LE BORSE RESTERANNO ALTE NEL 2020?

Comprendere cosa è,davvero successo nel 2019 potrebbe costituire un passaggio essenziale per intuire cosa potrà succedere nel 2020. Ma, nonostante l’anno sia quasi concluso, non è affatto semplice: le imprese (americane soprattutto) si aspettavano un progressivo calo dei profitti e l’arrivo della recessione (dopo dieci anni di navigazione a gonfie vele, sarebbe stato relativamente normale) eppure l’andamento del secondo semestre è stato a dir poco imprevedibile, con la disoccupazione scesa ancora sotto i minimi storici, le paghe orarie cresciute di circa il 4% ma con l’inflazione che invece non si è mossa. La fiducia degli operatori industriali a inizio anno era scesa altrettanto, ma poi i profitti hanno continuato a correre e, con essi, la generazione di cassa. Oggi la situazione sembra molto migliorata.

 

LE BANCHE CENTRALI

Eppure, ciò nonostante, le banche centrali, più o meno all’unisono, si sono allarmate ugualmente, riversando una montagna di dollari sulle banche e, attraverso queste, nei mercati finanziari, a causa del fatto che la velocità di circolazione della moneta scendeva in maniera preoccupante e, con essa, la liquidità del sistema finanziario. E si prevede che continueranno a gettare liquidità nel sistema, perché evidentemente ne ha bisogno. (Qui sotto l’andamento medio delle borse di tutto il mondo negli ultimi cinque anni).


Così, più o meno inspiegabilmente, mentre il sistema bancario rischiava il collasso per mancanza di liquidità, le borse volavano verso nuovi massimi e i titoli a reddito fisso restavano sui massimi di sempre, con la conseguenza di riflettere tassi che rasentano lo zero assoluto.

E il bello è che le previsioni, più o meno unanimi, sono per una continuazione della situazione attuale per buona parte del 2020!

L’ECONOMIA MONDIALE

Certo, l’economia globale si prevede che nel 2020 possa crescere meno dell’anno che sta per concludersi, così come quella americana e, addirittura, quella europea crescerà forse al ritmo dell’1,4% ma chiude l’anno 2019 con un dato tendenziale poco sopra l’1% (uno dei più bassi dall’epoca della grande crisi). Ma questa crescita ridotta è proprio ciò che favorisce le borse: da un lato giustifica l’intervento delle banche centrali e, dall’altro, rassicura i mercati finanziari: nessun surriscaldamento è previsto per l’anno in arrivo, e dunque nessun pericolo di fiammate inflazionistiche. Cosa che a sua volta rassicura le banche centrali di poter immettere altra liquidità senza alimentare il rincaro dei prezzi.


MA QUANTO DURERÀ?

Un circolo virtuoso, insomma, soprattutto per le borse che ringraziano fin da subito! Ma quanto durerà? Chi mi segue su queste pagine avrà notato che è forse la domanda che ricorre più spesso. Ma nessuno può veramente rispondere. Negli Stati Uniti d’America la situazione politica tenderà a farla da padrona, visto che un’eventuale vittoria repubblicana aprirebbe la strada -quasi certamente- all’arrivo di altri stimoli di natura fiscale, mentre non è chiaro circa quello che farebbero i democratici se vincessero (cosa che ne mina alla base il consenso tra le classi più povere).

L’EUROPA ARRANCA, MA…

In Europa il quadro è più incerto, dal momento che il sistema di potere – fortemente oligarchico- che si è instaurato non appare particolarmente interventista in economia e sembra altrettanto fortemente germano-centrico, cosa che lascia presumere nuove proteste di piazza in Francia e in Italia, nonché il rischio di nuovi distacchi dall’Unione Europea, visto il successo clamoroso di quello britannico (si veda qui sotto l’andamento della sterlina dall’arrivo sulla scena di Boris Johnson). Ma proprio perché la previsione in tal senso appare fin troppo marcata, resta altresì probabile che i governi in carica si dotino per tempo di adeguate contromisure, finalizzate a migliorare il tenore di vita delle classi più disagiate.


E, se ciò avverrà, l’economia registrerà di fatto uovo stimoli alla crescita che potrebbero ribaltare l’attuale deriva negativa del vecchio continente. Cosa che significherebbe nuovo ottimismo per le borse e una mini-ripresa anche in Europa. Dunque: accipicchia! Niente male, allora.

TROPPI OTTIMISTI

C’è soltanto una nota stonata nel quadro che si prospetta per l’anno a venire: appare tutto troppo facile e sorprendentemente positivo. Troppi tori sul mercato, insomma. E l’esperienza insegna che, quando tutti sono dalla stessa parte i rischi crescono (un famoso procuratore alle grida degli anni ‘80 -Giannino- esprimeva in termini più triviali il medesimo concetto, in una delle sue famose esternazioni). L’agenzia più importante al mondo di informazioni economiche-Bloomberg- si esprime allo stesso modo: “too many bulls” (troppi rialzisti sul mercato).

Si stima che la quota di ribassisti sul mercato, nonostante esso continui a inanellare nuovi massimi storici, sia attorno al 15% degli investitori (un minimo raramente mai raggiunto), mentre in media le azioni quotate a Wall Street, se si tiene conto dei dividendi distribuiti, quest’anno hanno fatto guadagnare ai loro detentori il 30%. Un’enormità, persino in confronto alle migliori tra le passate stagioni, tale da poter scatenare la tentazione di monetizzare i guadagni, piuttosto che scommettere ancora. Senza contare il fatto che l’euforia collettiva è sempre assai insidiosa per riuscire a valutare il futuro con serenità. L’esperienza insegna che proprio quando la difesa è bassa che possono arrivare le peggiori sorprese.

LA VOLATILITÀ È BASSA

Ma c’è un altro dato che lascia tutti più tranquilli: la volatilità dei corsi azionari non è mai stata così limitata. Insomma: se tempesta deve arrivare, qualche fulmine a ciel sereno dovrà pure iniziare a manifestarsi… Fuor di metafora è possibile che sì, forse ci stiamo illudendo tutti in modo allucinato (così come eravamo tutti spaventati esattamente un anno fa), ma non domani mattina. Le previsioni del meteo finanziario almeno in tal senso parlano chiaro: il cielo per ora è ancora sgombro da nuvole.

Stefano di Tommaso




SE LA POLITICA FA CHIAREZZA, I MERCATI APPLAUDONO

Molti osservatori sono rimasti “straniti” del fatto che i mercati hanno sonoramente applaudito la vittoria britannica del partito che vuole allontanare l’Europa. Molti altri però assolutamente no: sapevano benissimo che c’era aria di vittoria per il movimento politico di Boris Johnson ma, ciò nonostante, hanno festeggiato ugualmente e sonoramente, e -forse- anche a ragione. Come mai? Qual’è la narrativa che il “mainstream” (cioè la lobby globale dell’informazione) non ci racconta integralmente? Proviamo a esplorarne gli argomenti e a misurare i fatti per rispondere a questo interrogativo.

 

UN’UNIONE A METÀ

L’Unione Europea è riconosciuto essere ancora una costruzione monca, forse anche sbieca (visto che le sue deliberazioni propendono spesso per un gruppetto di membri che agiscono da protagonisti) e, soprattutto, instabile. Per una serie di motivi tanto storici quanto tattici i suoi membri hanno sempre preferito non completarla bensì attendere, mentre l’Unione veniva cementata ugualmente con l’adozione di una moneta unica e con l’avvio di una serie di unificazioni normative e regolamentari che neanch’esse, tuttavia, sono state mai completate.

Il risultato attuale dell’opera è però oggettivamente uno sgorbio, come si poteva d’altronde ampiamente ipotizzare avendo il coraggio di guardare oggettivamente alle premesse di cui sopra. Per quali motivi politici, storici e demagogici non si sia voluto mai completarla, tuttavia, non può essere oggetto di questa esplorazione, anche perché nessuno può seriamente affermare di averne la risposta definitiva, sebbene concrete ragioni di interesse da parte di taluni Stati dell’Unione possano ugualmente venire individuate.

Ciò che invece è certo è il disagio che tale mancato completamento dell’unificazione significa in termini pratici : non si sono formati gli Stati Uniti d’Europa, non è stata rimossa l’annosa questione dell’eccesso di indebitamento da parte degli Stati più deboli (come il nostro) e non sono state poste le basi per un florido sviluppo economico collettivo.

COME RINVIGORIRE IL “SOGNO EUROPEO” ?

Per una serie di ragioni tutti si chiedono come farà l’attuale governo dell’Unione -cioè la Commissione Europea- che sembra impostato a criteri fortemente conservativi, a individuare percorsi di crescita economica, culturale e di efficacia delle istituzioni, all’indomani della vittoria di coloro che hanno chiesto un addio definitivo da parte del Regno Unito. Sarà capace di creare le condizioni per rinverdire (soprattutto nei giovani) il “sogno europeo”?

Quello della Brexit è a tutti gli effetti un sonoro ceffone volato ai danni di una “cupola” che detiene saldamente il potere a Bruxelles e che ricorda l’aristocrazia di Versailles dell’ultimo scorcio del settecento. Fatta di intrighi, delicati equilibri, e nefandezze, ma soprattutto imbrattata di sprechi, privilegi ed eccezioni alle regole che vorrebbero essere imposte alle periferie dell’impero. L’élite al potere lo aveva compreso benissimo, e ha fatto tutto quanto immaginabile per ostacolarne l’arrivo. Ma, ahimè, si è scontrata con la fierezza britannica, molto più pragmatica e molto meno incline al compromesso.

L’EUROPA DEVE TORNARE AD ATTRARRE CERVELLI E CAPITALI

A ben vedere i malesseri che attraversano i popoli dei Paesi membri, hanno infatti una radice comune: la disaffezione dei giovani europei. La loro mancanza di speranza verso un futuro migliore del vecchio continente. Quanto accaduto insomma è probabilmente soltanto un sintomo precursore delle conseguenze dell’incapacità comunitaria di fornire indirizzi e risposte alle sfide del nuovo millennio: la tempesta di innovazioni tecnologiche e la necessità di investimenti infrastrutturali che queste comportano, la polarizzazione della ricchezza in poche avide mani, l’insicurezza del posto di lavoro per tutti gli altri, l’emergenza ambientale e i costi sempre maggiori delle cure mediche, eccetera,eccetera…

Il mondo cambia. Più velocemente che mai. E i suoi cittadini si spostano sempre più facilmente. E insieme ad essi le ricchezze e le competenze. La mancata risposta alle questioni appena citate non può che determinare un malcontento diffuso che però, a differenza che nei secoli passati, non comporta più la schiavitù o le rivolte nel sangue, bensì l’emigrazione.

La vera sfida del vecchio continente, dopo la ferita aperta da uno dei membri che è fuggito a furor di popolo, sarà quella di tornare ad essere un luogo attraente per i giovani, le imprese, i capitali e le idee. E senza assicurare loro un certo livello di libertà sarà difficile, come dimostra la potentissima e popolosissima Cina, che fa ancora fatica a trattenere le sue risorse migliori e certamente non ne attrae.

LA RISPOSTA DEL MONDO ANGLOSASSONE

Il mondo anglosassone invece lo ha capito benissimo, e ha reagito con un forte scrollone politico quale l’entrata in scena di soggetti come Donald Trump e Boris Johnson. Questi ultimi hanno sicuramente interpretato la volontà popolare molto meglio dei loro predecessori, promettendo autonomia e speranze per il futuro, ma soprattutto hanno avuto il pregio di fare chiarezza. Ed è la stessa chiarezza che oggi i mercati finanziari apprezzano, con la rivalutazione della Sterlina e con le borse che giungono a nuovi massimi.


L’America oggi applaude Trump per la stessa ragione: con la Cina (e anche con gli altri partner commerciali) ha compiuto un’operazione di chiarezza. Ed ora che chiarezza è stata fatta anche la pace commerciale è divenuta più semplice. Come scrive John Authers nella sua newsletter settimanale, se così non fosse stato, lo Yuan non si sarebbe apprezzato e il Dollaro non si sarebbe svalutato.

Si poteva obiettare in passato al fatto che il voto popolare fosse stato sedotto dal populismo, ma quando sono i mercati finanziari a dire la loro -nella stessa direzione- quell‘impostazione di pensiero è meno facile da sostenere. Ora sono i quattrini (e chi li possiede) a parlare. E dicono la stessa cosa: il mondo ha bisogno di tornare a sperare in un futuro migliore.

Stefano di Tommaso




È IL MOMENTO DEI MERCATI “EMERGENTI”

La schiacciante vittoria dei “conservatori” (un termine oramai del tutto inappropriato nel mondo anglosassone tanto per il movimento politico di Boris Johnson quanto per quello di Donald Trump) si prevede possa generare molta stabilità per i mercati finanziari, e sinanco una certa euforia. Ma soprattutto si accompagna ad un’altra grande notizia per la finanza internazionale: il nuovo accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina. Due notizie portentose per non prevedere un nuovi massimi di borsa e l’ennesima “ripresina” economica globale di cui stavolta dovrebbero beneficiare soprattutto i paesi “emergenti” e in particolare quelli asiatici.

 

LA VITTORIA DEL “GET BREXIT DONE”

Il coro di commenti ascoltati e letti nelle ultime ore sembra quantomai unanime: un moderato ottimismo per gli effetti congiunti delle due grandi novità e il conseguente venir meno di numerosi rischi “sistemici” per l’economia mondiale può soltanto aiutare soprattutto a risollevare le sorti dei mercati finanziari “periferici” e, soprattutto, di quelli asiatici, a partire dal Giappone, che non è un paese emergente ma può sicuramente beneficiare della ripresa degli emergenti.

Perciò, come si poteva ampiamente prevedere (da tutti tranne che dai “media” prevalenti in Italia) la vittoria elettorale di BoJo non fa che rafforzare l’economia globale e aumentare le chances di una stabilizzazione dei rapporti commerciali del Regno Unito con il resto del mondo, a partire dalle sue ex-colonie, oggi paesi membri del Commonwealth britannico. I fantasmi della Brexit e i cupi scenari tutt’ora evocati dai globalisti in salsa franco-tedesca al oggi saldamente al potere nell’euro-zona stanno per dissolversi definitivamente.

E QUELLA DI DONALD TRUMP

Ma per quanto anche negli Stati Uniti d’America i “media” sferzino furiose polemiche contro le politiche commerciali del loro Presidente, non c’è dubbio alcuno che la nuova intesa con la Cina (per quanto non ancora definitiva) costituisca una vittoria politica di Donald Trump. E bisogna aggiungere che ora quest’ultimo potrà anche godere della permanenza al potere di un alleato di ferro come Boris Johnson, facendo della GB un vero avamposto militare e commerciale americano nel Vecchio Continente, tanto per rilanciare la NATO che Macron vorrebbe affondare al più presto, quanto per concertare gli interventi delle rispettive politiche fiscali.

E I MERCATI (SOPRATTUTTO GLI “EMERGENTI”) BRINDANO

Per quanto dunque qualcuno gridi allo scandalo e alla iattura, la Sterlina è oggi prevista al rialzo e, come ha sempre voluto Trump, il Dollaro al ribasso (o quantomeno alla stabilizzazione), mentre le borse di tutto il mondo sono pronosticate in ripresa e i mercati- è ben noto- hanno sempre ragione.

L’abbondanza di liquidità e la riduzione dei rischi geo-politici dovrebbero tra l’altro contribuire decisamente alla ripresa delle quotazioni delle borse dei mercati emergenti, rimaste a lungo compresse sino a ieri, così come alla moltiplicazione delle IPO (i processi di quotazione in borsa delle matricole) che potrebbero finalmente riprendersi tanto in numero quanto in valore.

MA… QUANTO DURERÀ

Lo scenario appare dunque magicamente molto positivo, lasciando intravedere nuovi massimi per gli indici di borsa e buone notizie per gli effetti che tutto ciò dovrebbe generare per l’economia reale. Ma attenzione alle apparenze: qualche rischio “sistemico”permane e, soprattutto, una volta completato il giro di boa dell’anno solare (e dunque registrate le performances di cui gli operatori avevano bisogno per pagarsi ricchi bonus) non è così scontato che l’albero della “cuccagna” continui a gemmare nuovi frutti.

Gli operatori di borsa lo sanno bene e, mentre stappano spumante per celebrare un altro anno giunto positivamente alla sua conclusione, operano al tempo stesso sottobanco per ruotare prudenzialmente i loro giardinetti titoli (da “momentum” a “value”, per quanto possibile), operando quindi scelte di prudenza e di ricerca dei valori intrinsechi, al grido del “non-si-sa-mai” per ciò che riguarda l’inizio del 2020, quando qualche sbornia di troppo andrà necessariamente smaltita.

Per il momento non resta che festeggiare, soprattutto al ritorno alla normalità in politica quanto sui mercati, ma senza esagerare: una Banca Centrale Europea meno pronta a grandi elargizioni e una Federal Reserve Bank of America che non vede l’ora di restituire qualche schiaffo ad un Presidente che ha avuto il coraggio di contraddirla e di averne avuto ragione suggeriscono di non abbassare la guardia: al benché minimo nuovo soffio di inflazione (che prima o poi inesorabilmente si farà rivedere) i loro zelanti funzionari-che-non-devono-rendere-conto-a-nessuno potrebbero sentirsi abominevolmente ringalluzziti, e pronti a creare ad arte nuovi disastri, pur di recuperare le luci della ribalta…

Stefano di Tommaso




L’INDUSTRIA DELL’ACCIAIO IN EUROPA E LO SCANDALO MITTAL

L’infinita telenovela sull’ILVA di Taranto sembra anche la fiera nazionale delle bugie, delle mezze verità e dei fatti nascosti che stanno dietro ad un comparto, quello dell’acciaio, che sembra essere quantomai strategico per una nazione come la nostra che punta a mantenere il suo ruolo di seconda potenza industriale d’Europa, e che ha subìto un duro colpo con l‘azzoppamento del più grande impianto per la produzione di laminati piani del vecchio continente. Cosa succede esattamente a Taranto? E perché questo balletto infinito? “Follow the money” dicono gli inglesi, mentre gli italiani direbbero:”vizi privati e pubbliche virtù”…

 

COSA SUCCEDE ALL’INDUSTRIA DELL’ACCIAIO ?

Per comprendere come mai Mittal minaccia di abbandonare allo Stato italiano lo stabilimento di Taranto, proviamo a comprendere quali sono i motivi che gli fanno denunciare una perdita economica. A prima vista infatti la crisi delle quattro ruote in Germania, l’aumento del prezzo dei minerali ferrosi e il rallentamento della crescita globale non sono sufficienti a spiegare il calo del 2,9% della produzione europea registrato nei primi 9 mesi del 2019.

Da dove arriva allora l’apparente “tempesta perfetta” che sta sconvolgendo il mercato dell’acciaio europeo? Arriva sotto forma di guerra di prezzo dalla Cina e dalla Turchia, con il beneplacito della Commissione Europea, ovviamente!

La Turchia ha raddoppiato le sue esportazioni di acciaio verso l’Unione Europea negli ultimi due anni, incrementandola ulteriormente del 2,2% nei primi 9 mesi del 2019, mentre la Cina smaltisce sotto costo sui mercati esteri la sua produzione in eccesso. Il “sotto costo” di Pechino è per dimensione, il principale tra i fattori che nel 2018 hanno portato le importazioni di acciaio in Europa a crescere del 12% a fronte di un mercato che cresceva di appena il 3,3%.

UNA VERA E PROPRIA GUERRA DEI PREZZI, CON IL BENEPLACITO DELL’U.E.

Un deterioramento -quello del mercato di sbocco dell’acciaio piano- che ha assunto risvolti paradossali quando lo scorso maggio, riporta l’agenzia di informazioni Bloomberg, il suo prezzo in Europa è sceso al di sotto di quello cinese mentre la Commissione Europea ha addirittura favorito questo fenomeno non revocando l’aumento (del 2015) del 5% delle quote di importazioni di acciaio libere da dazi (soltanto lo scorso 1 Ottobre è intervenuta -per modo di dire- riducendolo al 3%). Fatti che invece avrebbero dovuto consigliare molta più prudenza all’esecutivo comunitario.

L’AMERICA HA ALZATO LE TARIFFE, L’EUROPA NO

La ciliegina sulla torta l’ha messa poi l’amministrazione Trump, che a differenza della Commissione Europea è intervenuta pesantemente a sostenere l’industria americana interna dell’acciaio, aumentando del 25% le tariffe non soltanto sulle importazioni di acciaio dalla Cina, ma anche su quelle provenienti dall’UE. Questo ha di fatto tagliato fuori dal mercato americano gli operatori del vecchio continente, lasciando danni minori a quelli cinesi che hanno potuto beneficiare non soltanto del minor costo dell’energia ma anche della svalutazione dello Yuan.

Non per niente l’America ha abbandonato gli accordi sul clima, dal momento che la preservazione dell’ambiente e la lotta ai gas serra hanno un costo notevole per la produzione di energia, che si scarica soprattutto nei confronti dell’industria pesante, che ne è grande consumatore. Un problema che sembra non interessare paesi come Turchia o Cina.

MA LA DOMANDA DI ACCIAIO NEL MONDO CRESCE

Ma come va il mercato dell’acciaio in generale nel mondo? Stranamente bene! Il 2019 dovrebbe chiudersi con una crescita della sua domanda mondiale di quasi il 4%. Trainata sì dalla Cina, ma con un’Europa la cui domanda è rimasta quasi stabile nel 2019 (nonostante il calo del settore automobilistico) e che dovrebbe invece crescere nel 2020.

A livello mondiale, l’acciaio prodotto è in continuo aumento negli ultimi 10 anni. Secondo la World Steel Association, la produzione è infatti passata da 1238 milioni di tonnellate del 2009 a 1816 milioni di tonnellate del 2018. Nel 2000, le tonnellate prodotte a livello mondiale erano circa 850 milioni. L’aumento più consistente è stato quello della Cina, che in 10 anni ha quasi raddoppiato: nel 2009 produceva circa 577 milioni di tonnellate d’acciaio, divenuti 928,2 milioni nel 2018, cioè più della metà della produzione globale. Al secondo posto ci sono India (109,2 milioni) e Giappone (104,3 milioni). L’anno scorso l’Italia era decima in classifica, testa a testa con l’Iran (circa 24,5 milioni di tonnellate d’acciaio prodotte). Quest’anno la produzione nazionale si stima scenderà a 22-23 milioni di tonnellate.


L’Italia è stata dunque sino al 2018 un grande produttore d’acciaio, il decimo al mondo e il secondo in Europa, dopo la Germania. Che è anche il suo principale mercato di destinazione. Ma anche gli altri paesi della UE sono importanti: il 70% dell’acciaio prodotto in Italia viene esportato e il 60% delle esportazioni va verso otto paesi europei. In breve, se il mercato europeo va bene, la domanda di acciaio italiano va bene, e viceversa.

Dunque se l’industria italiana di acciaio primario ha avuto un calo nelle vendite questo è stato dovuto sì alla minor efficienza produttiva degli stabilimenti nazionali (primo fra tutto quello di Taranto) ma anche e principalmente alla guerra sui prezzi scatenata da Cina e Turchia: tra il primo trimestre 2018 e il terzo del 2019 il prezzo dei coils a caldo, quelli prodotti dall’Ilva, è sceso da circa 550 a meno di 400 euro alla tonnellata, ma il costo delle materie prime che servono per produrlo, come il minerale di ferro, non cala, sostenuto dalla domanda cinese.

E LA DOMANDA INTERNA È ELEVATA: L’IMPORT SUPERA L’EXPORT

Ma se guardiamo alla domanda interna, scopriamo un suo qual certo dinamismo: l’Italia è infatti un’importatrice netta di prodotti semifiniti e finiti in acciaio: a fine 2018 le tonnellate esportate dal nostro Paese sono state quasi 18,2 milioni, un numero più basso di quelle importate (20,6 milioni). La crisi dunque, a casa nostra riguarda soltanto le produzioni grezze, quelle dei laminati caldi. I fatti sopra riferiti e l’importanza delle portano a pensare che la crisi dell’acciaio europeo poteva banalmente essere risolta con una parziale chiusura delle importazioni extra-comunitarie, visto che -anche per il resto d’Europa- la domanda interna di acciaio lavorato supera l’offerta.

LE VERE MOTIVAZIONI DI MITTAL

Ma allora perché l’Arcelor Mittal vuole abbandonare Taranto? Secondo gli esperti del settore Arcelor Mittali non se ne andrà mai dall’Italia: innanzitutto perché siamo il secondo mercato manifatturiero in Europa e, poi, per non correre il rischio di lasciare campo libero a un concorrente, magari cinese. Anche tra gli operatori non prevale l’idea di un abbandono da parte del colosso francese bensì quella della ricerca di una razionalizzazione produttiva.

Per comprendere meglio l’atteggiamento della Arcelor Mittal bisogna cercare nella storia personale del suo “patron” (come dicono i francesi). Indiano di origine parsi, Mittal inizia a metà anni 70 quando entra nell’azienda di famiglia che commercializza il rottame che lui ampia alla produzione siderurgica. Approfitta poi della svendita di industrie siderurgiche di ex paesi socialisti tra cui la Karmet Steel dal governo del Kazakistan a sua volta proprietaria di uno dei più grandi stabilimenti siderurgici dell‘ex URSS: quello di Temirtau.

Comprimendo i costi ed esasperando i ritmi produttivi, Mittal riesce a fare prodotti di qualità bassa a prezzi molto concorrenziali: una combinazione adatta alle esigenze dei paesi emergenti, la cui domanda di beni siderurgici nel corso del decennio successivo è destinata a crescere a ritmi rapidissimi. In quello stesso frangente Mittal acquisisce imprese anche in Germania dellEst, Polonia, Repubblica Ceca e Romania, consolidando la sua presenza sui mercati dell‘ex blocco sovietico. L‘acquisto della Karmet Steel rivela i tre aspetti fondamentali del modello Mittal:

1) una gestione delle attività votata alla massimizzazione del profitto nel breve periodo, che garantisce significativi dividendi agli azionisti;

2) solidi rapporti con la comunità finanziaria che trova buone opportunità di investimento;

3) legami disinvolti con la politica, che consentono a Mittal di fare affari in un mercato dove il rapporto fra imprese e governi è stretto, considerato il ruolo strategico della siderurgia in ogni economia nazionale.

La massimizzazione dei profitti nei breve periodo è la chiave per comprendere la manovra di Mittal in corso: in buona parte basata sulla rivendibilità delle quote di emissioni nocive concesse da Italia e UE. ArcelorMittal potrebbe arrivare all’obiettivo di licenziare 4000 persone e, ciò nonostante, realizzare un profitto di 200 milioni di euro. E il paradosso del paradosso è che gli introiti extra derivanti dai tagli alla produzione sarebbero una sorta di premio da parte dell’Ue per aver ridotto le emissioni inquinanti dell’impianto.

LO SCANDALO DELLA RIVENDITA DELLE QUOTE DI EMISSIONI NOCIVE

Nel 2005 infatti l’Unione europea lancio’ il suo sistema di scambio di emissioni Ets (Emissions trading system): in base a questo sistema, le industrie europee più inquinanti, dalle centrali energetiche alle acciaierie, hanno un tetto annuo di emissioni di Co2 da rispettare. Se inquinano di più di quel tetto, le imprese sono costrette ad acquistare quote di emissioni da un apposito mercato. Se inquinano di meno, le quote non utilizzate possono essere rivendute sullo stesso mercato. Bruxelles ha deciso di assegnare ai settori industriali più a rischio la quasi totalità delle quote di emissione (il 90%) a titolo gratuito così le multinazionali del settore hanno realizzato lauti profitti rivendendo le quote gratuite sul mercato Ets. Secondo uno studio di Carbon Market Watch, tra il 2008 e il 2015, le industrie pesanti di 20 Paesi Ue hanno incassato, nel complesso, 25 miliardi di euro grazie alla “monetizzazione” delle quote ricevute a titolo gratuito e non utilizzate.

A metà 2017, la multinazionale vince la gara per l’acquisto dell’acciaieria italiana, la più grande d’Europa. Si tratta di un’acquisizione fortemente strategica per il gruppo, che realizza quasi il 50% dei suoi ricavi globali all’interno del mercato Ue, come si evince dai bilanci.

Tra i valori aggiunti dello stabilimento di Taranto c’è anche quello delle quote di emissioni gratuite assegnate all’ex Ilva. Nel bilancio 2018 di ArcelorMittal, la stessa multinazionale segnala di aver incassato 201 milioni di dollari “relativi ai diritti di emissione di Co2 detenuti dall’Ilva alla data di acquisizione”. D’altro canto, guardando al registro Ets della Commissione europea, si vede come lo stabilimento italiano utilizzi, e non da ora, solo la metà delle quote di emissione ricevute ogni anno. Il resto è tutto guadagno.

Che l’acquisto dell’Ilva abbia fatto bene a questo sotto-business di ArcelorMittal lo si puo’ vedere anche dallo storico dei bilanci. Se al 31 dicembre del 2016, prima dell’acquisizione, la multinazionale quantificava in 420 milioni di dollari il valore delle quote di emissione detenute, al 31 dicembre del 2018 questo valore è schizzato a 1,17 miliardi di dollari. E potrebbe crescere ancora, visto che negli ultimi due anni il prezzo delle quote di emissione è schizzato da 5 dollari a 25

LA “GABOLA” DELLA NORMATIVA EUROPEA

Tra le condizioni vantaggiose della fase 3 dell’Ets (in corso) ce n’è una che riporta al caso dell’ex Ilva di Taranto. “Se un impianto, in un dato anno, riduce fino al 49% la sua produzione, puo’ mantenere tutte le quote inutilizzate e rivendere quelle in eccesso – spiega Agnese Ruggiero di Carbon Market Watch – Se supera quella riduzione, allora le quote assegnate per l’anno successivo saranno ridotte ”. Questa regola è stata a lungo contestata dai critici dell’Ets, perché consentirebbe alle industrie di guadagnare nonostante i tagli alla produzione, che di fatto sono quasi sempre tagli al personale. In altre parole, le quote gratuite, che per le industrie dei settori ‘privilegiati’ rappresentano un aiuto contro la concorrenza sleale dei Paesi terzi e dovrebbero dunque contribuire a evitare i licenziamenti di massa, sono esposte a effetti negativi sui livelli occupazionali. Non a caso, tale norma è stata stralciata dalla fase 4, quella che scatterà nel 2021.

Da qui al 2021, pero’, c’è ancora un anno solare, in cui ArcelorMittal potrebbe mandare a casa quasi 4.000 dipendenti dei circa 10.700 che attualmente conta l’ex Ilva. Si tratterebbe di un taglio di circa il 37% del personale. Se la produzione dovesse diminuire allo stesso tasso, la multinazionale conserverebbe comunque tutte le quote assegnate dallo Stato italiano e non utilizzate. Facendo un raffronto con i ricavi dichiarati dalla stessa ArcelorMittal Italia nel 2018 e le quote assegnate per il 2020, il valore di quelle non usate porterebbe a profitti complessivi per circa 200 milioni di euro, ma con danni enormi (come qui sotto riportato) per il nostro Paese.

Vediamo infatti nei grafici editi da Il Sole 24 Ore quali danni è riuscito a generare il pastrocchio non gestito (nè dalla Commissione Europea nè dal governo italiano) dello stabilimento ILVA di Taranto. Si stima infatti che nei sette anni perduti dell’ILVA, dagli arresti e dal sequestro del 26 luglio 2012, sono andati in fumo circa 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35% cumulato della ricchezza nazionale:

 

Stefano di Tommaso