I BRAND DEL LUSSO VALGONO COSÌ TANTO?

Il settore industriale delle icone della moda e degli accessori di lusso non è mai stato così supervaltato in borsa e continua da qualche mese a far parlare di sé a colpi di annunci sensazionali relativi ad acquisizioni a prezzi da capogiro da parte delle grandi compagnie francesi. Ma c’è davvero tutto questo interesse sul mercato dei capitali alla vigilia di un anno (il prossimo) che rischia di risultare poco entusiasmante per l’economia reale, oppure si tratta di rare eccezioni destinate a non ripetersi? Anticipiamo qui che la risposta nella nostra analisi sembra essere positiva.

 


Il precedente illustre è stata nelle scorse settimane l’acquisizione-lampo del brand Tiffany da parte del gruppo francese LVMH, un colosso che negli anni ha accumulato in portafoglio 57 importanti marchi che vanno dallo champagne alla gioielleria, passando per l’abbigliamento e gli accessori della moda.

Ora è la volta di Moncler, il cui nome è la contrazione di Monestier de Clermont, località francese vicina a Grenoble dove l’azienda è stata fondata nel 1952 (nel 1992 acquisita da Pepper e trasferita in Italia). L’azienda produceva giacche a vento imbottite di più a per gli alpinisti e ha mantenuto fede a quella tradizione sino ad oggi, che il brand è divenuto oramai un dispendioso oggetto di “culto” da parte dei giovanissimi.

 

LA STORIA DI UNA FABBRICA DI GIACCHE A VENTO PER ALPINISTI CHE DIVIENE ICONA DEL LUSSO

La storia di Moncler a partire dal 2003 è associata alla figura di Remo Ruffini (all’epoca direttore creativo dell’azienda) quando egli subentra alla proprietà di Moncler da Finpart (che aveva comperato Pepper Industries) fino a quando il gestore di fondi di private equity americano Carlyle non ne acquisisce il controllo nel 2008, arrivando a quotarla poi in borsa nel 2013 non senza aver prima lasciato il posto di primo azionista nel 2011 al fondo francese Eurazeo (45%) che investe 930 milioni di euro.

Nel 2015 Remo Ruffini sposta la produzione in Moldavia e torna primo azionista di Moncler mantenendo una quota del 32%, mentre il fondo francese Eurazeo vende parte delle sue azioni scendendo al 15,5%, per poi conferire la sua quota a una holding dove entrano altri soci come il fondo sovrano di Singapore Temasek e il presidente di Dufry Torres. Nel marzo scorso entra con il 5% circa il fondo americano Blackrock, consacrando il titolo Moncler tra le icone della moda dei giorni nostri.


LE VALUTAZIONI DA CAPOGIRO

Oggi l’azienda fattura circa un miliardo e mezzo di euro e capitalizza in Borsa circa 10 miliardi di euro con un P/E di 24 volte gli utili prospettici 2020, mentre è stato stimato che l’offerta che potrebbe fare Kering arrivi a circa 33 volte, cioè più o meno un valore complessivo di 15 miliardi di euro (10 volte il fatturato). Un vero e proprio record non soltanto per i brand del lusso ma anche e soprattutto per un’azienda che fabbrica in Moldavia quasi soltanto giacche a vento imbottite!

Tra l’altro la notizia dell’interesse di Kering ha rilanciato verso l’alto (5-10%) le quotazioni di quasi tutti gli operatori del settore, mettendo in luce un fenomeno di enorme apprezzamento dei brand del lusso da parte del mercato dei capitali. Titoli che fino a prima dell’acquisizione di Tiffany erano passati quasi in sordina.

 

I FATTORI CHE SOSTENGONO L’INTERESSE DEGLI INVESTITORI

Ma se oggi tutti vogliono comperare le azioni delle icone del lusso quali sono le motivazioni razionali per arrivare a strapparseli di mano? Nella tabella che segue proviamo a riassumere i fattori che spingono verso l’alto la loro appetibilità (e le relative quotazioni) :

  • Un ottimo andamento delle vendite (a caro prezzo) soprattutto nel sud-est asiatico, dove anche a causa del fattore demografico ci sono milioni di nuovi consumatori con capacità di potere d’acquisto che si affacciano ogni anno alle vetrine dei marchi di fabbrica più rinomati (rimarcando sì ancora una volta la disparità crescente tra le classi più abbienti e quelle meno, ma rassicurando tuttavia i leaders di mercato che anche nei prossimi anni altri giovani consumatori proseguiranno nello shopping del lusso);
  • Un’ottima capacità di generazione di cassa tipica del settore, che in periodi di incertezza come questo appare particolarmente gradita agli investitori;
  • La scarsa necessità di effettuare in continuazione forti investimenti (se non quelli di comunicazione) tipica di un settore “trendy”, che permette perciò ai grandi gruppi -oggi acquisitori seriali dei brand di lusso- di stare relativamente tranquilli circa la possibilità di aggregare le aziende acquisìte riuscendo poi a fare efficienza nei costi comuni e nello sviluppo dei nuovi prodotti senza la prospettiva di dissanguarsi negli investimenti necessari;
  • Il rovescio della medaglia di quanto sopra è l’effettivo vantaggio per i titolari dei maggiori brand globali dell’appartenere a gruppi integrati che mettono a fattor comune grandi capacità di marketing e di diffusione commerciale nell’intero pianeta (cosa che appare invece essere la variabile di gran lunga più critica per tutti gli operatori più piccoli e indipendenti);
  • La capacità di queste aziende di riuscire spesso a interpretare correttamente il linguaggio e le priorità valoriali delle nuove generazioni (millennials, generation X, generation Z) e in particolare di quelle asiatiche. Nel 2018 secondo un recente studio pubblicato da Bain un terzo di tutti i beni di lusso venduti nel mondo sono andati in pasto ai soli giovani consumatori della Cina (un territorio dove i consumi “cospicui” crescono costantemente del 20% l’anno).

SAPER PARLARE ALLE NUOVE GENERAZIONI

In particolare sembra essere stata quest’ultima capacità il più potente “trigger” che ha scatenato l’interesse di Kering (gruppo Pinault) verso la maison dei piumini d’alto prezzo. L’ultima campagna stampa a supporto della nuova collezione 2020 di Moncler è stata infatti tutta incentrata su simboli delle nuove generazioni e su “testimonials” d’eccezione, capaci di attrarre i giovanissimi a spendere le cifre da capogiro richieste per l’abbigliamento marchiato con il gallo bianco rosso e blu. E da Parigi si sono precipitati a Milano!

Non per nulla l’agenzia Reuters ha recentemente definito le azioni delle società appartenenti al settore “lusso” quotate in borsa l’equivalente europeo dei maggiori titoli tecnologici americani (i cosiddetti FAANGs: Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google). Tanto a causa degli elevati moltiplicatori di valore raggiunti in borsa quanto per il forte potere che essi esprimono di influenzare il mercato di sbocco.

LE VALUTAZIONI DEL LUSSO SUPERANO QUELLE TECNOLOGICHE

Nel grafico che segue si può vedere come i multipli dei redditi espressi in borsa dai maggiori titoli del lusso superino di slancio negli ultimi 5 anni non soltanto l’indice di Borsa più diffuso a Wall Street (lo Standard &Poor 500) ma anche, in media, quelli di Apple, Google e Facebook:


E, come si può ben leggere dall’altro grafico qui sotto riportato, le performances di titoli del lusso come Louis Vuitton, Hermes e Kering hanno persino superato di slancio quelle dei maggiori colossi tecnologici al mondo di cui sopra :


Quanto durerà tutto questo? Difficile rispondere, se non con vecchi e sopìti adagi (“del futur non v’è certezza…” eccetera). Anzi, nei miei precedenti articoli esprimo un certo scetticismo per la tenuta a tempo indefinito dei massimi cui si sono spinte le borse, soprattutto se pensiamo che l’economia reale non esprime tutta la salute che le borse vorrebbero trovarvi. La leva principale delle magiche quotazioni cui siamo arrivati è tuttavia ancora e soprattutto l’intervento delle banche centrali, e si può a ragione ritenere che quest’ultimo andrà avanti abbastanza a lungo.

MA NELLE ACQUISIZIONI DEV’ESSERCI UNA FORTE STRATEGIA

Abbiamo visto che gl’investimenti dei grandi leaders del lusso nel mondo hanno spesso un sapore strategico che prescinde dalle quotazioni delle borse: le sinergie che essi possono mettere in campo sono assolutamente reali, così come è solida l’idea di completare il controllo delle catene distributive del lusso nel mondo e resta un concetto assai sensato nel lungo periodo.

Per questi soggetti perciò il valore soggettivo delle loro dispendiosissime acquisizioni che fanno strombazzare i giornali è completamente diverso da quello che può risultare “self standing” per le piccole e medie aziende indipendenti del medesimo settore.

Queste ultime oggi risentono certamente di una tendenza decisamente positiva per tutto il comparto del lusso, ma non è così sicuro che quella tendenza continuerà indefinitamente nel tempo, anzi: tutto fa pensare che buona parte dei limiti di gravità (soprattutto per i “comuni mortali”) sono stati già raggiunti. L’entusiasmo perciò dovrebbe lasciare spazio alla riflessione…

Stefano di Tommaso




LA DEBOLEZZA DEL SISTEMA BANCARIO PONE L’ECONOMIA ITALIANA A RISCHIO

L’economia globale sembra trovare nuova inaspettata vitalità intorno alla fine dell’anno, diradando le probabilità di recessione che sembrava avere la meglio fino ad un mese fa. Ma alla schiarita delle previsioni congiunturali globali fanno da contraltare lo scenario europeo di scarso dinamismo e una serie di motivi di cautela che affliggono le prospettive del nostro Paese. Vediamone le ragioni.

 

LE DEBOLEZZE DELL’EURO-ZONA

Viviamo immersi in un’Europa (almeno quella dell’area Euro) le cui dinamiche economiche appaiono indubbiamente deboli, per vari motivi: dalle necessità di nuovi investimenti per la riconversione industriale di che affliggono soprattutto i paesi più deboli dell’Unione (altri, come la Germania, vi stanno già investendo pesantemente) all’elevato livello dei debiti pubblici (che influenza le politiche di elargizione di liquidità della Banca Centrale Europea costringendola a fare di tutto per mantenere schiacciati verso il basso i tassi di interesse) sino alle relative difficoltà della capitalizzazione delle banche, che costituiscono oggi il vero tallone d’Achille dell’eurozona in generale e dell’Italia in particolare.

Un contesto macroeconomico dunque che fa propendere molti analisti verso aspettative di moderatissima crescita complessiva e, per il nostro Paese, addirittura di vera e propria stagnazione permanente, principalmente a causa del fatto che l’economia nazionale è ancor più dipendente di molti altri Paesi dalla salute delle banche italiane (o comunque di quelle presenti sul territorio) che rappresentano oltre i 3/4 delle fonti nette di finanziamento delle imprese.

LA SALUTE DEL SISTEMA BANCARIO ITALIANO

Accade infatti che l’apprezzamento da parte del mercato dei loro bilanci risulta notoriamente penalizzato dall’enorme quantità di titoli di Stato che le banche hanno in pancia. Ciò vale per tutta Europa ma in Italia rischia di costituire un ulteriore problema per i motivi che vedremo più avanti.

Dunque non soltanto il sistema bancario nazionale appare intrinsecamente debole a causa della sotto-capitalizzazione (viene stimata un‘esigenza complessiva di rinforzi di capitale non inferiore ai 40 miliardi di euro) come per la stagnazione economica in corso, che fa temere una nuova ondata di crediti insoluti e di conseguenza ulteriori problemi di capitale per le banche.

Ma né l’ulteriore stretta sui costi d’esercizio che le banche dovranno presto praticare, né la prospettiva di ulteriori fusioni bancarie lasciano ben sperare per un’espansione del credito che verrà erogato alle imprese. Cosa che finirà per limitare gli investimenti per le riconversioni produttive delle industrie obsolete e lo sviluppo delle nuove iniziative.

IL RAPPORTO WYMAN

Il fardello di costi in eccesso e la probabile scarsa propensione all’erogazione di credito per i mesi a venire non potranno poi che penalizzare -in definitiva- i risultati stessi delle banche (come si può leggere dai tre grafici che seguono tratti da un recente rapporto della Oliver Wyman pubblicato su Il Sole 24 Ore) che già nel 2020 vedranno una riduzione dei margini di intermediazione e che fanno eccessivo affidamento sui ricavi da commissioni: tanto in prospettiva, quanto rispetto alle loro sorelle in Europa.

 

Ma soprattutto non sembra che alcuna misura in supporto del medesimo sistema bancario sia davvero in arrivo da parte del Governo e, in assenza di interventi significativi a sostegno della capitalizzazione delle principali finanziatrici del sistema, alle imprese italiane di qualunque dimensione e tipologia rischia seriamente di mancare l’ossigeno per lo sviluppo.

IL PROBABILE ALLARGAMENTO DEL DEFICIT …

Lo scenario interno al nostro Paese sembra pertanto ulteriormente peggiorativo rispetto al resto dell’Unione, con un deficit della spesa pubblica rispetto alle sue coperture che -rapportato al prodotto interno lordo- viene previsto in allargamento oltre la soglia fatidica del 3% per l’anno a venire, senza peraltro che ciò avvenga in cambio di significativi stimoli fiscali alla crescita economica italiana.

Ecco perciò che tanto le previsioni sul deficit pubblico quanto quelle di scarsa disponibilità di credito da parte delle banche lasciano propendere gli analisti verso una previsione per l’Italia di stagnazione economica conclamata e, di conseguenza, di nuovo pericoloso allargamento dello spread Btp-Bund già nei prossimi mesi invernali.

…PUÒ PROVOCARE UN AMPLIAMENTO DELLO SPREAD BTP-BUND

Ci sono peraltro ragioni tecniche oltre che quelle strutturali appena citate per prevedere una certa debolezza dei corsi dei titoli di Stato italiani nei prossimi mesi: una domanda debole all’ultima asta dei Btp si accompagna infatti all’esigenza di molti istituti di credito di prendere beneficio dei recenti guadagni sui titoli detenuti, per migliorare i propri indici patrimoniali. Ma non solo: il piccolo risveglio dei consumi (in buona parte stimolato dalle misure di questo governo, cui non si accompagna però alcuna previsione di miglioramento dell’andamento dei profitti e della liquidità delle imprese) può stimolare una piccola ripresa dell’inflazione dei prezzi, cosa che, se si avverasse, non gioverebbe alle quotazioni dei nostri titoli di Stato.

IL RISCHIO POLITICO

Rimane infine un qualche rischio politico come ciliegina sulla torta di dubbi e incertezze che abbiamo appena sfornato: lo scenario sfavorevole ai partiti che sostengono il governo in carica per le elezioni regionali in arrivo aggiungerà ulteriore pressione alle chances di sopravvivenza dell’esecutivo, alimentando un clima di incertezza che rischia di lasciare alla porta gli investimenti sulla penisola da parte degli stranieri.

Non vi sono sicurezze al riguardo ma, se fosse, anche questo fattore farebbe propendere verso :

  1. una relativa debolezza delle quotazioni dei nostri titoli di Stato,
  2. ulteriori problemi per le banche che li hanno in pancia e, in definitiva,
  3. un ulteriore freno alla crescita economica interna.

Stefano di Tommaso




IL VENTURE CAPITAL CAMBIA PARADIGMA

Negli anni passati la Silicon Valley è stata la mecca mondiale delle innovazioni tecnologiche. Da lì è partita la rivoluzione digitale che sta dispiegandosi oggi in tutto il resto del mondo, da lì hanno preso piede le migliori tecniche di “venture capital” e da lì sono cresciuti quasi tutti quei mostri di valore e potere in rete che rispondono ai nomi di Amazon, Google, Facebook, eccetera. Oggi però si assiste ad un forte ridimensionamento delle valutazioni delle imprese fortemente tecnologiche, spingendo gli investitori a selezionarle con più attenzione. L’Europa invece è indietro, in ogni senso.

 

IL SUCCESSO DI AMAZON, GOOGLE E FACEBOOK ATTIRA CAPITALI

Il successo al di là di ogni aspettativa di ex- Startup (le nuove imprese non quotate che nascono sulla base di un’idea da sviluppare) come appunto Amazon e Google ha aperto le cateratte di un’enormità di capitali che si sono riversati in misura sempre maggiore sulla Silicon Valley nella speranza di replicare quei successi. Secondo PitchBook solo in America quell’ammontare, che nel 2009 non arrivava a 27 miliardi di dollari, l’anno scorso ha superato la strabiliante quota di 137 miliardi.

Man mano però che le società tecnologiche di maggior successo raggiungevano valutazioni stratosferiche e un flusso crescente di capitali inondava l’intero mondo delle Startup tecnologiche (infatuato anche dal calo verticale dei tassi di interesse che rendeva ben poco attrattiva l’alternativa agli investimenti in capitale di rischio) si sono però allentate fortemente le verifiche sull’effettiva innovatività e difendibilità di ogni business, nonché l’attenzione alla validità intrinseca degli investimenti, alla verifica della qualità della governance e alla capacità delle imprese finanziate di avere la forza per superare davvero gli ostacoli che si frappongono alla crescita.

MA IL VENTURE CAPITAL HA AVUTO TROPPA FIDUCIA

Il mestiere degli investitori di ventura è sempre stato quello di accettare elevati livelli di rischio e scommettere su iniziative fortemente contro-corrente, ma tale sfida avveniva nella speranza che una determinata idea di business potesse arrivare a cambiare il mercato, il comportamento della gente o sinanco il mondo stesso. Fare invece ciò di cui viene accusata oggi Softbank (elargire molto denaro a valutazioni elevate semplicemente sulla base di mere speranze, come nel caso di WeWork: si veda la tabella più sotto riportata) è qualcosa che rischia invece di sconfinare nella prodigalità e nella delusione che ne consegue.

Valutare un’azienda è sempre stato difficile e incerto, ma valutare una Startup lo è ancora di più e, soprattutto, è qualcosa che manca di riscontri oggettivi, a causa del fatto che è proprio l’innovazione ciò che porta con sé dei forti dubbi sull’effettiva possibilità di successo. Se oltre a questo vengono allentate le selezioni delle Startup sulla base della validità tecnologica, dell’ampiezza del mercato potenziale e delle capacità umane e professionali dei loro fondatori, ecco che le delusioni sono destinate a prevalere sui successi.

LE “UNICORN” CHE HANNO DELUSO

Un altro caso da manuale è stato quello di Uber il cui capo: Travis Kalanick, è stato defenestrato per una serie di scandali che ne hanno minato la credibilità. Ma se il motto di Facebook dei primi anni era stato quello di “move fast and break things” (muoversi in fretta e rompere gli schemi), averlo voluto applicare all’impalpabile realtà di Uber ha portato a dissipare risorse senza molto senso e senza alcuna certezza di vedere un futuro ritorno alla profittabilità dell’iniziativa.


IL CASO TESLA INVECE HA FUNZIONATO

Eppure nello stesso periodo (la seconda parte del 2019) un’altra ex-Startup innovativa: Tesla, considerata dalla maggioranza degli analisti un buco nero, grande divoratore di sogni tecnologici e di risparmi, proprio mentre il mercato sembrava averne perduto fiducia, è riuscita invece a dimostrare di poter conseguire un profitto e una generazione di cassa, nonostante sia evidentemente ancora nella fase di messa a punto della formula imprenditoriale. Oggi capitalizza quasi 60 miliardi di dollari e il valore in borsa è quasi raddoppiato dai minimi di giugno.

Qual’è la differenza? Anche in Tesla ci sono state forti cadute di credibilità del suo boss, sfociate addirittura nel rischio di galera, eppure alla fine sembra avercela fatta.


Beh, la differenza a volerla guardare è colossale: da un lato c’è Uber che, come molte altre aggressive Startup basa ogni sua scommessa sulla veloce e dilagante digitalizzazione dell’economia persino nei servizi più elementari come quello del trasporto di cibo o di persone, dall’altro lato c’è un’impresa fondata da un tecnologo che è stato capace di diventare il leader dell’auto elettrica, per di più reinventando la fabbrica per costruirla dalla A alla Z e puntando contemporaneamente sull’altro grande mantra degli ultimi anni: la guida autonoma (assistita dall’intelligenza artificiale).

SELEZIONARE MEGLIO LA QUALITÀ

Sotto ogni profilo le due realtà citate non potrebbero essere più diverse: un’idea semplice che fa oggettivamente fatica a diventare redditizia come quella alla base dell’iniziativa di Uber (e per di più chiaramente orientata alle nuove generazioni, che hanno tuttavia il difetto di essere meno numerose di quelle precedenti), fa fatica a confrontarsi con sistema-azienda totalmente innovativo, con un‘intrinseca complessità tecnologica che risiede nel software che governa tanto la fabbrica quanto i prodotti, e con un mercato potenziale che abbraccia ogni fascia generazionale e ogni zona geografica.

Il problema di Uber sino ad oggi è stato quello di vincere la concorrenza in un mercato quasi privo di barriere all’entrata, mentre quello di Tesla è -al contrario- ancora oggi quello di riuscire a soddisfare il numero di ordini già pervenuti in un mercato dove non esiste una vera competizione e che quindi tiene ancora elevati i prezzi di vendita.

Ci sono insomma vere Startup innovative capaci di portare sul mercato dei prodigi tecnologici e delle innovative formule imprenditoriali, dotate delle migliori competenze e capaci di cambiare il mondo (si pensi alla sfera delle tecnologie per la salute e a tutte le applicazioni dell’intelligenza artificiale) e ci sono app per telefonino come Slack o Tik-Tock che, per quanto abbiano conseguito un vastissimo successo, rischiano di essere cancellate dalla prossima buona idea di qualche adolescente. Investire nelle une a volte è molto più complesso che nelle altre. Ma il venture capital sta imparando a sue spese che i sogni a buon mercato spesso non esistono.


Stefano di Tommaso




TRUMP VINCERÀ DI NUOVO

Nonostante le previsioni di impeachment presidenziale, che però negli ultimi giorni si stanno sgonfiando a vista d’occhio, in questo caso è un modello predittivo di Moody’s a dirlo: Trump siederà per altri 4 anni alla Casa Bianca (e addirittura con una larga maggioranza). E lo fa con tanto di logica stringente e analisi dettagliata delle motivazioni alla base della previsione. Ovviamente se l’economia tiene…

 


Il modello parte da una premessa: che alla fine gli elettori guarderanno più alla loro pancia che ai grandi ideali politici quando si recheranno a votare. E cosa dice quest’anno la loro pancia? Che la disoccupazione è scesa, il reddito è cresciuto, le tasse sono calate e la borsa macina ogni giorno nuovi record. Tutto ciò peraltro alla faccia della Federal Reserve con la quale Trump ha ingaggiato nei mesi scorsi una battaglia mediatica (vinta alla grande) perché la FED stava alzando i tassi invece di abbassarli, “spiazzando” l’economia americana e privandola della sufficiente liquidità per gli investimenti, nel timore di una fiammata inflazionistica che in realtà non c’è mai stata.

E il bello è che questa previsione riguarda uno dei presidenti che ha più diviso il paese tra sostenitori e detrattori, uno dei meno amati dal punto di vista della simpatia e dell’impatto mediatico, per stessa ammissione di Moody’s, sebbene possa in compenso contare su una forte stabilità dell’elettorato che lo sostiene, come si può leggere dal grafico qui sotto riportato:


Certo l’assunzione centrale alla base della previsione di Moody’s Analytics è che l’attesa di una recessione nel 2020 si riveli quantomeno precoce, se non del tutto infondata. E l’esito di tale scommessa è ad oggi tutt’altro che certo: la crescita dell’economia americana ha continuato a rallentare negli ultimi mesi, e la disoccupazione, da tempo ai minimi storici di sempre, potrebbe di conseguenza risalire.

A fare da contraltare a tale possibilità ci sono i profitti delle imprese, che scendono sì, ma tutto sommato si mostrano stabili, e non solo: le riserve di liquidità degli americani all’estero che vengono rimpatriate (l’investimento delle quali aiuta a generare nuovi posti di lavoro) nonché l’enorme immissione di liquidità che la banca centrale americana di è trovata costretta a pompare (ma soltanto all’ultimo momento, perdendoci anche la faccia).

Questo della liquidità è l’altro cardine centrale delle motivazioni che spingono prendere in considerazione la possibilità che la previsione sia stata formulata correttamente: entro la fine dell’anno è possibile che i nuovi interventi della Federal Reserve e delle altre banche centrali nel mondo giochino un ruolo importante non soltanto nel sostenere l’economia reale, ma anche e soprattutto nel sostenere le quotazioni delle borse valori, a partire da quella a stelle e strisce, dal momento che continua ad esercitare sui capitali di tutto il mondo un’attrazione fatale: in ogni angolo del globo infatti una prudente ripartizione degli investimenti sul mercato mobiliare vede, per ogni dollaro investito localmente, una quota di quel dollaro inevitabilmente destinata ad essere spesa a Wall Street.


E se Wall Street continuerà ad essere in forma anche l’umore degli americani si adeguerà, premiando le imprese innovative che vi si recano per trovare capitali per la crescita e alimentando la crescita economica e la trasformazione digitale degli Stati Uniti d’America che, a sua volta, genera lavoro e ricchezza. Tutto questo non può che premiare l’amministrazione attualmente all’opera, cioè quella repubblicana che è riuscita nel risollevare le sorti dell’economia.

Una parte importante dello studio di Moody’s è infatti la propensione degli americani al cambiamento (rispetto all’amministrazione esistente): quando le cose vanno bene il loro pragmatismo li porta ad abbassarla decisamente, e ciò incrementa le chances di vittoria del presidente in carica.

Stefano di Tommaso