L’INDUSTRIA DELL’ACCIAIO IN EUROPA E LO SCANDALO MITTAL

L’infinita telenovela sull’ILVA di Taranto sembra anche la fiera nazionale delle bugie, delle mezze verità e dei fatti nascosti che stanno dietro ad un comparto, quello dell’acciaio, che sembra essere quantomai strategico per una nazione come la nostra che punta a mantenere il suo ruolo di seconda potenza industriale d’Europa, e che ha subìto un duro colpo con l‘azzoppamento del più grande impianto per la produzione di laminati piani del vecchio continente. Cosa succede esattamente a Taranto? E perché questo balletto infinito? “Follow the money” dicono gli inglesi, mentre gli italiani direbbero:”vizi privati e pubbliche virtù”…

 

COSA SUCCEDE ALL’INDUSTRIA DELL’ACCIAIO ?

Per comprendere come mai Mittal minaccia di abbandonare allo Stato italiano lo stabilimento di Taranto, proviamo a comprendere quali sono i motivi che gli fanno denunciare una perdita economica. A prima vista infatti la crisi delle quattro ruote in Germania, l’aumento del prezzo dei minerali ferrosi e il rallentamento della crescita globale non sono sufficienti a spiegare il calo del 2,9% della produzione europea registrato nei primi 9 mesi del 2019.

Da dove arriva allora l’apparente “tempesta perfetta” che sta sconvolgendo il mercato dell’acciaio europeo? Arriva sotto forma di guerra di prezzo dalla Cina e dalla Turchia, con il beneplacito della Commissione Europea, ovviamente!

La Turchia ha raddoppiato le sue esportazioni di acciaio verso l’Unione Europea negli ultimi due anni, incrementandola ulteriormente del 2,2% nei primi 9 mesi del 2019, mentre la Cina smaltisce sotto costo sui mercati esteri la sua produzione in eccesso. Il “sotto costo” di Pechino è per dimensione, il principale tra i fattori che nel 2018 hanno portato le importazioni di acciaio in Europa a crescere del 12% a fronte di un mercato che cresceva di appena il 3,3%.

UNA VERA E PROPRIA GUERRA DEI PREZZI, CON IL BENEPLACITO DELL’U.E.

Un deterioramento -quello del mercato di sbocco dell’acciaio piano- che ha assunto risvolti paradossali quando lo scorso maggio, riporta l’agenzia di informazioni Bloomberg, il suo prezzo in Europa è sceso al di sotto di quello cinese mentre la Commissione Europea ha addirittura favorito questo fenomeno non revocando l’aumento (del 2015) del 5% delle quote di importazioni di acciaio libere da dazi (soltanto lo scorso 1 Ottobre è intervenuta -per modo di dire- riducendolo al 3%). Fatti che invece avrebbero dovuto consigliare molta più prudenza all’esecutivo comunitario.

L’AMERICA HA ALZATO LE TARIFFE, L’EUROPA NO

La ciliegina sulla torta l’ha messa poi l’amministrazione Trump, che a differenza della Commissione Europea è intervenuta pesantemente a sostenere l’industria americana interna dell’acciaio, aumentando del 25% le tariffe non soltanto sulle importazioni di acciaio dalla Cina, ma anche su quelle provenienti dall’UE. Questo ha di fatto tagliato fuori dal mercato americano gli operatori del vecchio continente, lasciando danni minori a quelli cinesi che hanno potuto beneficiare non soltanto del minor costo dell’energia ma anche della svalutazione dello Yuan.

Non per niente l’America ha abbandonato gli accordi sul clima, dal momento che la preservazione dell’ambiente e la lotta ai gas serra hanno un costo notevole per la produzione di energia, che si scarica soprattutto nei confronti dell’industria pesante, che ne è grande consumatore. Un problema che sembra non interessare paesi come Turchia o Cina.

MA LA DOMANDA DI ACCIAIO NEL MONDO CRESCE

Ma come va il mercato dell’acciaio in generale nel mondo? Stranamente bene! Il 2019 dovrebbe chiudersi con una crescita della sua domanda mondiale di quasi il 4%. Trainata sì dalla Cina, ma con un’Europa la cui domanda è rimasta quasi stabile nel 2019 (nonostante il calo del settore automobilistico) e che dovrebbe invece crescere nel 2020.

A livello mondiale, l’acciaio prodotto è in continuo aumento negli ultimi 10 anni. Secondo la World Steel Association, la produzione è infatti passata da 1238 milioni di tonnellate del 2009 a 1816 milioni di tonnellate del 2018. Nel 2000, le tonnellate prodotte a livello mondiale erano circa 850 milioni. L’aumento più consistente è stato quello della Cina, che in 10 anni ha quasi raddoppiato: nel 2009 produceva circa 577 milioni di tonnellate d’acciaio, divenuti 928,2 milioni nel 2018, cioè più della metà della produzione globale. Al secondo posto ci sono India (109,2 milioni) e Giappone (104,3 milioni). L’anno scorso l’Italia era decima in classifica, testa a testa con l’Iran (circa 24,5 milioni di tonnellate d’acciaio prodotte). Quest’anno la produzione nazionale si stima scenderà a 22-23 milioni di tonnellate.


L’Italia è stata dunque sino al 2018 un grande produttore d’acciaio, il decimo al mondo e il secondo in Europa, dopo la Germania. Che è anche il suo principale mercato di destinazione. Ma anche gli altri paesi della UE sono importanti: il 70% dell’acciaio prodotto in Italia viene esportato e il 60% delle esportazioni va verso otto paesi europei. In breve, se il mercato europeo va bene, la domanda di acciaio italiano va bene, e viceversa.

Dunque se l’industria italiana di acciaio primario ha avuto un calo nelle vendite questo è stato dovuto sì alla minor efficienza produttiva degli stabilimenti nazionali (primo fra tutto quello di Taranto) ma anche e principalmente alla guerra sui prezzi scatenata da Cina e Turchia: tra il primo trimestre 2018 e il terzo del 2019 il prezzo dei coils a caldo, quelli prodotti dall’Ilva, è sceso da circa 550 a meno di 400 euro alla tonnellata, ma il costo delle materie prime che servono per produrlo, come il minerale di ferro, non cala, sostenuto dalla domanda cinese.

E LA DOMANDA INTERNA È ELEVATA: L’IMPORT SUPERA L’EXPORT

Ma se guardiamo alla domanda interna, scopriamo un suo qual certo dinamismo: l’Italia è infatti un’importatrice netta di prodotti semifiniti e finiti in acciaio: a fine 2018 le tonnellate esportate dal nostro Paese sono state quasi 18,2 milioni, un numero più basso di quelle importate (20,6 milioni). La crisi dunque, a casa nostra riguarda soltanto le produzioni grezze, quelle dei laminati caldi. I fatti sopra riferiti e l’importanza delle portano a pensare che la crisi dell’acciaio europeo poteva banalmente essere risolta con una parziale chiusura delle importazioni extra-comunitarie, visto che -anche per il resto d’Europa- la domanda interna di acciaio lavorato supera l’offerta.

LE VERE MOTIVAZIONI DI MITTAL

Ma allora perché l’Arcelor Mittal vuole abbandonare Taranto? Secondo gli esperti del settore Arcelor Mittali non se ne andrà mai dall’Italia: innanzitutto perché siamo il secondo mercato manifatturiero in Europa e, poi, per non correre il rischio di lasciare campo libero a un concorrente, magari cinese. Anche tra gli operatori non prevale l’idea di un abbandono da parte del colosso francese bensì quella della ricerca di una razionalizzazione produttiva.

Per comprendere meglio l’atteggiamento della Arcelor Mittal bisogna cercare nella storia personale del suo “patron” (come dicono i francesi). Indiano di origine parsi, Mittal inizia a metà anni 70 quando entra nell’azienda di famiglia che commercializza il rottame che lui ampia alla produzione siderurgica. Approfitta poi della svendita di industrie siderurgiche di ex paesi socialisti tra cui la Karmet Steel dal governo del Kazakistan a sua volta proprietaria di uno dei più grandi stabilimenti siderurgici dell‘ex URSS: quello di Temirtau.

Comprimendo i costi ed esasperando i ritmi produttivi, Mittal riesce a fare prodotti di qualità bassa a prezzi molto concorrenziali: una combinazione adatta alle esigenze dei paesi emergenti, la cui domanda di beni siderurgici nel corso del decennio successivo è destinata a crescere a ritmi rapidissimi. In quello stesso frangente Mittal acquisisce imprese anche in Germania dellEst, Polonia, Repubblica Ceca e Romania, consolidando la sua presenza sui mercati dell‘ex blocco sovietico. L‘acquisto della Karmet Steel rivela i tre aspetti fondamentali del modello Mittal:

1) una gestione delle attività votata alla massimizzazione del profitto nel breve periodo, che garantisce significativi dividendi agli azionisti;

2) solidi rapporti con la comunità finanziaria che trova buone opportunità di investimento;

3) legami disinvolti con la politica, che consentono a Mittal di fare affari in un mercato dove il rapporto fra imprese e governi è stretto, considerato il ruolo strategico della siderurgia in ogni economia nazionale.

La massimizzazione dei profitti nei breve periodo è la chiave per comprendere la manovra di Mittal in corso: in buona parte basata sulla rivendibilità delle quote di emissioni nocive concesse da Italia e UE. ArcelorMittal potrebbe arrivare all’obiettivo di licenziare 4000 persone e, ciò nonostante, realizzare un profitto di 200 milioni di euro. E il paradosso del paradosso è che gli introiti extra derivanti dai tagli alla produzione sarebbero una sorta di premio da parte dell’Ue per aver ridotto le emissioni inquinanti dell’impianto.

LO SCANDALO DELLA RIVENDITA DELLE QUOTE DI EMISSIONI NOCIVE

Nel 2005 infatti l’Unione europea lancio’ il suo sistema di scambio di emissioni Ets (Emissions trading system): in base a questo sistema, le industrie europee più inquinanti, dalle centrali energetiche alle acciaierie, hanno un tetto annuo di emissioni di Co2 da rispettare. Se inquinano di più di quel tetto, le imprese sono costrette ad acquistare quote di emissioni da un apposito mercato. Se inquinano di meno, le quote non utilizzate possono essere rivendute sullo stesso mercato. Bruxelles ha deciso di assegnare ai settori industriali più a rischio la quasi totalità delle quote di emissione (il 90%) a titolo gratuito così le multinazionali del settore hanno realizzato lauti profitti rivendendo le quote gratuite sul mercato Ets. Secondo uno studio di Carbon Market Watch, tra il 2008 e il 2015, le industrie pesanti di 20 Paesi Ue hanno incassato, nel complesso, 25 miliardi di euro grazie alla “monetizzazione” delle quote ricevute a titolo gratuito e non utilizzate.

A metà 2017, la multinazionale vince la gara per l’acquisto dell’acciaieria italiana, la più grande d’Europa. Si tratta di un’acquisizione fortemente strategica per il gruppo, che realizza quasi il 50% dei suoi ricavi globali all’interno del mercato Ue, come si evince dai bilanci.

Tra i valori aggiunti dello stabilimento di Taranto c’è anche quello delle quote di emissioni gratuite assegnate all’ex Ilva. Nel bilancio 2018 di ArcelorMittal, la stessa multinazionale segnala di aver incassato 201 milioni di dollari “relativi ai diritti di emissione di Co2 detenuti dall’Ilva alla data di acquisizione”. D’altro canto, guardando al registro Ets della Commissione europea, si vede come lo stabilimento italiano utilizzi, e non da ora, solo la metà delle quote di emissione ricevute ogni anno. Il resto è tutto guadagno.

Che l’acquisto dell’Ilva abbia fatto bene a questo sotto-business di ArcelorMittal lo si puo’ vedere anche dallo storico dei bilanci. Se al 31 dicembre del 2016, prima dell’acquisizione, la multinazionale quantificava in 420 milioni di dollari il valore delle quote di emissione detenute, al 31 dicembre del 2018 questo valore è schizzato a 1,17 miliardi di dollari. E potrebbe crescere ancora, visto che negli ultimi due anni il prezzo delle quote di emissione è schizzato da 5 dollari a 25

LA “GABOLA” DELLA NORMATIVA EUROPEA

Tra le condizioni vantaggiose della fase 3 dell’Ets (in corso) ce n’è una che riporta al caso dell’ex Ilva di Taranto. “Se un impianto, in un dato anno, riduce fino al 49% la sua produzione, puo’ mantenere tutte le quote inutilizzate e rivendere quelle in eccesso – spiega Agnese Ruggiero di Carbon Market Watch – Se supera quella riduzione, allora le quote assegnate per l’anno successivo saranno ridotte ”. Questa regola è stata a lungo contestata dai critici dell’Ets, perché consentirebbe alle industrie di guadagnare nonostante i tagli alla produzione, che di fatto sono quasi sempre tagli al personale. In altre parole, le quote gratuite, che per le industrie dei settori ‘privilegiati’ rappresentano un aiuto contro la concorrenza sleale dei Paesi terzi e dovrebbero dunque contribuire a evitare i licenziamenti di massa, sono esposte a effetti negativi sui livelli occupazionali. Non a caso, tale norma è stata stralciata dalla fase 4, quella che scatterà nel 2021.

Da qui al 2021, pero’, c’è ancora un anno solare, in cui ArcelorMittal potrebbe mandare a casa quasi 4.000 dipendenti dei circa 10.700 che attualmente conta l’ex Ilva. Si tratterebbe di un taglio di circa il 37% del personale. Se la produzione dovesse diminuire allo stesso tasso, la multinazionale conserverebbe comunque tutte le quote assegnate dallo Stato italiano e non utilizzate. Facendo un raffronto con i ricavi dichiarati dalla stessa ArcelorMittal Italia nel 2018 e le quote assegnate per il 2020, il valore di quelle non usate porterebbe a profitti complessivi per circa 200 milioni di euro, ma con danni enormi (come qui sotto riportato) per il nostro Paese.

Vediamo infatti nei grafici editi da Il Sole 24 Ore quali danni è riuscito a generare il pastrocchio non gestito (nè dalla Commissione Europea nè dal governo italiano) dello stabilimento ILVA di Taranto. Si stima infatti che nei sette anni perduti dell’ILVA, dagli arresti e dal sequestro del 26 luglio 2012, sono andati in fumo circa 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35% cumulato della ricchezza nazionale:

 

Stefano di Tommaso




I BRAND DEL LUSSO VALGONO COSÌ TANTO?

Il settore industriale delle icone della moda e degli accessori di lusso non è mai stato così supervaltato in borsa e continua da qualche mese a far parlare di sé a colpi di annunci sensazionali relativi ad acquisizioni a prezzi da capogiro da parte delle grandi compagnie francesi. Ma c’è davvero tutto questo interesse sul mercato dei capitali alla vigilia di un anno (il prossimo) che rischia di risultare poco entusiasmante per l’economia reale, oppure si tratta di rare eccezioni destinate a non ripetersi? Anticipiamo qui che la risposta nella nostra analisi sembra essere positiva.

 


Il precedente illustre è stata nelle scorse settimane l’acquisizione-lampo del brand Tiffany da parte del gruppo francese LVMH, un colosso che negli anni ha accumulato in portafoglio 57 importanti marchi che vanno dallo champagne alla gioielleria, passando per l’abbigliamento e gli accessori della moda.

Ora è la volta di Moncler, il cui nome è la contrazione di Monestier de Clermont, località francese vicina a Grenoble dove l’azienda è stata fondata nel 1952 (nel 1992 acquisita da Pepper e trasferita in Italia). L’azienda produceva giacche a vento imbottite di più a per gli alpinisti e ha mantenuto fede a quella tradizione sino ad oggi, che il brand è divenuto oramai un dispendioso oggetto di “culto” da parte dei giovanissimi.

 

LA STORIA DI UNA FABBRICA DI GIACCHE A VENTO PER ALPINISTI CHE DIVIENE ICONA DEL LUSSO

La storia di Moncler a partire dal 2003 è associata alla figura di Remo Ruffini (all’epoca direttore creativo dell’azienda) quando egli subentra alla proprietà di Moncler da Finpart (che aveva comperato Pepper Industries) fino a quando il gestore di fondi di private equity americano Carlyle non ne acquisisce il controllo nel 2008, arrivando a quotarla poi in borsa nel 2013 non senza aver prima lasciato il posto di primo azionista nel 2011 al fondo francese Eurazeo (45%) che investe 930 milioni di euro.

Nel 2015 Remo Ruffini sposta la produzione in Moldavia e torna primo azionista di Moncler mantenendo una quota del 32%, mentre il fondo francese Eurazeo vende parte delle sue azioni scendendo al 15,5%, per poi conferire la sua quota a una holding dove entrano altri soci come il fondo sovrano di Singapore Temasek e il presidente di Dufry Torres. Nel marzo scorso entra con il 5% circa il fondo americano Blackrock, consacrando il titolo Moncler tra le icone della moda dei giorni nostri.


LE VALUTAZIONI DA CAPOGIRO

Oggi l’azienda fattura circa un miliardo e mezzo di euro e capitalizza in Borsa circa 10 miliardi di euro con un P/E di 24 volte gli utili prospettici 2020, mentre è stato stimato che l’offerta che potrebbe fare Kering arrivi a circa 33 volte, cioè più o meno un valore complessivo di 15 miliardi di euro (10 volte il fatturato). Un vero e proprio record non soltanto per i brand del lusso ma anche e soprattutto per un’azienda che fabbrica in Moldavia quasi soltanto giacche a vento imbottite!

Tra l’altro la notizia dell’interesse di Kering ha rilanciato verso l’alto (5-10%) le quotazioni di quasi tutti gli operatori del settore, mettendo in luce un fenomeno di enorme apprezzamento dei brand del lusso da parte del mercato dei capitali. Titoli che fino a prima dell’acquisizione di Tiffany erano passati quasi in sordina.

 

I FATTORI CHE SOSTENGONO L’INTERESSE DEGLI INVESTITORI

Ma se oggi tutti vogliono comperare le azioni delle icone del lusso quali sono le motivazioni razionali per arrivare a strapparseli di mano? Nella tabella che segue proviamo a riassumere i fattori che spingono verso l’alto la loro appetibilità (e le relative quotazioni) :

  • Un ottimo andamento delle vendite (a caro prezzo) soprattutto nel sud-est asiatico, dove anche a causa del fattore demografico ci sono milioni di nuovi consumatori con capacità di potere d’acquisto che si affacciano ogni anno alle vetrine dei marchi di fabbrica più rinomati (rimarcando sì ancora una volta la disparità crescente tra le classi più abbienti e quelle meno, ma rassicurando tuttavia i leaders di mercato che anche nei prossimi anni altri giovani consumatori proseguiranno nello shopping del lusso);
  • Un’ottima capacità di generazione di cassa tipica del settore, che in periodi di incertezza come questo appare particolarmente gradita agli investitori;
  • La scarsa necessità di effettuare in continuazione forti investimenti (se non quelli di comunicazione) tipica di un settore “trendy”, che permette perciò ai grandi gruppi -oggi acquisitori seriali dei brand di lusso- di stare relativamente tranquilli circa la possibilità di aggregare le aziende acquisìte riuscendo poi a fare efficienza nei costi comuni e nello sviluppo dei nuovi prodotti senza la prospettiva di dissanguarsi negli investimenti necessari;
  • Il rovescio della medaglia di quanto sopra è l’effettivo vantaggio per i titolari dei maggiori brand globali dell’appartenere a gruppi integrati che mettono a fattor comune grandi capacità di marketing e di diffusione commerciale nell’intero pianeta (cosa che appare invece essere la variabile di gran lunga più critica per tutti gli operatori più piccoli e indipendenti);
  • La capacità di queste aziende di riuscire spesso a interpretare correttamente il linguaggio e le priorità valoriali delle nuove generazioni (millennials, generation X, generation Z) e in particolare di quelle asiatiche. Nel 2018 secondo un recente studio pubblicato da Bain un terzo di tutti i beni di lusso venduti nel mondo sono andati in pasto ai soli giovani consumatori della Cina (un territorio dove i consumi “cospicui” crescono costantemente del 20% l’anno).

SAPER PARLARE ALLE NUOVE GENERAZIONI

In particolare sembra essere stata quest’ultima capacità il più potente “trigger” che ha scatenato l’interesse di Kering (gruppo Pinault) verso la maison dei piumini d’alto prezzo. L’ultima campagna stampa a supporto della nuova collezione 2020 di Moncler è stata infatti tutta incentrata su simboli delle nuove generazioni e su “testimonials” d’eccezione, capaci di attrarre i giovanissimi a spendere le cifre da capogiro richieste per l’abbigliamento marchiato con il gallo bianco rosso e blu. E da Parigi si sono precipitati a Milano!

Non per nulla l’agenzia Reuters ha recentemente definito le azioni delle società appartenenti al settore “lusso” quotate in borsa l’equivalente europeo dei maggiori titoli tecnologici americani (i cosiddetti FAANGs: Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google). Tanto a causa degli elevati moltiplicatori di valore raggiunti in borsa quanto per il forte potere che essi esprimono di influenzare il mercato di sbocco.

LE VALUTAZIONI DEL LUSSO SUPERANO QUELLE TECNOLOGICHE

Nel grafico che segue si può vedere come i multipli dei redditi espressi in borsa dai maggiori titoli del lusso superino di slancio negli ultimi 5 anni non soltanto l’indice di Borsa più diffuso a Wall Street (lo Standard &Poor 500) ma anche, in media, quelli di Apple, Google e Facebook:


E, come si può ben leggere dall’altro grafico qui sotto riportato, le performances di titoli del lusso come Louis Vuitton, Hermes e Kering hanno persino superato di slancio quelle dei maggiori colossi tecnologici al mondo di cui sopra :


Quanto durerà tutto questo? Difficile rispondere, se non con vecchi e sopìti adagi (“del futur non v’è certezza…” eccetera). Anzi, nei miei precedenti articoli esprimo un certo scetticismo per la tenuta a tempo indefinito dei massimi cui si sono spinte le borse, soprattutto se pensiamo che l’economia reale non esprime tutta la salute che le borse vorrebbero trovarvi. La leva principale delle magiche quotazioni cui siamo arrivati è tuttavia ancora e soprattutto l’intervento delle banche centrali, e si può a ragione ritenere che quest’ultimo andrà avanti abbastanza a lungo.

MA NELLE ACQUISIZIONI DEV’ESSERCI UNA FORTE STRATEGIA

Abbiamo visto che gl’investimenti dei grandi leaders del lusso nel mondo hanno spesso un sapore strategico che prescinde dalle quotazioni delle borse: le sinergie che essi possono mettere in campo sono assolutamente reali, così come è solida l’idea di completare il controllo delle catene distributive del lusso nel mondo e resta un concetto assai sensato nel lungo periodo.

Per questi soggetti perciò il valore soggettivo delle loro dispendiosissime acquisizioni che fanno strombazzare i giornali è completamente diverso da quello che può risultare “self standing” per le piccole e medie aziende indipendenti del medesimo settore.

Queste ultime oggi risentono certamente di una tendenza decisamente positiva per tutto il comparto del lusso, ma non è così sicuro che quella tendenza continuerà indefinitamente nel tempo, anzi: tutto fa pensare che buona parte dei limiti di gravità (soprattutto per i “comuni mortali”) sono stati già raggiunti. L’entusiasmo perciò dovrebbe lasciare spazio alla riflessione…

Stefano di Tommaso




LA DEBOLEZZA DEL SISTEMA BANCARIO PONE L’ECONOMIA ITALIANA A RISCHIO

L’economia globale sembra trovare nuova inaspettata vitalità intorno alla fine dell’anno, diradando le probabilità di recessione che sembrava avere la meglio fino ad un mese fa. Ma alla schiarita delle previsioni congiunturali globali fanno da contraltare lo scenario europeo di scarso dinamismo e una serie di motivi di cautela che affliggono le prospettive del nostro Paese. Vediamone le ragioni.

 

LE DEBOLEZZE DELL’EURO-ZONA

Viviamo immersi in un’Europa (almeno quella dell’area Euro) le cui dinamiche economiche appaiono indubbiamente deboli, per vari motivi: dalle necessità di nuovi investimenti per la riconversione industriale di che affliggono soprattutto i paesi più deboli dell’Unione (altri, come la Germania, vi stanno già investendo pesantemente) all’elevato livello dei debiti pubblici (che influenza le politiche di elargizione di liquidità della Banca Centrale Europea costringendola a fare di tutto per mantenere schiacciati verso il basso i tassi di interesse) sino alle relative difficoltà della capitalizzazione delle banche, che costituiscono oggi il vero tallone d’Achille dell’eurozona in generale e dell’Italia in particolare.

Un contesto macroeconomico dunque che fa propendere molti analisti verso aspettative di moderatissima crescita complessiva e, per il nostro Paese, addirittura di vera e propria stagnazione permanente, principalmente a causa del fatto che l’economia nazionale è ancor più dipendente di molti altri Paesi dalla salute delle banche italiane (o comunque di quelle presenti sul territorio) che rappresentano oltre i 3/4 delle fonti nette di finanziamento delle imprese.

LA SALUTE DEL SISTEMA BANCARIO ITALIANO

Accade infatti che l’apprezzamento da parte del mercato dei loro bilanci risulta notoriamente penalizzato dall’enorme quantità di titoli di Stato che le banche hanno in pancia. Ciò vale per tutta Europa ma in Italia rischia di costituire un ulteriore problema per i motivi che vedremo più avanti.

Dunque non soltanto il sistema bancario nazionale appare intrinsecamente debole a causa della sotto-capitalizzazione (viene stimata un‘esigenza complessiva di rinforzi di capitale non inferiore ai 40 miliardi di euro) come per la stagnazione economica in corso, che fa temere una nuova ondata di crediti insoluti e di conseguenza ulteriori problemi di capitale per le banche.

Ma né l’ulteriore stretta sui costi d’esercizio che le banche dovranno presto praticare, né la prospettiva di ulteriori fusioni bancarie lasciano ben sperare per un’espansione del credito che verrà erogato alle imprese. Cosa che finirà per limitare gli investimenti per le riconversioni produttive delle industrie obsolete e lo sviluppo delle nuove iniziative.

IL RAPPORTO WYMAN

Il fardello di costi in eccesso e la probabile scarsa propensione all’erogazione di credito per i mesi a venire non potranno poi che penalizzare -in definitiva- i risultati stessi delle banche (come si può leggere dai tre grafici che seguono tratti da un recente rapporto della Oliver Wyman pubblicato su Il Sole 24 Ore) che già nel 2020 vedranno una riduzione dei margini di intermediazione e che fanno eccessivo affidamento sui ricavi da commissioni: tanto in prospettiva, quanto rispetto alle loro sorelle in Europa.

 

Ma soprattutto non sembra che alcuna misura in supporto del medesimo sistema bancario sia davvero in arrivo da parte del Governo e, in assenza di interventi significativi a sostegno della capitalizzazione delle principali finanziatrici del sistema, alle imprese italiane di qualunque dimensione e tipologia rischia seriamente di mancare l’ossigeno per lo sviluppo.

IL PROBABILE ALLARGAMENTO DEL DEFICIT …

Lo scenario interno al nostro Paese sembra pertanto ulteriormente peggiorativo rispetto al resto dell’Unione, con un deficit della spesa pubblica rispetto alle sue coperture che -rapportato al prodotto interno lordo- viene previsto in allargamento oltre la soglia fatidica del 3% per l’anno a venire, senza peraltro che ciò avvenga in cambio di significativi stimoli fiscali alla crescita economica italiana.

Ecco perciò che tanto le previsioni sul deficit pubblico quanto quelle di scarsa disponibilità di credito da parte delle banche lasciano propendere gli analisti verso una previsione per l’Italia di stagnazione economica conclamata e, di conseguenza, di nuovo pericoloso allargamento dello spread Btp-Bund già nei prossimi mesi invernali.

…PUÒ PROVOCARE UN AMPLIAMENTO DELLO SPREAD BTP-BUND

Ci sono peraltro ragioni tecniche oltre che quelle strutturali appena citate per prevedere una certa debolezza dei corsi dei titoli di Stato italiani nei prossimi mesi: una domanda debole all’ultima asta dei Btp si accompagna infatti all’esigenza di molti istituti di credito di prendere beneficio dei recenti guadagni sui titoli detenuti, per migliorare i propri indici patrimoniali. Ma non solo: il piccolo risveglio dei consumi (in buona parte stimolato dalle misure di questo governo, cui non si accompagna però alcuna previsione di miglioramento dell’andamento dei profitti e della liquidità delle imprese) può stimolare una piccola ripresa dell’inflazione dei prezzi, cosa che, se si avverasse, non gioverebbe alle quotazioni dei nostri titoli di Stato.

IL RISCHIO POLITICO

Rimane infine un qualche rischio politico come ciliegina sulla torta di dubbi e incertezze che abbiamo appena sfornato: lo scenario sfavorevole ai partiti che sostengono il governo in carica per le elezioni regionali in arrivo aggiungerà ulteriore pressione alle chances di sopravvivenza dell’esecutivo, alimentando un clima di incertezza che rischia di lasciare alla porta gli investimenti sulla penisola da parte degli stranieri.

Non vi sono sicurezze al riguardo ma, se fosse, anche questo fattore farebbe propendere verso :

  1. una relativa debolezza delle quotazioni dei nostri titoli di Stato,
  2. ulteriori problemi per le banche che li hanno in pancia e, in definitiva,
  3. un ulteriore freno alla crescita economica interna.

Stefano di Tommaso




IL VENTURE CAPITAL CAMBIA PARADIGMA

Negli anni passati la Silicon Valley è stata la mecca mondiale delle innovazioni tecnologiche. Da lì è partita la rivoluzione digitale che sta dispiegandosi oggi in tutto il resto del mondo, da lì hanno preso piede le migliori tecniche di “venture capital” e da lì sono cresciuti quasi tutti quei mostri di valore e potere in rete che rispondono ai nomi di Amazon, Google, Facebook, eccetera. Oggi però si assiste ad un forte ridimensionamento delle valutazioni delle imprese fortemente tecnologiche, spingendo gli investitori a selezionarle con più attenzione. L’Europa invece è indietro, in ogni senso.

 

IL SUCCESSO DI AMAZON, GOOGLE E FACEBOOK ATTIRA CAPITALI

Il successo al di là di ogni aspettativa di ex- Startup (le nuove imprese non quotate che nascono sulla base di un’idea da sviluppare) come appunto Amazon e Google ha aperto le cateratte di un’enormità di capitali che si sono riversati in misura sempre maggiore sulla Silicon Valley nella speranza di replicare quei successi. Secondo PitchBook solo in America quell’ammontare, che nel 2009 non arrivava a 27 miliardi di dollari, l’anno scorso ha superato la strabiliante quota di 137 miliardi.

Man mano però che le società tecnologiche di maggior successo raggiungevano valutazioni stratosferiche e un flusso crescente di capitali inondava l’intero mondo delle Startup tecnologiche (infatuato anche dal calo verticale dei tassi di interesse che rendeva ben poco attrattiva l’alternativa agli investimenti in capitale di rischio) si sono però allentate fortemente le verifiche sull’effettiva innovatività e difendibilità di ogni business, nonché l’attenzione alla validità intrinseca degli investimenti, alla verifica della qualità della governance e alla capacità delle imprese finanziate di avere la forza per superare davvero gli ostacoli che si frappongono alla crescita.

MA IL VENTURE CAPITAL HA AVUTO TROPPA FIDUCIA

Il mestiere degli investitori di ventura è sempre stato quello di accettare elevati livelli di rischio e scommettere su iniziative fortemente contro-corrente, ma tale sfida avveniva nella speranza che una determinata idea di business potesse arrivare a cambiare il mercato, il comportamento della gente o sinanco il mondo stesso. Fare invece ciò di cui viene accusata oggi Softbank (elargire molto denaro a valutazioni elevate semplicemente sulla base di mere speranze, come nel caso di WeWork: si veda la tabella più sotto riportata) è qualcosa che rischia invece di sconfinare nella prodigalità e nella delusione che ne consegue.

Valutare un’azienda è sempre stato difficile e incerto, ma valutare una Startup lo è ancora di più e, soprattutto, è qualcosa che manca di riscontri oggettivi, a causa del fatto che è proprio l’innovazione ciò che porta con sé dei forti dubbi sull’effettiva possibilità di successo. Se oltre a questo vengono allentate le selezioni delle Startup sulla base della validità tecnologica, dell’ampiezza del mercato potenziale e delle capacità umane e professionali dei loro fondatori, ecco che le delusioni sono destinate a prevalere sui successi.

LE “UNICORN” CHE HANNO DELUSO

Un altro caso da manuale è stato quello di Uber il cui capo: Travis Kalanick, è stato defenestrato per una serie di scandali che ne hanno minato la credibilità. Ma se il motto di Facebook dei primi anni era stato quello di “move fast and break things” (muoversi in fretta e rompere gli schemi), averlo voluto applicare all’impalpabile realtà di Uber ha portato a dissipare risorse senza molto senso e senza alcuna certezza di vedere un futuro ritorno alla profittabilità dell’iniziativa.


IL CASO TESLA INVECE HA FUNZIONATO

Eppure nello stesso periodo (la seconda parte del 2019) un’altra ex-Startup innovativa: Tesla, considerata dalla maggioranza degli analisti un buco nero, grande divoratore di sogni tecnologici e di risparmi, proprio mentre il mercato sembrava averne perduto fiducia, è riuscita invece a dimostrare di poter conseguire un profitto e una generazione di cassa, nonostante sia evidentemente ancora nella fase di messa a punto della formula imprenditoriale. Oggi capitalizza quasi 60 miliardi di dollari e il valore in borsa è quasi raddoppiato dai minimi di giugno.

Qual’è la differenza? Anche in Tesla ci sono state forti cadute di credibilità del suo boss, sfociate addirittura nel rischio di galera, eppure alla fine sembra avercela fatta.


Beh, la differenza a volerla guardare è colossale: da un lato c’è Uber che, come molte altre aggressive Startup basa ogni sua scommessa sulla veloce e dilagante digitalizzazione dell’economia persino nei servizi più elementari come quello del trasporto di cibo o di persone, dall’altro lato c’è un’impresa fondata da un tecnologo che è stato capace di diventare il leader dell’auto elettrica, per di più reinventando la fabbrica per costruirla dalla A alla Z e puntando contemporaneamente sull’altro grande mantra degli ultimi anni: la guida autonoma (assistita dall’intelligenza artificiale).

SELEZIONARE MEGLIO LA QUALITÀ

Sotto ogni profilo le due realtà citate non potrebbero essere più diverse: un’idea semplice che fa oggettivamente fatica a diventare redditizia come quella alla base dell’iniziativa di Uber (e per di più chiaramente orientata alle nuove generazioni, che hanno tuttavia il difetto di essere meno numerose di quelle precedenti), fa fatica a confrontarsi con sistema-azienda totalmente innovativo, con un‘intrinseca complessità tecnologica che risiede nel software che governa tanto la fabbrica quanto i prodotti, e con un mercato potenziale che abbraccia ogni fascia generazionale e ogni zona geografica.

Il problema di Uber sino ad oggi è stato quello di vincere la concorrenza in un mercato quasi privo di barriere all’entrata, mentre quello di Tesla è -al contrario- ancora oggi quello di riuscire a soddisfare il numero di ordini già pervenuti in un mercato dove non esiste una vera competizione e che quindi tiene ancora elevati i prezzi di vendita.

Ci sono insomma vere Startup innovative capaci di portare sul mercato dei prodigi tecnologici e delle innovative formule imprenditoriali, dotate delle migliori competenze e capaci di cambiare il mondo (si pensi alla sfera delle tecnologie per la salute e a tutte le applicazioni dell’intelligenza artificiale) e ci sono app per telefonino come Slack o Tik-Tock che, per quanto abbiano conseguito un vastissimo successo, rischiano di essere cancellate dalla prossima buona idea di qualche adolescente. Investire nelle une a volte è molto più complesso che nelle altre. Ma il venture capital sta imparando a sue spese che i sogni a buon mercato spesso non esistono.


Stefano di Tommaso