VOLATILITÀ, ANCORA VOLATILITÀ

Le recenti ondate di vendita sulle borse di tutto il mondo non sono l’effetto del crollo del prezzo del petrolio, anzi: tanto i mercati delle materie prime quanto quelli delle attività finanziarie sono sotto pressione perché molti investitori sentono puzza di bruciato e cercano -come possono- di tirare i remi in barca. Vediamo perché.

 

Il primo (e più importante) punto che vale la pena di osservare è quello dell’estrema velocità con la quale si è dispiegato uno dei più rovinosi crolli di borsa della storia recente. Nel confronto tra gli istogrammi qui sotto riportati si può leggere in quanti giorni si è dispiegato un calo generale dell’indice Standard & Poor 500 (il più ampio e diffuso indice delle azioni a Wall Street, che a sua volta traina l’andamento di quasi tutte le altre borse valori del mondo).

Ebbene i 22 giorni che sono bastati al più liquido e ricco listino azionario del pianeta per perdere quasi un terzo del valore sono inferiori persino a quelli occorsi durante la famosa crisi finanziaria del 1929, cui peraltro ne seguirono altre due (nel 1931 e nel 1934).


Anche allora (quasi un secolo fa) non soltanto le borse entrarono in un ciclo perverso di distruzione del valore in ossequio al profondo cambio di paradigma del mondo industriale che esse riflettevano (come peraltro molti osservatori fanno notare stia accadendo oggidì), ma soprattutto entrarono in una fase di profonda instabilità che arrivò a durare quasi un decennio, prima che il mondo imboccasse la rovinosa strada della seconda guerra mondiale.

E se parliamo di instabilità non possiamo non osservare l’unico grande indice che ne trae una misura: quello della volatilità delle borse. L’indice VIX (quotato alla Borsa di Chicago) nelle ultime 9 settimane non soltanto è cresciuto vistosamente, ma sembra anche stranamente essersi stabilizzato su livelli decisamente elevati: da un paio di mesi infatti la sua media è ben superiore al livello 40, storicamente considerata pericolosa.


Come è possibile leggere dal paragone qui sotto riportato, nemmeno durante la crisi del 2008 il listino azionario a Wall Street vide una oscillazione così marcata e prolungata dell’indice della volatilità:


Ma soprattutto la sua tendenza non accenna a placarsi: secondo molti analisti il grafico esprime tutta la sua volontà di toccare nuovi massimi e, se osserviamo l’andamento degli ultimi vent’anni dell’indice Standard & Poor 500 (qui sotto riportato: è anche l’indice di borsa cui si riferiscono le oscillazioni riportate dal VIX), esso non promette nulla di buono. Soprattutto considerando il fatto che in una nuova recessione globale (evidenziata nei precedenti periodi dalle strisce verticali grigie) il mondo oramai ci è finito per certo!


E, se andiamo a guardare cosa è successo all’indice di Wall Street all’arrivo di ognuna delle precedenti recessioni (2001 e 2008), troviamo ben più di un’ondata di ribassi prima che la Borsa potesse riprendere fiato.

Aggiungiamoci pure il fatto che la recessione che si prospetta per l’anno in corso -per ampiezza e profondità- ha tutta l’aria di assomigliare soltanto a quella del 1929, facendosi un baffo delle altre crisi intermedie. E allora completiamo il quadretto allargando il medesimo grafico ad un intero novantennio e specificando che all’epoca, le ondate di forte oscillazioni dei corsi azionari si propagarono ulteriormente per tutto il ventennio che ne seguì:


Come si può leggere dal grafico qui sopra riportato alla profonda caduta dei corsi di Borsa seguita alla crisi del 1929 seguì un’ampia recessione (la peggiore della recente storia economica) e una profonda deflazione, alimentata anche dalla minore capacità di intervento delle banche centrali dell’epoca, fortemente limitate dal concetto di “gole standard” che accompagnava l’emissione di carta-moneta. Ma soprattutto a quell’ondata ne seguirono delle altre. Quasi altrettanto forti, e per quasi un ventennio, appunto.

Ora, diciamocelo francamente, il paragone con la crisi occorsa quasi un secolo fa non lascia sonni tranquilli: la recessione del 2020 è oramai conclamata (anche se non lo è ancora, statisticamente, lo è tuttavia nei fatti), la deflazione ai giorni nostri morde il freno oramai dal lontano 2014, quando l’ex rettore della Harvard University, Larry Summers, pubblicò il suo famoso saggio scrivendo che sarebbe presto arrivata una “stagnazione secolare” ( un neologismo in realtà coniato da Alvin Hansen nel 1938), coincidente con la crisi dell’attuale modello economico capitalista. E i tassi d’interesse sono già arrivati da tempo intorno allo zero.

E per di più non è detto che la pandemia che all’inizio dell’anno ha innescato questa crisi non possa mostrare una “seconda ondata”, come dimostra l’episodio di Singapore, dove nuovi focolai di infezione da Coronavirus sembrano presagire un non facile ritorno alla normalità.

Abbiamo sempre tutti (forse un po’ alla leggera) affermato che la crisi che si prospetta avrebbe potuto anche evaporare in funzione degli interventi pubblici a sostegno dell’economia (e ce ne sono stati, soprattutto al di là dell’oceano) e della velocità con la quale il mondo sarebbe potuto tornare alla normalità. Ma è sempre più evidente che alla “nuova” normalità (e dunque ad una quasi piena funzionalità produttiva) il mondo non tornerà prima dell’estate, addirittura forse non prima della fine dell’anno.

Non si prospetta perciò nulla di buono in generale per le borse valori, almeno sino a quando le prospettive di ripresa economica non si faranno più solide, anche perché ulteriori crisi dei listini di borsa scatenerebbero per certo ulteriori necessità di interventi da parte delle banche centrali, per far fronte alla carenza di circolazione della moneta che ne conseguirebbe. Cosa che indubbiamente può generare un’opportunità per investire (speculativamente e nel breve termine) sul mercato dei titoli a reddito fisso i quali, pur già ai minimi di rendimento, potrebbero inanellare l’ennesimo rialzo a causa degli interventi summenzionati delle banche centrali.

Ma soprattutto non si prospetta nulla di stabile per i listini azionari, cosa che ne potrebbe fare nelle prossime settimane piuttosto probabilmente il paradiso degli speculatori, ma anche l’inferno dei risparmiatori.

Stefano di Tommaso




TEMPI MODERNI

Per la sopravvivenza delle piccole e medie imprese italiane non possiamo che registrare una decisa apprensione (supportata dai ragionamenti qui sotto riportati) a causa delle conseguenze pratiche che l’importantissimo stop alle attività economiche messo in atto nel nostro Paese potrà avere sulle loro condizioni operative. Lo “state a casa” adottato in modo dapprima tardivo e poi assai radicale dal governo italiano per frenare la diffusione della pandemia ha generato conseguenze devastanti per l’economia italiana. Ciò crea difficoltà operative anche per le imprese più virtuose e la necessità di operazioni sul capitale e di fusioni e acquisizioni, ma anche un‘oggettiva difficoltà a metterle in pratica, che ne allungherà in molti casi la tempistica.

 

IL QUADRO MACROECONOMICO

Si stima di larga massima che il Prodotto Interno Lordo nazionale, che alla fine dell’anno 2019 ammontava a 1790 miliardi di euro, possa comprimersi nel corso del primo semestre di una quantità variabile tra il 10 e il 20% scendendo dunque fino a 1450 miliardi di euro, per poi eventualmente risalire intorno a fine anno. E poiché sarà piuttosto difficile che dopo Giugno il Paese possa ritornare ad una relativa normalità, gli analisti sono tutti propensi per lo scenario più prudente (-20% pari a circa -11% su base annua).

Senza addentrarsi ulteriormente nell’analisi degli scenari, proviamo a stimare cosa succederà di conseguenza al debito pubblico italiano: esso ammontava allo scorso Gennaio a oltre 2450 miliardi di euro con un rapporto perciò pari al 137% sul P.I.L. Con gli interventi decisi dal governo a sostegno dell’economia si stima che la spesa pubblica possa accrescersi nell’anno dai precedenti 900 miliardi (di cui quasi 300 per le pensioni) a circa 1200 miliardi di euro (in buona parte dovuti all’utilizzo della Cassa Integrazione Guadagni) e che perciò il debito pubblico possa raggiungere i 2750 miliardi di euro.

Dunque il suo rapporto con il P.I.L. potrebbe ascendere al 190%. Ma per stimare l’entità del debito Lordo questo non basta: con il calo del gettito fiscale prevedibile (almeno pari al calo del Prodotto Interno Lordo) il il deficit di bilancio del 2020 si amplierà probabilmente di altri 100 miliardi, per arrivare vicino al 10% del P.I.L. (viaggiava già al 3% prima della pandemia) sospingendo dunque il rapporto tra il debito pubblico e il P.I.L. fino al 200% circa, al lordo di eventuali ritorni alla crescita economica già nel corso del 2020 (che migliorerebbero tale rapporto).

CON UN DEBITO PUBBLICO DI TALE ENTITÀ CHI BENEFICIERÀ DELLA GARANZIA STATALE SUI FINANZIAMENTI? NESSUNO!

Anche senza considerare i possibili effetti “inflattivi” dei sussidi pubblici che genereranno quantomeno stimoli alla domanda di beni e servizi primari (la domanda di questi beni non troverà facile riscontro nella capacità produttiva, pesantemente ridotta a causa degli impedimenti pratici), dobbiamo prendere atto del fatto che il pericolo che il debito pubblico italiano venga considerato non più sostenibile farà lievitare lo spread tra il rendimento dei titoli di stato italiani e quello (negativo) della Germania, pur in presenza di decisi interventi della Banca Centrale Europea ad acquistare i nostri BTP. Ciò farebbe lievitare non poco i tassi d’interesse lordi che verranno applicati alle imprese, nonostante che queste ultime avrebbero dovuto beneficiare delle garanzie di Stato ai loro finanziamenti.


In realtà quasi gli unici veri benefici di quelle garanzie a pioggia andranno in prima battuta alle banche, che stanno già chiedendo alle imprese di erogare i finanziamenti assistiti da garanzie di stato soltanto in parallelo al rientro dai precedenti finanziamenti, oggettivamente divenuti oggi più rischiosi a causa del crollo dei margini aziendali che deriverà dalla contrazione prevedibile dei fatturati. Ma se il portafoglio crediti delle banche italiane sta peggiorando, allora nemmeno loro potranno effettivamente godere di un vantaggio con l’ottenimento di garanzie di Stato perché con il peggioramento della situazione generale faranno più fatica a raccogliere depositi e a piazzare titoli obbligazionari sul mercato.

DIFFICOLTÀ ANCHE PER LE IMPRESE MIGLIORI

In un siffatto contesto generale persino le imprese più attive nelle esportazioni e dunque meno colpite dal calo della domanda interna (peggiore di quello del resto del mondo) fronteggeranno uno scenario di difficoltà oggettive nella prosecuzione della produzione (quando quest’ultima sia possibile) e di grande confusione organizzativa relativamente agli approvvigionamenti, agli spostamenti, alle lungaggini di pagamenti e finanziamenti e al crollo generalizzato degli investimenti.

In molti casi esse ricorreranno alla cassa integrazione o comunque rinvieranno l’assunzione di nuovo personale (alimentando la disoccupazione), ma soprattutto nell’incertezza rinvieranno in molti casi gli investimenti in impianti e macchinari produttivi, che compongono una bella fetta del prodotto nazionale, insieme ai settori del turismo (che ha già perduto la stagione estiva) e del tessile-abbigliamento-arredo (le cui vendite si sono al momento azzerate).

Il mercato dei capitali (borse valori comprese) non potrà non subire un contraccolpo da tutto questo marasma, probabilmente soltanto parzialmente incorporato nelle attuali previsioni degli analisti finanziari. I grandi operatori di “private equity” stanno rivedendo le operazioni in corso, quantomeno per le difficoltà e le lungaggini nel reperire la “leva finanziaria” delle acquisizioni, nelle verifiche ambientali e nelle tempistiche di completamento delle “due diligence”, ma anche al riguardo delle attuali valutazioni aziendali, che inevitabilmente scenderanno (quantomeno a causa della discesa dei moltiplicatori di valore delle borse).


PERSINO GLI INVESTITORI SOFFRIRANNO

Anche dal punto di vista strategico, lo scenario degli investitori sta cambiando radicalmente, perché la “nuova normalità” che si genera con il rischio biologico oggi riscontrato sta alimentando le aspettative di prezzi e fatturato di tutte le imprese coinvolte nella filiera alimentare del mondo e sta rendendo sempre più importanti la spesa per la sanità, le tecnologie digitali e le telecomunicazioni. Al tempo stesso si stanno riducendo decisamente le prospettive di tutti gli operatori coinvolti nella produzione di beni durevoli, di articoli per i consumi discrezionali, di servizi turistici, di viaggi e spostamenti e sinanco di trasporti.

Farà probabilmente eccezione la logistica, perché il commercio elettronico e le consegne a casa -per tutta la durata dell’emergenza sanitaria, ma probabilmente anche dopo- non potranno che incrementare a doppia cifra. Anche la produzione di cibi subirà un probabile crollo nella loro somministrazione tradizionale (ivi compresi bar, ristoranti, tavole calde e pizzerie) ma vede un’ascesa verticale delle consegne a domicilio, che in buona parte si stima si consoliderà anche in futuro.

Non sarà facile però investire nelle attività di consegna a domicilio, perché si tratta di un settore estremamente competitivo e fatto di meccanismi aziendali estremamente delicati che non è perciò facile far funzionare. Non a caso quasi soltanto un gigante come Amazon è riuscito a portarlo in utile. Molto più improbabile invece riuscirci per gli operatori di piccola e media dimensione.

COME CAMBIERÀ LO SCENARIO COMPETITIVO

Un’ultima annotazione non può che riguardare le dimensioni aziendali di questo come di molti altri settori: esse si polarizzeranno sempre di più:

  1. da un lato le imprese grandi subiranno la tendenza a crescere di dimensioni o ad aggregarsi tra loro, a caccia della miglior efficienza tecnica ed economica, ma anche perché sarà l’unica loro possibilità di proseguire nel sostenere gli importanti investimenti tecnologici ed organizzativi necessari per adeguarsi al nuovo contesto economico;
  2. dall’altro lato le imprese più piccole saranno (s)vendute o tenderanno a polverizzarsi, frammentando verticalmente la loro filiera produttiva e riducendo il personale diretto, per accrescere la loro elasticità operativa. In molti casi smaterializzandosi letteralmente grazie alle tecnologie digitali e in altri casi entrando a condividere ampie reti di imprese che potranno permettere loro di sostenere l’impatto delle tecnologie, le spese di logistica, distribuzione e comunicazione aziendale.
    Il problema è che in molti casi di oggettiva debolezza delle imprese le difficoltà attuali le faranno precipitare nell’insolvenza, in un maggiore indebitamento e, in molti casi, a un sia pur ritardato fallimento.

Si moltiplicheranno perciò le situazioni di disagio finanziario anche delle imprese più sane, a motivo delle riduzioni dei fatturati, delle mancate riscossioni di una parte dei crediti commerciali e dell’allungamento dei tempi di pagamento dell’altra parte. La peggior copertura dei costi fissi poi dovrebbe provocare una generalizzata riduzione dei margini industriali e la tendenza a dismettere ogni genere di costi fissi, alimentando il polverone che sempre accompagna l’arrivo delle recessioni.

E LO SCENARIO FINANZIARIO AZIENDALE

Difficile guardare ancora più in là, sia per l’oggettiva difficoltà nel prevedere il futuro, che anche per il “rumore di fondo” generato dai problemi quotidiani che il mondo deve fronteggiare in queste difficili settimane. La crisi del sistema economico occidentale non poteva essere più profonda e, ovviamente, in queste situazioni sono i Paesi più a rischio e maggiormente indebitati come l’Italia a farne le spese.

Difficile tornare indietro con la memoria per fare paralleli con rivolgimenti economici della medesima portata se non arrivando a quello conseguente all’ultima guerra mondiale, alla fame e alla frenesia da ricostruzione che ne è conseguita. Questa crisi si è sviluppata inoltre ad una velocità e con una progressione incredibile, cosa che lascia temere che ancora potremmo risultare incapaci di cogliere tutte le sue possibili conseguenze.

La più importante di esse sarà probabilmente il rallentamento nella velocità di circolazione della moneta e, di conseguenza, la deflazione che ne scaturirà. Se da un lato essa contribuirà a calmierare le tendenze di inflazione dei prezzi che potevano generarsi con il calo dell’offerta, dall’altro lato indurrà un‘ inevitabile disoccupazione e “deflazione salariale” che ridurrà in miseria buona parte della popolazione attiva e, ancora una volta, i consumi. Il ciclo dei cali si ripeterà probabilmente molte volte prima di giungere a un relativo equilibrio.


Dal punto di vista finanziario perciò non si prospetta una situazione facile (al netto di nuovi interventi delle banche centrali, che potrebbero migliorare di molto il quadro), perché la necessità di reperire abbondante liquidità imporrà a tutte le imprese la riduzione delle scorte a magazzino e il taglio delle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria. Il calo degli incassi inoltre (probabilmente ben superiore a quello del fatturato) le costringerà a cercare risorse finanziarie indebitandosi maggiormente, e riducendo così il valore aziendale netto.

LA CACCIA ALLE RISORSE FINANZIARIE

Molte imprese perciò cercheranno di ricorrere inevitabilmente al mercato dei capitali, che talvolta le costringerà (per risultare appetibili) ad importanti e compulsive aggregazioni o dismissioni di asset. Il valore di molti cespiti come gli immobili aziendali, i mezzi di trasporto e gli impianti e macchinari usati ne risentirà al ribasso inevitabilmente, generando efficienza produttiva da un lato, ma anche dall’altro lato una probabile spinta deflazionistica, che potrà risultare un bene laddove il sistema del credito dovesse tenere e i debiti pubblici non dovessero divenire carta straccia, perché in tal caso la loro sostenibilità sarà maggiore.

Il tutto però non potrà non riverberarsi su ulteriori vendite sui mercati borsistici e dei titoli di stato, sia per la fame di liquidità di chiunque che per la necessità di rivolgere la maggior parte delle risorse finanziarie i soli settori che risulteranno favoriti dalla “nuova normalità”. La media degli indici azionari assomiglierà perciò sempre più a quella di Trilussa: potrebbe non risultare tanto malandata ma sarà più di prima il frutto della compensazione di grandi guadagni di prezzo con più che altrettanti ribassi nelle valutazioni delle imprese che non rientreranno tra i settori più in voga.

Uno stimolo a prendere in considerazione la quotazione in borsa per le imprese della prima categoria, e a cercare urgentemente altre fonti finanziarie per le seconde, ivi comprese cessioni delle attività produttive o importanti liquidazioni di asset non strategici, e sempre che non intervenga un (oramai inaspettato) vero aiuto tangibile dal resto d’Europa.

Stefano di Tommaso




BORSE DI NUOVO STABILI O APPESE A UN FILO ?

L’ultimo paio di settimane ha visto l’indice globale MSCI delle borse valori risalire di quasi il 25% dopo che aveva perduto il 35% nel corso del mese precedente. Anche la volatilità è scesa corrispondentemente: l’indice Vix (l’unico di cui si abbia una misura universalmente accettata) dopo un lungo periodo intorno alla media di 20 punti era balzato a 85 nel corso del mese di caduta libera delle borse, per poi ritornare a 42 nelle ultime settimane. Gli analisti si interrogano dunque: è passata la burrasca oppure siamo nell’occhio del ciclone? Probabilmente si, ma i fatti qui riportati indicano una sola cosa: che è presto per dirlo!

 

Nei grafici che seguono troviamo l’andamento dell’indice “MSCI” dell’azionario globale e, subito sotto, quello “VIX” della volatilità:

Per rispondere a questa domanda da un trilione di dollari (su o giù?) il ragionamento da sviluppare è relativo a quali siano (e perché) i fattori più importanti che condizioneranno il futuro delle borse: l’andamento dell’economia reale, quello (più di breve termine) dei profitti o il mero livello di liquidità sui mercati? Ovviamente il fermo produttivo tra le diverse nazioni più sviluppate non è stato omogeneo.

Di seguito un parallelo tra le principali che rivela quanto possano essere stati severi i vincoli alla libera circolazione delle persone. Si va dal 95% in Italia fino al 15% in Corea. E non vi è alcun parallelo con il numero di vittime per ciascun paese (tabella che segue):

LE RISPOSTE? DIPENDONO…

Comunque si tenti di girare il problema le conclusioni sono piuttosto soggettive e dipendono inoltre dalle specificità di ciascun titolo quotato e ciascun settore industriale: è difficile che nel complesso osserveremo una pronta risalita dei corsi ben oltre i livelli già recuperati ed è anche possibile che prima di una grande rimonta ci saranno nuovi crolli, ma è altrettanto improbabile che i mercati finanziari si muoveranno all’unisono. Proviamo perciò a comprenderne le dinamiche.

La premessa più importante è innanzitutto la percezione comune dell’andamento prevedibile dell’economia reale nei prossimi dodici/diciotto mesi. Al momento quasi tutti concordano su previsioni terribili: il prodotto lordo globale rischia di contrarsi di non meno di 5 punti percentuali nel corso del 2020 (equivalente a una seria catastrofe), mentre assai poco è dato di indovinare circa l’anno che seguirà, dal momento che dipenderà moltissimo dalla capacità di riprendersi delle principali economie globali (quelle che normalmente trainano tutte le altre). Nel brevissimo termine è probabile che ciò corrisponda a realtà, ma le borse non rispondono alle prospettive di brevissimo termine ed è forse anche per questo che abbiamo assistito ad una così rapida e importante ripresa dei listini.

IL MITO DELLA RIPRESA A “V” PROFONDA

Altro mantra prevalente è quello di una ripresa a V profonda (si veda il grafico qui sotto si può visualizzare l’ipotesi oggi più diffusa relativa agli U.S.A.) già nella seconda parte dell’anno, cosa che limiterebbe evidentemente i danni peggiori, sebbene si possa già cogliere nel medesimo grafico una revisione in corso rispetto a quanto si prevedeva una settimana prima: la discesa del P.I.L. americano supererà probabilmente il 25% nel primo semestre 2020 e risulterà peggiore di quanto si immaginava. Dunque per poter contare sulla normalizzazione bisognerebbe sperare in una ripresa altrettanto forte subito dopo.

E qual è il Paese che è più avanzato nella progressione degli eventi (essendo stato sottoposto per primo all’attacco della pandemia? La Cina, ovviamente, che sembra anche esserne uscita ad una velocità sorprendente. E qui però la cautela è d’obbligo perché il virus che ha scatenato il blocco economico attuale sembra appartenere alla famiglia dei virus nfluenzali, che hanno la caratteristica di mutare la propria struttura così rapidamente che il riuscire nel suo inseguimento con vaccini e cure potrebbe rivelarsi difficile. Ora, se la Cina proseguirà nel suo percorso virtuoso verso una piena ripresa economica, allora il resto del mondo potrà tirare un bel sospiro di sollievo nella speranza che lo stesso accada anche altrove.

GUARDIAMO ALLA CINA PER SAPERE COSA CI SUCCEDERÀ DOMANI

Ma la Cina al riguardo dà ancora segnali contrastanti: da un lato la ripresa dell’attività economica e produttiva è un dato di fatto, ma dall’altro lato ci sono preoccupanti segnali di stasi nei consumi e di riduzione delle esportazioni perché, indubbiamente, l’andamento dell’economia della maggiore potenza industriale del mondo dipende anche dai consumi nel resto del mondo, che per il momento latitano come non mai. Di seguito un paio di grafici che mostrano l’andamento delle biglietterie di cinema e teatri e il prezzo dei trasporti marittimi, entrambi deludenti.

Questo a controprova della forte interdipendenza globale delle economie di ogni parte del pianeta. Perciò se Europa ed America oggi piangono, la Cina non ride. E se la pronta ripresa (a “V” profonda, appunto) dipenderà anche dall’andamento economico del resto del mondo, allora probabilmente gli incentivi fiscali e monetari erogati alle economie dei Paesi più ricchi non basteranno da soli a far ripartire l’economia globale.

SERVONO “MISURE” GLOBALI MA NESSUN SA IN QUALE MISURA

Non soltanto è necessario comprendere qual è la corretta ampiezza degli interventi pubblici per stimolare la ripresa economica (e probabilmente è ancora superiore ai pur ingenti interventi praticati sino ad oggi), ma a questi ultimi dovranno probabilmente affiancarsi ulteriori interventi che possano stimolare la ripresa nell’intero pianeta, prima che se ne possano davvero apprezzare gli effetti. Probabilmente è arrivato il momento di un forte impulso al sostegno delle spese infrastrutturali (in tutto il mondo), che avrebbero il pregio di liberare i loro effetti benefici nel tempo e nello spazio molto più del cosiddetto “helicopter money” che governi e banche centrali dovrebbe recapitare all’uomo della strada (e alle imprese di ogni genere)

Se essi si saranno rivelati adeguati allora il suddetto andamento a V profonda diverrà una realtà, mentre nel caso contrario dovremo prendere atto del fatto che siamo caduti in trappola. Ovviamente l’adeguatezza del valore totale degli interventi a sostegno della ripresa economica dipende a sua volta dalla durata della “serrata” imposta a privati, esercizi e imprese: maggiore sarà la durata e meno adeguati si riveleranno gli interventi programmati!

A QUALE GRAVITÀ GIUNGERÀ LA RECESSIONE?

Da questo punto di vista occorre anche chiedersi quanto è grave la crisi in corso (di seguito un grafico relativo all’indice composito di forza relativa dell’economia globale):

Ma occorre anche chiedersi quanto può durare la crisi. Nel grafico sotto riportato si trovano le traiettorie ufficiali del numero di vittime della pandemia (l’unico dato che conta, nella montagna di falsità riportate dalle statistiche, sebbene anche questo sia soggetto a discrezionalità, a proposito delle vere cause della morte) alla data di Pasqua.

Ebbene si può sperare che quasi tutte le maggiori economie del mondo seguano il ciclo di meno di tre mesi che ha interessato la Cina: se così fosse allora potremmo ben sperare per la seconda parte dell’anno. Ma come si può vedere le curve di alcuni Paesi come gli U.S.A. si innalzano ben oltre quella cinese, con il rischio che la discesa non sarà altrettanto riposa e che, di conseguenza, anche la durata potrebbe risultare maggiore, con la conseguenza che gli stanziamenti pubblici a supporto delle attività produttive non siano adeguati.

LA “CURVA” DELLE VITTIME DELLA PANDEMIA :

Negli Stati Uniti d’America però si calcola anche (in particolare concordano al riguardo gli economisti di: Goldman Sachs, Bank of America, Morgan Stanley e JPMorgan) che il secondo trimestre 2020 dovrebbe registrare un crollo del Prodotto Interno Lordo nell’ordine del 30% o più. Se così fosse il crollo economico sarebbe da registrare come il peggiore nell’intera storia economica americana. L’ondata di fallimenti a catena che si genererebbe in tal caso potrebbe spingere la disoccupazione di conseguenza ben oltre il 20% della popolazione attiva, dall’attuale ultima rilevazione del 4%. Una devastazione dalla quale l’America rischiererebbe di risollevarsi in tempi lunghissimi. Per fortuna sono soltanto stime, soggette a più di una revisione nel prossimo futuro.

MA LE VALUTAZIONI D’AZIENDA SONO CALATE?

Per rispondere a questa domanda (che è la più importante di tutte per chiedersi dove andranno le Borse) non basta cercare di prevedere cosa succederà all’uomo della strada. In borsa sono quotate le più importanti imprese di ogni Paese e le più importanti multinazionali. Vi è poi una prevalenza di società tecnologiche rispetto al totale delle imprese nell’economia reale e abbiamo visto che hanno performato relativamente bene durante l’ultimo mese, perché ciò che è successo ha imposto a tutti un balzo in avanti nell’uso delle tecnologie. Qui accanto un prospetto dell’andamento di alcuni settori tra quelli delle società quotate al Nasdaq (il mercato dei titoli più innovativi a Wall Street).

 

LA VITTORIA DI AMAZON E NETFLIX

Un altro aspetto da non sottovalutare è la rotazione degli investimenti nell’ambito dei portafogli di investimento. La dispersione delle performances è in rapido aumento perché ci sono imprese e settori (come Netflix per l’home entertainment e Amazon per le consegne a domicilio) che hanno addirittura incrementato i loro risultati e, ovviamente, i loro titoli non sono crollati, e altri che forse non si riprenderanno mai del tutto.

E ci sono mercati (come Wall Street) che hanno performato meglio di altri (come quelli europei). Di seguito l’andamento di questi due titoli (Amazon e Netflix), poi leggermente più in basso quello dei titoli “FAANG”(Facebook Apple Amazon Netflix e Google)poi un po’ più in basso quello dell’indice dei principali 500 titoli di Wall Street e infine l’indice relativo a tutte le altre borse del mondo. È evidente la differenza di risultati:

Ma soprattutto continuano a scendere i tassi di interesse: sempre che le previsioni (riportati nella tabella successiva) si materializzeranno, il minor fattore di sconto degli utili futuri dovrebbe determinare maggiori valutazioni aziendali a parità di profitti, dal momento che che queste ultime dovrebbero riflettere i flussi di dividendi attesi. Dunque il calo verso lo zero dei tassi di attualizzazione degli utili futuri potrebbe compensare il calo temporaneo dei profitti attesi.

 

Dunque è difficile affermare, in questo contesto, che le valutazioni aziendali debbano necessariamente scendere, ovviamente con una scala di toni che varia molto da settore a settore e da mercato a mercato.

Certamente le borse nel 2020 sono state fulminee tanto nella discesa quanto nella risalita. E non ci sono certezze circa il fatto che andiamo di nuovo incontro ad un periodo di calma. Anzi! Una moltitudine di notizie positive e negative di prospetta all’orizzonte degli eventi, è una sequela di reazioni più o meno scomposte dei mercati e dei governi è possibile che si profili altrettanto.

LA VOLATILITÀ CONTINUERÀ

Un po’ di volatilità è dunque presumibile per il prossimo futuro, almeno sino a quando non si saranno placate le notizie negative relative alle vittime della pandemia e non sarà possibile soppesare con oggettività tanto i danni di quest’ultima quanto l’efficacia delle misure di contrasto messe in moto dagli organismi sovranazionali, dai governi e dalle banche centrali.

Fino a quel momento sarà difficile dormire sonni tranquilli per gli investitori, e ancor meno sarà possibile abbassare la guardia per gli imprenditori. Quanto sarà lunga l’andata di riflusso dopo lo Tsunami è oggi impossibile a dirsi. È così al riguardo di quante saranno in totale le vittime, dirette e indirette, della distruzione che ne è conseguita.

Ma se le borse hanno un qualche potere segnaletico per il futuro dell’economia reale, allora c’è da sperare un po’ più di quanto le estrapolazioni statistiche ci autorizzerebbero a temere…

Stefano di Tommaso




THE SHOW MUST GO ON

Il “bluff” del governo Conte a proposito dell’intervento istituzionale italiano a favore di autonomi e imprese è oramai giunto allo scoperto : non ci sono operatori economici nel nostro Paese che non abbiano già provato ad approfondire la disponibilità pratica dei prestiti di cui parlano giornali e telegiornali, per poi dover prendere atto del fatto che si tratta soltanto di annunci privi di sostanza, tempistica e sinanco buona probabilità di attuazione. Ma vediamo cosa si può dedurre dai fatti e come si può leggere l’incredibile vicenda in corso.

 

NIENT’ALTRO CHE UN BLUFF

La manovra economica a supporto dell’economia italiana del governo conte purtroppo non è nient’altro che un “bluff”, non soltanto perché l’annuncio di passare alle banche italiane la patata bollente del compito di pompare denaro nell’economia nazionale -sia pur con la garanzia di stato- rivela l’unica evidente ovvietà che gli annunci speravano di nascondere: che nelle casse pubbliche non solo non c’è un’euro, ma che nemmeno ci sarà nel prossimo futuro dal momento che nessuno sta versando tributi nè li verserà nei prossimi mesi. Né l’Europa arriverà davvero a supplire a tale carenza con erogazioni proprie prima di aver ricevuto ampie garanzie. Ma anche perché il parlare di erogazione di finanziamenti quando l’economia va a rotoli equivale a parlare di aria fritta.

Questo le banche lo sanno bene e ne deducono che la presunta garanzia di Stato (peraltro in buona parte nemmeno al 100% dei prestiti) sarà tutta da verificare alla prova dei fatti nel momento in cui bisognerà escuterla. Momento che, data la mostruosa crisi imminente, arriverà per certo! La credibilità di chi ci governa si può perciò misurare con la durata attesa della sua permanenza presunta nel Palazzo, che tutti asseriscono non superare qualche settimana al massimo.

I banchieri corrono anche il rischio che un comportamento non massimamente prudente con le erogazioni a pioggia del credito alle imprese che si chiede loro, senza prima poter verificare l’effettivo funzionamento delle garanzie pubbliche, sarebbe presto duramente biasimato! E ovviamente più le banche attenderanno nell’aprire quei rubinetti del credito e peggio sarà per le condizioni generali dell’economia, distruggendo quel che rimaneva della solvibilità di chi avrebbe dovuto ottenerlo. Si prevede oggi una recessione del Prodotto Interno Lordo italiano almeno pari al 10% quest’anno. Ma se cade il governo attuale è più probabile che vada al 15%. D’altra parte con una tale prospettiva nessuna maggioranza politica potrebbe pensare di uscirne indenne!

BANCHE FERME IN ATTESA DI DRAGHI

Il paradigma della finta manovra-conte rassomiglia dunque terribilmente a quello del piano-junker di qualche anno fa, tutto basato anch’esso su presunti fattori moltiplicativi, mai attuati davvero.

Cosa se ne può dedurre se non che, di conseguenza, le banche difficilmente apriranno presto i rubinetti del credito se non saranno ampiamente e ulteriormente rassicurate circa i contenuti pratici della copertura pubblica? E, dal momento che se c’è una cosa che i banchieri conoscono bene, questo è il funzionamento delle garanzie, dunque essi sanno bene che un Tesoro Italiano esangue, che non può contare su una raccolta di capitali autonoma senza importanti supporti comunitari, né su quello generico della banca centrale (e finché dura), a parte spendere la propria parola, potrà fare ben poco d’altro.

Ma la vita residua del governo conte ha quindi, come già tutti sanno, i giorni contati, dal momento che è oramai qualche mese che è all’opera il cantiere della sostituzione dell’attuale governo “parlamentare” con uno tecnico “del presidente” sulla falsariga di quello di mario monti nel 2015. È così che si spiega il “mors tua vita mea” che è emerso dall’Eurogruppo. La “morte” annunciata è quella del governo giallorosso. Conte lo sa benissimo ed è per questo che “in lumine mortis” egli fa la voce grossa: per evitare di propagare nella storia il pessimo ricordo di sè che meriterebbe per il ruolo cui si sta prestando!

Dunque anche la parola di questo governo conta ben poco. E le banche per questo motivo non possono che attendere. Iniziano anche a circolare le prime stime sulla tempistica possibile delle “prime”erogazioni dei finanziamenti supportati dalla garanzia dello Stato italiano: non prima della seconda metà di Maggio e, ovviamente, soltanto per le imprese che forniranno ampie rassicurazioni sulla capacità di rimborso. Per le altre si aspetteranno ulteriori certezze circa la copertura statale del rischio di credito. La traduzione del gergo è che di fatto si aspetterà il nuovo Governo.

GLI INTERVENTI DELLA BCE

E a conferma del fatto che quest’ultimo sia ineluttabilmente in arrivo c’è l‘importantissimo ruolo di tampone che in questi giorni sta avendo la Banca Centrale Europea, impegnata al di là di ogni ragionevole limite a sostenere lo spread controbilanciando le vendite di titoli pubblici italiani con propri, pressoché illimitati, acquisti dei medesimi (a marzo ha acquistato bond per 66,5 miliardi -di cui buona parte BTP- complessivi contro i 23,4 di febbraio). Ovviamente ciò ha il suo prezzo, e il conto da pagare per questo intervento sarà quello dell’estremo rigore cui lo stato italiano sarà soggiogato una volta che sarà stato svelato il bluff dell’impossibilità di sostanziare la garanzia di Stato alle banche e di conseguenza prenderà piede il cambio della guardia, che fornirà un contesto credibile alla cessione degli “asset strategici” nazionali, quali porti, aeroporti, strade e autostrade, e dorsali di telecomunicazioni varie.


È così che si spiega l’appello al “fare presto” di Christine Lagarde, che -se dovesse sacrificare troppe munizioni a favore dell’Italia nel salvaguardare la moneta unica- rischiererebbe seriamente di essere immolata anche lei all’altare della Nuova Europa a trazione molto più evidentemente germanica che emergerà dall’epilogo di questa vicenda bollente. Tuttavia “the show must go on”, il dramma deve arrivare a svilupparsi sino in fondo per potersi giustificare un nuovo governo tecnico, una nuova vicenda greca, una nuova frustata della “troika” (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) e dei suoi figli… Ed è anche per questo che, per essere credibile, nell’abbaiare alla luna (cioè all’Eurogruppo) il nostro governo non poteva essere lasciato solo perciò Francia e Spagna lo hanno apparentemente affiancato. Senza successo, ovviamente.

SUI MERCATI E PER L’INDUSTRIA: ATTENZIONE!

Cosa se ne può dedurre dal punto di vista pratico sui mercati? Probabilmente che la volatilità generale delle borse non è affatto scemata, anzi: è probabilmente principalmente ad essa che è da ascriversi l’attuale importante rimonta delle borse. Perché al momento nessuno è davvero in grado di spiegare a quali livelli di profitti si assesterà l’anno in corso, e di conseguenza nessuno è in grado di tradurli in un moltiplicatore plausibile di valore delle imprese quotate. E quando nessuno sa niente, il mercato alla fine si spaventa! Soprattutto quello europeo, che dovrà convivere con l’equivalente (per usare un eufemismo) di una nuova crisi greca all’interno dell’attuale Unione.

Per molte imprese italiane perciò il dramma si svilupperà in tutta la sua gravità per l’impossibilità di assolvere allo scrutinio da parte delle banche del loro merito di credito, che nel frattempo sarà finito a picco. Dunque buona parte dei presunti 200 miliardi non si vedranno mai, per ovvie ragioni. E molti creditori non otterranno mai indietro i loro quattrini, comprese, in molti casi, le banche, cui si troverà il modo di farle recuperare soltanto più avanti nell’anno. Una Caporetto per i servizi, per il turismo e le somministrazioni, nonché per tutti i settori (spettacolo, entertainment ecc…) che non potranno funzionare allo stesso modo di prima.

Alla fine l’Europa perciò si muoverà (non ha alcun interesse a distruggere la moneta unica) con una forma surrettizia di Eurobond, che rassomiglieranno molto più al M.E.S. (e ai suoi condizionamenti) di quanto si vorrà far credere. Ma soltanto con l’assicurazione del fatto che al governo italiano non resti più alcuna forza politica democraticamente eletta e che comunque ogni stato risponderà del debito che, sotto l’ombrello comune, andrà a contrarre.

La Borsa italiana non potrà non registrare (con la volatilità) il problema che nel frattempo si creerà, sebbene non si preveda nemmeno che i suoi indici vadano a picco, dal momento che i titoli bancari sono già parecchio sottovalutati e di titoli del turismo e dintorni ce ne sono pochini. E di liquidità sul nostro mercato -dopo la “normalizzazione”- ne arriverà probabilmente parecchia. Molto meglio dovrebbe andare dunque agli investimenti nel comparto del reddito fisso, almeno quello che poggia sulla miglior qualità del credito e perciò non sottoposto al “torchio”.

Stefano di Tommaso