IRRESPONSABILITÀ ILLIMITATA

La nuova normativa sulla crisi d’impresa ha introdotto un principio secondo il quale gli amministratori delle società ore possono essere attaccati direttamente dai creditori d’impresa qualora questi ultimi rimangano insoddisfatti dal patrimonio aziendale, generando preoccupazione tra i manager e gli imprenditori e introducendo, di fatto, un problema ulteriore, le società italiane di piccole dimensioni.

 

LA RAGION D’ESSERE DELLE SOCIETÀ DI CAPITALE

Il sistema capitalistico ha fondato il proprio sviluppo sulla capacità delle imprese di fallire o di riprendersi senza terrorizzare gli imprenditori con pene capitali o corporali. Più volte negli anni recenti il legislatore ha messo mano al codice della crisi di impresa cercando di introdurre soluzioni utili a superare gli inevitabili momenti di crisi e, anzi, ponendo enfasi sul mantenimento dei posti di lavoro più che sulla tutela dei creditori.

Prima di tale traguardo (secoli addietro) la legge colpiva il debitore insolvente (anche materialmente) nella figura stessa dell’imprenditore, creando un notevole spauracchio all’assunzione di rischi da parte di quest’ultimo. Con la creazione delle società di capitali quale soggetto giuridico autonomo rispetto a chi ci investe, il rischio d’impresa è stato generalmente limitato alla perdita del capitale investito, fatti salvi i casi di frode o malversazione.

Ad onor del vero bisogna ammettere che tale principio, sacrosanto affinché si investa nel capitale delle imprese senza temere la propria gogna, è stato ampiamente abusato con la costituzione di società a responsabilità limitata dotate di di piccolissima dotazione di capitali, anche quando i rischi erano ingenti. Con il risultato che spesso i diritti dei creditori sono arrivati ad essere calpestati.

ESAGERAZIONE GIUSTIZIALISTA

Ma la nuova disciplina sulla crisi d’impresa (con la modifica dell’articolo 2476 del Codice Civile varata dal ministro grillino Bonafede), ha esagerato nel riportare il pendolo dalla parte opposta, introducendo un principio giustizialista secondo il quale gli amministratori delle società possono essere attaccati direttamente dai creditori qualora questi ultimi rimangano insoddisfatti dal patrimonio aziendale. Il Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 recante Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 38 del 14 febbraio 2019 . Fino allo scorso 15 marzo 2019 contro gli amministratori d’impresa era ammessa la sola azione di responsabilità e soltanto in caso di malversazione o cattiva fede da parte di coloro che avevano affidato loro il capitale sociale.

Il risultato di questa nuova norma è senza dubbio la consegna di ulteriore potere discrezionale nelle mani dei magistrati che dovranno giudicare le numerose nuove azioni risarcitorie che verranno intentate agli amministratori d’azienda dai creditori rimasti insoddisfatti. Ma il risultato è anche e soprattutto quello che molti amministratori d’impresa stranieri stanno lasciando le loro posizioni: abbandonano le loro cariche nelle imprese italiane ben sapendo che la giustizia italiana rassomiglia a quella del terzo mondo e mettersi tra i suoi artigli non è un esercizio di salute.

Ma come se non bastasse, numerosi sistemi di allerta precoce della crisi di impresa (monitoraggio degli indici patrimoniali e finanziari) sono stati introdotti con la medesima normativa, con il risultato che anche le banche faranno sempre più fatica ad erogare credito al benché minimo segno di squilibrio (anche temporaneo). Morale: se si voleva salvaguardare la salute delle imprese si è riusciti nell’esatto opposto, scivolando nel giustizialismo più estremo e minando alla base il sistema di piccole e medie imprese che regge il 97% dell’attività industriale del nostro Paese.

CHI CI RIMETTE SONO LE IMPRESE

Ciò non potrà che svantaggiare gli esportatori, che sono in diretta concorrenza con chi non ha tali problemi in altre parti del mondo, generando di fatto una situazione di responsabilità illimitata degli amministratori d’impresa. Ma l’irresponsabilità (se non l’ignoranza) di chi approva tali normative probabilmente supera tutti, perché se le imprese chiudono o vanno oltre confine chi ci rimette sono proprio -come al solito- quei poveracci che oggi si vorrebbe educare al più becero giustizialismo. Per poi arrivare a mendicare a qualche straniero (magari dotato esclusivamente di stabile organizzazione, senza nemmeno un presidio societario) i posti di lavoro andati perduti con tali bravate!

Stefano di Tommaso




CRESCITA ZERO

Il commissario Ue per gli Affari economici Paolo Gentiloni ha condiviso le preoccupazioni per la bassa crescita generale e soprattutto nei tre principali Stati dell’Ue. Ha indicato «politiche di bilancio più espansive» come possibile soluzione comune per i 27 Stati membri. «Paesi che hanno spazio fiscale e un livello di debito pubblico molto basso, come la Germania, sono chiamati a contribuire a investire in politiche piu´ espansive perché l’Europa continua a crescere a un ritmo troppo basso, occorre accelerare».

 

E come se non bastasse anche Christine Lagarde (Governatrice della Banca Centrale Europea), al Parlamento europeo di Strasburgo lo scorso 6 febbraio 2020 ha dichiarato : «I governi facciano di più, la politica monetaria ha margini ristretti». Nulla da obiettare: con i franchi tiratori tedeschi nel comitato esecutivo della BCE contrari ad ulteriori espansioni monetarie e con i tassi di interesse praticamente a zero è difficile affermare il contrario.

Invece la Commissione Europea (l’Esecutivo di Bruxelles) lo scorso 14 febbraio 2020 fa la seguente dichiarazione (riportata da RADIOCOR)«Eurozona: per governi non necessario ora stimolo pubblico forte alla crescita».

Ragioniamo insieme: Paolo Gentiloni in quanto Commissario agli Affari Economici è il ministro dell’economia della Commissione Europea (cioè del governo europeo) o sbaglio? Dunque qualcuno (più in alto di lui) lo ha smentito praticamente in diretta?

La pantomima destinata a noialtri peraltro non finisce qui perché ai penultimi posti subito dietro il record di bassa crescita detenuto dall’Italia ci sono Francia e Germania, due “partner” (in realtà rivali) europei che invece stanno facendo molto per smarcarsi dall’impasse (la Germania continua a limare in sordina la tassazione delle imprese e la Francia ha appena varato un miglioramento del trattamento pensionistico dopo le rivolte di piazza dei giorni scorsi) e che comunque viaggiano a un‘aspettativa di incremento del Prodotto Interno Lordo che è comunque quasi tre volte quello atteso per l’Italia.


Ora è chiaro che già la manovra attuale del governo Conte basa quasi ogni centesimo destinato a stimolare l’economia sul deficit, solo parzialmente mascherato da presunti recuperi dell’evasione “et similia”. Se in più prendiamo atto del fatto che le previsioni della Commissione Europea sono realistiche (cioè così non si cresce), sembra che vogliamo darci la zappa sui piedi e lo stiamo anche facendo apposta. Siamo soltanto a metà Febbraio: si potrebbero fare ancora tante cose (sempre che ce ne fosse la voglia).

Ma l’unica voglia che si registra tra gli umori della politica è quella di abbandonare la nave prima che sia troppo tardi da parte degli attuali ministri e presidenti per passarne il timone a qualche altro “commissario U.E.” o “governo del presidente” che dir si voglia (si fa il nome di Draghi) onde dare la colpa a qualcun altro.

Ma se i “partner” europei non vogliono fare nulla per farci smarcare dallo stallo del debito che ci impedisce di prendere misure più espansive (dato il vincolo del cambio fisso) e il mantra collettivo è che nessuno in Italia possa adottare politiche a favore delle imprese senza “tutelare” i lavoratori (cioè flessibilizzando il mercato del lavoro) senza nuove mobilitazioni degli “agit-prop” dei centri sociali che vadano in giro a spaccare tutto, persino un altro uomo mandato da Bruxelles non potrà che amministrare l’ennesima disfatta italiana.


Difficile peraltro discutere di queste tristi constatazioni senza cadere nella trappola del prendere posizione nei giochi politici di parte, ma certo di fronte a queste prospettive l’incompetenza (o peggio) di chi ci governa rimane sbalorditiva e l’imbonimento televisivo quotidiano che viene praticato per nasconderlo non basta a placare l’umore degli italiani che si rendono conto di essere in trappola.

A buon senso l’unico risultato di una tale situazione è probabile che sia il montare di un ulteriore sentimento collettivo antieuropeo!

Stefano di Tommaso




FINE DI UN’ERA E (FORSE) INIZIO DELLA PROSSIMA

Non c’è mai stato, nel corso dell’ultimo ciclo economico espansivo (che per l’America è durato più di dieci anni e per noi europei scarsamente la metà) un momento più truce di quello attuale. Non soltanto per il crollo del cambio dell’Euro (che a noi Italiani non può che rallegrare), ma anche per tutto il resto: a partire dall’arretramento vistoso della produzione industriale fino alla caduta libera del Prodotto Interno Lordo, passando per la confusione politica che regna sovrana anche oltralpe (certificata non soltanto dai Tedeschi, ma sinanco dagli Irlandes, fino alla figuraccia fatta in mondovisione davanti al Regno Unito, uscito più che mai vincitore da un confronto senza precedenti con Bruxelles, dopo che per tre anni i nostri euroburocrati si erano esercitati allo specchio a fare il grugno e avevano ipotizzato ogni genere di rivalsa (che non potrà esserci, perché è importatore netto delle nostre merci).

 

Per chi non se ne fosse accorto (visto che la notizia è passata in sordina sui media nazionali) il Prodotto Interno Lordo italiano nell’ultimo trimestre 2019 è sceso dello 0,3% (ed è soltanto la prima stima perché c’è il rischio che quella più accurata che arriverà poi possa peggiorare). Difficile dare la colpa al precedente governo, i cui ministri economici e il cui presidente del consiglio erano espressi dalla medesima forza politica che guida il governo attuale. Difficile dare la colpa nemmeno al virus, dal momento che non si era ancora palesato. Altrettanto difficile è dimenticare che il nostro governo (così come nemmeno gli altri in Europa) non ha mosso un dito perché gli investimenti privati si riprendessero, l’occupazione aumentasse in modo sano (cioè con esclusione della Pubblica Amministrazione) e le migliori imprese (così come i cervelli dei nostri giovani) fossero incentivate a non continuare a fuggire via dall’Italia.


E poi, come non bastasse, ecco -appunto- comparire il cigno nero del Coronavirus cinese, mille volte più letale del suo precedente denominato SARS e potenzialmente idoneo a stendere a terra al primo round l’intera economia asiatica (che contempla quasi 5 miliardi di abitanti).

Ancora nessuno si è veramente (o forse è meglio dire “ufficialmente”) reso conto dei rischi che corriamo in questi giorni, anche perché il rallentamento economico globale (e in particolare quello industriale, che più riguarda noi europei) si somma al crollo del commercio globale (a causa del virus, non delle fantomatiche guerre commerciali che non esistono più da mesi) e al calo dei consumi voluttuari. Di fatto si stanno mobilitando tutti (banche centrali , governi, agenzie sovranazionali…) e manca poco per vedere finalmente dischiudersi la cortina fumogena che avvolgeva la volontà politica di procedere con le grandi opere infrastrutturali di cui il mondo necessita da anni, e con politiche fiscali più espansive, sebbene ciò rischi di arrivare con imperdonabile ritardo.

E anche per queste ragioni il debito globale (non quello pubblico italiano, che rischia di non nuocere a nessuno tranne a noi stessi, per vari motivi) continua e continuerà a crescere, sebbene agli economisti onesti non appaia affatto chiaro se questo rappresenta davvero un problema ovvero se tutto sommato a questi livelli dei tassi e dell’inflazione (zero) resterà una variabile secondaria (come appunto potremmo pensare adottando la Modern Monetary Theory).

Il combinato disposto di tutti questi fattori sfavorevoli allo sviluppo economico sta peraltro giovando terribilmente agli U.S.A. e sfavorendo altrettanto l’Unione Europea nonché la sua Moneta Unica, che appare sempre più per ciò che è sempre stata: un pateracchio voluto e manovrato da Tedeschi e Francesi con scopi esclusivamente geo-politici. Cioè una creatura monca, incapace anche per questo motivo di correre per riuscire a spiccare il volo. Gli investitori lo hanno capito da tempo e fuggono, perlopiù verso il Dollaro, anche se una fetta sempre più consistente delle loro risorse si rivolge ai numerosi Paesi in via di sviluppo, i quali possono ancora contare sul cosiddetto “dividendo demografico” (perché continuano a fare più figli di quanti ne restino dentro ai loro confini). Altri accumulano oro e immobili, ma se l’economia globale si inginocchia davvero la bolla speculativa che ne sostiene le quotazioni si sgonfia subito.


In questo scenario apocalittico coloro che si sono fatti meno male sinora sono state le Borse Valori, soprattutto quelle anglosassoni e soprattutto a causa del fatto che la loro capitalizzazione globale (circa 85mila miliardi di dollari) è cresciuta negli ultimi 12 anni quasi esattamente dello stesso importo pompato nei mercati dalle banche centrali (giunto a circa 21mila miliardi di dollari). Seguendo questi ragionamenti e secondo gli speculatori più incalliti le quotazioni Borse sarebbero perciò sostenute da una liquidità “surrettizia”, che farebbe loro perdere il contatto con la realtà. Ma ciò è vero soltanto in parte.

In realtà le azioni quotate in Borsa non sono tutte uguali: quelle che hanno corso di più sono state quelle emesse da società che esprimono nuovi modelli di business e nuove tecnologie e la borsa che è rimasta più sostenuta è guarda caso quella che ne raccoglie il maggior numero (Wall Street). Molti altri titoli industriali e molte altre Borse sono rimasti indietro. È notizia fresca quella che ieri la Borsa di Milano ha finalmente recuperato le quotazioni massime raggiunte appunto dodici anni fa, poco prima della crisi. Come dire che il guadagno di questo periodo è stato pari a zero.

Cosa attendersi? Poco prima del virus l’economia-mondo stava effettuando un timido tentativo di rilancio della crescita, trainato dell’economia americana e dalle speranze di un nuovo ulteriore ciclo espansivo. La statistica però gioca a sfavore, perché non c’è mai stato un ciclo economico positivo così lungo nella storia recente.

D’altro canto se la pandemia sarà finalmente “contenuta” in tempo (cioè non si espanderà ulteriormente) e se dovessero partire piani globali di sviluppo economico basati su incentivi fiscali e sull’avvio di grandi opere infrastrutturali allora il mondo potrebbe riuscire a beneficiare appieno delle ricadute in termini di benessere derivanti dalle numerose e prodigiose nuove tecnologie, a vantaggio dell’intera umanità. E con buona pace di chi (a partire dai Tedeschi) si scandalizzerà per l’ulteriore crescita del debito. In fondo, per ogni centesimo finanziato a qualcuno ce n’è uno dato a prestito da qualcun altro. E se di nichelini in giro ce ne sono troppi, non stupisce che i tassi di interesse sprofondino sotto lo zero…

Stefano di Tommaso




BANCHE ITALIANE: L’EUROPA LE BACCHETTA E LA BORSA LE PREMIA

“Il nostro sistema bancario è patrimonialmente solido ma la redditività è bassa” . Così hanno sostanzialmente titolato i giornali sulla notizia relativa ai risultati della annuale valutazione e misurazione dei rischi di ogni singola banca svolto dalla vigilanza della Banca Centrale Europea, invitando le banche italiane a colmare il loro gap con gli standard continentali tanto a proposito della redditività quanto al riguardo della patrimonializzazione. Niente di più vero, ma anche di più bieco, visti i fatti. Vediamone il perché.

 

LA BORSA PREMIA LE BANCHE ITALIANE

Innanzitutto la redditività: poco meno di un mese fa ho pubblicato un articolo nel quale citavo l’opportunità apertasi con le quotazioni depresse del settore bancario italiano, accennando al fatto che in America era già successo e si stava creando un crescente divario tra l’andamento dell’indice settoriale della borsa di Milano e quello corrispondente americano, proprio mentre diveniva chiaro che molte banche italiane sarebbero tornate all’utile nel 2019.

Pochi giorni dopo un articolo del Sole24Ore riportava un report dell’autorevolissima Goldman Sachs diceva la stessa cosa: le banche italiane hanno sofferto una sottovalutazione importante che può finalmente rientrare. Ci sono volute però tre settimane perché ciò accadesse in Borsa ma alla fine è successo: l’indice settoriale FTSE ITALIA BANKS ha fatto un balzo superiore a quello dell’intero listino (come si può leggere dalla comparazione dei 2 grafici):



Per quali dinamiche ciò è accaduto dal momento che l’economia italiana non brilla e quella europea va forse ancora peggio? Come scrivevo nel mio articolo si trattava di recuperare un divario oramai completamente ingiustificato, che risale all’anno precedente quando ancora non era chiaro se i bilanci pubblicati dalle banche quotate rispecchiavano la verità: cioè avevano svalutato adeguatamente e ceduto tutti i crediti in difficoltà che avrebbero dovuto. Il calo dello spread italiano poi ha fatto il resto, ma la sensazione è che tale ripresa dei corsi dei titoli bancari non sia ancora esaurita visto ciò che è successo in Grecia dove, anche grazie alla vicinanza politica con Bruxelles, il comparto bancario nell’ultimo hanno ha guadagnato il 107% in borsa.

LE QUALI CONTINUERANNO A PERFORMARE BENE

Ma c’era (e c’è ancora) nelle motivazioni che mi spingevano a suggerire di privilegiare il settore bancario, una seconda chiave di lettura relativa all’andamento dei titoli azionari: l’ottima redditività, insieme ad una certa stabilizzazione delle relative prospettive e alla forte volontà di distribuire importanti dividendi. Ecco una tabella con le cedole previste per l’esercizio 2019 e per quello 2020 delle principali aziende italiane (tra le quali numerose banche) :


Dividendi astronomici, quasi da “public utilities”, (soprattutto Intesa, UBI e Mediobanca) un po’ perché il settore resta ampiamente “protetto” (cioè fortemente oligopolistico) e un po’ perché è oramai scritto nel cielo che altre banche di piccola e media dimensione si aggregheranno forzosamente a quelle maggiori, le quali ne riceveranno necessariamente un beneficio e, guarda caso, queste ultime sono quasi le uniche quotate in Borsa.

EUROPEAN BANKING AUTHORITY E FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE INVECE PREMIANO LE BANCHE ITALIANE

Ma ci sono anche altre fonti autorevoli. Sulla base della classifica dell’E.B.A. cioè del l’Authority bancaria europea. -un‘entità diversa dalla vigilanza della Banca centrale europea – pubblicata, nel silenzio dei più, solo dal sito #Truenumbers di Marco Cobianchi invece le banche italiane sarebbero decisamente più redditizie di quelle tedesche e francesi. Cioè degli istituti di credito di coloro che ci fanno la morale sul MES, puntando il ditino sulla presunta “rischiosità” della nostra economia.

L’E.B.A. ha stilato la classifica dei sistemi bancari europei in base al Roe, il Return On Equity, un indice che misura la redditività del capitale (diversa dall’indice discrezionale di solidità misurato da BCE con il sistema “CET 1”) in cui svettano Unicredit e Intesa SanPaolo con oltre l’ 11% .

A rafforzare tale tesi, ecco di seguito una recente legenda pubblicata da Il Sole 24 Ore relativa alle prime banche italiane:

dove si può chiaramente leggere che la protagonista del 2019 è sicuramente Intesa San Paolo, per la quale peraltro una nota successiva rende i suoi risultati ancora più importanti: in realtà, per Intesa il risultato netto rettificato 2019 è pari a 4,67 miliardi contro 3 miliardi nel 2018.

Idem dicasi se citiamo il Fondo Monetario Internazionale. Nel rapporto annuale stilato al termine dell’indagine sul nostro Paese, a fine Gennaio, gli ispettori dell’ FMI riconoscono per esempio che in tre anni l’incidenza dei non performing loans nelle banche italiane si sia più che dimezzata, dal 16% del 2016 al 7,3% nel 2019.

E ancora oggi l’opportunità speculativa sul settore delle banche (grandi) permane, soprattutto perché le aspettative che riguardano i profitti di settore restano orientate al rialzo, e partono ancora da un livello più che prudenziale, ma ovviamente dopo tutta la strada percorsa in meno di due settimane resta, appunto, una speculazione (sempre a rischio).

MA SECONDO LA BCE NON CI SIAMO ANCORA

Ciò nonostante la BCE ha deciso che, nello spirito di “Basilea 3”, una banca è patrimonialmente solida se ha un indice di patrimonializzzazione almeno pari all’8% dei prestiti effettuati. Ma l’indice tiene anche in considerazione la sostenibilità del modello di business, l’efficacia della governance, i contro sui rischi operativi, eccetera, cioè: elementi qualitativi discrezionali. Circa i quali i commissari europei sebbene guidati da un Italiano (Andrea Enria, presidente del consiglio di sorveglianza della BCE, nella foto di copertina dell’articolo) si fidano ugualmente poco dei nostri connazionali.

Elementi che guarda caso spingono la BCE a suggerire una richiesta di capitale aggiuntivo praticamente per tutte le banche nazionali, anche le maggiori, nella misura che si può leggere nella tabella che segue:

Ma se il mercato azionario (che è totalmente globalizzato) premia così tanto il sistema bancario italiano, perché allora la BCE lo bacchetta? Ci sono due chiavi di lettura.

PERCHÉ LA BCE VUOLE LE BANCHE ITALIANE PIÙ CAPITALIZZATE?

Una è quella pacifica: effettivamente la redditività è bassa così come lo è la capitalizzazione, ma soprattutto per le banche di minori dimensioni. Vi è dunque una “moral suasion” da parte dei banchieri europei verso le fusioni o le cessioni a quelle maggiori, in parte interessata, dal momento che la vigilanza di quelle maggiori spetta a Francoforte mentre quella delle più piccole resta alla Banca d’Italia, oggi sotto schiaffo per aver fatto poco per evitare le ultime crisi (come quella della Popolare di Bari).

Ma la seconda chiave di lettura del commento di BCE è più allarmante: scrivere che le nostre banche hanno bisogno di capitalizzarsi maggiormente e di migliorare la loro redditività significa affermare che devono probabilmente erogare meno prestiti alla clientela minore, quella per la quale è più alta la rischiosità, visto che di questi tempi faranno fatica a raccogliere altri capitali di rischio dai risparmiatori. E se da un lato questo è assolutamente vero in generale, dall’altro lato dobbiamo ricordarci che a casa nostra non c’è quella parte del sistema bancario che non risponde ai controlli collettivi così come c’è invece in Germania con il sistema delle “Landesbank”, le quali invece a uppliscono a tale esigenza. Da noi ci sarebbero le Banche di Credito Cooperativo, ma non sono assolutamente paragonabili.

COSA SIGNIFICA PER IL NOSTRO PAESE

Dunque quell’indicazione così ermetica significa invitare il sistema bancario a concentrarsi accorpando le banche più piccole (cosa che di per sé riduce il credito disponibile) oltre a invitare a erogare in assoluto meno crediti alle imprese minori. Ciò significa che ancora una volta ci saranno meno finanziamenti all’economia reale, che in Italia è fortemente sbilanciata verso la piccola e piccolissima impresa, in particolare al sud.

Sarebbe invece utile che l’Italia difendesse le proprie banche minori dal momento che le impostazioni europee vanno bene solo dove anche le imprese-clienti di quelle banche hanno grandi dimensioni. Persino la normativa sulle crisi aziendali ora getta un macigno di responsabilità sugli amministratori delle piccole e medie imprese e sui loro consulenti, fino a prevedere che debbano farsi certificare con una sorta di rating (obbligo al momento rinviato al 2021), con il risultato che le imprese chiedono meno finanziamenti e preferiscono tirare a campare.

Si tratta delle quasi 900mila aziendine di cui è fatto il sistema industriale italiano (attenzione: il 79% del totale delle imprese italiane ha da 3 a 9 dipendenti e il 18% ne ha da 10 a 49: dunque il 97% delle imprese italiane ha meno di 50 dipendenti) che già oggi non ottengono sufficienti finanziamenti a causa di un rating calcolato con criteri europei, che costringe le banche ad accantonare troppo capitale per poterle finanziare. Ecco da dove proviene la cosiddetta sotto-capitalizzazione delle banche italiane: dall’estrema granularità del tessuto di micro-imprese che compongono il comparto produttivo del Paese. Una cosa che non si può cambiare in un istante e con un tratto di penna dopo che per anni si è scoraggiata la crescita dimensionale.

E la strozzatura nella circolazione della liquidità che inevitabilmente deriva da questo insieme di norme e giudizi di rigore non può che svantaggiare ancora una volta il nostro Paese, in nome di una standardizzazione continentale che non sempre appare giustificata.

Stefano di Tommaso