ITALIA: ECONOMIA A PICCO E VOLATILITÀ IN VISTA, MA LE MATRICOLE DI BORSA DOVREBBERO DARE SODDISFAZIONE

Se la borsa italiana ha reagito piuttosto male all’emergenza COVID, rispetto alla borsa delle borse, quella americana di Wall Street, il confronto tra le rispettive economie reali non potrebbe essere più impietoso. I grafici parlano chiaro: non è un caso che la ripresa dei corsi della Borsa di Milano sia stata significativamente inferiore a quella d’oltreoceano.

 

Dal momento che sul nostro listino principale ci sono soltanto 242 titoli quotati, mi sono permesso di paragonare l’indice delle principali 500 società quotate a Wall Street con l’indice di tutte le 242 quotate al MTA. Il divario, soprattutto dopo la ripresa dal crollo, appare evidente dai grafici qui riportati:

 

Ma l’Italia non è soltanto immersa nell’Unione Europea e nella sua divisa unica, (e l’Unione si stima che vedrà il proprio prodotto interno lordo contrarsi di oltre il 10% nel 2020). L’Italia è anche il Paese che meno ha supportato le imprese nella loro ripresa dell’attività, mancando completamente il bersaglio di fornire liquidità, semplificazione e defiscalizzazione di oneri sociali. L’attuale governo, ossessionato dal compiacere il nord Europa nel non aggravare troppo la situazione debitoria, non è nemmeno riuscito nell’obiettivo dichiarato -secondario in tempi di profonda recessione- di ridurre il carico fiscale e contributivo, nonostante una sorta di “liberi tutti” da parte dei capi-bastone del patto di stabilità europeo!

L’ITALIA È MALATA GRAVEMENTE DI RECESSIONE

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non soltanto la recessione galoppa ad un ritmo che, nel migliore dei casi, sarà vicino al -13% su base annua, ma soprattutto è la spesa degli Italiani che si è inchiodata. I dati di Confcommercio segnalano ad Aprile una riduzione dei consumi del 47% e a Maggio una di quasi il 30% (entrambe su base annua). Il risultato è che nel secondo trimestre 2020 il prodotto interno lordo è stimato ridursi del 22% circa su base annua.

 

Se ci aggiungiamo che la risorgenza del virus (seconda ondata, quella che da noi non ha ancora colpito ma altrove sta già facendo molte vittime) sta cancellando ogni residua speranza della stagione turistica di riprendere quota, è evidente che sono “fritte” tutte le imprese italiane che non esportano (e comunque verso un’economia globale che quest’anno dovrebbe fare -5%, il che vuol dire -8% se rapportata alla crescita demografica).

Sono numeri che si ricordano solo in tempo di guerra. E non è detto sia finita, perché non si sa quanti danni all’economia potrebbe ancora arrecare la seconda ondata della pandemia, già presente altrove nel mondo. Ma soprattutto questi dati si confrontano con un immobilismo della Commissione Europea da primato, che non lascia ben sperare. E tutto questo mentre invece la Germania (autonomamente) e soprattutto l’America e l’Asia stanno lavorando alacremente per elaborare risposte importanti alla crisi economica in atto!

Altro mal di testa per l’intera Europa (a parte la risorgenza della pandemia) è ovviamente la debolezza del Dollaro, che rischia di penalizzare ulteriormente le esportazioni, particolarmente importanti per l’economia tedesca ma la penalizzazione della competitività delle esportazioni rischia di danneggiare soprattutto quelle italiane, caratterizzate in media da una politica di prezzo più basso se comparato ale produzioni tedesche.

LA DEBOLEZZA DEL DOLLARO NON AIUTA

Un modo per contrastare la rivalutazione dell’Euro sul Dollaro ci sarebbe: un’accelerazione delle facilitazioni monetarie della BCE, che ovviamente ne indebolirebbero le quotazioni. Ma non soltanto i paesi germanici ne sono sempre stati allergici, bensì c’è anche il rischio che senza adeguate politiche fiscali governative la maggiore liquidità percolerebbe assai poco fino all’economia reale, stazionando piuttosto sui conti bancari a causa della difficoltà per le imprese (senza adeguate garanzie di stato) a contrarre nuovi debiti.

L’altro versante dove la liquidità dei mercati potrebbe riposare è quello dei titoli borsistici ma, in presenza di pessimi risultati economici delle imprese quotate, è probabile che tanta più liquidità verrà pompata dalle banche centrali, quanto più la volatilità dei corsi ne potrebbe risultare aumentata.

LA BUONA NOTIZIA DELL’INDICE IFO

È in questo panorama che la buona notizia della risalita dell’indice tedesco di fiducia dei responsabili degli acquisti (salito a 86,2 punti da 79,7 a maggio e oltre il consensus fissato a 85) è rimasta annegata: l’eurozona rischia di essere semplicemente un passo indietro rispetto all’avanzata della seconda ondata del virus e gli investitori che fanno liquidità sulle borse, prevalentemente internazionali, lo sanno già.

Ovviamente esistono anche considerazioni che vanno in senso opposto alle brutte notizie: le borse dell’intera Europa e in particolare quella italiana hanno ancora spazio per recuperare quota rispetto alle altre borse del resto del mondo, o per perderne di meno in caso di una nuova, brusca frenata dei listini a livello globale. L’argomento è ancora più valido se si pensa che il grosso del nostro listino è ancora prevalentemente composto da titoli bancari e dell’industria “old economy”. Dunque c’è molto denaro a disposizione per le matricole in arrivo, soprattutto se queste, come dovrebbe essere, appartengono a settori vagamente innovativi o ad aziende fortemente propulsive.

CONCLUSIONI

L’ottimismo sui mercati pertanto non dovrebbe pertanto affievolirsi del tutto, quantomeno a causa dell’abbondanza di liquidità che continuerà a inondare i saloni delle contrattazioni borsistiche, magari generando forti ondate speculative ma senza che si possano prevedere grandi crolli. Salvo il fatto eventuale che la nuova ondata di contagi possa costituire un pericolo così grave da riportare il mondo ancora una volta indietro nella storia, costringendo tutti a rivedere al ribasso i propri programmi, e le proprie speranze.

Però c’è solo il dubbio, la certezza invece proprio no: la speranza è concreta che la seconda ondata possa risultare molto meno letale della prima, e che persino il lockdown -se mai tornasse ad essere necessario- sarebbe meno invasivo: qualcosa avremo pur imparato dal trimestre precedente!

Stefano di Tommaso

 




SE I TASSI VANNO SOTTO ZERO ANCHE IN AMERICA

Sembrava una questione di principio: i tassi di interesse non potranno mai divenire negativi! L’America se n’era fatta una ragione e, poiché i tassi negativi sono contro-intuitivi, tutto sommato nessuno se n’era dispiaciuto. Ma era invece solo questione di tempo: con le banche centrali che continuano a pompare denaro e l’America che lo attrae con i suoi scoppiettanti mercati finanziari, che i tassi sarebbero andati sotto lo zero anche oltreoceano era ampiamente prevedibile. Ma quali sono le implicazioni di quel che succede? Che l’ottimismo finanziario aumenta, e che le perdite (o i mancati profitti) del 2020 non interessano più a nessuno! Così come l’andamento dell’economia reale…

 

SE I GOVERNI CHIEDONO QUATTRINI A CHI GLIELI PRESTA…

Lo scorso venerdì il rendimento dei titoli di stato americani a 10 anni è sceso a -0,6%, un record che non veniva toccato da molti anni e il superamento di una soglia psicologica importante. Tra l’altro i rendimenti negativi fanno diventare l’oro più interessante che mai, dal momento che il suo unico difetto è sempre stato quello di non avere rendimenti. Perciò quando il mondo va sottosopra i mancati rendimenti (che come tali non diventano negativi) si tramutano in un pregio non trascurabile. E se l’oro sale, allora vuol dire che il valore della moneta (con cui è misurato quel valore) scende. Cioè si svaluta, tanto quanto un automobile usata.


INFLAZIONE O DEFLAZIONE?

La svalutazione della moneta potrebbe significare che i prezzi dei principali beni e servizi sono destinati a salire, ma non è esattamente né diffusamente così: dipende. Dipende dalle leggi di domanda e offerta: se la domanda è scarsa anche i prezzi scendono. O se i prezzi scendono tanto quanto scende il mezzo di misura con cui vengono fatti, i prezzi dei beni rimangono intatti. È la cosiddetta deflazione dei prezzi di molti beni e servizi, che va a braccetto con la svalutazione perché l’economia è in crisi e dunque dell’inflazione dei prezzi (principalmente alimentari) ci sono poche tracce.


E se i rendimenti reali vanno a zero ma non c’è quasi inflazione, allora i tassi che scontano i flussi di cassa futuri sono anch’essi a zero, portando verso l’alto il valore della sommatoria di quei flussi futuri! Insomma i mercati applaudono e crescono, soprattutto in America, dove nessuno si aspetta che il lockdown possa generare conseguenze negative nel lungo termine.

MA L’AMERICA È DIVERSA

Ma l’America non è uguale al resto del mondo: quasi soltanto lì infatti questi fenomeni, invece di gettare nello sconforto operatori economici e risparmiatori, suonano bene! Sì perché oltreoceano tutti confidano nella capacità del tessuto produttivo di riprendersi in tempo perché l’economia reale possa seguire l’andamento positivo dei mercati finanziari. Mentre nella vecchia Europa l’obsolescenza industriale, l’elevatissima spesa assistenziale è una disoccupazione galoppante lasciano molto meno fiduciosi gli investitori. Soprattutto perché da queste parti tutti sanno che i denari stampati dalla Banca Centrale Europea non saranno infiniti, e quelli attuali fanno fatica a permeare l’economia reale.


Il divario tra le due realtà: quella reale è quella di carta (delle borse e della finanza), ma anche il divario tra le due economie: quella americana e quella europea, sono dunque destinati a crescere? La risposta non ce l’ha nessuno, ma il rischio è concreto. Sebbene l’abbondanza di liquidità sui mercati finanziari qualche effetto positivo lo genera di sicuro: le imprese che appaiono più interessanti per gli investitori (quelle medicali, innovative e digitali) raccolgono quattrini come se piovesse! E con questi finanziano gli investimenti in ricerca e sviluppo delle imprese più innovative. Quelle che infatti abbondano negli USA.

L’OTTIMISMO DEI MERCATI FINANZIARI

L’ottimismo insomma è diffuso sui mercati, così come la struttura dei tassi permette di dare ben poca importanza al calo dei profitti atteso per quest’anno: se i gli interessi sono bassissimi, l’orizzonte finanziario degli investitori è molto lungo. E nel lungo termine saranno quasi solo le imprese che oggi appaiono innovative a restare vive, mentre le altre inevitabilmente saranno declassate. Soprattutto se nel breve termine nessuno si aspetta vivacità dei consumi e degli investimenti produttivi.


Perciò se l’economia reale sembra destinata a una lunga pausa di riflessione, quella dei mercati finanziari è invece una meravigliosa ricetta anticrisi, senza dubbio (investo sul lungo termine perché è solo così che vedo ritorni adeguati per i miei investimenti), che sarebbe completa e socialmente utile se i governi la corroborassero con adeguata spesa infrastrutturale. Ma questo invece avviene con il contagocce, perché la politica (in tutto il mondo) in questo momento non fa programmi di lungo termine. Non le conviene affatto. Panem et Circences, dicevano nell’antica Roma per intendere la demagogia… E la storia dell’umanità dopo duemila anni sembra cambiata assai poco!

Stefano di Tommaso




TANTE MATRICOLE A PIAZZA AFFARI

Le “Initial Public Offering” (I.P.O.) alla Borsa di Milano continuano a fioccare imperterrite nonostante la gravissima recessione che il nostro Paese sta affrontando. Certo la liquidità che abbonda sui mercati costituisce un importante traino, ma non basta a spiegare la grande apertura del mercato dei capitali verso le matricole che approdano al listino. C’entra anche la limitatezza numero di società già quotate rispetto a quelle che sarebbero pronte per farlo, e che sino a ieri avrebbero preferito finanziare con il debito i propri investimenti. Ma sono soprattutto le “nuove” attività, quelle più tecnologiche o attive nei settori che “tirano” di più (come il medicale, il digitale e le nuove tecnologie “verdi”) ad avere il favore del mercato. La crisi sta infatti accelerando il ricambio industriale, lasciando indietro le aziende che non guadagnano e fornendo ampie risorse a quelle più “sexy” perché la liquidità abbonda e i rendimenti delle obbligazioni sono sempre più bassi.

 

GVS: UNA RICHIESTA DEGLI INVESTITORI DI 3,4 MILIARDI DI EURO


Se qualcuno aveva timore che la Borsa Italiana, con il lockdown, si fosse sopita come buona parte dell’industria italiana (tessile e meccanica), con la prima IPO dell’anno la quotazione della bolognese GVS sul Mercato Telematico Azionario (M.T.A., il listino delle 242 imprese maggiori, nell’ambito delle quali ci sono le 77 società quotate nel segmento titoli con alti requisiti: STAR), probabilmente ha dovuto ricredersi: attiva nella produzione di filtri per i settori medicale, della sicurezza, energetico e automobilistico, i titoli hanno debuttato venerdì scorso e, più volte sospesi al rialzo nella prima seduta, hanno superato la quotazione di 9,7 euro, registrando una performance di circa il 19% in più rispetto al prezzo di riferimento dell’IPO (8,15 euro). In totale GVS ha raccolto quasi mezzo miliardi di euro dalle sottoscrizioni degli investitori, i quali hanno scommesso su un’attività che pur tuttavia è stata e sarà (non si sa per quanto) fortemente sospinta dalla pandemia.

UN’ELEVATO VALORE DI CAPITALIZZAZIONE


Con la quotazione alla Borsa di Milano quest’azienda, controllata tramite GVS GROUP dalla famiglia Scagliarini, è arrivata a superare un valore di capitalizzazione di circa 1,5 miliardi di euro, contro un fatturato previsto quest’anno di 320 milioni di euro con poco meno di 100 milioni di Ebitda (31%). Elevato è dunque il valore che il mercato attribuisce alla società: pari a circa 15 volte il margine operativo lordo previsto per quest’anno, e a oltre 24 volte quello del 2019, quando ha raggiunto un fatturato di poco inferiore ai 230 milioni e 62 milioni di margine operativo lordo (27%). Ma ancora più elevata è stata la richiesta degli investitori, pari a 3,4 miliardi di euro contro un totale collocato (dopo l’esercizio della “green shoe”) di 497 milioni con i quali hanno acquisito complessivamente il 40% delle azioni della società.

La famiglia Scagliarini ha dunque quasi solo fatto cassa: nella società sono andati 81 milioni di euro in aumento di capitale mentre ben 416 milioni di euro sono stati titoli ceduti dai vecchi azionisti. Gli Scagliarini resteranno perciò al 60% del capitale ma manterranno diritti di voto per il 75% del totale.

LA DOMANDA DEI TITOLI ERA PRINCIPALMENTE STRANIERA

Prima dell’esercizio della green shoe la richiesta aveva perciò ecceduto di quasi 6 volte l’offerta, raggiungendo appunto i 3,4 miliardi di euro, rivolta a investitori qualificati in Italia e istituzionali all’estero. Ma il bello è che la valutazione di mercato di GVS è addirittura inferiore, con le dovute proporzioni, alla media dei titoli comparabili, tra i quali industriali del settore medico-scientifico e altri titoli italiani simili (Carel, Interpump e Ima). La domanda istituzionale è pervenuta principalmente da primari investitori esteri con una diversificazione geografica che comprende Regno Unito (per il 43%) , Stati Uniti d’America (per il 36%), Nord Europa (per il 14%) è solo marginalmente dall’Italia (per il 5%). In base alle richieste pervenute nell’ambito del collocamento istituzionale (cioè quasi solo estero), sono state assegnate 70 milioni di azioni su un totale di 81 milioni (quasi il 90%). Un riconoscimento in qualche modo meritato per una eccellenza italiana che realizza all’estero il 90% circa del suo fatturato con 20 sedi in giro per il mondo e 14 stabilimenti di produzione.

UNA CRESCITA DEL 15% COMPOSTO ANNUO E BEN 14 ACQUISIZIONI

Con il Covid19 che quest’anno spinge i ricavi, GVS nel 2020 avrà centrato un bel balzo. L’anno scorso ha realizzato metà del suo giro d’affari nel medicale (healthcare & life sciences), quasi il 40% nell’energy & mobility (sistemi di filtraggio per l’automotive) e il 10% circa nell’health & safety (filtri di sicurezza per applicazioni industriali). Quest’anno la quota della sanità dovrebbe rimanere al 50%, mentre l’area dei dispositivi per la sicurezza dovrebbe arrivare al 30% del fatturato, con il 20% circa per l’energy&mobility. Per il 2021 è inoltre prevista un’ulteriore crescita dei ricavi di circa 5%, con un’Ebitda stabile. GVS produce anche mascherine (quest’anno ne produrrà 7 milioni di pezzi) ma solo per uso professionale-ospedaliero, ed è quindi una piccolissima parte del totale delle sue attività. GVS è stata in grado di crescere sino ad oggi del 15% medio annuo, infilando la bellezza di 14 acquisizioni. Da segnalare nel 2017 quella della statunitense Kuss Filtration, specializzata in filtri per auto e per il comparto industriale, assommando così circa 2.700 dipendenti a livello globale, numero che ad oggi si è ridotto a circa 2400 dopo qualche razionalizzazione.

IL CASO DELL’I.P.O. SEBINO FIRE AND SECURITY


Ma il caso GVS è tutt’altro che isolato: qualche giorno prima si era quotata all’A.I.M. Sebino Fire and Security, azienda attiva nella progettazione, installazione e manutenzione di sistemi antincendio. Il titolo nel primo giorno di quotazione non è riuscito a fare prezzo, segnando un rialzo del 30%. Con l’ammissione di questa società, sono salite a 127 le aziende quotate sul mercato A.I.M., dedicato alle piccole e medie imprese di Borsa Italiana. L’ammissione è avvenuta a seguito di un collocamento di complessive 1.782.000 azioni ordinarie con warrant, inclusa greenshoe, tutto in aumento di capitale, rivolto a investitori istituzionali e professionali che ha generato una domanda da parte degli investitori di 3,69 volte superiore alla raccolta. Il controvalore complessivo dell’offerta, al prezzo di collocamento di 2 euro per azione, è stato pari a circa 3,6 milioni.

E L’I.P.O. DELL’ “UNIDATA”, LA PRIMA A QUOTARSI NEL 2020


E prima di Sebino, il 16 Marzo scorso, in piena bufera COVID, si era già quotata Unidata: società attiva nelle connessioni, telecomunicazioni e servizi informatici. Fondata nel 1985 da 3 soci, che ancora oggi sono in azienda, Unidata opera principalmente nel Lazio e conta su una rete in fibra ottica da più di duemila chilometri, oltre che su una rete wireless e un data center proprietario. I clienti business, wholesale e residenziali sono circa 6.500. Anche qui un successo. In fase di collocamento Unidata ha raccolto 5,7 milioni di Euro. Il flottante al momento dell’ammissione era del 18 % e la capitalizzazione pari a circa 31,7 milioni di Euro. Oggi Unidata capitalizza 41,5 milioni.

È PRONTA LA QUOTAZIONE DI “CY4GATE”


Nel frattempo è andata in porto l’I.P.O. di Cy4Gate – società attiva nel mercato della cybersicurezza, che ha chiuso il collocamento delle proprie azioni con una domanda complessiva di quasi 4 volte l’offerta totale e si quoterà il prossimo 24 Giugno. La domanda è stata composta per il 70% da istituzionali italiani e per il 30% dall’estero con un prezzo di offerta fissato in 3,15 euro per azione e un controvale complessivo di collocamento di 21,1 milioni rappresentato da 6.706.469 di azioni di cui 5.000.000 di nuova emissione e 1.706.469 poste in vendita dall’azionista Expert System. Cy4Gate avrà un flottante del 44,7% per una capitalizzazione prevista alla data di inizio delle negoziazioni di 47 milioni.

E LA “FRANCHI MARMI” AL LISTINO FONDENDOSI CON “THESPAC”


Sta poi arrivando alla Borsa per via indiretta (attraverso la fusione inversa con un veicolo societario già quotato all’ A.I.M.) la Franchi Marmi, dopo un tentativo di I.P.O. abortito lo scorso mese di Novembre. TheSpac, il veicolo (una Special Purpose Acquisition Company, S.P.A.C.) creato da Marco Galateri di Genola, Vitaliano Borromeo-Arese e Giovanni Lega, ha annunciato la scorsa settimana l’accordo per la business combination con Franchi Umberto Marmi, player del distretto del marmo di Carrara. Successivamente alla business combination, TheSpac, acquisita la denominazione di Franchi Umberto Marmi spa, auspica di presentare la domanda di ammissione all’Mta entro 6 mesi dalla data di efficacia della fusione. L’accordo prevede una valorizzazione di Franchi Umberto Marmi pari a 290 milioni, mentre TheSpac sarà valorizzata in base alla propria cassa disponibile al momento della business combination, poco superiore a 59 milioni di euro.

La liquidità di TheSpac, al netto degli eventuali recessi, sarà utilizzata per l’acquisizione di una partecipazione in Franchi Umberto Marmi e, per effetto della fusione, la percentuale di flottante rappresentata dagli attuali investitori in TheSpac si collocherà, fino ad un massimo di circa 20,2%, in caso di nessun recesso liquidato. Successivamente è prevista la convocazione dell’assemblea per la distribuzione di un dividendo straordinario spettante solo agli investitori della diversi dai soci di Franchi Marmi, pari a 0,23 euro per azione. Nel primo trimestre 2020 Franchi Marmi che da 50 anni commercializza il marmo bianco di Carrara, utilizzato dai principali brand del lusso o da architetti di fama mondiale, ha registrato un valore della produzione di 19,1 milioni con un adjusted Ebitda pari a 8,7 milioni. La posizione finanziaria netta al 31 marzo è positiva per 7,4 milioni.

UN ALTRO MOSTRO SACRO IN ARRIVO ALL’M.T.A. : L’IPO DI COMAU


Comau, oggi di proprietà di Exor, della famiglia Peugeot, del governo francese e della cinese Dongfeng, nel 2018 ha fatturato 241 milioni di euro (non si hanno dati sul 2019) e ha il suo centro direzionale a Torino. È leader mondiale nell’automazione industriale per l’industria dell’auto, per la quale sviluppa e fornisce soluzioni per giunzioni, assemblaggio e lavorazione meccanica per veicoli tradizionali ed elettrici e sistemi di produzione robotizzati, comprese soluzioni di robotica. L’offerta di Comau si estende anche al project management e alla consulenza, nonché alla manutenzione e alla formazione, attraverso una rete internazionale di 7 centri di innovazione, 5 digital hub, 8 stabilimenti di produzione, in cui lavorano oltre 9.000 persone, in 14 Paesi. Comau è in una posizione ottimale per sviluppare ulteriormente le proprie attività nella transizione verso il mondo dell’Industria 4.0. che comporterà la riformulazione di processi e produzioni affinché sfruttino le opportunità offerte da nuove evoluzioni della tecnologia, quali l’Internet of Things (IoT), i Cyber-Physical Systems (o CPS), l’Intelligenza Artificiale (AI) nonché le Realtà Virtuali e Aumentate. La quotazione in Borsa (di cui non sono stati diffusi dettagli al momento) dovrebbe avvenire dopo la chiusura della fusione tra Fca e Psa e potrebbe far superare alla società il miliardo di euro di capitalizzazione e aiuterà pertanto gli investimenti necessari per questo sviluppo

Stefano di Tommaso




RICETTE PER LA CRISI

L’8 giugno scorso è stato presentato al presidente del Consiglio il rapporto del comitato di esperti presieduto da Vittorio Colao per le “Iniziative per il rilancio Italia 2020-2022”. Criticatissimo e assai poco esplorato, tanto dai giornali quanto dai cittadini, ci è invece sembrato equilibrato, veritiero e, soprattutto: indipendente! È forse questo il peccato mortale di un gruppo di grandi esperti che avrebbero dovuto apparire “schierati”. Cito letteralmente l’ultimo capoverso del Rapporto: “È oggi urgente riformare, trasformare e innovare il nostro Paese con decisione e coraggio, traducendo piani e iniziative in atti concreti in grado di produrre risultati già nel breve termine. Solo così sarà possibile stimolare il rilascio delle energie individuali e collettive necessarie per rilanciare il Paese e creare un Italia più forte, resiliente ed equa.”

 


Chuchill diceva che ogni politico di alto livello saprebbe cosa fare per migliorare le cose, ma -se lo facesse- non potrebbe compiacere i suoi elettori! Ecco: forse è questo il problema: la politica avrebbe voluto piegare e indirizzare il rapporto alle proprie esigenze, mentre l’opposizione si è persa l’opportunità di valutarlo, dopo alcune schermaglie di principio. Ma i grandi esperti non sono voluti passare alla storia per politici di serie B. Hanno preferito tirare diritto, rendendolo noto alla stampa prima ancora che ai loro committenti. E hanno fatto bene! Ancora Churchill: ”Il politico diventa uomo di stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni.” Ecco, se mai Conte aveva una chance di ergersi al di sopra della schermaglia quotidiana della lotta tra partiti e qualificarsi a futura memoria, qui l’ha proprio perduta, non difendendo l’ottimo lavoro degli esperti. E quasi dimenticandoli nell’occasione che sarebbe stata più propizia: quella degli Stati Generali dell’Economia, tristemente trasformati in celebrazione politico-europeista.

PERCHÉ IL RAPPORTO È IMPORTANTE

Ma perché sarebbe così importante invece dare seguito alle loro proposte? Perché in un mondo già fortemente finanziarizzato, già fortemente sbilanciato a favore delle classi più agiate, delle grandi corporation multinazionali e già immensamente pervaso dagli ordini di scuderia del cosiddetto “deep state” (cioè i “poteri forti” di montanelliana memoria), l’arrivo del virus, a qualunque causa sia riconducibile, ha accelerato la necessità di rinnovamento digital-economico-produttivo e ha reso ancora più fragili tutti coloro che rischiano di esserne travolti, soprattutto se l’esigenza di quel rinnovamento arriva troppo velocemente.

E tra quei “tutti coloro” c’è buona parte del nostro Paese, per molte ragioni spesso resiliente al cambiamento e dotato di una macchina infernale della politica e della burocrazia che ne è figliastra, che ne opprime praticamente ogni iniziativa! L’Italia dopo l’accelerazione imposta dalla pandemia dovrebbe mettere in assoluta priorità il cambiamento radicale del suo motore industriale, del suo mercato dei capitali, delle sue (scarse) modalità di supporto alle innovazioni tecnologiche, e invece perde l’occasione preziosa di un comitato di esperti che -senza inchini ma con ragioni da vendere- glielo ricorda a gran voce.

IL RAPPORTO INTESA-PROMETEIA

Due settimane prima, lo scorso 27 maggio 2020 – è stato presentato il Rapporto Analisi dei Settori Industriali del 2020, curato dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo e da Prometeia. E Gregorio De Felice, Chief Economist di Intesa Sanpaolo (in pratica il capo-progetto) ha commentato che “l’industria italiana, così come l’intera economia mondiale, sta vivendo una fase di profonda crisi economica. La gestione dell’emergenza può, e deve, essere l’occasione per accelerare i processi di trasformazione, in particolare nell’ambito della sostenibilità ambientale e della digitalizzazione della nostra economia. Investimenti verso progetti e produzioni a basso impatto ambientale rappresentano un fattore competitivo e di sviluppo per l’economia. A maggior ragione dopo questa emergenza sanitaria, che ha permesso di verificare i vantaggi delle nuove tecnologie (dal controllo non tradizionale delle fabbriche, alle vendite online, allo smart working), occorre accelerare sul fronte della digitalizzazione con uno sforzo congiunto delle imprese, anche quelle di minori dimensioni, e delle istituzioni, per aumentare gli investimenti (infrastrutture, processi produttivi, software) ma anche le competenze, su cui l’Italia sconta un gap non più sostenibile”.

Nel rapporto si sostiene che il comparto manifatturiero subirà un calo medio del 15% nel 2020, mentre nel 2021 è atteso un rimbalzo del 5.3%. che proseguirà un graduale recupero a ritmi inferiori al 3% medio annuo. La ripresa dunque non sarà soddisfacente ma costituirà ugualmente un’opportunità di trasformazione e modernizzazione del nostro tessuto produttivo, che non può essere mancata.


L’ITALIA SI DEVE ADEGUARE AI TEMPI CHE CAMBIANO

In pratica entrambi i rapporti hanno emesso un vero e proprio grido di dolore per il nostro Paese: la ripresa arriverà, ma non sarà la fotocopia di quella precedente. L’industria europea-e ancor più quella italiana- rischiano di restare indietro e azzerare i propri margini. Bisogna favorire urgentemente l’innovazione , il cambiamento, la digitalizzazione, e supportare gli investimenti e le infrastrutture che possono rendere possibile tutto ciò. Il concetto di urgenza risuona spesso anche nelle parole del Rapporto Colao. L’importanza della rapidità di risposta alle sfide da vincere inciderà non poco nella validità della sequenza di iniziative che verranno messe in campo. Se arriveranno troppo tardi non sarà affatto la stessa cosa. E guarda caso l’Europa cosa fa a proposito del Recovery Fund (il piano da 750 miliardi di euro voluto dall’asse franco-tedesco e presentato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen)? Lo rimanda al 2021. Ogni commento è scontato al riguardo.

L’EUROPA SI MUOVE, MA LENTAMENTE

La settimana dal 15 al 19 giugno per l’Unione Europea sarà peraltro densa di avvenimenti: si parte con il vertice sulla Brexit, per impostare un divorzio regolato se si scivola nel no-deal. Giovedì la BCE farà partire il nuovo strumento di liquidità ( il TLTRO) con cui finanziare le banche europee e Venerdì 19 si riunirà il Consiglio europeo sul tema del Piano di risanamento europeo sul quale si innesterà l’intervento del Recovery Fund, un piano centrale per la ripresa dell’Unione, che al momento vede come maggiore beneficiaria l’Italia assieme ai Paesi più colpiti dal Covid-19. Per rendere il piano operativo entro metà ottobre è necessario che il processo inizi nel migliore dei modi e che arrivi presto alla decisione finale.

Il negoziato potrà scorrere veloce o potrà essere un pianto, dal momento che ciascuno dei minori beneficiari del Piano chiederà qualcosa in cambio: una vera miseria morale che deriva dall’impostazione minimalista degli attuali trattati europei e che dovrà trovare presto miglioramenti se non si vuole andare incontro ad altri exit. Ma se si arriverà ad erogare i 750 miliardi, questi saranno -per la prima volta nella storia dell’Unione- finanziati da un debito comune emesso attraverso il Mes, un passo che fino a poco fa pareva inimmaginabile.


E se la politica monetaria -non solo quella europea- si prevede possa rimanere estremamente espansiva, per mitigare le lungaggini della politica, si può forse sperare che gli stimoli monetari ci aiutino a vedere una luce in fondo al tunnel della recessione in cui ci siamo infilati con la serrata anti-virus. Così come è possibile che le borse, pur attraverso le acque agitate di una volatilità stabilmente accresciuta, resteranno a galla -grazie a loro- senza tornare a sprofondare come tre mesi fa.

Ma l’economia reale, soprattutto quella italiana, senza pesanti e urgenti riforme strutturali e una fortissima volontà politica di rilancio (al momento solo nominale), farà molta fatica a riprendersi. Non c’è perciò troppo da rallegrarsi se soltanto la finanza (che in questo momento mena il bastone) saprà sostenere lo sviluppo delle imprese e le innovazioni più radicali, così che il mondo potrà evitare una lunga e dolorosa stagnazione economica.

GLI ASSI DEL NUOVO SVILUPPO

Ma gli esperti ci dicono che gli assi attorno ai quali potrà svilupparsi nuova crescita industriale saranno in buona sintesi la l’innovazione, la sostenibilità ambientale e la digitalizzazione. Da questo punto di vista entrambi i rapporti sopra citati parlano chiaro: o l’industria italiana riuscirà ad adeguarsi a queste direttrici e a raccogliere l’interesse degli investitori privati per scommettere sul futuro, a promuovere iniziative eco-sostenibili, ad essere supportata nei suoi programmi di innovazione e espansione internazionale, o di quel che essa era rimarrà giusto l’ombra, perché tutto il resto del mondo procede a grandi passi in queste direzioni.


Noi italiani -molto indietro su quei tre assi- possiamo contare sull’offerta culturale, e potremmo cercare di riguadagnare spazio sulle nuove infrastrutture, la cui realizzazione aiuterebbe non poco occupazione e reddito nel nostro Paese. Siamo un popolo di architetti, stilisti, costruttori, innovatori e tecnici, molto più di tanti altri. Se riuscissimo nella valorizzazione del nostro patrimonio culturale e nella realizzazione di grandi infrastrutture potremmo poi tornare a esportare competenze ed eccellenze come è più di prima. Ma per farlo occorre orientare all’uopo risorse che oggi si disperdono in mille rivoli.

Se invece resteremo impegnati a salvare vecchie industrie in crisi allora arriveremo a patire la fame. Ecco il messaggio implicito degli esperti che la politica avrebbe voluto smussare. E che essi invece hanno voluto ribadire.

Stefano di Tommaso