IL GROSSO BUSINESS DELLA RIVOLUZIONE “VERDE”

Qualche mese dopo le manifestazioni dei “gretini” in tutta Europa, assistiamo ad una manovra politico-finanziaria di primissimo livello (il cosiddetto “Green Deal”) orchestrata dai Paesi protagonisti dell’Unione Europea per ridurre le emissioni di anidride carbonica e spostare la produzione di energia su fonti alternative. Peccato che alla fine di tutta la retorica le fonti alternative risulterebbero essere le tanto deprecate centrali nucleari, fino a pochi anni fa considerate la peggiore accidia per l’umanità. Così va il mondo: non si può certo pretendere di fare tutto subito, ma di guadagnarci sopra sì.

 

Se da un lato vengono alla mente due ovvie considerazioni (che evidentemente la tecnologia in questo senso non ha fatto passi avanti davvero significativi e che ci sono sempre forti interessi in gioco quando si parla di energia), dall’altro lato ognuno di noi in fondo deve anche considerare l’aspetto positivo di questa manovra, volta a generare una maggior attenzione da parte dei governi locali e dell’opinione pubblica al tema dell’inquinamento atmosferico, e che non può che generare iniziative di ogni genere volte a ribaltare i precedenti canoni dell’industria manifatturiera per trovare soluzioni migliori dal punto di vista ambientale alle esigenze produttive e abitative d’Europa e dell’intera umanità.

GLI INCENTIVI TEDESCHI ALL’INDUSTRIA DEL CARBONE

Da questa prospettiva non stupisce dunque che il Paese più attivo sul fronte delle iniziative che ne conseguono sia proprio la Germania, dove l’industria ha prosperato per decenni grazie alla disponibilità di carbone nel bacino della Ruhr e dove si produce ancor oggi il quarto maggior numero di veicoli inquinanti al mondo.

Un recente accordo tra il governo tedesco e i principali estrattori ed utilizzatori di carbone (dell’ingente valore di 44 miliardi di euro di contributi, esclusi gli altri finanziamenti, da erogare entro 15 anni) è mirato proprio a far chiudere loro miniere di carbone e impianti di produzione di energia basati su combustibili fossili entro un arco di dieci anni.

E la cosa ha fatto molto scalpore, dal momento che esso getta un fascio di luce nuova su quale interessante opportunità di business può generare questa manovra intesa a raggiungere il cambio del vecchio paradigma energetico-industriale.

TESLA E LA RICONVERSIONE DELL’INDUSTRIA DELL’AUTO

Ma anche un altro importante fenomeno va nella stessa direzione e, di nuovo, illumina sulle tremende opportunità di business che discendono dalla direttiva europea: quello degli investimenti necessari ai fini della trasformazione “elettrica” degli impianti produttivi di autoveicoli: la sola VolksWagen ha annunciato intorno alla fine del 2019 investimenti complessivi in tal senso per altri 40 miliardi di euro (e si aggiungono a quelli già varati dagli altri grandi gruppi attivi direttamente o indirettamente nel settore: Mercedes, BMW, Bosch eccetera…), nonché all’arrivo (quasi sgradito) di un outsider come Tesla, che ha avviato i lavori per una sua nuova giga-factory (la terza, dopo quella negli Stati Uniti e quella in Cina) vicino Berlino di quasi 500mila metri quadrati coperti.


Un outsider sì, che però può contare sulle due precedenti esperienze accumulate in un decennio e sulla potenza di fuoco di una corporation a stelle e strisce che capitalizza a Wall Street quasi 100 miliardi di dollari (si veda la tabella sopra riportata, nella quale Tesla, dopo Toyota, si classifica per capitalizzazione di borsa molto più in alto di Mercedes (Daimler), Ford, General Motors, Honda, Nissan eccetera).


Tesla tra l’altro produrrà nelle vicinanze di Berlino fino a 500mila veicoli (ivi compreso quasi ogni loro componente: batterie, sedili, ruote, ecc…) assumendo fino a 12mila persone, dei quali tra l’altro quasi nessun operaio e principalmente manutentori, ingegneri e managers, dal momento che l’impianto sarà completamente automatizzato. Anche in questa direzione dunque spinge il cambio di paradigma della produzione industriale del futuro (da quello basato sullo sfruttamento di carburante fossile a quello basato sulle tecnologie “verdi”): nella riqualificazione cioè della manodopera che si renderà necessaria. Tesla si rende conto del fatto che la Germania costituisce un bacino di prim’ordine di competenze e risorse umane qualificate e ha giustamente fatto tutto il possibile per aggiudicarsene una fetta.

IL BUSINESS MILIARDARIO DELLE COLONNINE DI RICARICA

Senza parlare delle “colonnine” per la ricarica delle auto elettriche: in Europa oggi se ne contano 185mila (e l’allaccio alle medesime dà diritto agli automobilisti che ne fanno uso di parcheggiare in zone privilegiate delle città) mentre ne serviranno invece circa 3 milioni, per un investimento diretto di oltre 20 miliardi di euro (oltre all’indotto). Buone opportunità vengono proprio dall’Unione Europea, che ha un piano per finanziare un miliardo di euro in investimenti sostenibili nel prossimo decennio.


E QUELLO DELLE BATTERIE

Anche l’industria italiana della fabbricazione delle batterie potrà riuscire a beneficiarne: la Seri Industrial, una società di San Potito Sannitico (CE) quotata a Piazza Affari, ha da poco annunciato l’avvio dei lavori per la prima “giga-factory” italiana per la produzione di batterie al litio.

La Commissione Europea ha infatti appena approvato un’agevolazione per complessivi 427,06 milioni di euro a favore della controllata di Seri: la FIR. Un’azienda che produce, a marchio FAAM, batterie al piombo e litio per trazione, stazionario ed automotive. In particolare, FIR ha presentato un programma di investimento per la produzione di moduli e celle al litio innovative e per il riciclo delle batterie a fine vita da sviluppare a Teverola, in provincia di Caserta, dove ha già uno stabilimento che proviene dalla riconversione di uno stabilimento ex-Whirlpool. Non per niente ai primi di Dicembre, nel giorno dell’annuncio, la quotazione del titolo ha registrato un balzo del 50%.


Ma il Green Deal Europeo non si limiterà soltanto al settore automobilistico: ci saranno poi spese di Stato e contribuzioni di ogni genere per riqualificare dal punto di vista “verde” l’industria militare e quella ferrotranviaria.


La rivoluzione verde dunque è innanzitutto un grosso business per l’industria (in particolare quella dell’auto, che con la recente stagnazione delle vendite rischiava di rimanere al palo), nonché un “pretesto” molto ben confezionato per erogare a manetta (soprattutto ai paesi più industrializzati) facilitazioni, finanziamenti e contributi di Stato senza qualificarli come “aiuti” ma in nome del pianeta che brucia e si surriscalda.

“BUSINESS AS USUAL” NEL NOME DI GRETA

Non importa se, nel nome di Greta (e del business che ne discende), assisteremo increduli al ripristino delle centrali nucleari e ci dimenticheremo ( o più semplicemente lasceremo indietro) gli interventi per ridurre l’inquinamento industriale generato in Asia (dove vivono 5 miliardi di persone), e la necessità di ridurre le emissioni dell’intera industria dei trasporti per via aerea e del mare, nonché di modificare gli impianti di riscaldamento e raffreddamento di abitazioni e luoghi di lavoro dell’intero pianeta.

Ecco finalmente spiegata l’ingente mole di risorse che la finanza globalizzata ed egemone ha mobilitato lo scorso anno per “sponsorizzare” le iniziative globali di Greta e compagni. Ma certo: nel nome del business questo ed altro!

Stefano di Tommaso




È ANCORA IL MOMENTO DELLE BANCHE?

Tra i temi caldi dei primi giorni del 2020 vi è l’elenco dei titoli e dei settori sui quali ha ancora senso investire e, tra questi, quello dei servizi finanziari non ha brillato particolarmente in Italia, mentre in Europa è andata un po’ meglio e nel resto del mondo questo settore ha addirittura vissuto un anno eccellente. Per quali motivi in particolare il settore bancario è sottovalutato nel nostro Paese e invece altrove “brilla”? Nonostante le recenti affermazioni del ministro Gualtieri sulla miglior salute delle banche italiane, molti osservatori attribuiscono il divario di performance delle medesime con quelle del resto del mondo a due variabili fondamentali: le dimensioni aziendali e il grado di avanzamento tecnologico.

 

IN PASSATO LE BANCHE HANNO SOTTOPERFORMATO

Di seguito i grafici dell’andamento quinquennale dei titoli azionari delle banche in Italia, in Europa (Eurostoxx banche) e nel mondo (indice MSCI dove peraltro è aggiunta la comparazione dell’andamento del settore banche con quello degli altri comparti):


Se guardiamo dunque non soltanto al divario tra le banche italiane ma addirittura a quello tra l’andamento degli indici di borsa relativi agli altri settori industriali e quello delle banche, il divario sembra crescente nell’ultimo decennio.

LE TENDENZE DI FONDO

Da ciò discendono tre considerazioni:

  1. che a questo punto sia relativamente probabile che tale comparto possa tendere a recuperare il crescente divario di valutazioni con gli altri settori industriali;
  2. che -affinché il gap di valutazione venga colmato- molto ancora deve succedere in termini di adeguamento gestionale e tecnologico;
  3. che molti istituti di credito “minori” dovranno obbligatoriamente aggregarsi ai maggiori per raggiungere la massa critica necessaria a consentire tale adeguamento e mostrare di conseguenza delle performances adeguate alle aspettative di chi investirà ancora in un settore così tanto regolamentato come quello bancario.

LE VALUTAZIONI DOVREBBERO CRESCERE

Quanto sopra costituisce peraltro un insieme di ottime notizie per le possibili valutazioni dei titoli delle banche quotate, cui si aggiungono altre due constatazioni:

  1. che le banche centrali continueranno ad immettere liquidità nel sistema finanziario e, per farlo, finanzieranno soprattutto gli istituti bancari, a tassi più o meno nulli;
  2. che i profitti evidenziati dalle banche nel medesimo periodo non sono affatto trascurabili (anche al netto della contabilizzazione delle perdite sui crediti deteriorati) e nemmeno lo sono i dividendi che stanno pagando.

SEBBENE…

Ma le considerazioni ottimistiche sopra riportate vengono necessariamente insieme icon qualche “caveat” che fa la differenza:

  1. se i corsi dei titoli bancari si apprezzeranno, ciò probabilmente riguarderà soprattutto gli istituti di maggiori dimensioni,
  2. a beneficiare maggiormente della possibile stagione di aggregazioni che dunque potrebbe aprirsi saranno quelli che appaiono più avanti nella corsa verso la rivoluzione tecnologica del settore;
  3. che gli investitori premieranno le banche che riusciranno a compiere gli investimenti tecnologici senza penalizzare l’elevata redditività che oggi le contraddistingue, mentre le altre, quelle meno avanzate, delle medesime aggregazioni potranno sicuramente beneficiare un po’, ma molto meno delle prime (che avranno il coltello dalla parte del manico).

LE NUOVE TECNOLOGIE INFORMATICHE IMPATTERANNO…

C’è da attendersi dunque che nuove tecnologie informatiche saranno indubbiamente di grande utilità a livello predittivo per l’erogazione del credito e per la valutazione delle probabilità di riuscita degli investimenti, ma anche che l’ondata di fusioni e acquisizioni che discenderà dalla loro adozione andrà decisamente ad impattare sul panorama attuale del mercato finanziario, stravolgendolo non poco e ponendo molte banche italiane a rischio di essere tra le più probabili prossime vittime di take-over più o meno esplicitamente ostili (con l’unica eccezione di UniCredit, che ritengo essere in pole position per fondersi -da protagonista- con Commerzbank).

Le tecnologie che avranno impatto sul sistema bancario infatti, se da un lato potranno contribuire alla riduzione dei costi dei servizi erogati, dall’altro lato non potranno non avere un ruolo nel migliorare il rapporto (e il dialogo) con la clientela.

…E NON NECESSARIAMENTE LE DIMENSIONI

Ciò significa anche che la dimensione aziendale non rappresenterà più il fattore fondamentale ma, ancor più di esso, conterà la capacità manageriale dei leaders degli istituti di credito e, di conseguenza, la loro capacità di guidare il cambiamento interno e l’adattamento ad un mondo fortemente digitalizzato curando e sostenendo al tempo stesso un sostanziale rapporto di fiducia con la clientela.

Tutto questo non è peraltro una mera previsione di qualche esperto, ma rappresenta la realtà di quanto è già successo di recente negli Stati Uniti d’America, dove i titoli bancari hanno brillato per i medesimi motivi sopra esposti, portando nell’ultimo anno ai loro azionisti guadagni di circa il 40%.

IN AMERICA È GIÀ SUCCESSO

Tra le banche americane che più hanno brillato c’è ovviamente la più grande di tutte: la Bank of America, anche grazie all’ottimo andamento del suo ramo attivo nelle gestioni patrimoniali (la Merryll Lynch). L’andamento del suo titolo negli ultimi cinque anni ne è testimonianza:


MA I MULTIPLI RESTANO BASSI

Ma quel che è ancor più sorprendente è che l’intero settore, persino negli Stati Uniti d’America, viaggia con multipli di valore decisamente più prudenti del resto del mercato, come si può leggere dalla penultima colonna a destra nella tabella sotto riportata:


Il rapporto medio tra il prezzo e gli utili attesi delle migliori banche americane infatti (il cosiddetto P/E) non arriva alle 12 volte, contro un fattore 24 (esattamente il doppio)espresso dal più diffuso indice dì Wall Street: lo Standard & Poor 500:


Come si può leggere dal grafico (che parte dall’anno 1870), il livello medio di questo moltiplicatore degli utili non è mai stato tanto basso, oscillando sistematicamente (a parte i picchi all’insù degli ultimi anni) intorno al valore medio storico di quasi 15 volte. Dunque il settore delle banche appare ancora oggi persino in America decisamente sottovalutato e rappresenta per questo motivo un’opportunità interessante, nonostante l’incombere di possibili nuovi ulteriori norme che impongano ulteriori requisiti di capitalizzazione.

E IN EUROPA SUCCEDERÀ ALTRETTANTO?

Quanto può valere questo ragionamento per le banche europee e, segnatamente, per quelle nazionali? Molto meno, sicuramente, per i medesimi motivi più sopra esposti (dimensioni e gradi di avanzamento tecnologico). Eppure qualcosa si muove anche a Milano, dove la crescita di valore dei titoli del comparto banche è indubbiamente stata importante (dal minimo dell’indice di 7144 dello scorso Ferragosto ai 9368 dello scorso 9 gennaio la salita è stata del 35%):


GLI OTTIMI RENDIMENTI AIUTANO

Nella tabella che segue si può peraltro verificare che sono sempre le banche e le compagnie assicurative il settore più generoso in Europa in quanto a utili e dividendi, tra l’altro con un fattore “beta” (indica le oscillazioni medie storiche del valore del titolo) estremamente limitato (beta=1: andamento medio del mercato nel suo complesso, più alto: maggior variabilità, più basso: minore):


Dunque: laddove si dovessero avverare le previsioni di un andamento relativamente “piatto” del mercato azionario nei prossimi mesi la notevole redditività dei titoli bancari potrà costituire fattore di deciso interesse, come pure risulteranno interessanti i titoli sui quali si realizzeranno operazioni di fusioni e acquisizioni.

Se invece arriveranno pesanti notizie negative relative all’andamento generale dell’economia, allora i titoli bancari potranno soffrirne più che proporzionalmente. Ma se devo trovare una risposta alla domanda: “è ancora il momento delle banche?” la mia è sicuramente positiva.

Stefano di Tommaso




IL CIGNO NERO

Il 2020 è chiaramente iniziato con un “botto” di quelli che ricorderemo a lungo! La premessa infatti riguardo alla scelta geopolitica di Trump di far fuori uno dei più importanti leaders militari mediorientali (nonché il numero 2 dell’Iran) consiste in una mia personale -e discutibile- opinione. Essa è che questa scelta sia stata probabilmente sensata. La deriva degli eventi geopolitici sarebbe stata forse peggiore per gli interessi dell’intero Occidente senza un segnale così forte rivolto non soltanto ad uno stato maggiore persiano espansionista ed estremamente conflittuale con gli interessi americani nel medioriente, ma anche ad ogni altro stato islamico militante e, indirettamente, ad ogni altro nemico potenziale degli USA.

 


LE PROVOCAZIONI

Da parte dei gruppuscoli militari sciiti più o meno autorizzati dal regime di Hassan Rouhani le provocazioni verso l’America erano state d’altronde preoccupanti e crescenti: gli attacchi ai carri armati, gli ostaggi britannici, l’abbattimento di un drone americano in acque internazionali, l’irruzione probabilmente a lungo pianificata all’ambasciata culminata con la morte di un diplomatico americano… essi costituivano probabilmente soltanto l’inizio di una strategia di odio e tensione che voleva sfociare nell’annuncio imminente di un’autonoma capacità dell’Iran di costruire la propria bomba atomica, e che aveva visto sino a quel momento l’amministrazione Trump attendere e non reagire.

LA RISPOSTA AMERICANA

Ma a quel punto Trump aveva tuonato con uno dei suoi “cinguettii” (tweet): adesso basta! E lo stato maggiore persiano aveva subito risposto per le rime: non potrete fermarci o saremo il vostro nuovo Vietnam. La misura era oramai colma e l’occasione era altresì ghiotta: quella di cogliere di sorpresa il generale Soleimani mentre era in missione segreta in Iraq, chiaramente impegnato in azioni sovversive contro uno Stato formalmente alleato degli USA. Come dire: con la prova che il numero due persiano era impegnato nel preparare dei terroristi.

IL RISCHIO È DI INFEROCIRE LE PIAZZE

Continuare a non reagire sarebbe equivalso a tollerare una strategia di crescente tensione in tutta l’area mediorientale e la geopolitica non può basarsi sui soli appelli del Vaticano per riuscire a placare le torbide acque mediorientali. Servono mani forti e polsi decisi, anche quando essi possono risultare estremamente impopolari e pericolosi.


LE CONSEGUENZE SUI MERCATI

Ma le conseguenze di questo atto di imperio americano possono essere altrettanto forti, anche perché l’area del Golfo persico e dello stretto di Hormuz dove passano le navi cariche di gas e petrolio è la più probabile per le future rappresaglie, con il rischio che il resto del mondo possa subire le conseguenze di un‘impennata del prezzo dell’energia. Da notare peraltro che invece l’America è invece oramai completamente autosufficiente dal punto di vista di gas e petrolio, anzi lo esporta. Dunque se l’America ci può anche guadagnare, il resto del mondo può solo perdere terreno.

IL CIGNO NERO È VENUTO ALLO SCOPERTO

Per i mercati finanziari dunque il cigno nero che è venuto allo scoperto nei primi giorni dell’anno è la presa d’atto che le tensioni geopolitiche mediorientali probabilmente non termineranno qui, e che le loro ricadute in termini macroeconomici possono farsi sentire altrettanto sonoramente, a partire dal prezzo dell’energia e, di conseguenza, delle materie prime.


Il petrolio è ovviamente cresciuto di prezzo (come ogni volta che urlano venti di guerra), le borse sono scese e, soprattutto, il prezzo dell’oro è andato alle stelle. Ora -storicamente- quando i tassi sono bassi e le borse sono ai massimi storici è piuttosto normale che gli investitori inizino a guardarsi attorno e a cercare delle alternative. Se poi le tensioni geopolitiche crescono parallelamente, allora essi non cercano più soltanto delle alternative, bensì dei veri e propri “rifugi sicuri”. E l’inve in riserve d’oro è il più scontato di tutti, anche perché degli investimenti alternativi è di gran lunga anche il più facilmente liquidabile.

PETROLIO E ORO SI IMPENNANO

Di seguito il grafico del prezzo del petrolio…


… e quello dell’Oro:


MA I MERCATI CERCAVANO UN PRETESTO

D’altra parte i mercati finanziari cercavano già da qualche tempo una “scusa” per ridimensionarsi. La spinta della forte immissione di liquidità da parte delle banche centrali li teneva su un po’ artificialmente, nonostante una parziale tendenza al ridimensionamento degli utili attesi per l’anno prossimo (il 2021).



LA VOLATILITÀ ERA TROPPO BASSA

Fino alla settimana scorsa dunque (fine 2019) l’indice della volatilità dei mercati era giunto ai minimi storici e c’era chiaramente un po’ di “ipercomprato” in borsa.


Se le attuali tensioni poi sfocieranno in minor fiducia nel prossimo futuro allora un’altro “circolo vizioso” potrebbe innestarsi: quello della riduzione della leva del debito, che tipicamente arriva in questi casi tanto per scoramento di chi deve effettuare investimenti quanto per sollecitazione delle banche che li finanziano.


SVANISCONO LE SPERANZE DI UNA NUOVA FASE ESPANSIVA?


L’ultimo baluardo della speranza dei mercati finanziari era poi costituito dalla speranza di una mini-ripresa economica (anche trainata dagli importanti investimenti previsti ed effettuati a bassissimo costo finanziario) almeno nella prima parte del 2020, ma le recenti rilevazioni degl’indici di fiducia (l’indice ISM qui sopra riportato) degli operatori e della produzione industriale (PMI-Markit) l’hanno quasi seppellita.

Se poi da tale sconvolgimento dovesse risultare una vittoria democratica alle elezioni presidenziali del prossimo novembre si aggiungerebbe anche un incremento della tassazione per le imprese americane, le quali tuttavia contano per più della metà dell’indice azionario globale!Le previsioni attese per la media degli utili aziendali da parte di Goldman Sachs in questo scenario sarebbero le seguenti :

 

 


E I PROFITTI ATTESI SCENDONO

Proviamo infatti a moltiplicare per 17,55 (la media del P/E agli attuali livelli dell’indice più diffuso a Wall Street: lo Standard&Poor 500 che era ieri al livello di 3246 con un’attesa implicita di 185 dollari di utili per azione) quei 164 dollari di profitti medi attesi che ne risulterebbero per le aziende che lo compongono) e vediamo che l’attesa per lo SP500 passerebbe a 2878, cioè con una discesa di oltre l’11%


E questo senza contare che le previsioni attuali che riguardano i profitti attesi per il 2021 si basavano ancora su scenari decisamente ottimistici. Pur senza ipotizzare una crescita della tassazione americana proviamo ad esempio,a ridimensionarle del 10% tali stime e, di conseguenza, a ridimensionare del 10% anche il loro moltiplicatore: dagli attuali 185 dollari di profitti attesi in media per le aziende dello SP500 passeremmo dunque a 166,5 dollari e da un moltiplicatore di valore di 17,55 volte passeremmo a 15,8 volte gli utili. In tal caso il risultato atteso per la fine del 2020 potrebbe passare a un indice SP500 di 2630 (vale a dire una discesa di quasi il 20%).

LE VALUTAZIONI AZIENDALI POTREBBERO SCENDERE…

Le previsioni per i mercati finanziari perciò, (tutti, ovviamente) erano troppo ottimistiche fino alla settimana scorsa e sono necessariamente destinate ad essere ridimensionate non soltanto a causa del “cigno nero”. Persino nel caso in cui le tensioni mediorientali rimanessero sopìte sino a tutta la conclusione della campagna elettorale americana lo sarebbero.

…MA IL PETROLIO NON SALIRÀ

In assenza di nuovi “colpi di teatro” infatti molto probabilmente il prezzo del petrolio non proseguirà la sua corsa, perché nel mondo la sua offerta continuerà ancora per un po’ a superarne la domanda. Ma ciò nonostante i mercati potrebbero vivere un ridimensionamento, quantomeno nella prima parte dell’anno. Il rischio è concreto.

E A MEDIO TERMINE…

Nella seconda parte del 2020 poi saranno altri i fattori che domineranno la scena: se l’inflazione non tornerà a fiammeggiare e i tassi continueranno a restare così bassi allora i profitti aziendali, per quanto ridimensionati, continueranno a superare i rendimenti obbligazionari e questa sarà un‘ ovvia boccata d’ossigeno per i moltiplicatori di valore delle borse. Oltre il semestre a venire peraltro la sfera di cristallo risulta decisamente appannata. Meglio affidarsi allora al buon senso, e a continuare l’osservazione dell’orizzonte: altri cigni neri potrebbero comparire e, per definizione, non potremmo saperlo in anticipo!

Stefano di Tommaso




2020: TROPPO OTTIMISMO PER L’ECONOMIA

Sembra di cogliere una sorta di specularità tra la fine del 2018 e quella del 2019: negli ultimi giorni del 2018 il prolungato calo delle borse e la mini-recessione occorsa (soprattutto europea e soprattutto legata alla crisi del comparto industriale dell’auto) sembravano precludere alla conclusione del lungo ciclo economico di ripresa che era conseguito alla più grande crisi finanziaria degli ultimi 80 anni. Invece è andata in tutt’altro modo. La fine del 2019 rischia però di abbagliarci in senso inverso: la forte impennata dei mercati finanziari e la mini-ripresa economica in corso hanno scatenato un’ondata di deciso ottimismo che si estende all’intero pianeta, sinanco esagerato, e per le stesse ragioni: la miopia dei mercati fornisce ottime indicazioni nel breve termine ma buio pesto oltre l’orizzonte di visibilità (che al massimo arriva a qualche mese).

 

I MERCATI SONO SALITI MA L’INDUSTRIA ARRANCA

Già nell’autunno 2019 l’economia globale ha infatti ripreso la sua crescita mentre i consumi hanno continuato la loro corsa, ma il settore manifatturiero ha mostrato una flessione consistente ed estesa a praticamente ogni parte del mondo. Sebbene il comparto dei servizi abbia continuato a marciare, se ne è attribuita la colpa alle cosiddette guerre commerciali del presidente Trump ma la verità sta probabilmente altrove. Impossibile ignorare un segnale così importante.


Il progressivo rallentamento economico è comunque evidente ed è marcato da altri due fattori inequivocabili: la mancata ripresa dell’inflazione e il calo della velocità di circolazione della moneta. Segnali tutti che hanno -correttamente- generato allarme tra gli uffici studi delle banche centrali di tutto il mondo e, in presenza di una ancora limitatissima volontà politica di intervenire con politiche fiscali espansive, queste ultime non hanno potuto far altro che intervenire come potevano: cioè inondando i mercati finanziari di ulteriore liquidità.

GLI INTERVENTI DELLE BANCHE CENTRALI

È notizia della fine dell’anno l’ulteriore facilitazione monetaria stavolta disposta dalla banca centrale cinese, ma la sfilza di interventi di altre banche centrali dovrà proseguire non poco nel mondo affinché i tassi di interesse continuino a rimanere bassi: le esigenze di rifinanziamento dei debiti pubblici rischiano di assorbire buona parte di quanto immesso.

Ed è un fatto oramai accertato che l’abbondanza di quest’ultima oggi sia il principale motore della crescita delle borse, sebbene vi siano almeno altri due fattori che giustificano gli attuali rialzi dei corsi azionari: la crescita dei profitti e la scarsezza dei rendimenti dei titoli a reddito fisso.

MA LE BORSE NON SONO SOPRAVVALUTATE

A parziale giustificazione della forte domanda di titoli azionari da parte di investitori e risparmiatori di tutto il mondo infatti, un dato non legato alla liquidità dei mercati finanziari spicca fra tutti: il rapporto tra gli utili aziendali e i prezzi di borsa. Molte grandi imprese hanno infatti goduto ampiamente dei benefici derivanti dalla digitalizzazione dell’economia globale e dei ritorni di tutti gli investimenti effettuati per efficentare i processi produttivi e distributivi, ottenendone in cambio una migliore profittabilità rispetto al recente passato.

I DIVIDENDI SUPERANO LE CEDOLE

Per fornire una misura di quanto appena affermato, i profitti netti attesi espressi dalle principali imprese nel mondo, i cui titoli sono selezionati nell’indice globale MSCI ALL COUNTRY INDEX, alla fine del 2019 risultavano pari in media al 5,3% dei rispettivi corsi azionari: un’enormità se paragonati ai rendimenti negativi di circa un terzo di tutti i titoli a reddito fisso emessi nei paesi OCSE e ai rendimenti dall’1% al 2% di un altro 50% circa dei medesimi. Anche i dividendi attesi dei medesimi titoli azionari che compongono l’indice citato sono più alti dei rendimenti del mercato monetario: essi rendono agli azionisti il 2,5% dei valori di borsa in media. Non c’è da stupirsi dunque che questi ultimi -nonostante i livelli altissimi cui le borse sono arrivate- ancora preferiscono investire in azioni rispetto alle obbligazioni.


Quanto agli investimenti alternativi, a partire dai valori immobiliari fino ai metalli preziosi e alle opere d’arte, quegli stessi investitori ne hanno effettuati sin troppi negli ultimi tre/quattro anni, anche tenendo conto del fatto che si tratta di ”assets” estremamente meno liquidi e talvolta fortemente speculativi.

IL PARADOSSO DEL 2019

Questi fatti hanno, dal mio personale punto di vista, generato nel 2019 un piccolo paradosso: se da un lato sono apparsi infatti “quasi” giustificati i valori espressi dalle borse, dall’altro lato sono stati altrettanto giustificati i livelli infimi cui sono giunti i rendimenti espressi dal mercato finanziario. L’economia mondiale però risulta meno in salute di quanto i “media” vogliono farci ritenere, e la mini-ripresa attualmente in corso può distogliere l’attenzione dai fattori più importanti che occorre monitorare per chiedersi dove andrà il mondo nel corso del 2020.

SEGNALI PREOCCUPANTI PER IL 2020

La stagnazione cronica del settore manifatturiero e la quasi assenza di pressioni al rialzo sui prezzi al consumo indicano sì la svolta “digitale” dell’economia e la maggior efficienza dei canali distributivi generati dal commercio elettronico nonché la riduzione dei costi superflui effettuata lungo tutta la filiera produttiva delle grandi corporations, ma costituiscono altrettanti segnali preoccupanti: il divario tra i paesi avanzati e quelli emergenti, all’invecchiamento della forza lavoro, all’eccesso di concentrazione di ricchezze in poche forti mani, alla crescente divaricazione tra il calo dei servizi offerti dalle previdenze sociali dei maggiori paesi industrializzati e il sempre maggior costo delle cure mediche e dei servizi di cura della persona, cosa che induce minori consumi e maggior risparmio a causa della maggior incertezza relativa alla vecchiaia.


CI VORREBBERO PIÙ INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE…

Tutti fattori che fanno pensare ad una minor soddisfazione generalizzata degli esseri umani e, alla lunga a possibili tensioni sociali e geo-politiche. L’antidoto “naturale” al progressivo deterioramento dei fondamenti dell’economia industriale moderna sarebbero sicuramente maggiori investimenti infrastrutturali (soprattutto nei paesi emergenti) e, forse, politiche di maggior intervento pubblico a sostegno delle classi sociali più deboli. Solo in questo modo l’economia mondiale tornerà a crescere in modo equilibrato e al riparo dagli eccessi speculativi.

…E TEORIE ECONOMICHE MENO OBSOLETE !

Ma, per farlo, occorrerà indirizzarvi abbondanti quantità di denaro privato, o (meno probabilmente) generare abbondanti risorse economiche pubbliche e risparmiare altrove dagli sprechi o ancora, forse meglio: accettare una maggior monetizzazione dei debiti pubblici, aprendo più decisamente a teorie economiche sino ad oggi ingiustamente sottovalutate o addirittura disprezzate, come la Modern Monetary Theory (MMT). Cioè la scuola di pensiero che fa capo a Warren Mosler e che è risultata l’unica ad aver previsto correttamente quanto è successo negli ultimi dieci anni.

Stefano di Tommaso