NIENTE PANICO, MA L’OTTIMISMO È SCOMPARSO

Dopo alcune settimane in cui i mercati avevano mostrato una reazione più che composta all’annuncio di una pandemia virale cinese, l’incredibile picco di contagi in tutto il mondo e la certezza di un deciso rallentamento dell’economia globale hanno alla fine scosso i mercati ben più di quanto fosse ragionevole ritenere. L’apertura delle borse di lunedì è avvenuta all’insegna della disfatta, con un crollo medio che ha oscillato dal 3 al 6%, cancellando di fatto tutti i progressi compiuti dagli indici boresistici dall’inizio dell’anno. Il problema è che all’apertura delle borse asiatiche di martedì il copione è sembrato ripetersi, seppure in misura minore: il Nikkei 225 ha perduto il 3.3%, a Kuala Lumpur l’indice della borsa di Malaysia è sceso dello 2.7%, in Australia, the S&P ASX/200 ha perso l’ 1.6% e lo Shanghai Composite index è sceso dello 0.7%.

 


Ma la sensazione che avremmo assistito ad un rimbalzo tecnico è stata alla fine confermata sulle chiusure di martedì, nonostante il numero di persone infette dal Covid19 nel mondo abbia già superato le 80.000 unità e si rumoreggi che la minor crescita del Prodotto Interno Lordo cinese potrà toccare la soglia del 2% quando l’allarme sarà rientrato. Il mondo degli affari insomma vuole credere ancora in un rapido riscatto dalla minaccia.

È IN ATTO UNA PROFONDA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI

I titoli azionari che più hanno sofferto sono tutti quelli legati a turismo, viaggi, intrattenimento e socialità, ma anche quelli tecnologici, principalmente per la ragione che i loro componenti per qualche tempo non arriveranno dalla Cina che li fabbrica per quasi tutto il resto del mondo e poi per il timore che le ulteriori risorse di capitale che ne avrebbero potuto sostenere gli investimenti ancora necessari possano essere dirottate verso porti più sicuri, interrompendo lo sviluppo tecnologico in atto.


L’ottimismo insomma è prevalso nelle borse per qualche settimana ma, come si dice: “quando è troppo è troppo” e la prosecuzione del dilagare del numero di contagiati lascia oramai abbastanza poco per illudersi in una rapida conclusione della vicenda “virus”. Non per niente i rendimenti dei titoli obbligazionari continuano a segnare nuovi minimi storici, perché se tutti comprano titoli a reddito fisso, il loro prezzo sale e il rendimento scende corrispondentemente, anche se crescono i timori per la qualità del credito. Non a caso le differenze di rendimenti (spread) tra titoli ad elevato rating creditizio e quelli più a rischio (cosiddetti “junk” o “high yield” bonds) stanno tornando a crescere (si veda il grafico di Bloomberg qui sotto).


Anche i lingotti d’oro in tempi di possibile recessione restano l’asset class -cioè la categoria di investimenti- più gettonata. L’oro è da sempre il bene-rifugio per eccellenza per preservarli dalla perdita di valore del risparmio accumulato ma non rende nulla. Ora, con i rendimenti azzerati e il timore che le azioni possano scendere ulteriormente, la sua scelta diviene razionale.

È dunque in atto una decisa rotazione dei portafogli dall’investimento azionario più “aggressivo” (cioè speculativo) verso titoli e categorie di investimento più “difensivi” (cioè con maggior contenuto intrinseco e con minor possibilità di perderevalore), mentre la volatilità complessiva dei mercati finanziari sale inevitabilmente e il prezzo delle materie prime (tra le quali il petrolio) scende a causa del crollo dei consumi. Nemmeno le “public utilities” perciò brillano più in questi frangenti, anche se hanno sino ad oggi limitato le perdite.

E’ inoltre chiaramente partita una pericolosa deflazione dei prezzi, neanche più tanto strisciante, che rischia di scoraggiare consumi e investimenti.

QUANTO DURERÀ ANCORA IL PROBLEMA ?

È la domanda più importante che ci si pone, perché segnerà il confine tra l’ottimismo è il pessimismo. Al momento molti osservatori e operatori economici si aspettano ancora che la pausa di paura e di restrizioni ai movimenti di merci e persone duri al massimo quanto una moderna quarantena, cioè dai canonici 14 giorni a circa 40. Ma sale il rischio che l’accendersi di nuovi focolai in località lontane dalla Cina e inaspettate porti a stringere la morsa sulle attività economiche più fragili, determinando crisi e disoccupazione di massa e (nel caso) rimandando ancora la fine delle operazioni di “contenimento” che hanno un prezzo economico e sociale altissimo.

In questo scenario tra l’altro ci si dovrebbe aspettare che il cambio del Dollaro salga ancora perché quest’ultimo viene considerato alla stregua di una valuta rifugio, ma nei giorni scorsi era da poco assurto a nuovi massimi, ragione per cui per il momento è già un successo che sia rimasto stabile e rischia anzi una qualche ricaduta tecnica dovuta alle ricoperture speculative e al timore che la Banca Centrale Americana riaprirà ancora i cordoni della borsa inondando i mercati con nuova liquidità.

MA STAVOLTA I GOVERNI DEVONO FARE DI PIÙ

Il rischio vero stavolta tuttavia è anche che alle nuove misure di stimolo alla crescita che saranno quasi certamente varate dalle banche centrali a sostegno dei mercati non si affianchino altrettanto coraggiosi interventi di politica fiscale, per le medesime ragioni per le quali essi non sono stati varati sino ad oggi: un debito pubblico diffusamente eccedente determina un “vincolo di bilancio” nella percezione comune e si unisce alla speranza di potercela fare ugualmente a superare la stasi. In Italia il problema è già conclamato (e infatti il reddito disponibile degli italiani non si è mai ripreso davvero) e possiamo dunque toccarne con mano le conseguenze, ma se funzionasse così anche nel resto del mondo, allora le tenebre prenderebbero il sopravvento.

Il debito pubblico infatti entro certi limiti è un problema “nozionale”, dal momento che se il “servizio del debito” viene considerato sostenibile (e i tassi quasi a zero aiutano in tal senso) allora esso non genera problemi, come si è visto in Giappone, dove il debito aveva raggiunto il 240% del P.I.L. ma il panico non c’è mai stato. Mentre la mancanza di adeguata crescita economica, in un mondo in cui la popolazione sale ogni anno di almeno il 2,5% in media (una media che comprende anche le nazioni dove essa si riduce), si traduce immediatamente in meno reddito pro-capite disponibile.

Se perciò il prodotto globale lordo non cresce più della popolazione, allora saremo tutti un po’ più poveri e le tensioni sociali nei paesi più svantaggiati esploderanno in qualche direzione, ivi compresa la “migrazione economica” che l’Europa (e non solo) subisce da diversi anni dall’Africa. E indovinate dove eravamo a fine 2019? A circa il 2,9%. Come dire che, dal momento che quest’anno la crescita sarà sicuramente più bassa, siamo fin troppo vicini a quel fatidico 2,5% della mancata crescita di fatto.

Le manovre delle banche centrali poi avranno sicuramente una capacità molto minore che in passato di impattare sull’ottimismo degli operatori economici, sulla propensione ad investire e sullo sviluppo economico conseguente. E questo è il più problematico degli spettri e delle paure che l’ “anno del virus” sembra proporci: la possibilità che l’economia globale si assopisca in una stagnazione dilagante ed entri in una sorta di catalessi dalla quale sarà difficile risvegliarla in regime di rendimenti azzerati, grandi debiti pubblici e poca mobilità sociale.

IL RISCHIO È QUASI TUTTO SULLE SPALLE DEI PAESI EMERGENTI

Ricordiamoci peraltro che la salute dell’economia europea, così come di quella americana, dipende fortemente da quella dei Paesi Emergenti, non soltanto a causa delle mancate esportazioni di tecnologia, impianti e beni strumentali, ma anche perché già solo l’alimentazione, il vestiario e i medicinali, consumati nelle aree di maggior crescita della popolazione nel mondo, costituiscono un serbatoio prezioso di profitti per le aziende occidentali, che rischiano di venire meno se il reddito disponibile di questi Paesi scende.

Neanche a farlo apposta non soltanto i nuovi focolai stanno imponendo in occidente prudenze e restrizioni come non se ne vedevano da tempo, ma anche il commercio internazionale sta scemando e soprattutto per i titoli quotati di molte imprese stanno fioccando i “profit warning” (cioè le allerte di calo degli utili) e, con essi, anche i ribassi dei titoli azionari quotati.

Si mette male, insomma, anche per le borse che sino alla scorsa settimana sembravano immuni a qualsiasi statistica, così come si mette male per le classi più povere, che rischiano di perdere lavoro e sostentamento. Inoltre la delicata transizione tecnologica che stiamo vivendo rischia di interrompersi sul più bello, lasciandoci gli effetti negativi della digitalizzazione della produzione del reddito (cioè disoccupazione “tecnologica” e polarizzazione della ricchezza in poche mani) senza che ci sia il tempo perché se ne dispieghino degli effetti positivi, quali l’incremento della sharing economy, la riduzione e la frammentazione degli orari di lavoro e la riduzione dei costi di produzione, ivi compresa quella di alimentari e medicinali.

MA LA DOMANDA VERA È: QUANTO DURERÀ LA PANDEMIA ?

Ovviamente le contromisure ad un tale tetro scenario stanno comunque arrivando e arriveranno davvero a salvare quantomeno i mercati finanziari. Ma al costo sociale che abbiamo già sperimentato nell’ultimo decennio. Vale a dire: ulteriori polarizzazioni della ricchezza e ulteriore divario di reddito tra nord e sud del pianeta, tra dirigenti e operai superspecializzati e tutti gli altri, nonché ulteriori tensioni sociali nelle regioni disagiate e ulteriore prevalenza del capitale sulla politica (e, in definitiva, sulla democrazia, che sta scomparendo sotto i nostri occhi). Come scrive Fabio Volo: stavolta si rischia che “ci saranno pochissimi morti e tantissimi falliti” !

Se estrapoliamo insomma le tendenze in atto è soprattutto dal punto di vista economico che non c’è molto di bello all’orizzonte. Ma l’economia per fortuna non funziona per estrapolazioni lineari, anzi! Così come sono comparsi “cigni neri” a portare sventura all’inizio di questo ennesimo anno bisesto, così è altrettanto possibile che si presentino all’improvviso anche nuovi “cigni bianchi”, cioè nuove opportunità di rilancio, nuove scoperte scientifiche e nuove modalità di cura dell’ultima grande pandemia da circa un secolo a questa parte.

Nei siamo pressoché sicuri, anche perché è sempre successo in passato. Solo una cosa non è certa ed è il “quando ?”…

Se i cigni bianchi infatti risulteranno poco tempestivi, allora forse delle intere generazioni ne pagheranno le conseguenze. Probabilmente non accadrà, anzi gli Stati Uniti hanno già annunciato che è in arrivò il vaccino, ma quest’ultimo varrà più per evitare altri contagi, mentre i tempi per lo sviluppo di farmaci per guarire coloro che hanno già contratto il virus sono molto più lunghi.

E dunque per il momento (come recitava un secolo fa il titolo del romanzo storico di Erich Maria Remarque) non c’è “ad ovest nulla di nuovo” !

Stefano di Tommaso




UBI: INTESA PUÒ AUMENTARE L’OFFERTA

Con una mossa a sorpresa che nessuno si aspettava Intesa San Paolo ha agitato le acque della finanza italiana. L’operazione consiste infatti in un’offerta di scambio da 4,8 miliardi di euro: Intesa offrirà 17 azioni proprie ogni 10 azioni di Ubi, di fatto un corrispettivo che – corrisponde a una valorizzazione di circa 4,3 euro. Ovviamente le azioni di Ubi sono schizzate da 3,33 fino a 4,47 euro, per poi discendere in chiusura di venerdì al prezzo di 4,21, con un premio iniziale del 27,6% sul valore di Borsa di quel giorno (che oggi che il titolo è salito si è quasi completamente azzerato).

 

UN UTILE DIVERSIVO, ANCHE PER GUADAGNARE TEMPO

Bisogna riconoscere che, se una manovra diversiva doveva arrivare da Intesa San Paolo per sviare l’attenzione sui veri problemi del mondo bancario del quale essa è il campione nazionale (44 miliardi di capitalizzazione di borsa), la mossa su Ubi Banca è stata una delle migliori che si potessero immaginare!

Il sistema bancario generalista è oggi infatti costretto a un consolidamento forzoso, a ridurre migliaia di posti di lavoro, a vedere sempre più limati i margini economici degli anni futuri e a fare i conti con varie sfide e minacce: quella dei pagamenti digitali, quella dell’intelligenza artificiale nel remoto banking e, ovviamente, in tutto ciò, la concorrenza di orde di soggetti internazionali verticalmente specializzati. Si vedano le previsioni della società Oliver Wyman nel grafico qui riportato :


Le banche generaliste sono dunque costrette dal mondo che cambia e che si reca sempre meno in filiale, a continuare ad accorpare sedi periferiche, tagliare i costi a più non posso, crescere dimensionalmente per poter competere con gli stranieri e, per farlo, essere sempre più interessanti per gli azionisti incrementando dividendi già generosi, nonché inscenando meravigliosi teatrini come quello orchestrato da Intesa San Paolo con l’offerta di pubblico scambio con UBI.

Tutto ciò nonostante e anzi proprio a causa del fatto che le prospettive di redditività, crescita e solidità non siano esattamente esaltanti per investire nel capitale delle banche, quelle italiane in particolare (si veda nel grafico qui riportato come è cambiato il panorama delle banche dal 2015 ad oggi):


C’È UN BEL GUADAGNO IN CONTO CAPITALE

In un mio recentissimo articolo (2 settimane fa) segnalavo il fatto che, tuttavia, c’è ancora un divario ancora da colmare tra i valori contabili dei patrimoni netti bancari (avallati da BCE e Bankitalia, soprattutto quelli dei maggiori istituti) e il valore della capitalizzazione di borsa delle loro azioni quotate (molto più basso del primo).

E segnalavo che anche questo fattore avrebbe mosso presto il risiko delle Fusioni e Acquisizioni tra banche nei prossimi mesi, dal momento che c’è qualche banca che ha ridotto quel divario (Intesa San Paolo ad esempio capitalizza in Borsa intorno all’80%% del “book value”) mentre qualcun’altra ancora no: Ubi, per esempio: per quanto le sue azioni siano risalite moltissimo rispetto alle quotazioni di fine anno, sono passate dal 35% agli attuali livelli del 50%, mentre Banco BPM viaggia ancora al 31% del patrimonio netto.


Questo gli azionisti delle altre banche (soprattutto quelli storici, che hanno investito quando ancora non è arrivata la bufera dei crediti insoluti) lo sanno benissimo, tant’è che oggi non sono affatto contenti di vedere le loro partecipazioni azionarie oggetto di voraci attenzioni. Una considerazione che – alla luce di buoni risultati di conto economico degli ultimi tempi- fa pensare più alla probabilità di una loro guerra di posizione per spuntare valutazioni più elevate che non alla possibilità di una seria alternativa alla mossa di Intesa (si veda tabella dei profitti netti bancari qui riportata):


LA MANOVA CONGIUNTA CON UNIPOL

Ben consigliata da Mediobanca, Intesa poi non ha soltanto avuto la prontezza di scattare in avanti per prima (cosa che ci si sarebbe aspettati in realtà soltanto dopo la stagione dei dividendi), ma ha anche risolto preventivamente e brillantemente la problematica dell’antitrust, accordandosi per ricevere un bel pacco di denaro contante da Unipol che controlla la Banca Popolare dell’Emilia, per incassare cash una cifra che -si dice- supererà ampiamente il miliardo di euro, in cambio di circa 400 filiali di UBI.

Insomma Intesa pagherebbe con (poche) proprie azioni per ricevere al tempo stesso molti contanti, per incamerare inoltre una bella plusvalenza derivante dall’avanzo di fusione (la differenza tra il controvalore offerto e il valore contabile della banca acquisenda è pari ad circa 3 miliardi) e per ottenere la palma di più grande istituto di credito italiano, il primo a superare il famoso trilione di Euro di massa critica: una posizione di tutto rispetto per incrociare più favorevolmente le spade con i rivali d’oltralpe.

Nemmeno le sinergie tra le due banche (Intesa e Ubi) sarebbero tanto male, dal momento che esse vengono prudenzialmente stimate a regime in risparmi in circa €700 milioni/anno: un salto quantico rispetto ai poco meno di 353 milioni di utile lordo appena dichiarati da Ubi per il 2019, cosa che porterebbe l’utile lordo post-fusione della banca incorporanda a più di 1 miliardo di euro e a circa 700 milioni quello netto.


L’ex popolare di Bergamo risulta peraltro ben capitalizzata dal momento che, due settimane fa, in occasione della pubblicazione dei risultati di bilancio 2019 ha annunciato un Common Tier Equity 1 ratio (il computo delle risorse con cui la banca garantisce i prestiti al netto dei rischi rappresentati dai crediti deteriorati) pari al 12,3% (in rialzo dall’11,3% del 2018) e dunque non richiede ulteriori apporti di capitale in caso di mancata fusione con Intesa.

L’OPERAZIONE È ESTREMAMENTE CONVENIENTE

Ora, visto che ad oggi il titolo UBI capitalizza 4,8 miliardi e che Intesa ne incasserebbe almeno 1 dalla vendita di 400 filiali, il suo prezzo per l’incorporante sarebbe quantomai limitato: 3,8 miliardi per il 100% con un profitto netto post fusione di circa 700 milioni farebbe un P/E pagato per Ubi pari a poco più di 5 volte i profitti netti ! Un prezzo di saldo per incorporare il terzo gruppo bancario italiano e ritrovarsi con una bella plusvalenza con la quale avere tanto spazio per liquidare sul mercato i circa 3 miliardi di euro di crediti verso insolventi che Ubi non ha ancora scaricato. Nelle due tabelle che seguono ecco come cambierebbe il panorama competitivo per Intesa dopo l’incorporazione di Ubi:


Ragione per cui c’è ampiamente da attendersi ulteriori teatrini nei quali si ipotizzerà ogni possibile opzione alternativa (la famosa aggregazione delle popolari, con Banco BPM e BPER, ad esempio, o addirittura con il Monte dei Paschi di Siena, che non potrà restare a lungo controllata dallo Stato Italiano), ma che è ragionevole supporre che alla fine darà luogo soltanto a dei possibili rilanci sul controvalore di scambio oggi proposto da Intesa, benché l’amministratore delegato di Intesa lo abbia “escluso tassativamente” (ma non avrebbe potuto fare altrimenti).

È vero infatti che il risiko delle aggregazioni bancarie dovrà necessariamente continuare e che -esclusa Unicredit che continua testardamente a puntare verso l’estero (se se ne vuol comprendere il perché basti pensare alle pessime prospettive del nostro Paese e alla ridottissima valutazione anche delle altre banche europee come espresso dalla tabella -purtroppo non aggiornata- qui accanto riportata) – non restano che il terzo, il quarto e il quinto gruppo bancario italiano quali poli aggreganti (cioè nell’ordine: Ubi, BancoBPM e MPS) quali altri poli aggreganti.

Ma per lo stesso motivo è anche molto probabile che di fronte alla possibilità che per UBI si materializzino delle vere alternative, l’offerta di Intesa potrà significativamente incrementare, senza che ciò modifichi in maniera decisiva la convenienza dell’operazione.

Stefano di Tommaso




IL GIAPPONE È GIÀ IN RECESSIONE !

Non ho notato negli organi di stampa europei un coro di sconcerto come mi sarei atteso per la notizia, drammatica quanto secca, della caduta del Prodotto Interno Lordo del Giappone. Eppure il fatto riveste un’importanza fondamentale: da molti decenni ciò che accade in Giappone dopo uno o due anni succede al resto del mondo, in particolare all’America e, con un ritardo cronico di ancora uno o due anni, all’Europa! Fatto salvo che stavolta la tartaruga (cioè noi) ha battuto la lepre (gli USA) nel registrare già alla fine dello scorso anno una decrescita preoccupante.

 

Anche la misura dell’oscillazione del P.I.L. giapponese appare quantomeno preoccupante: una (infelice) decrescita 6,3% è una cifra sconvolgente, che soltanto l’altra flemma del sole nascente ha potuto sopportare senza lanciare richieste di soccorso al resto del mondo. E la notizia arriva proprio mentre tutti si chiedono a quanto ammonterà il conto da pagare per aver bloccato in casa mezza Cina (dunque quasi 800 milioni di persone) e per aver dimezzato investimenti, esportazioni, consumi, traffici intercontinentali e viaggi di lavoro anche nel resto del mondo. Ho il concreto timore che la bolletta da pagare sarà molto più salata di quanto gli organi di informazione vorrebbero farci credere.

 


Ma soprattutto esiste un parallelo altrettanto preoccupante tra le performances del Giappone (dove sciaguratamente il governo aveva deciso nel 2019 un rincaro dell’IVA, l‘ imposta sul valore aggiunto, che ha sferrato il colpo di grazia) e quelle della Germania, che sembrano andare a zero virgola.


Difficile dedurne qualcosa di definitivo, se non che gli stessi motivi per la discesa del P.I.L. del Giappone sono vaidi anche per l’Europa nel suo complesso: le loro economie poggiano assai poco sui consumi interni e dipendono fortemente dalle esportazioni.

Se quest’anno saranno assai inferiori alle aspettative (virus compreso, che però è arrivato dopo la fine del quarto trimestre 2019) , allo stesso modo anche l’Europa performerà assai meno bene di quanto ancora si scrive ufficialmente, a causa di una domanda finale decisamente indebolita a livello globale.

Forse verso la fine del 2020, a elezioni concluse e con i consumi interni che nel frattempo hanno funzionato da cuscinetto nell’assorbire l’impatto della frenata euro-asiatica, l’America riprenderà il suo ruolo di locomotiva economica del mondo, ma che lo faccia adesso, appare decisamente improbabile, più per motivi di coerenza politica che non per vero calcolo. Più probabile è che l’economia globale, nel primo trimestre del 2020, prenda perciò una forte sbandata e che questa si sommi alla fiacchezza della domanda che si è registrata già dalla fine del 2019.

Se il combinato disposto delle due debolezze (domanda globale e virus asiatico) potrà poi far scattare una recessione globale, oggi non è ancora dato di saperlo e forse è relativamente improbabile. Ma le avvisaglie perché ciò avvenga entro la fine dell’anno in corso ci sono tutte, anche a causa di fattori straordinari e imprevedibili ex ante. E se così fosse, allora ancora una volta il Giappone confermerebbe di stare perfettamente a suo agio nel ruolo di “canarino nella miniera”: semplicemente anticipando (e amplificando) una tendenza negativa globale.

Stefano di Tommaso




IL DOLLARO CONTINUERÀ A CORRERE

Nelle ultime settimane il Dollaro americano ha fatto un balzo in avanti come non si vedeva da tempo. Quanto è giustificato il suo apprezzamento? E quanto dobbiamo attenderci che continui? Rispondere a queste domande non solo risulta essenziale per tutte le imprese esportatrici e importatrici, ma è anche molto utile per gettare uno sguardo all’andamento prospettico dell’economia globale.

 

Sicuramente il mezzo continente asiatico bloccato dalle strategie di contenimento della pandemia del Coronavirus nonché la profonda crisi di identità nella quale è piombata l’Eurozona hanno contribuito parecchio a sospingere gli investitori verso l’area-Dollaro ma, al di là della contingenza, essa presenta ugualmente dinamiche più interessanti di quasi tutte le altre maggiori economie e una maggior vitalità dei consumi interni agli Stati Uniti D’America.

La piazza finanziaria americana (Wall Street) rimane infatti la più dinamica del mondo anche perché continua, con la sua enorme liquidità e con le migliori imprese al mondo ivi quotate, ad attrarre una quota crescente di capitali che cercano, anche nella piccolissima dimensione, una diversificazione internazionale.

LA VITTORIA DI TRUMP

Non stupisce dunque che la borsa americana corra più di tutte le altre ma soprattutto che del Dollaro continui ad esserci più domanda che offerta. L’amministrazione Trump, in sintesi, sta riuscendo molto bene a gestire in maniera pro-attiva la leadership mondiale dell’economia americana, attirando capitali ma anche e soprattutto imprese da ogni parte del pianeta. Esse aprono filiali e fabbriche in America non soltanto grazie al fatto che i consumi degli USA continuano a crescere più degli altri, assicurando un interessante mercato di sbocco, ma anche grazie ad una bassa tassazione dei profitti e ad un’amplissima disponibilità di risorse umane e di capitale.

In pratica l’economia americana -nonostante i rischi di recessione si moltiplichino- sta ancora girando benissimo e gli USA stanno riuscendo -nel quadriennio di Trump- a ritornare ad essere un fortissimo polo di attrazione per il business, per i capitali e, di conseguenza, per le migliori intelligenze del mondo.

LA LEADERSHIP TECNOLOGICA DÀ LA FORZA AL DOLLARO

Non soltanto infatti gli Stati Uniti detengono la leadership assoluta nel processo di digitalizzazione delle imprese e nell’adozione delle nuove tecnologie quali i software di nuova generazione che controllano oramai tutte le attività più vitali delle imprese, il “cloud computing”, l’internet delle Cose e l’Intelligenza Artificiale, ma per espressa volontà del presidente Trump essi hanno di recente varato un programma con cui intendono incrementare ulteriormente questo vantaggio tecnologico sul resto del mondo attirando capitali e cervelli e facilitando lo sviluppo delle nuove iniziative d’impresa (Startup) e l’adozione delle migliori innovazioni anche da parte delle agenzie federali e della macchina militare.

L’economia americana è dunque sana “dentro”, al di là dell’ottima dinamica dell’occupazione, dei consumi e del prodotto interno lordo, soprattutto grazie al fatto che è in testa alla gara tecnologica per il predominio del business del prossimo decennio. Non deve ingannare la scarsezza dell’indice di produzione industriale: l’America sta pilotando molto bene le sue imprese verso le nuove frontiere digitali, che sono le prime rivali della produzione industriale intesa come fabbriche di prodotto fisico. Anche per questo motivo le imprese campionesse del business digitale a Wall Street stanno correndo più delle altre (vedi il grafico qui riportato):


A “tendere” infatti a trainare le esportazioni americane saranno più i prodotti tecnologici a maggior valore aggiunto nonché i diritti dell’ingegno, che non petrolio e gas (delle quali l’America è oramai esportatrice netta, in diretta concorrenza con il Nord Africa, il Medio Oriente, la Federazione Russa e il Sud America.

NON È UN FENOMENO TEMPORANEO

L’ascesa del Dollaro non deve dunque stupire, né si può pensare che sia soltanto una bolla speculativa. Essa riflette il successo di un Paese (e del suo governo) che ha saputo gestire la propria leadership economica con molto dinamismo e molta spregiudicatezza. E il quadriennio di Trump sembra anche chiudersi con tensioni geopolitiche globali ai minimi termini della recente storia e con un bassissimo numero di interventi militari fuori dei propri confini. Come dire: per affermare la leadership non ce n’è stato bisogno.

A mio modesto avviso non è quindi un fenomeno temporaneo la risalita da inizio anno di quasi il 3% del “Dollar Index” (l’indice che mostra l’andamento del biglietto verde contro le sei principali altre valute, il cui andamento è riportato qui sotto nel grafico).

E questo -a dimostrazione della forza intrinseca del Dollaro- nonostante i tassi d’interesse americani restino decisamente più alti (dall’1% al 2%) di quelli medi europei e, soprattutto, nonostante la Federal Reserve da fine 2019 abbia ripreso a pompare liquidità nel sistema bancario americano a un ritmo feroce (cosa che dovrebbe produrre l’effetto di svalutare il Dollaro, non il contrario).

Dunque, che ciò risulti un bene o un male per l’economia globale (ed è più probabile la seconda ipotesi), l’indicazione degli analisti è per una decisa prosecuzione della tendenza al rialzo del biglietto verde, almeno di altri 3 o 4 punti percentuali, oltre i quali probabilmente dinamiche di diversa natura impatterebbero fortemente a ostacolarne l’ulteriore ascesa: a partire dal rialzo del costo di materie prime e “commodities” (energetiche e alimentari) fino ai disastri che può provocare per le economie dei Paesi Emergenti.

Stefano di Tommaso