TUTTI PAZZI PER LA CYBERSECURITY

Mentre l’industria manifatturiera segna il passo negli ultimi mesi, il mercato della sicurezza dei dati (cybersecurity) sta oggi vivendo un vero boom. Secondo il gruppo Gartner che formula a livello internazionale analisi e previsioni per il mercato della tecnologia, quest’anno la spesa complessiva per investimenti correlati alla sicurezza dei dati negli ultimi 13 anni si è già moltiplicata per 30 volte ed è prevista crescere nel 2019 dell’8,7% rispetto all’anno precedente per arrivare ai 124 miliardi di dollari, ben oltre la spesa per infrastrutture informatiche che crescerà soltanto del 3,2%. Se poi restiamo nelle previsioni tale cifra annua è vista ascendere ben oltre i 130 miliardi di dollari nel 2022. Non stupisce che venga da chiedersi se sia arrivata sul punto di scoppiare la bolla delle valutazioni delle imprese che se ne occupano fornendo servizi di sicurezza.

 

DOMANDA E OFFERTA DI CYBERSICUREZZA

Per poter rispondere a questo quesito bisogna tuttavia cercare di guardare al di là dell’orizzonte visibile di domanda e offerta di questo tipo di servizi informatici e chiedersi quali saranno i fattori principali della crescita.

Da un lato infatti la domanda di servizi di cybersicurezza è ampia e crescente, man mano che l’economia si digitalizza e che le imprese fanno sempre maggior uso dei sistemi gestionali integrati.

Dall’altro lato l’offerta di servizi di sicurezza informatica è oramai giunta a un punto di saturazione: nel corso dello scorso anno gli investimenti del Venture Capital nel comparto hanno superato i 5,3 miliardi di dollari, cresciuti del 20% rispetto all’anno precedente (4,4 miliardi di dollari) e del 100% rispetto a quello prima.

Ovviamente anche le valutazioni delle aziende che se ne occupano crescono conseguentemente, tanto a causa della crescita del mercato sottostante quanto perché c’è ancora molto denaro da investire nel settore, tanto tra gli operatori di capitale di ventura quanto nelle borse valori.

L’offerta dei servizi di sicurezza informatica abbraccia sostanzialmente tre settori:

  1. innanzitutto il software per la sicurezza,
  2. poi i servizi di installazione, manutenzione e personalizzazione dei sistemi di sicurezza, e infine:
  3. la formazione necessaria tanto agli operatori quanto agli utenti.

IL MERCATO SI ALLARGA PIÙ CHE PROPORZIONALMENTE

Sebbene vada montando il rischio di una repentina saturazione del mercato globale dei servizi di sicurezza dei sistemi informativi, tuttavia i motivi dell’entusiasmo generalizzato degli investitori per questo comparto sono relativamente semplici da cogliere : i danni che gli hacker (o lo spionaggio industriale) possono arrecare superano ancora oggi di molte volte la spesa necessaria per la messa in sicurezza.

Senza contare il fatto che gli “utenti” della cybersicurezza non sono soltanto le infrastrutture di telecomunicazioni e le imprese che devono proteggere i loro database e le loro tecnologie: oggigiorno anche la sanità, la pubblica amministrazione e gli istituti di ricerca mostrano crescenti esigenze di mettere in sicurezza i loro dati sensibili, così come gli attacchi informatici sono divenuti altresì strumenti di lotta politica, di spionaggio internazionale e di pressione nei confronti dell’opinione pubblica.

Mano mano cioè che il cyberspazio si popola e rimpiazza progressivamente gli strumenti di informazione e archiviazione tradizionali, si sviluppa in parallelo anche la necessità di garantirne la riservatezza, e proteggerne l’integrità e l’accesso. Anche la normativa di fa ogni anno più stringente (vedi ad esempio la GDPR) costringendo in molti casi le imprese a investire nella sicurezza per evitare di incorrere nelle sanzioni.

AL MOMENTO LA SPESA È CONCENTRATA IN POCHE AREE “RICCHE”

La crescita della spesa per la sicurezza informatica più è tutt’altro che omogenea nel mondo e si concentra fortemente-per il momento- nelle zone a più alta concentrazione di ricchezza e tecnologia. Il Nord America, per esempio, è previsto investire nel capitale di imprese del settore per buona parte del totale dei 5,3 miliardi di dollari sopra citati (poco più di 4 miliardi di dollari), mentre il restante miliardo sarà diviso più o meno alla pari tra Europa e Asia.

E ancora, nell’ambito dei soli Stati Uniti d’America, gli investimenti del venture capital nel settore nel corso del 2018 si sono concentrati prevalentemente tra gli investitori californiani, mentre negli Stati dove sono più presenti gli organismi governativi (Maryland, Virginia e Washington DC) sono ammontati “solamente” a 300 milioni di dollari.

È logico pertanto prevedere che nel tempo la spesa per i servizi di sicurezza digitale possa espandersi proporzionalmente anche a tutti gli altri stati d’America e, ancora un po’ più in là nel tempo, anche a tutto il resto del mondo. Ovviamente anche questo mercato è destinato nel tempo a concentrarsi in poche forti mani, così come è successo anche ai sistemi operativi, gestionali e di telecomunicazioni.

Senza contare il fatto che nessuno standard tecnologico è stato ancora raggiunto nel settore della sicurezza e che pertanto c’è da attendersi ancora forti e repentini cambiamenti nelle tecnologie adottate, con conseguenti rischi per chi potrebbe trovarsele spiazzato.

LE PROSPETTIVE RESTANO FLORIDE

Ma nel frattempo la corsa al nuovo oro informatico è al suo apogeo e, se le dimensioni e le articolazioni del cyberspazio si moltiplicheranno quanto dicono gli esperti, allora il mercato della sicurezza è ancora lungi dal trovare la sua saturazione e gli operatori che hanno la capacità di operarvi andranno ancora a lungo incontro a una domanda che supera la loro offerta di servizi, cosa che garantirà ancora a lungo margini interessanti e opportunità di crescita, tanto interna quanto esterna. Una vera manna per tutti: chi ci investe e chi ci lavora, nonostante i rischi citati.

Per quanto riguarda la Borsa Italiana, stamane approderà al listino del segmento AIM la società Cyberoo, la prima società italiana specializzata in cybersicurezza a quotarsi. Con un fatturato di 4,6 milioni di euro nel 2018 e una previsione di 6,6 per la fine di quest’anno (e un EBITDA di 2,4 milioni) la società è stata proposta al mercato con una valutazione di circa 20 milioni, ante aumento di capitale di 7,15 milioni che andrà a costituire un flottante pari al 26% del capitale, pur avendo ricevuto ordini pari a 40 milioni di euro. Un vero successo, nonostante le ridotte dimensioni. Nella foto : Fabio Leonardi, CEO.

Stefano di Tommaso




LA GRANDE PAURA

L’unico argomento che da più di un mese tiene oramai banco nel dibattito tra economisti, analisti finanziari e imprenditori è sempre e solo quello di quante probabilità ci sono che si scateni una nuova recessione globale. La settimana che si è appena chiusa ha visto materializzarsi nuovi timori da questo punto di vista, sebbene si sia poi chiusa meno peggio del previsto. E poi, come si può leggere più oltre, i soli timori non bastano a rovinare un quadro che, per quanto deteriorato, non è ancora del tutto negativo. È esattamente ciò su cui sperano gli investitori per un autunno borsistico che potrebbe, nonostante tutto, addirittura migliorare.

 

Ovviamente i mercati finanziari subiscono in tempo reale le tensioni e i timori, reagendo talvolta assai nervosamente come è successo durante questa settimana quando l’indice più importante relativo all’attività economica delle imprese in America è crollato oltre le aspettative (in particolare relativamente all’attività manifatturiera). Ecco un Tweet divenuto virale in rete riguardante l’indice ISM :


L’indice ISM viene elaborato dell’Institute for Supply Management sulla base di questionari sottoposti a centinaia di direttori degli acquisti di altrettante aziende di 20 comparti manifatturieri. Vengono elaborati 10 indicatori, più uno, il più importante, l’indice PMI, che risulta da una media pesata di altri indici. Letture del PMI superiori a 50 segnalano che più aziende hanno sperimentato la crescita dell’attività economica di quante l’hanno invece vista calare. E’ molto importante anche per gli operatori dei mercati finanziari, perché il settore manifatturiero è particolarmente sensibile all’andamento del ciclo economico e l’indice PMI ne ha spesso segnalato i punti di svolta.

L’indice PMI è dunque considerato una misura affidabile dell’andamento del ciclo economico americano che fino a ieri aveva “tenuto” con i servizi e i consumi, nonostante il calo del comparto manifatturiero. Prende dunque piede l’ipotesi del “contagio” anche in U.S.A. della stagnazione in atto nella zona dell’Euro.

Non si può però affermare che non ce lo si potesse aspettare! Guardiamo per esempio il confronto con l’anno precedente della lettura dell’indice di settembre tra America e Europa:

Scrive in proposito Alessandro Fugnoli:

La delegittimazione della narrazione ottimista si basa su due elementi. Il primo è l’ipotesi di un contagio esteso ormai anche agli Stati Uniti della recessione manifatturiera già visibile da un anno soprattutto in Europa ma estesa ormai ad ampie zone dell’Asia. Di questo contagio americano c’erano in realtà da settimane molti segni (meno merci e prodotti trasportati, sconti crescenti sulle auto, ordini più bassi delle consegne) ma il mercato aveva deciso di ignorarli, salvo cominciare ad arrendersi all’evidenza con l’ultimo dato ISM. (…) Quando quel di più che c’è da vendere sarà stato venduto, le borse ritroveranno il loro equilibrio, che sarà più in basso di quello che si pensava fino a tempi recenti ma non sarà catastrofico. Le possibilità che il mercato chiuda l’anno su nuovi massimi storici in America e di periodo in Europa sono ora legate a circostanze politiche, come un accordo all’ultimo minuto su Brexit, un impeachment che arriva sgonfio a dicembre e trova un senato orientato a respingerlo (come risulta a tutt’oggi) e a un clima minimamente costruttivo con la Cina (il mercato non spera più in un accordo, gli basta una tregua). Come si vede, si tratta di variabili che il mercato non controlla e su cui non ha molta visibilità. Su quello su cui la visibilità è maggiore, utili, tassi e buy back, le notizie sono contrastate, ma nel complesso più neutrali che negative.

Ecco le più aggiornate previsioni per la crescita economica:

Sebbene la volatilità dei corsi di borsa sia indubbiamente cresciuta nelle ultime settimane (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato a proposito dell’indice “VIX”, ovvero il CBOE Volatility Index, pubblicato quotidianamente dalla borsa di Chicago):


L’orizzonte dei mercati finanziari non è però così nero come si potrebbe pensare.

L’elevata probabilità di un terzo taglio di tassi a breve da parte della Federal Reserve (giunta oramai al 90%) comporta già di per sé un certo ottimismo e poi, appunto le circostanze politiche potrebbero anche migliorare, così come i timori sul calo del commercio internazionale potrebbero risultare eccessivi e i nuovi minimi toccati dalla disoccupazione tengono ancora elevati i consumi sebbene se ne percepisca comunque il rallentamento.


Se nel complesso perciò il quadro dovesse migliorare i mercati finanziari potrebbero addirittura guadagnare terreno, complici le nuove importanti immissioni di liquidità operate dalle banche centrali, anche se una nozione oramai sembra acquisìta: la congiuntura fa prevedere che i tassi d’interesse scendano ancora sino a quando non tornerà fare capolino un più di inflazione dei prezzi (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato):

Ciò che potrebbe cambiare decisamente in meglio le cose sarebbe casomai un intervento espansivo non soltanto delle banche centrali ma anche e soprattutto dei governi delle principali economie mondiali, che tuttavia, per farlo, dovrebbero cambiare atteggiamento e spingere sull’incremento dei debiti pubblici, cosa che negli ultimi due anni soltanto Donald Trump e XI Jimping hanno voluto fare e che oggi rischiano di non potersi più permettere di proseguire.

Dovrebbe farlo cioè anche la Germania, per salvare l’Euro-zona, così come dovrebbero farlo il Giappone (con più decisione rispetto a quanto si è visto) e di nuovo la Gran Bretagna (oggi però alle prese con soverchi problemi politici legati alla Gestione del braccio di ferro con Bruxelles). Difficile quindi che questo quadrante del cruscotto irrorerà delle positività tutte d’un colpo. Al di là dello spavento e dello scarso entusiasmo comunque, resta per i mesi a venire uno scenario più neutrale che negativo per le borse e addirittura leggermente ottimistico per i titoli a reddito fisso.


Certamente i nuvoloni di una nuova recessione si addensano. È impossibile ignorarli. E purtroppo, come citato poc’anzi, sono assai poco prevedibili le variabili-chiave che determineranno l’eventuale conferma delle aspettative negative appena emerse. Si può solo navigare a vista dunque, senza pretendere troppo dalla sfera di cristallo…

Stefano di Tommaso




IPO: FINALMENTE UN PO’DI RAZIONALITÀ

Negli USA troppo spesso negli ultimi anni le IPO (Initial Public Offerings, cioè le Offerte Pubbliche che precedono la quotazione delle matricole in Borsa) sono state sinonimo di modelli di business basati sull’economia digitale e di eccessi nelle valutazioni. Oggi il mercato dei capitali inizia a guardarci dentro in maniera più razionale e meno entusiastica, ma soltanto per quelle imprese che devono confrontarsi con troppa concorrenza, scarsa possibilità di fare profitti e continue necessità di investire, come WeWork, Uber e Lyft, ad esempio. Questo dunque non significa che il mercato delle IPO sia morto, anzi! Soltanto che gli investitori hanno finalmente aperto gli occhi. Un’interessante scenario che potrebbe ripetersi in Europa, Private Equity permettendo…

 

LO SCENARIO È CAMBIATO

Una statistica particolarmente significativa è stata prodotta da Jay Ritter, della Florida University: nel 2018 sul mercato americano ci sono stati 134 debutti in Borsa e l’81% di queste società mostrava perdite nell’ultimo bilancio. Mentre la scorsa settimana Eric Savitz per conto del settimanale americano Barron’s ha stilato una classifica delle 114 società che dall’inizio dell’anno fino ad oggi si sono quotate in borsa a Wall Street: più della metà di esse (esattamente 63) ha avuto ad oggi rendimenti assai positivi, a dimostrazione del fatto che le cose stanno cambiando! Eccone un estratto:


DIVERSI PROBLEMI AFFLIGGONO LE I.P.O.

Secondo Savitz ci sono diversi problemi concomitanti che hanno contribuito alla debacle del primo giorno di quotazione per giganti come “WeWork” (che affitta uffici temporanei in condivisione) o “Peloton” (una sorta di Tecnogym super tecnologica americana) fino all’abbandono del processo di quotazione da parte delle ultime matricole che volevano affacciarsi al listino come Endeavor, colosso di Media e Talent Agency, che ha rinunciato in extremis al suo Initial Public Offering. Sarebbe dovuto essere lo scorso venerdi’ 27 Settembre. Una decisione presa dopo aver gia’ ridotto a 27 dollari il prezzo di offerta ipotizzato, dai 32 annunciati solo la scorsa settimana. La societa’ controlla l’agenzia WME e lo sport estremo Ultimate Fighting Championship (UFC) e non fa profitti.

Ma non si può affermare che il mercato delle IPO si sia inaridito: è soltanto diventato più selettivo.

Innanzitutto la dimensione media delle IPO è molto cresciuta: se si guarda alla tabella sopra riportata si parla quasi solo di molti miliardi di dollari di capitalizzazione: questo ha di fatto allontanato molte piccole realtà che hanno trovato valide alternative sul mercato privato dei capitali (venture capital e private equity).

Ma non solo: se si guarda alla performance del primo giorno di quotazione per le IPO dal 1980 al 2018, l’incremento di valore medio (dunque al netto delle performances negative) è stato pari al 18%. Cioè 165 miliardi di dollari di maggior valore che non sono stati raccolti dalle imprese a causa di un prezzo “di uscita” troppo prudente. È facile immaginare che tale sottovalutazione abbia riguardato soprattutto le imprese a più bassa capitalizzazione, mentre probabilmente si è ecceduto all’opposto per le imprese più note al grande pubblico.

IL NUMERO DELLE QUOTATE SI È DIMEZZATO A WALL STREET

Il fenomeno del disamoramento del mercato borsistico da parte delle start-up e delle imprese di minori dimensioni ha peraltro raggiunto dimensioni allarmanti: vent’anni dopo il picco delle 8000 società quotate in America nel 1996 siamo scesi a circa la metà nel numero di imprese oggi quotate in borsa, come si può vedere dal grafico prodotto dalla Banca Mondiale:

Il fenomeno è ampiamente giustificato dall’enorme numero di fusioni e acquisizioni degli ultimi anni e dai conseguenti “delisting” che ne sono derivati, ma è macroscopico il fatto che nello stesso periodo non vi è stato un adeguato numero di IPO per controbilanciarlo.

Al tempo stesso la performance dei titoli quotati ha avuto negli Stati Uniti d’America un andamento molto migliore rispetto all’Europa e ai Mercati Emergenti, soprattutto negli ultimi 2 anni. Sinanco eccessiva.

Roe hi-tech Usa, Europa ed emergenti a confronto


Ovviamente lo scenario del minor numero e della maggior dimensione delle imprese quotate ha destato molte preoccupazioni tra le autorità, perché se in borsa si dovessero quotare soltanto grandi imprese già mature e magari con scarse prospettive di crescita gli investitori potrebbero decidere di starne alla larga.

Forse anche per questi motivi è tornata ad affiorare più razionalità nelle ultime IPO, con un maggior interesse verso quelle società che promettono vere e importanti innovazioni tecnologiche e, in prospettiva, grandi utili.

IL “DIRECT LISTING” INCOMBE

Un altro fenomeno che ha contribuito a deprimere i prezzi di borsa di talune tra le ultime matricole è stato quello del “Direct Listing”, ovvero della quotazione del titolo in borsa riservata alle imprese che già rispettano determinati parametri (ad esempio una decisa trasparenza dei bilanci e un adeguato livello di flottante) senza un previo collocamento azionario e dunque quasi senza l’intervento di una nutrita schiera di banche e intermediari attivi nel collocamento.

In questi casi, non essendoci stata una sollecitazione del pubblico risparmio, non esiste nemmeno un divieto di vendita dei titoli dopo la quotazione da parte di coloro che li detenevano in precedenza (il cosiddetto “Lock-Up”). Cosa che ha permesso ai titoli azionari quotati con tale modalità di andare profondamente al ribasso nei primi giorni di quotazione.

COSÌ COME IL RUOLO DEL PRIVATE EQUITY

Da non sottovalutare poi il ruolo del Private Equity nel catturare le migliori opportunità di crescita di valore delle aziende ai danni delle borse valori. Negli ultimi anni la “capacità di fuoco” (dry powder) dei fondi di p.e. È decisamente aumentata, con la conseguenza che, avendo ancora molti capitali da investire liquidi in banca, spesso questi ultimi hanno deciso di “trattenere” nella loro sfera più a lungo le imprese più capaci di accrescere il loro valore, prima di portarle sul listino azionario. Il risultato di questo fenomeno è ovviamente un minore spazio per la crescita di valore per le matricole di borsa, come si può vedere dal grafico qui sotto riportato:


MA MILANO NON STA A GUARDARE

Uno scenario americano dunque assai composito ma non deprimente, in vista delle numerose IPO in arrivo sul mercato borsistico milanese, dove sono previste 5 operazioni prima di fine anno, tutte sul segmento STAR : Ferretti, RCF Group SanLorenzo, NewLat e Franchi Marmi, per tutte le quali il vero nodo da sciogliere a questo punto è la corretta valutazione.

E in prospettiva per la prossima stagione (2020) ce ne sono molte altre: GVS di Bologna, Epta Refrigerazione, Golden Goose, SIA, Prelios e Adler. Tutte (o quasi) alle prese con il cosiddetto “dual track” decido cioè all’ultimo se mi quoto in borsa o mi vendo (ad un fondo?).

Comunque si giri la frittata dunque il Private Equity rispunta sempre a tormentare i sonni dei gestori attivi sul listino azionario. E non senza una ragione…

Stefano di Tommaso




L’ECONOMIA RALLENTA… MA NON RETROCEDE

Circolano pessime aspettative sull’andamento economico del prossimo futuro, in particolare per l’Europa e ancor più in particolare per ITALIA e Germania, cioè per le economie che risentono di più del rallentamento globale a causa della loro forte propensione all’esportazione di impianti e macchinari. Per gli U.S.A. si parla di una seconda parte dell’anno in crescita media dell’1% (e se fosse le previsioni del 2% su base annua sarebbero smentite) e persino la Cina, notoriamente in crescita tanto demografica quanto strutturale, nell’ultimo trimestre sembra aver rallentato la sua corsa al 5% su base annua, quasi 2 punti in meno che nel 2018. Ecco una serie di segnali che fanno pensare che il pendolo dei cicli economici stia invertendo la sua corsa, indicando l’imminenza di una stagnazione globale (ma non di una recessione).

 

Sebbene si moltiplichino le notizie sul rallentamento della crescita economica globale, indubbiamente le banche centrali stanno facendo la loro parte per scongiurare il peggio: la BCE di Mario Draghi (prossimo all’uscita) ha promesso di immettere sul mercato almeno 20 miliardi di euro al mese per una durata indefinita, ma la FED americana ha annunciato la scorsa settimana un’iniezione quotidiana di liquidità pari a 75 miliardi (al giorno, non al mese) sul mercato interbancario fino al 10 ottobre, per un totale di interventi a vario titolo che potrà arrivare in 20 giorni (dal 21 settembre) a 1300 miliardi di dollari. Ma lo scorso giovedì la Federal Reserve ha deciso di ampliare ulteriormente gli interventi sul colossale mercato monetario americano, aumentando da 75 a 100 miliardi di dollari al giorno l’iniezione di liquidità a favore delle banche e raddoppiando da 30 a 60 miliardi l’offerta di finanziamenti a 14 giorni per i “pronti contro termine”, portando il controvalore complessivo della manovra a 1600 miliardi di dollari.

IL SISTEMA BANCARIO È DI NUOVO IN CRISI ?

I numeri sopra esposti sono una vera enormità sinanco per la banca centrale americana, soprattutto a pochi mesi dall’ultimo rialzo dei tassi! Cosa che evidenzia una verità probabilmente inequivocabile: il sistema finanziario americano è già adesso andato in crisi, facendo crollare ai minimi storici oltre ai tassi di interesse anche la velocità di circolazione della moneta. Le banche centrali lo sanno e stanno silenziosamente cercando di contrastare il fenomeno.


D’altra parte se i tassi d’interesse vanno sotto lo zero significa una sola cosa: ci sono aspettative di recessione e di deflazione, altrimenti risalirebbero in fretta. La deflazione è un’aspettativa di calo dei prezzi che è specularmente all’opposto dell’inflazione, ed è altrettanto pericolosa: se io mi aspetto che un qualsiasi bene scenderà di prezzo allora rimando il momento in cui lo acquisterò perché poi mi costerà meno, ma questo è un freno all’economia cui mancherà la mia iniziativa di acquisto e, a livello collettivo, se di quel bene caleranno le vendite, nessuno aumenterà la sua produzione e a chiunque converrà rimandare gli investimenti per migliorarne le caratteristiche, per timore che tali investimenti non renderanno nulla.

Se tutti volessero investire ci sarebbe più domanda di capitali e i tassi d’interesse salirebbero. Se i tassi scendono è anche perché nessuno vuole investire o acquistare beni durevoli o peggio: se ci sono aspettative di deflazione farlo oggi significherà pagare più che domani.

IL “RIGGED CAPITALISM” DI MARTIN WOLF

Secondo Martin Wolf, il principale commentatore economico del Financial Times, non si tratta soltanto della fine di un ciclo economico ma è soprattutto colpa di una serie di deviazioni di un capitalismo, nell’accezione più occidentale del termine, oramai deviato e intorpidito, dove le rendite di posizione la fanno da padrone, la diseguaglianza cresce esponenzialmente e la produttività ristagna, anzi decresce. Ecco l’articolo : https://www.ft.com/content/5a8ab27e-d470-11e9-8367-807ebd53ab77

Io sono parzialmente d’accordo con questa lettura della situazione congiunturale, anche se probabilmente si tratta di due concause (il “rigged capitalism” e la fine del ciclo economico espansivo) che oggi spingono il mondo verso un rallentamento della crescita economica ma non a una vera e propria recessione.

 

INTANTO LE ASPETTATIVE SONO AI MINIMI TERMINI…

Un indicatore molto affidabile delle tendenze di fondo dell’economia è l’indice di fiducia degli operatori della Markit (l’indice PMI), diverso peraltro per ciascun comparto industriale. Di seguito riportiamo i dati relativi all’Eurozona che, senza eccezioni, dipingono uno scenario davvero poco rassicurante:


L’indice PMI Composito della Produzione nella zona Euro è a 50.4 (51.9 ad agosto). È il valore minimo da 75 mesi.
L’indice PMI delle Attività Terziarie nella zona Euro è a 52.0 (53.5 ad agosto). È il valore minimo da 8 mesi.
L’indice PMI della Produzione Manifatturiera nella zona Euro è a 46.0 (47.9 ad agosto). È il valore minimo da 81 mesi.

Ancora peggio la pensano gli investitori, le cui aspettative sono effettivamente poco rassicuranti:


…MA QUELLA IN ARRIVO PIÙ CHE UNA RECESSIONE SEMBRA UNA STAGNAZIONE

Ajay Rajadhyaksha, capo economista della Barclays non ha peli sulla lingua: ”stimiamo che l’economia globale crescerà di 50 punti base più lentamente quest’anno rispetto al 2018 ed è improbabile che il 2020 sia migliore…sarà un po’ più debole del 2019 ma non una vera e propria recessione… i servizi in tutto il mondo si stanno ancora espandendo. I mercati del lavoro globali sono in discrete condizioni, anche se la crescita dell’occupazione è rallentata e i consumi dovrebbero continuare a sostenere l’economia mondiale. La mancanza di pressioni sull’inflazione ha consentito alle banche centrali di ruotare rapidamente verso l’allentamento finanziario e questo favorirà i titoli obbligazionari nelle aree del mondo dove i rendimenti sono più alti”.

È da tempo peraltro che i giornali citano un indicatore molto affidabile dell’imminenza di una nuova recessione: l’inversione della curva dei rendimenti. Vale a dire che se i tassi a lungo termine vanno sotto i livelli di quelli a breve termine allora significa che c’è solo una cosa che controbilancia il “premio per l’illiquidità” che un risparmiatore vorrebbe se investe a lungo termine invece che a breve: un’ aspettativa di peggioramento dell’economia e dunque di deflazione.

L’INDAGINE DI ADAM SLATER DI OXFORD ECONOMICS

Adam Slater, economista di Oxford, ci fa notare in un recente articolo che dal 1974 ad oggi questo evento ha anticipato in media di 13 mesi l’imminenza di una recessione in oltre l’80% dei casi , sebbene talvolta ci siano voluti quasi 2 anni dopo l’inversione della curva dei tassi perché si manifestasse l’inflazione.

Il Financial Times di qualche giorno fa ha pubblicato la notizia che Adam Slater ha recentemente messo sotto osservazione altri 6 indicatori economici che potrebbero aiutare a predire una recessione:

  1. la produzione industriale
  2. la valutazione media dei titoli quotati
  3. Il prezzo delle Commodities (materie prime e generi alimentari)
  4. i tassi dei finanziamenti
  5. la disponibilità di credito
  6. i profitti aziendali

Ecco una sintesi dei risultati di tale indagine:

Sebbene il tempo di anticipo con il quale questi indici possono formulare una previsione di recessione possa variare considerevolmente, gli ultimi 4 di essi (cioè la maggior parte) hanno mostrato nei 45 anni passati capacità predittive assolute (cioè hanno fornito un’indicazione di recessione in arrivo prima della sua effettiva manifestazione) nel 64% dei casi.

 

LE IMPRESE RACCOLGONO PIÙ DENARO…

Un segnale inequivocabile del fatto che le maggiori imprese del mondo vedono grigio per il prossimo futuro è che stanno approfittando del momento favorevole per tassi bassi e liquidità abbondante sul mercato dei capitali per mettere fieno in cascina ed emettere a tutto spiano titoli obbligazionari. Ecco un grafico che ci indica il picco di nuove emissioni obbligazionarie cui siamo arrivati in Settembre:

E RIDUCONO I PROFITTI

Anche dal punto di vista dei profitti aziendali stiamo riscontrando le prime avvisaglie di una loro riduzione: negli Stati Uniti d’America le imprese “Blue-Chips” (le maggiori) li hanno già limati in media di uno 0,3% (sul valore delle azioni) nel secondo trimestre, dopo un’ulteriore limatura dello 0,2% nel primo trimestre. E dopo due trimestri consecutivi si potrebbe facilmente parlare di “recessione dei profitti”, che nel grafico di Slater predice in media una recessione con 9 mesi di anticipo.

Se non fosse che oggi come oggi nessuna grande impresa è più soltanto in una giurisdizione fiscale e, come si può leggere dal grafico qui riportato, i profitti marciano piuttosto bene in quelle meno avide di introiti fiscali:

Insomma il lieve calo della redditività delle imprese è soltanto un segnale di allarme, non una vera e propria capitolazione. Certamente se anche nel terzo trimestre (che si chiude a breve) i profitti scenderanno allora la vera questione si sposterà sulla capacità (e volontà) di continuare con gli investimenti da parte delle imprese, che a sua volta dipende molto dall’andamento del commercio internazionale e dalla dinamica dei consumi.

La prudenza attuale non significa però necessariamente l’entrata in recessione dell’economia. Per numerose ragioni la produttività industriale sembra (statisticamente) in calo da quasi 60 anni (come si può vedere dal grafico qui riportato):


E crescono costantemente le diseguaglianze sociali (come si può vedere da quest’altro grafico):


E persino la creazione di nuove iniziative imprenditoriali si riduce :


Eppure la ricchezza globale aumenta, le dimensioni dell’economia mondiale negli ultimi 50 anni si moltiplicano per 8 come si può vedere dal grafico qui sotto riportato:

Del resto sono anni che gli economisti prevedono qualcosa, ogni volta dovendo ricorrere a qualche sotterfugio per spiegare il motivo per il quale si erano sbagliati. Si legga ad esempio questo grafico che riassume le indicazioni del Fondo Monetario Internazionale fino al 2015 :


Scarsa affidabilità dunque, e probabilmente è oggi altrettanto scarsamente affidabile la previsione quasi unanime di imminente recessione.

E le tendenze per l’anno in corso e quello che verrà sono state riviste sì al ribasso, ma per il momento restano (lievemente) positive:


Il mondo dunque, nonostante tutto sembra andare comunque più avanti che indietro, forse soltanto un po’ più lentamente del previsto!

Stefano di Tommaso