L’OTTIMISMO DI TRUMP A DAVOS

Con la chiusura del sipario del Forum Economico Mondiale di Davos proviamo a tirare le somme circa quello che si è detto e ancor più a proposito di quello che non si è detto. Non che le indicazioni finali di Davos abbiano funzionato granché per prevedere i corsi delle borse nelle edizioni precedenti: l’anno scorso la preoccupazione era palpabile, ma le cose sono andate in tutt’altro modo, l’anno prima (2018) l’ottimismo era prevalente ma la seconda parte dell’anno è stata a dir poco funesta. Quest’anno non soltanto Donald Trump ma anche gli altri commentatori sono ottimisti e, nonostante nessuno si aspetti che il costo del denaro possa risalire dai minimi dove è finito, e forse proprio per questo motivo, c’è da temere!

 

LE BORSE NON SEMBRANO SOPRAVVALUTATE

Su una cosa sono tutti concordi: con i tassi di interesse a questi livelli, con la mini-ripresa in atto (soprattutto negli Stati Uniti d’America) e con le buone premesse che riguardano l’attività economica nel terzo mondo (in ripresa anch’essa), i profitti aziendali attesi per l’anno in corso sono del tutto compatibili con gli attuali livelli di prezzo raggiunti in borsa.

Nonostante le borse restino stabilmente sui massimi storici, se guardiamo ai moltiplicatori degli utili con i quali vengono traguardati prezzi delle azioni quotate è evidente che non ci troviamo di fronte ad eccessi speculativi, Nel grafico qui riportato si può avere un confronto di quel moltiplicatore con gli anni precedenti, e ciò è tanto più vero se si riflette sul fatto che qualche anno addietro i tassi di interesse dei bond erano anche più alti che adesso (il 10YTBOND americano, paragonabile al nostro BTP a 10 anni, oggi rende l’1,77%, ben al di sotto dunque dell’obiettivo di inflazione al 2% dichiarato dalla banca centrale americana).

Se proviamo infatti a rovesciare il moltiplicatore degli utili di borsa attuale (18,61 volte lo scorso 21 Gennaio), trasformandolo in un rapporto tra gli utili stessi (quelli delle aziende dell’indice SP500) e i prezzi azionari, “voliamo” al 5,37% di rendimento atteso, cioè oltre tre volte tanto il TBOND. Non c’è dunque da stupirsi se i risparmiatori a questi livelli di rendimento continueranno a preferire di comperare azioni, anzi tutte le azioni, allo scopo di replicare le prestazioni dell’indice di Wall Street, che molti si attendono in crescita anche quest’anno di un bel 10% , decisamente bello, soprattutto dopo aver già guadagnato un ottimo 32,5% dall’inizio del 2019.

LUSINGHE E MINACCE AMERICANE

Ma le buone notizie probabilmente finiscono qui, dal momento che sul meeting delle Alpi svizzere ha posto garbatamente ma decisamente il cappello il presidente Donald Trump, forse il più ingombrante degli ospiti (soprattutto se si considera che non è affatto allineato al consenso delle èlites globaliste), incurante delle minacce di “impeachment” che sembrano piuttosto inconsistenti.

Trump e il suo ministro Mnuchin hanno portato sicuramente una ventata di ottimismo a proposito della possibilità che la tecnologia aiuti non poco a superare l’emergenza ambientale strillata da Greta, ma hanno anche anticipato senza mezzi termini che, appena finito di negoziare con la Cina, cominceranno con l’Europa (applicando dazi, ovviamente, allo scopo di riequilibrare i rapporti commerciali).

E nel frattempo, tanto per evitare che qualcuno finisca per non prenderlo troppo sul serio, Trump ha posto una sorta di esplicito veto sulla Web Tax europea (che colpirebbe soprattutto i “vendor” online americani come Amazon e Apple) e ha tessuto l’elogio della ragion pura britannica, per aver concluso la vicenda della Brexit, annunciando meravigliosi accordi commerciali con la ex-“madrepatria”, per controbilanciare le possibili restrizioni doganali continentali. Il tutto gli è persino riuscito di farlo con una certa grazia, e senza troppo clamore.

MA L’EXPORT EUROPEO DOVREBBE CONTINUARE BENE

I recenti dazi introdotti dagli Stati Uniti con il placet dell’OMC sui prodotti europei a seguito della controversia Airbus-Boeing impatteranno però in misura modesta sul nostro export complessivo, ma alcuni specifici prodotti (e le imprese del comparto) ne sono significativamente colpiti. Pende intanto la minaccia di dazi americani aggiuntivi sul comparto automotive europeo.

Per evitare di mettersi a piangere l’Europa Unita -afflitta da abbassa crescita, da difficile governabilità e con una BCE che ha già sparato quasi tutte le sue munizioni- pertanto dovrà contare principalmente sulle esportazioni, che peraltro sono previste in ripresa nel corso del 2020, soprattutto per il nostro Paese.

Nei grafici qui accanto possiamo trovare un preciso riscontro a queste affermazioni.

Le esportazioni italiane invece si prevede che cresceranno del 2,8% nel 2020 e del 3,7% nel 2021-2022 secondo il Rapporto Export 2019-2022 di Sace Simest. Le previsioni sono basate su un modello di Sace Simest e Oxford Economics che fortunatamente prevede che l’export italiano continuerà ad avanzare grazie al rimbalzo dei beni di investimento, che beneficeranno di una più favorevole dinamica della domanda globale, trainata soprattutto dal recupero dei Paesi emergenti. Per quanto riguarda invece i beni intermedi, sembra che terrà solo il settore farmaceutico.

Morale: le borse, Wall Street in particolare ma anche quella italiana (sempre che non arrivi un terremoto al governo) dovrebbero performare bene, forse per tutto il 2020. Ma l’economia reale, nonostante la “ripresina”, farà più fatica a brillare, anche perché gli Stati Uniti d’America reclamano la fetta più grossa della crescita, e sono pronti a fare di tutto per ottenerla, svalutazione del Dollaro compresa.

Stefano di Tommaso




INGREDIENTI PER LA CRESCITA DELL’ECONOMIA

All’inizio di Gennaio ho pubblicato un articolo relativo all’eccessivo ottimismo che circola -tra un brindisi e l’altro- tra gli analisti e gli operatori del mercato dei capitali a proposito delle prospettive dell’economia reale globale per l’anno solare che si è appena inaugurato. Ma al di là dell’orizzonte di visibilità dei mercati finanziari (i quali sono sempre più globalizzati), esiste un tema più palpabile e meno soggetto a mode ed umori del momento che riguarda gli elementi essenziali per poter migliorare le prospettive economiche europee (e ancor più quelle nostrane) per la prosecuzione della crescita. Proviamo ad esaminarli.

 

Il 2020 infatti vede una notevole divaricazione tra quelle relative allo sviluppo economico prevedibile per America e Asia, e quelle che potranno riguardare l’andamento dell’Europa, della quale noi siamo addirittura fanalino di coda.

Alla base di qualsiasi analisi degli studiosi infatti la ricetta per la crescita economica contempla una miscela di :

  • crescita demografica e delle competenze
  • miglioramento della produttività del lavoro
  • incremento delle retribuzioni
  • investimenti produttivi e tecnologici
  • investimenti infrastrutturali
  • stimoli fiscali e monetari

Difficile immaginare perciò che l’architrave dello sviluppo possa essere costituito soltanto da quest’ultimo fattore (gli stimoli di politica monetaria), quando tutto il resto langue.

Nei paesi anglosassoni e in quelli emergenti esistono molte di queste condizioni essenziali affinché si possa verificare ulteriore sviluppo e, indubbiamente, quest’ultimo potrà parzialmente trainare le nostre esportazioni. In Asia poi la combinazione di grandi risorse naturali e grande crescita demografica con la crescita esponenziale delle competenze tecnologiche non mancherà di fornire i migliori risultati del pianeta. Ma a a casa nostra non serve un premio Nobel per constatare la sostanziale assenza di buona parte dei suddetti elementi della ricetta, a meno che non si voglia credere alle seguenti favolette (nello stesso ordine di cui sopra) che ci propinano i telegiornali di stato :

  • rimpiazzo” demografico attraverso l’immigrazione clandestina (quando i nostri laureati emigrano) 
  • miglioramento della produttività attraverso gli attuali micro-incentivi all’innovazione 
  • mini-detassazione in deficit che comporterà soltanto un mini-incremento delle retribuzioni nette (soltanto quelle di base, che faticano a comperare generi di prima necessità i quali arrivano quasi esclusivamente dalle coltivazioni in nord-africa o dalle fabbriche dell’estremo oriente 
  • investimenti (quasi soltanto pubblici e quasi soltanto nei business eco-sostenibili che sotto le Alpi scarseggiano) e nel salvataggio di fabbriche decotte (e inquinanti) 
  • (scarsissima) disponibilità di capitali per le Start-up innovative nazionali (quelle che non varcano i confini con tanti saluti per i nostri figli) e sostanziale assenza di incentivi fiscali a sostenerle 
  • (quasi totale assenza di) investimenti infrastrutturali (e addirittura mancanza di manutenzione per quelli già fatti) e (limitatissimi) stimoli fiscali all’attività produttiva (se escludiamo quelli relativi a costruzioni edili e manutenzioni straordinarie degli immobili)  
  • (difficile godimento degli) stimoli di natura monetaria che, erogati da Francoforte  alle banche, dovrebbero favorire l’ampliamento del credito che queste mettono a disposizione delle imprese il quale, per molti motivi, invece non si verifica affatto.

Appaiono perciò a mio modesto avviso di evidenza lapalissiana tanto la scarsezza degli interventi del governo in tali campi quanto la limitatezza delle manovre che l’appartenenza all’Unione Europea ci vengono consentite.

Perciò, per commentare le magre prospettive dell’attuale Unione

 

Europea (e ancor più quelle italiane) ognuno può sbizzarrirsi e immaginarle “verdi” ed “eco-sostenibili” quanto vuole, ma -credetemi- affinché la crescita economica si verifichi è difficile ipotizzare di fare a meno dell’essenziale…

Stefano di Tommaso




UN “ESG” PARTY A DAVOS

Da domani 21 Gennaio anche quest’anno 2500 tra i leaders del mondo della politica, della finanza, del business, delle scienze e dello spettacolo, si riuniranno tra le nevi svizzere di Davos, nel cantone dei Grigioni, per dibattere di nobili temi economici e ambientali, ma anche, e soprattutto, per incontrarsi e fare affari, in nome della “sostenibilità”

UN CIRCOLO MOLTO ESCLUSIVO

Al World Economic Forum infatti si può accedere soltanto per invito, così come al Bildenberg e ad ogni circolo chiuso che si rispetti. Ragione per cui in tutto il territorio nei quattro giorni di convegno la sicurezza sarà ai massimi livelli: 5000 agenti segreti, cecchini e poliziotti ne garantiranno l’infrastruttura, oltre alle numerosissime guardie del corpo che seguiranno passo passo i delegati. Ogni struttura ricettiva di lusso ne sarà monopolizzata e i prezzi di qualsiasi cosa (trasporti, servizi, shopping eccetera…) saranno ovviamente alle stelle, mentre i rotocalchi ne chiacchiereranno per settimane a venire.

Perché i leaders del mondo vi si riuniscono, ci chiedevamo? Sicuramente per dibattere a porte chiuse dei temi più importanti che riguardano il destino dell’umanità, ma anche e soprattutto per trarne profitto: il forum dei potenti non a caso è economico, non ecumenico. Dall’analisi delle tendenze in atto e dalle opinioni che ne discenderanno, ne saranno influenzati: il prezzo dell’energia e delle materie prime, i cambi delle valute, i moltiplicatori di borsa per ciascun settore industriale e i tassi di interesse.


UN MURO DI SILENZIO DIVIDE IL FORUM DAL RESTO DEL MONDO

Difficile non notare l’infinita separatezza che ogni anno si accentua tra i giochi di quelle èlites globali e il destino del resto della popolazione umana che dipenderà non poco dalle decisioni che segretamente verranno prese in quella Turris Eburnea tra le montagne della Svizzera. Ma così gira il mondo: ogni èlite della storia ha fondato la sua potenza sullo sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro umano, tanto materiale quanto intellettuale. E oggigiorno è sempre più difficile pensare a un futuro che riuscirà ad essere diverso.

Quest’anno più che mai il tema centrale del Forum sarà il futuro: quale futuro (vicino ma anche lontano) ci attende per l’ambiente, l’industria, l’istruzione, le città, le infrastrutture, l’economia e la finanza? La finalità ultima (ed esplicita) del Forum e dei suoi partecipanti è quella di modellarlo, perché sia migliore -sicuramente- ma anche per muoversi di conseguenza, e trarne beneficio.

L’AMBIENTE AL CENTRO DI OGNI DISCUSSIONE


I temi ambientali però, gli scienziati che li trattano e i leader d’opinione che li commentano saranno più che mai inquadrati per primi, sotto i riflettori del palcoscenico. E non soltanto per i rischi climatici e meteorologici che ne derivano, ma anche e soprattutto perché gli investimenti che oggi essi richiedono costituiscono un grosso affare tanto per chi li effettua quanto per chi li riceve, li adopera, o li finanzia. E tanto per donare un po’ di colore all’argomento, verrà lanciata l’iniziativa “un trilione di nuovi alberi nei prossimi dieci anni”!

E POCA ATTENZIONE ALLA CRESCITA ECONOMICA

Il tema della crescita economica sarà sicuramente importante anche per quest’anno ma non sarà più protagonista. Tanto per il fatto che al suo riguardo non si prevedono grandi sorprese (né molto altro che si può fare per sostenerla), quanto perché è alla sua sostenibilità che, per fortuna, la crisi ambientale ha fatto rivolgere la maggior attenzione degli operatori economici di tutto il mondo.


È IL MOMENTO DEGLI INVESTIMENTI ECO-SOSTENIBILI

È infatti agli investimenti ESG (Environmental, Social and Corporate Governance) i quali, soprattutto per il fatto che saranno privilegiati dagli investitori di ogni parte del pianeta, saranno probabilmente anche quelli che si rivaluteranno di più.

Ovviamente dietro agli slogan bisogna che ci sia un po’ di sostanza, ma in questo caso non sarà facile distinguere la realtà dei fatti dalle mode e dalle illusioni. È un dato di fatto, per esempio, che gli investimenti infrastrutturali che la sostenibilità richiede saranno ingenti, e che la transizione energetica verso fonti “sostenibili” sarà lenta e costosa. E anche per questo motivo i profitti aziendali ne risentiranno, come probabilmente pure i tassi di interesse, che dovranno risultare ancora più bassi, perché la finanza globale resti in equilibrio e riesca a far fronte alla montadi liquidità che essi richiederanno.


CHI NE BENEFICIERÀ MAGGIORMENTE?

Ma la corsa dei risparmi e delle risorse pubbliche verso gli investimenti eco-sostenibili genererà a sua volta molte altre conseguenze, tanto per i settori industriali “tradizionali” che non potranno non esserne penalizzati, quanto per quelli collegati alla ricerca di una nuova naturalezza, a partire dall’agricoltura non più intensiva sino alle scienze farmaceutiche ed alimentari, che dovrebbero trarne il massimo giovamento.

La finanza globale ne sta tenendo conto, e sta facendo i suoi calcoli per adattarvisi. Ecco qui in basso ad esempio uno spaccato della quota di investimenti eco-sostenibili in percentuale sul totale, effettuati dai fondi investimento americani e in relazione alla totalità dei principali indici di borsa, portati come paragone.


E ancora una volta esiste un buon motivo per sostenere gli investimenti in tecnologia, considerata evidentemente panacea essenziale anche per favorire la transizione energetica, tanto attraverso i suoi strumenti informatici, quanto nella speranza che essa possa aiutare a costruire -con i suoi benefici- anche una “coscienza globale” che gli intellettuali di ogni angolo del mondo non erano riusciti a instillare alle nuove generazioni.

Stefano di Tommaso




IL GROSSO BUSINESS DELLA RIVOLUZIONE “VERDE”

Qualche mese dopo le manifestazioni dei “gretini” in tutta Europa, assistiamo ad una manovra politico-finanziaria di primissimo livello (il cosiddetto “Green Deal”) orchestrata dai Paesi protagonisti dell’Unione Europea per ridurre le emissioni di anidride carbonica e spostare la produzione di energia su fonti alternative. Peccato che alla fine di tutta la retorica le fonti alternative risulterebbero essere le tanto deprecate centrali nucleari, fino a pochi anni fa considerate la peggiore accidia per l’umanità. Così va il mondo: non si può certo pretendere di fare tutto subito, ma di guadagnarci sopra sì.

 

Se da un lato vengono alla mente due ovvie considerazioni (che evidentemente la tecnologia in questo senso non ha fatto passi avanti davvero significativi e che ci sono sempre forti interessi in gioco quando si parla di energia), dall’altro lato ognuno di noi in fondo deve anche considerare l’aspetto positivo di questa manovra, volta a generare una maggior attenzione da parte dei governi locali e dell’opinione pubblica al tema dell’inquinamento atmosferico, e che non può che generare iniziative di ogni genere volte a ribaltare i precedenti canoni dell’industria manifatturiera per trovare soluzioni migliori dal punto di vista ambientale alle esigenze produttive e abitative d’Europa e dell’intera umanità.

GLI INCENTIVI TEDESCHI ALL’INDUSTRIA DEL CARBONE

Da questa prospettiva non stupisce dunque che il Paese più attivo sul fronte delle iniziative che ne conseguono sia proprio la Germania, dove l’industria ha prosperato per decenni grazie alla disponibilità di carbone nel bacino della Ruhr e dove si produce ancor oggi il quarto maggior numero di veicoli inquinanti al mondo.

Un recente accordo tra il governo tedesco e i principali estrattori ed utilizzatori di carbone (dell’ingente valore di 44 miliardi di euro di contributi, esclusi gli altri finanziamenti, da erogare entro 15 anni) è mirato proprio a far chiudere loro miniere di carbone e impianti di produzione di energia basati su combustibili fossili entro un arco di dieci anni.

E la cosa ha fatto molto scalpore, dal momento che esso getta un fascio di luce nuova su quale interessante opportunità di business può generare questa manovra intesa a raggiungere il cambio del vecchio paradigma energetico-industriale.

TESLA E LA RICONVERSIONE DELL’INDUSTRIA DELL’AUTO

Ma anche un altro importante fenomeno va nella stessa direzione e, di nuovo, illumina sulle tremende opportunità di business che discendono dalla direttiva europea: quello degli investimenti necessari ai fini della trasformazione “elettrica” degli impianti produttivi di autoveicoli: la sola VolksWagen ha annunciato intorno alla fine del 2019 investimenti complessivi in tal senso per altri 40 miliardi di euro (e si aggiungono a quelli già varati dagli altri grandi gruppi attivi direttamente o indirettamente nel settore: Mercedes, BMW, Bosch eccetera…), nonché all’arrivo (quasi sgradito) di un outsider come Tesla, che ha avviato i lavori per una sua nuova giga-factory (la terza, dopo quella negli Stati Uniti e quella in Cina) vicino Berlino di quasi 500mila metri quadrati coperti.


Un outsider sì, che però può contare sulle due precedenti esperienze accumulate in un decennio e sulla potenza di fuoco di una corporation a stelle e strisce che capitalizza a Wall Street quasi 100 miliardi di dollari (si veda la tabella sopra riportata, nella quale Tesla, dopo Toyota, si classifica per capitalizzazione di borsa molto più in alto di Mercedes (Daimler), Ford, General Motors, Honda, Nissan eccetera).


Tesla tra l’altro produrrà nelle vicinanze di Berlino fino a 500mila veicoli (ivi compreso quasi ogni loro componente: batterie, sedili, ruote, ecc…) assumendo fino a 12mila persone, dei quali tra l’altro quasi nessun operaio e principalmente manutentori, ingegneri e managers, dal momento che l’impianto sarà completamente automatizzato. Anche in questa direzione dunque spinge il cambio di paradigma della produzione industriale del futuro (da quello basato sullo sfruttamento di carburante fossile a quello basato sulle tecnologie “verdi”): nella riqualificazione cioè della manodopera che si renderà necessaria. Tesla si rende conto del fatto che la Germania costituisce un bacino di prim’ordine di competenze e risorse umane qualificate e ha giustamente fatto tutto il possibile per aggiudicarsene una fetta.

IL BUSINESS MILIARDARIO DELLE COLONNINE DI RICARICA

Senza parlare delle “colonnine” per la ricarica delle auto elettriche: in Europa oggi se ne contano 185mila (e l’allaccio alle medesime dà diritto agli automobilisti che ne fanno uso di parcheggiare in zone privilegiate delle città) mentre ne serviranno invece circa 3 milioni, per un investimento diretto di oltre 20 miliardi di euro (oltre all’indotto). Buone opportunità vengono proprio dall’Unione Europea, che ha un piano per finanziare un miliardo di euro in investimenti sostenibili nel prossimo decennio.


E QUELLO DELLE BATTERIE

Anche l’industria italiana della fabbricazione delle batterie potrà riuscire a beneficiarne: la Seri Industrial, una società di San Potito Sannitico (CE) quotata a Piazza Affari, ha da poco annunciato l’avvio dei lavori per la prima “giga-factory” italiana per la produzione di batterie al litio.

La Commissione Europea ha infatti appena approvato un’agevolazione per complessivi 427,06 milioni di euro a favore della controllata di Seri: la FIR. Un’azienda che produce, a marchio FAAM, batterie al piombo e litio per trazione, stazionario ed automotive. In particolare, FIR ha presentato un programma di investimento per la produzione di moduli e celle al litio innovative e per il riciclo delle batterie a fine vita da sviluppare a Teverola, in provincia di Caserta, dove ha già uno stabilimento che proviene dalla riconversione di uno stabilimento ex-Whirlpool. Non per niente ai primi di Dicembre, nel giorno dell’annuncio, la quotazione del titolo ha registrato un balzo del 50%.


Ma il Green Deal Europeo non si limiterà soltanto al settore automobilistico: ci saranno poi spese di Stato e contribuzioni di ogni genere per riqualificare dal punto di vista “verde” l’industria militare e quella ferrotranviaria.


La rivoluzione verde dunque è innanzitutto un grosso business per l’industria (in particolare quella dell’auto, che con la recente stagnazione delle vendite rischiava di rimanere al palo), nonché un “pretesto” molto ben confezionato per erogare a manetta (soprattutto ai paesi più industrializzati) facilitazioni, finanziamenti e contributi di Stato senza qualificarli come “aiuti” ma in nome del pianeta che brucia e si surriscalda.

“BUSINESS AS USUAL” NEL NOME DI GRETA

Non importa se, nel nome di Greta (e del business che ne discende), assisteremo increduli al ripristino delle centrali nucleari e ci dimenticheremo ( o più semplicemente lasceremo indietro) gli interventi per ridurre l’inquinamento industriale generato in Asia (dove vivono 5 miliardi di persone), e la necessità di ridurre le emissioni dell’intera industria dei trasporti per via aerea e del mare, nonché di modificare gli impianti di riscaldamento e raffreddamento di abitazioni e luoghi di lavoro dell’intero pianeta.

Ecco finalmente spiegata l’ingente mole di risorse che la finanza globalizzata ed egemone ha mobilitato lo scorso anno per “sponsorizzare” le iniziative globali di Greta e compagni. Ma certo: nel nome del business questo ed altro!

Stefano di Tommaso