisogno di ripensare profondamente le priorità nazionali, a partire dal turismo, che con quest’ultima crisi sembra oramai arrivato a boccheggiare. E avremmo un disperato bisogno di nuove e migliori infrastrutture, la mancanza delle quali segna da sola quasi l’intera ampiezza del nostro divario con il resto dei Paesi OCSE.

SERVONO STRATEGIE, MA ANCHE LA CAPACITÀ DI APPLICARLE

La stagnazione (cioè l’assenza di crescita) da più di un decennio del Bel Paese (una definizione della Penisola che risale a Dante e Petrarca e che oggidì appare totalmente superata dai fatti: se si mette questa allocuzione su Google viene fuori il nome di un formaggio, peraltro prodotto in Italia ma dai Francesi della Danone) là si combatte soltanto con un’ottima strategia. Anche perché tra vincoli europei al deficit e cause naturali di forza maggiore è davvero difficile trovare una quadra.

Da questo punto di vista una seria e qualificata Task Force (possibilmente capace di alimentare un dibattito aperto e sincero sulle iniziative più urgenti) sarebbe molto utile e aiuterebbe gli Italiani a ritrovare la voglia di esprimere le loro idee. Servirebbe dunque una strategia industriale, una selezione delle migliori risorse per la formazione, l’innovazione e l’esaltazione delle competenze, dei punti di forza, delle nostre capacità distintive.

Servirebbe una messa a fuoco delle priorità nazionali, l’individuazione degli sprechi e un‘ intelligente marketing territoriale che permettesse anche solo di tornare a corteggiare i numerosissimi campioni nazionali nelle scienze, arti e professioni, riparati oltre confine per evitare di rimanere schiacciati dallo “spoil system” italico, cioè dai sistemi di selezione e di potere basati su logore logiche clientelari e di conformismo.

Servirebbero allo stesso modo capacità e intelligenza per attrarre in Italia capitali e finanziamenti, senza i quali tutto il resto resterebbe un bel libro dei sogni. Ma è sufficiente trovare degli ottimi consulenti? È possibile delegare loro quelle funzioni che dovrebbero avere pochi ma buoni responsabili dei ministeri-chiave? No. Purtroppo non è nemmeno pensabile.

L’ALTERNATIVA È L’ESILIO FORZOSO DI UOMINI E CAPITALI

Non ci faccio niente con Buddha in persona a sussurrarmi saggezza nell’orecchio se di mestiere faccio il magnaccia! Non basta far indossare qualche bel vestito al clochard che dorme sotto i ponti se questi non ha davvero voglia di trasformarsi in un distinto signore.

Ci vorrebbero dunque le precondizioni politiche e istituzionali (ad esempio: un presidente della repubblica super partes) perché avvenisse il miracolo e le migliori menti del mondo (spesso italiani all’estero) venissero ascoltate dai peggiori (e più ignoranti) ministri che la storia ricordi. E, probabilmente, quelle precondizioni politiche e culturali oggi non ci sono affatto!

Un vero peccato, perché se nessuno farà nulla allora il risultato dello scivolone attuale sarà l’ennesima (e forse definitiva) fuga di cervelli e capitali dalla nostra penisola. Altra gente che troverà riparo altrove nel mondo e lì, probabilmente farà miglior fortuna. E senza né gli uni né gli altri(cervelli e capitali) non si capisce come potremmo continuare a sperare.

Ci vorrebbe insomma un miracolo, oppure un moto collettivo, una forte presa di coscienza, una scuola di pensiero capace di farci resistere alle sirene delle armi di disinformazione di massa, alla tentazione di lasciarci andare ancora una volta all’ italico qualunquismo al tanto peggio tanto meglio.

Il nostro Paese pullula di inventori, artisti, creativi, tecnico, scienziati, artefici ed eroi. Ma quando questi tentano di tirare su la testa vengono scoraggiati, invitati a fuggire, sottopagati e disinformati. L’occasione della gravissima crisi in cui il Paese è caduto potrebbe risultare preziosa per ripensare completamente la nostra società civile e la nostra cultura collettiva. Ci riusciremo?

Probabilmente no. L’onda lunga del qualunquismo potrà al massimo generare qualche nuova dittatura, ma difficilmente la generazione attuale potrà assistere al nuovo rinascimento italiano. E se mai ce ne sarà uno è probabile che prima dovremo toccare il fondo. Altrimenti continueremo a pensare di essere più furbi degli altri…

Stefano di Tommaso

 




VOLATILITÀ, ANCORA VOLATILITÀ

Le recenti ondate di vendita sulle borse di tutto il mondo non sono l’effetto del crollo del prezzo del petrolio, anzi: tanto i mercati delle materie prime quanto quelli delle attività finanziarie sono sotto pressione perché molti investitori sentono puzza di bruciato e cercano -come possono- di tirare i remi in barca. Vediamo perché.

 

Il primo (e più importante) punto che vale la pena di osservare è quello dell’estrema velocità con la quale si è dispiegato uno dei più rovinosi crolli di borsa della storia recente. Nel confronto tra gli istogrammi qui sotto riportati si può leggere in quanti giorni si è dispiegato un calo generale dell’indice Standard & Poor 500 (il più ampio e diffuso indice delle azioni a Wall Street, che a sua volta traina l’andamento di quasi tutte le altre borse valori del mondo).

Ebbene i 22 giorni che sono bastati al più liquido e ricco listino azionario del pianeta per perdere quasi un terzo del valore sono inferiori persino a quelli occorsi durante la famosa crisi finanziaria del 1929, cui peraltro ne seguirono altre due (nel 1931 e nel 1934).


Anche allora (quasi un secolo fa) non soltanto le borse entrarono in un ciclo perverso di distruzione del valore in ossequio al profondo cambio di paradigma del mondo industriale che esse riflettevano (come peraltro molti osservatori fanno notare stia accadendo oggidì), ma soprattutto entrarono in una fase di profonda instabilità che arrivò a durare quasi un decennio, prima che il mondo imboccasse la rovinosa strada della seconda guerra mondiale.

E se parliamo di instabilità non possiamo non osservare l’unico grande indice che ne trae una misura: quello della volatilità delle borse. L’indice VIX (quotato alla Borsa di Chicago) nelle ultime 9 settimane non soltanto è cresciuto vistosamente, ma sembra anche stranamente essersi stabilizzato su livelli decisamente elevati: da un paio di mesi infatti la sua media è ben superiore al livello 40, storicamente considerata pericolosa.


Come è possibile leggere dal paragone qui sotto riportato, nemmeno durante la crisi del 2008 il listino azionario a Wall Street vide una oscillazione così marcata e prolungata dell’indice della volatilità:


Ma soprattutto la sua tendenza non accenna a placarsi: secondo molti analisti il grafico esprime tutta la sua volontà di toccare nuovi massimi e, se osserviamo l’andamento degli ultimi vent’anni dell’indice Standard & Poor 500 (qui sotto riportato: è anche l’indice di borsa cui si riferiscono le oscillazioni riportate dal VIX), esso non promette nulla di buono. Soprattutto considerando il fatto che in una nuova recessione globale (evidenziata nei precedenti periodi dalle strisce verticali grigie) il mondo oramai ci è finito per certo!


E, se andiamo a guardare cosa è successo all’indice di Wall Street all’arrivo di ognuna delle precedenti recessioni (2001 e 2008), troviamo ben più di un’ondata di ribassi prima che la Borsa potesse riprendere fiato.

Aggiungiamoci pure il fatto che la recessione che si prospetta per l’anno in corso -per ampiezza e profondità- ha tutta l’aria di assomigliare soltanto a quella del 1929, facendosi un baffo delle altre crisi intermedie. E allora completiamo il quadretto allargando il medesimo grafico ad un intero novantennio e specificando che all’epoca, le ondate di forte oscillazioni dei corsi azionari si propagarono ulteriormente per tutto il ventennio che ne seguì:


Come si può leggere dal grafico qui sopra riportato alla profonda caduta dei corsi di Borsa seguita alla crisi del 1929 seguì un’ampia recessione (la peggiore della recente storia economica) e una profonda deflazione, alimentata anche dalla minore capacità di intervento delle banche centrali dell’epoca, fortemente limitate dal concetto di “gole standard” che accompagnava l’emissione di carta-moneta. Ma soprattutto a quell’ondata ne seguirono delle altre. Quasi altrettanto forti, e per quasi un ventennio, appunto.

Ora, diciamocelo francamente, il paragone con la crisi occorsa quasi un secolo fa non lascia sonni tranquilli: la recessione del 2020 è oramai conclamata (anche se non lo è ancora, statisticamente, lo è tuttavia nei fatti), la deflazione ai giorni nostri morde il freno oramai dal lontano 2014, quando l’ex rettore della Harvard University, Larry Summers, pubblicò il suo famoso saggio scrivendo che sarebbe presto arrivata una “stagnazione secolare” ( un neologismo in realtà coniato da Alvin Hansen nel 1938), coincidente con la crisi dell’attuale modello economico capitalista. E i tassi d’interesse sono già arrivati da tempo intorno allo zero.

E per di più non è detto che la pandemia che all’inizio dell’anno ha innescato questa crisi non possa mostrare una “seconda ondata”, come dimostra l’episodio di Singapore, dove nuovi focolai di infezione da Coronavirus sembrano presagire un non facile ritorno alla normalità.

Abbiamo sempre tutti (forse un po’ alla leggera) affermato che la crisi che si prospetta avrebbe potuto anche evaporare in funzione degli interventi pubblici a sostegno dell’economia (e ce ne sono stati, soprattutto al di là dell’oceano) e della velocità con la quale il mondo sarebbe potuto tornare alla normalità. Ma è sempre più evidente che alla “nuova” normalità (e dunque ad una quasi piena funzionalità produttiva) il mondo non tornerà prima dell’estate, addirittura forse non prima della fine dell’anno.

Non si prospetta perciò nulla di buono in generale per le borse valori, almeno sino a quando le prospettive di ripresa economica non si faranno più solide, anche perché ulteriori crisi dei listini di borsa scatenerebbero per certo ulteriori necessità di interventi da parte delle banche centrali, per far fronte alla carenza di circolazione della moneta che ne conseguirebbe. Cosa che indubbiamente può generare un’opportunità per investire (speculativamente e nel breve termine) sul mercato dei titoli a reddito fisso i quali, pur già ai minimi di rendimento, potrebbero inanellare l’ennesimo rialzo a causa degli interventi summenzionati delle banche centrali.

Ma soprattutto non si prospetta nulla di stabile per i listini azionari, cosa che ne potrebbe fare nelle prossime settimane piuttosto probabilmente il paradiso degli speculatori, ma anche l’inferno dei risparmiatori.

Stefano di Tommaso