TRUMP VINCERÀ DI NUOVO

Nonostante le previsioni di impeachment presidenziale, che però negli ultimi giorni si stanno sgonfiando a vista d’occhio, in questo caso è un modello predittivo di Moody’s a dirlo: Trump siederà per altri 4 anni alla Casa Bianca (e addirittura con una larga maggioranza). E lo fa con tanto di logica stringente e analisi dettagliata delle motivazioni alla base della previsione. Ovviamente se l’economia tiene…

 


Il modello parte da una premessa: che alla fine gli elettori guarderanno più alla loro pancia che ai grandi ideali politici quando si recheranno a votare. E cosa dice quest’anno la loro pancia? Che la disoccupazione è scesa, il reddito è cresciuto, le tasse sono calate e la borsa macina ogni giorno nuovi record. Tutto ciò peraltro alla faccia della Federal Reserve con la quale Trump ha ingaggiato nei mesi scorsi una battaglia mediatica (vinta alla grande) perché la FED stava alzando i tassi invece di abbassarli, “spiazzando” l’economia americana e privandola della sufficiente liquidità per gli investimenti, nel timore di una fiammata inflazionistica che in realtà non c’è mai stata.

E il bello è che questa previsione riguarda uno dei presidenti che ha più diviso il paese tra sostenitori e detrattori, uno dei meno amati dal punto di vista della simpatia e dell’impatto mediatico, per stessa ammissione di Moody’s, sebbene possa in compenso contare su una forte stabilità dell’elettorato che lo sostiene, come si può leggere dal grafico qui sotto riportato:


Certo l’assunzione centrale alla base della previsione di Moody’s Analytics è che l’attesa di una recessione nel 2020 si riveli quantomeno precoce, se non del tutto infondata. E l’esito di tale scommessa è ad oggi tutt’altro che certo: la crescita dell’economia americana ha continuato a rallentare negli ultimi mesi, e la disoccupazione, da tempo ai minimi storici di sempre, potrebbe di conseguenza risalire.

A fare da contraltare a tale possibilità ci sono i profitti delle imprese, che scendono sì, ma tutto sommato si mostrano stabili, e non solo: le riserve di liquidità degli americani all’estero che vengono rimpatriate (l’investimento delle quali aiuta a generare nuovi posti di lavoro) nonché l’enorme immissione di liquidità che la banca centrale americana di è trovata costretta a pompare (ma soltanto all’ultimo momento, perdendoci anche la faccia).

Questo della liquidità è l’altro cardine centrale delle motivazioni che spingono prendere in considerazione la possibilità che la previsione sia stata formulata correttamente: entro la fine dell’anno è possibile che i nuovi interventi della Federal Reserve e delle altre banche centrali nel mondo giochino un ruolo importante non soltanto nel sostenere l’economia reale, ma anche e soprattutto nel sostenere le quotazioni delle borse valori, a partire da quella a stelle e strisce, dal momento che continua ad esercitare sui capitali di tutto il mondo un’attrazione fatale: in ogni angolo del globo infatti una prudente ripartizione degli investimenti sul mercato mobiliare vede, per ogni dollaro investito localmente, una quota di quel dollaro inevitabilmente destinata ad essere spesa a Wall Street.


E se Wall Street continuerà ad essere in forma anche l’umore degli americani si adeguerà, premiando le imprese innovative che vi si recano per trovare capitali per la crescita e alimentando la crescita economica e la trasformazione digitale degli Stati Uniti d’America che, a sua volta, genera lavoro e ricchezza. Tutto questo non può che premiare l’amministrazione attualmente all’opera, cioè quella repubblicana che è riuscita nel risollevare le sorti dell’economia.

Una parte importante dello studio di Moody’s è infatti la propensione degli americani al cambiamento (rispetto all’amministrazione esistente): quando le cose vanno bene il loro pragmatismo li porta ad abbassarla decisamente, e ciò incrementa le chances di vittoria del presidente in carica.

Stefano di Tommaso




BORSE: COSA SUCCEDE DOPO LA SBORNIA ?

In quale direzione si muoveranno le borse di tutto il mondo nei prossimi mesi (dopo cotanto rialzo)? Passata la sbornia dei nuovi massimi (soprattutto americani) negli ultimi giorni le borse sono rimaste in balia dell’incertezza prevalente sul fronte del commercio internazionale. Un’incertezza che non sembra destinata a scomparire in fretta nel particolare momento storico che stiamo vivendo, ma che può premiare le borse europee rispetto a quella americana.

 

LE BORSE EUROPEE

Piazza Affari (che ha guadagnato il 25% da inizio anno) ha accusato nell’ultima settimana la performance peggiore d’Europa (-1,4%). Pesano i timori sulla tenuta del Governo, alle prese con i problemi di Ilva e Alitalia, che hanno fatto passare in secondo piano anche l’ok della Commissione europea alla manovra economica e l’intenzione di rilanciare i P.I.R. Le altre Borse europee nell’ultima settimana hanno perduto anch’esse: Parigi lo 0,78%, Francoforte lo 0,59% mentre Madrid è rimasta piatta e Londra, addirittura è salita dello 0,33%, grazie alla debolezza della sterlina.


Ma la vera domanda è se la tendenza al rialzo dei listini azionari, che ha caratterizzato l’intero 2019, ha ancora spazio per proseguire. Wall Street è stata una delle borse migliori: l’indice SP500 da inizio anno ha guadagnato il 17% mentre il Nasdaq il 22%. Le borse europee sono salite nel 2019 del 18% in media e, come appena segnalato, la borsa italiana svetta tra tutte.

Certamente occorre ricordare che spesso le performance dell’ultimo periodo dipendono da quelle del periodo precedente: così se la borsa italiana nel 2018 era rimasta fortemente sottopesata dagli investitori stranieri ecco che nel 2019 la sua corsa è dipesa molto dal recupero necessario. Lo stesso potrebbe valere per Wall Street: se fino ad oggi è quella che ha corso più di tutte, è possibile che avvenga il contrario nei prossimi mesi.

ANCORA UNA “RIPRESINA” ?

Secondo Morgan Stanley tuttavia lo scenario complessivo è ancora relativamente favorevole: nella seconda parte dell’anno potrebbe manifestarsi nel mondo ancora una “mini-ripresa” economica, trainata dai profitti delle imprese americane, un po’ meno da quelli delle imprese asiatiche e assai poco da quelli delle europee. A favorire tale “ripresina” sarebbero la robusta crescita dei paesi emergenti e il deciso intervento delle banche centrali. Era peraltro già successo prima. Già infatti nel 2016 e poi nel 2018 sembrava che il ciclo economico positivo (che va avanti negli Ù.S.A. dal 2009) fosse giunto al capolinea, lasciando spazio a una recessione globale. L’andamento economico americano -anche grazie alle politiche di Trump- invece ha sorpreso tutti, ribaltando le aspettative prevalenti e riprendendosi ancora uno spazio di crescita. Anche questa volta potrebbe andare così e l’economia americana traina ancora oggi il resto del mondo.

GLI OTTIMISTI

Dunque un mix di fattori potrebbe aiutare le borse a proseguire la loro corsa, a causa dell’espansione della politica monetaria delle banche centrali, del clima politico generale apparentemente rasserenato (guerre commerciali con la Cina comprese), dei programmi di buy-back e di quelli di molte fusioni e acquisizioni. Ma chi potrebbe guadagnarci di più sono le borse europee, dal momento che nel vecchio continente proprio I buy-back e le fusioni e acquisizioni sono a lungo rimasti indietro rispetto agli Stati Uniti d’America. Ovviamente a condizione che la nuova guida della BCE non cambi registro.

Se tutto ciò continuerà allora Europa e Regno Unito attrarranno dall’esterno flussi di investimento più cospicui che altre zone del mondo anche perché fino a ieri avevano entrambe subìto un deflusso importante di capitali.

Quindi le rispettive borse ne potranno trarre beneficio. Sempre secondo Morgan Stanley saranno i titoli bancari e quelli automobilistici (rimasti molto penalizzati sino ad oggi) saranno quelli che potranno beneficiarne di più. I primi perché gli utili crescono, e i secondi anche perché soprattutto i tedeschi stanno mettendo in campo formidabili investimenti per contrastarne la crisi.

I PESSIMISTI

Sull’altro fronte, quello dei pessimisti, si posiziona il più grande “hedge fund” (fondo speculativo) del mondo: Bridgewater Associates il cui capo e fondatore è il carismatico e ascoltatissimo Ray Dalio, ha scommesso un miliardo e mezzo di dollari sulla discesa delle borse entro la prossima primavera (marzo), comperando opzioni “put” (di vendita) per un controvalore “nozionale” a cui si riferiscono di 100 miliardi di dollari in azioni : una delle più grandi scommesse finanziarie della storia.

Il fondo è rimasto famoso per essere stato tra i pochi ad aver predetto la crisi finanziaria del 2008 guadagnando in un colpo solo il 9%, ma da allora ha provato a ripetere la scommessa diverse volte annunciando ribassi che poi non si sono verificati.

Non è perciò una garanzia, ma in effetti la data di marzo 2020 può risultare parecchio significativa a causa del fatto che sarà il momento della verità per i candidati alle elezioni presidenziali del successivo novembre: se la candidatura Trump dovesse scomparire per effetto della procedura di impeachment o peggio la Warren dovesse prevalere per il partito democratico ecco che il mercato dei capitali potrebbe prendersi un bello spavento, con il conseguente rischio di un “sell-off” (svendita) delle borse.


Anche Key Square Capital Management (un altro importante hedge fund) scommette su una crisi finanziaria se la signora Warren vincerà le primarie, anticipando un possibile ribasso del Dollaro (da molti oggi considerato sopravvalutato, come si può vedere dal grafico) oltre che un possibile forte ribasso dei titoli farmaceutici se le elezioni dovessero aggiudicarsele i democratici.

GLI ORIGINALI

Tra le opinioni più originali c’è infine quella del noto commentatore del Financial Times e di Bloomberg John Authers: secondo un suo recente editoriale le borse non stanno più seguendo le notizie che provengono dall’economia reale, bensì soltanto il livello di liquidità dei mercati. Ebbene: gli ultimi dati dell’European banking authority indicano che i depositi a vista presenti nelle banche dell’Eurozona (sommando famiglie e imprese) hanno superato per la prima volta nella storia la soglia dei 10mila miliardi di euro. Nel 2018 i Paesi che appartengono all’Eurozona hanno prodotto un Pil di meno di 12mila miliardi. Dunque più dell’80% del Pil è depositata in banca.


Dunque l’enorme liquidità e le prospettive di ulteriori stimoli monetari da parte delle banche centrali oggi starebbero orientando (al rialzo) le quotazioni delle borse molto più che non l’andamento del prodotto interno lordo o di quello dei profitti aziendali.

E se la liquidità abbonda è sì vero che l’incertezza dei risparmiatori regna sovrana, ma è altrettanto probabile che una parte di essa alla fine si riversi sulle borse (europee soprattutto).

Stefano di Tommaso




L’AUTO ELETTRICA FA BENE ALL’ITALIA?

Il gruppo Volkswagen ha annunciato lo scorso venerdì un eccezionale incremento degli investimenti nella produzione di veicoli ibridi e elettrici, nonostante un impegno precedente già significativo del medesimo lo avesse portato a fornire l’opzione ibrida-elettrica su 60 modelli nei prossimi 10 anni e la motorizzazione esclusivamente elettrica su altri 75 modelli di vetture con un investimento che era previsto in 33 miliardi di euro nei prossimi 4 anni e che ora verrà incrementato di altri 27 miliardi di euro. Di tratta di cifre enormi che attestano l’importanza del cambiamento di paradigma oggi in corso nell’industria automobilistica. Riuscirà l’industria italiana a tenere il passo?

 

L’ANNUNCIO

Così l’obiettivo di VolksWagen di produrre 22 milioni di vetture elettrificate entro il 2028 potrà essere rivisto al rialzo. Ma gli investimenti non riguarderanno soltanto le linee produttive, bensì anche la tecnologia delle batterie e la digitalizzazione dell’intera filiera di produzione, per poter cogliere tutte le economie di scala che discenderanno dall’adozione della nuova tecnologia .

Per comprendere la portata della rivoluzione in corso basti pensare che gli investimenti previsti mirano ad assicurare al medesimo gruppo tedesco una produzione quattro volte superiore in numero rispetto ai veicoli elettrici che saranno sfornati da Tesla alla fine di quest’anno. E l’annuncio di VolksWagen segue a stretto giro proprio quello di Tesla di aprire un suo nuovo stabilimento produttivo a Brandeburgo, vicino a Berlino.

Un altro degli effetti desiderati dell’importante annuncio di VolksWagen è nei confronti delle autorità pubbliche tedesche ed europee, affinché la rete infrastrutturale dì fornitura dell’energia elettrica ai veicoli che saranno immessi in circolazione possa adeguarsi altrettanto velocemente e sgravi fiscali all’acquisto siano concessi ai consumatori.

VolksWagen ha peraltro deciso una sterzata così importante anche alla luce di una verità che, man mano che le vendite di veicoli elettrici vanno a sostituire quelle dei veicoli a combustibile tradizionale, sta rivelandosi in tutta la sua interezza: fabbricare e imporre al grande pubblico un veicolo elettrico è cosa molto più complessa che semplicemente sostituire serbatoio di carburante e motore a scoppio con batterie e motore elettrico.

IL PRECEDENTE DI TESLA

Addirittura prima dell’avvento di Tesla si pensava che nessuno potesse davvero sperare di lanciare una Startup nel settore automobilistico. Ma anche dopo si è visto quali immensi problemi Tesla ha dovuto superare e quanti capitali ha dovuto profondere in investiti ogni genere, prima di arrivare all’utile (e soltanto adesso, nell’ultimo trimestre solare). Dopo di lei molti piccoli imprenditori si sono lanciati nella fabbricazione di auto elettriche ma spesso hanno sottovalutato le difficoltà connesse alla creazione di una valida ed efficiente rete di fornitori, per non citare quelle ancora più importanti nel costuire una filiera di distribuzione e vendita, ivi compresa la necessità di affermare l’affidabilità di un marchio di fabbrica nella mente del consumatore.

Per segnare un profondo solco con la concorrenza ad esempio Tesla ha creato le sue prime “gigafactory” (mega-fabbriche) dove ha cercato di completare l’automazione industriale in ogni fase della produzione, allo scopo di fare spazio all’efficienza dei costi e ha disseminato in tutti i paesi più sviluppati una rete di propri “super chargers” (stazioni di ricarica veloce) il cui utilizzo permette soste molto rapide (500 chilometri di mobilità per un ora di ricarica) e ha incoraggiato alberghi e ristoranti a piazzare colonnine di ricarica che vengono segnalate nella topografia dei punti di ricarica fornita dalla Tesla sui propri schermi.

Forse è per il medesimo motivo che i più grandi produttori automobilistici stanno cercando di raccogliere più velocemente possibile la sfida del passaggio epocale ai veicoli elettrici investendo tutto quello che possono per cambiare le proprie linee produttive. Perché pur dissanguandosi essi potranno godere di un vantaggio competitivo da non sottovalutare: la presenza di una rete capillare di distribuzione e assistenza ovunque nel mondo. BMW ad esempio, che produce quasi solo veicoli di fascia e prezzo più elevate offre ormai l’opzione ibrida o elettrica in tutti i modelli della sua gamma.

I FATTORI ALLA BASE DELLO SVILUPPO DELL’AUTO ELETTRICA

D’altra parte la spinta dell’intera filiera automobilistica a una decisa transizione verso la mobilità elettrica proviene da una molteplicità di fattori, primi fra tutti: A) l’esigenza di migliorare la respirabilità dell’aria negli aggregati urbani e: B) quella di contrastare il calo assai marcato nelle vendite di autovetture tradizionali.

Un ulteriore fattore che ha favorito non poco la transizione in corso è la dilagante digitalizzazione di quasi ogni manufatto industriale oggi prodotto, cosa che ha favorito i sistemi di controllo tanto del funzionamento dei veicoli elettrici quanto della gestione delle loro batterie. Senza uno sviluppo deciso dei sistemi di accumulo dell’elettricità i veicoli di nuova generazione non avrebbero mai visto la luce e senza i vantaggi della rigenerazione di elettricità in fase di frenata la loro efficienza energetica (e dunque la convenienza economica) sarebbe stata inferiore. Oggi poi la tendenza dei veicoli è quella di fabbricarli in modo che restino sempre connessi (tra loro e su internet) per prevenire o segnalare incidenti e per sviluppare meglio la guida autonoma, fattore quest’ultimo che potrà contribuire non poco allo sviluppo dell’industria dell’auto elettrica.

Un ultimo ma non meno importante fattore di sviluppo del fenomeno della mobilità elettrica deriva dal crescente numero di kilowattora prodotti da fonti cosiddette “rinnovabili”, quali l’eolica, la solare e quella dei rifiuti. Si stima che a partire dal 2020 il 50% di tutta la nuova capacità di generazione elettrica nel pianeta arriverà dai soli settori eolico e solare. E anche se questa appare come una goccia nell’oceano di tutta l’energia già oggi prodotta (soprattutto nei paesi emergenti, tra i quali anche Cina e India che totalizzano una parte significativa della popolazione mondiale), la connessione con la mobilità elettrica è intuitiva.

LA MOBILITÀ ELETTRICA PUÒ FAR BENE ALL’ITALIA

Di seguito un grafico attestante lo sviluppo delle vendite di veicoli elettrici o parzialmente elettrici in Italia dal quale si coglie che già nel 2018 quasi il 10% di tutti i veicoli nuovi venduti è stato di questo tipo.


Anche in Italia la transizione verso una mobilità sostenibile e decarbonizzata ha registrato negli ultimi anni una accelerazione significativa. Con uno dei tassi di motorizzazione tra i più elevati in Europa e una ricca filiera di produttori di componenti per le auto, l’Italia può cogliere importanti opportunità di sviluppo in questo settore e beneficiare dei piani europei di investimento previsti nella mobilità sostenibile stimolando così crescita economica e competitività delle proprie imprese. Uno studio del gruppo Ambrosetti dello scorso luglio evidenzia bene quale rilevanza essa può avere per l’economia italiana. Di seguito tre grafici da esso riportati:


Circa la metà delle imprese e del fatturato delle imprese attive nella mobilità elettrica si concentra nel Nord Ovest, ma cresce gradualmente il peso del Centro-Sud. La concentrazione degli operatori della e-Mobility nel Nord Ovest è trainata dalla Lombardia che, da sola, ospita quasi il 40% delle imprese della filiera core e genera il 33% del suo fatturato. La restante parte delle imprese si distribuisce sul territorio nazionale, con un peso più significativo per Emilia- Romagna (13% del totale nazionale), Piemonte (10%), Veneto (9%) e Lazio (7%).


Con riferimento alla distribuzione del fatturato (3,2 miliardi di Euro nel 2017), i due terzi dei ricavi provengono dalla produzione delle componenti a maggior valore aggiunto nell’ambito della mobilità elettrica: sistemi di accumulo, sistemi elettronici e powertrain.


E tra i settori della filiera, le vendite e le attività di utilizzo e post-vendita hanno conosciuto la maggior crescita rispetto al 2013, trainate dall’andamento delle immatricolazioni di veicoli elettrici nell’ultimo biennio e dall’affermazione di nuovi stili di vita e di consumo (si pensi ai servizi di noleggio e di mobilità condivisa elettrica a due e quattro ruote che ormai si sono affermati nei principali centri urbani italiani). Invece è ancora contenuto il tasso di sviluppo delle attività di riciclo e “seconda vita” dei sistemi di accumulo, influenzate dalla ridotta incidenza dei mezzi elettrici sul parco circolante nazionale e dal ciclo di vita utile delle batterie installate sui mezzi.


Certamente non va sottovalutata l’importanza del “sistema-paese” (o dell’integrazione europea) nella speranza che la mobilità elettrica possa aiutare l’industria nazionale, dal momento che anche in questo settore la capacità di tenere sotto controllo i costi e quella di fare ricerca tenderanno inevitabilmente a privilegiare le imprese di maggiori dimensioni. Ma l’Italia può ricavarsi delle nicchie molto interessanti nella mobilità urbana, dove è all’avanguardia, e nell’elettronica di potenza, dove può vantare delle vere eccellenze.

Quanto alla produzione di veicoli tradizionali di media dimensione è evidente che, con l’ultima aggregazione sancita tra FCA e PSA, buona parte della leadership nazionale è perduta. Non resta che sperare che il cambio epocale in corso possa in qualche modo contribuire a rinnovare i fasti della tradizione automobilistica italiana, non foss’altro per il fatto che molti fornitori strategici delle case automobilistiche tedesche risiedono al di qua delle Alpi.

Stefano di Tommaso




DURERÀ IL RALLY DELLE BORSE?

Il bicchiere è mezzo pieno, si era scritto qualche tempo fa, e in effetti le notizie delle ultime settimane sono state particolarmente positive per le borse: a partire dalle iniziative delle banche centrali fino alla distensione in atto tra USA e Cina. A questa positività i mercati finanziari hanno risposto più che bene, infilando l’ennesima serie di nuovi massimi di borsa e lasciando presumere i più che questo fosse soltanto l’aperitivo di un’ondata di rialzi destinata a proseguire. I commenti degli analisti che circolano in queste ore però non sono tutti concordi e nemmeno il nostro: tra ottimisti e pessimisti iniziamo a tendere alla prudenza. Eccone i perché.

 

LA CORSA DEI LISTINI

Come si può chiaramente leggere dal grafico riportato qui sotto per il più noto indice azionario americano, non soltanto Wall Street ha superato di buona misura ogni record precedente rimbalzando di oltre il 30% dai valori toccati un anno fa, ma soprattutto è la linea in alto nel grafico a preoccupare maggiormente, Il Relative Strength Index (RSI), o indice di forza relativa, è fra gli oscillatori (tra 0 e 100) più popolari fra i traders, e indica il livello di ipercomprato/ipervenduto del mercato. Qui si vede che è giunto ben oltre il livello 70, un livello considerato speculativo e dunque non duraturo.


Non troppo diversamente è andata per le borse europee: ecco l’andamento cumulato nell’ultimo anno dei principali titoli ivi quotati aggiornato alla prima settimana di questo Novembre:

L’INSTABILITÀ POLITICA

Uno dei motivi principali per l’ottimismo che si è visto nelle borse è dovuto alla relativa stabilità politica degli Stati Uniti d’America e alle prospettive per il suo presidente di essere rieletto: il quadro da questo punto di vista si è complicato non poco, con la discesa nell’agòne della campagna presidenziale di nuovi personaggi di peso come Michael Bloomberg e con la ripresa, più violenta che mai, delle richieste di “impeachment” (cioè di mozione di sfiducia) verso Donald Trump.

Una situazione che lo ha fatto persino tentennare sulla volontà politica di proseguire e concludere presto il negoziato commerciale con la Cina, nonostante la buona volontà di quest’ultima e il sostanziale riscontro nei fatti di quello che Trump aveva posto come motivazione della strategia di tensione: il suo predecessore aveva in effetti lasciato troppi vantaggi al principale antagonista commerciale degli americani e bisognava riequilibrare la bilancia a favore dell’America.

Nemmeno in Europa la situazione è troppo positiva: la debolezza politica del leader tedesco Angela Merkel lascia intravedere un’avanzata della Francia nel tracciarne la linea politica che rischia di piacere a pochi stati membri dell’Unione, anche perché Macron che gode di scarso consenso nel suo paese lascia intendere una svolta “gollista” e autoritaria. Il nostro governo è caduto poi in un’impasse da non sottovalutare negli ultimi giorni e i leaders dei tre partiti al governo sono tornati ad allontanarsi, lasciando lo “spread” sui titoli di stato tornare a lievitare e fornendo la sensazione di essere di nuovo a termine. Le nuove consultazioni politiche spagnole, data una legge elettorale “all’italiana” non lasciano d’altra parte molto spazio all’ottimismo circa il ritorno alla governabilità della penisola iberica.

L’ECONOMIA REALE NON TORNA A CORRERE

Nemmeno sotto il profilo della produzione manifatturiera il mondo mostra grandi risultati: prosegue il suo calo in Europa come in America mentre continua a crescere in Asia ma a un ritmo che si riduce. La narrativa degli economisti (cui mi associo) relativa al sopravanzare dell’economia digitale quale prima causa del ristagno della produzione industriale indubbiamente mitiga la lettura di questo dato profondamente negativo, ma nemmeno l’ottimismo delle imprese che l’indice PMI di Markit rileva costantemente sembra essere in aumento, anzi: le revisioni al ribasso per le aspettative di crescita economica per il 2020 lasciano intravedere una lettura meno edulcorata di quella ufficiale.

Il rischio di una recessione globale nel 2020 è perciò sempre più concreto e, soprattutto, l’Europa sembra esserci già piombata dentro, principalmente a causa della forte dipendenza dall’industria dell’auto. Le previsioni per il 2020 delle imprese europee sono poi ancora più grigie, a causa del rischio di un tonfo del Dollaro (che renderebbe poco competitive le esportazioni continentali) e della fiacchezza degli ordinativi per l’anno prossimo in arrivo dal continente asiatico.

E SI RIDIMENSIONA L’OTTIMISMO SUI PROFITTI D’IMPRESA

D’altra parte uno dei principali motivi d’ottimsmo delle borse occidentali sino a ieri era sta la decisa resilienza degli utili aziendali, insieme alle aspettative di ulteriori ribassi dei tassi, di altri stimoli fiscali e di nuove facilitazioni monetarie (tutte forse troppo frettolosamente già incorporate nei recenti rialzi).

Ma nelle prossime settimane il livello dei profitti d’impresa, il principale metro per valutare il livello di sostenibilità dei rialzi di borsa, man mano che emergono i risultati del terzo trimestre solare 2019 e si chiariscono le prospettive per quelli dell’ultima parte dell’anno, potrebbero risultare deludenti e non riscontrare l’ottimismo, oggi dilagante.

L’aspettativa per il 2020 a Wall Street è per una crescita dell’8,8% dei profitti aziendali, ma se guardiamo alle ultime rilevazioni riportate quella percentuale potrebbe tranquillamente essere dimezzata.

I MOLTIPLICATORI DI BORSA SONO DIVENTATI “CARI”

Ebbene dunque i profitti stanno sì ancora crescendo, ma probabilmente a un ritmo sempre più fiacco, rendendo di fatto sempre più “care” le azioni dei rispettivi titoli quotati: a Wall Street il prezzo delle azioni, misurato con il moltiplicatore degli utili attesi per il 2019, si attesta in media a oltre 17 volte, mentre la media storica degli ultimi trent’anni è poco sopra le 14 volte gli utili (esattamente dove era piombato poco meno di un anno fa).

Le azioni americane sono dunque più care della loro media storica di circa il 20%, un dato solo in parte attutito dalla forte prevalenza su quel listino dei titoli “tecnologici”, i quali incorporano sempre attese migliori che in altri comparti. Il paragone con lo stesso metro per le azioni europee quotate in borsa è ancora più impietoso: siamo a più 25% di quelle americane, visto che le azioni quotate nel vecchio continente valgono in media un po’ meno di 14 volte gli utili (comunque pur sempre al di sopra della loro media storica, che giace a 13 volte).

In teoria potremmo perciò pensare a un qualche travaso delle risorse degli “asset manager” (i gestori di patrimoni) verso il continente europeo, se non fosse che le prospettive di quest’ultimo -come abbiamo visto più sopra- per il prossimo anno sono ancora peggiori.

E poi se dovessimo guardare soltanto ai moltiplicatori degli utili allora sarebbe il mercato borsistico del Giappone ad essere incoronato, con lo stesso moltiplicatore di prezzo dell’Europa (13,8 volte gli utili per l’esattezza) ma ben al di sotto della sua media storica che arriva vicino alle 20 volte gli utili.

IL VENIR MENO DEI “BUY-BACK” AZIONARI

Come si può leggere dalla tabella qui riportata, in un recente studio di Goldman Sachs si evidenzia il riacquisto di azioni proprie da parte delle imprese è stata di gran lunga la fonte primaria di liquidità negli ultimi 4 anni per il mercato borsistico americano, senza la quale è facile prevedere cosa sarebbe potuto succedere a Wall Street osservando i flussi: le vendite di titoli avrebbero superato di molto gli acquisti.

Nella stessa tabella tuttavia si prevede nel 2020 una riduzione dei budget stanziati dalle imprese americane (da 480 a 470 miliardi di dollari) per il riacquisto delle azioni proprie, rispetto al mostruoso livello toccato quest’anno quando quasi mezzo trilione di dollarisono stati stanziati dalle sole società incluse nell’indice Standard & Poor 500: un importo cioè superiore persino ai loro flussi di cassa netti dell’anno.

Quest’ultimo fattore è chiaramente incrementato molto nell’ultimo decennio, fino a toccare i livelli pre-crisi del 2008, come si può vedere dal grafico:

INFLAZIONE E RENDIMENTI DEI BOND STANNO TORNANDO A SALIRE

Un dato che non può infine non preoccupare è il ritorno verso l’alto del rendimento dei titoli di stato americani a 10 anni, risalito pressoché di colpo di 1/2 punto percentuale e tornato a ridosso del 2% (un livello non visto dallo scorso Agosto) dopo oltre un anno di discesa decisa, come si può vedere dal grafico qui riportato:

 


In teoria una risalita dei rendimenti può risultare fisiologico e compatibile con il migliorare delle aspettative di mercato relative ai nuovi accordi commerciali attesi a breve con la Cina, quale segno di fiducia nell’a crescita economica e nella conseguente possibilità di ripresa dell’inflazione.

Ma per tutta una serie di altri motivi (ad esempio l’inflazione: il dato americano sul costo del lavoro per unità di prodotto segnala nel terzo trimestre 2019 un aumento di un punto percentuale, dal 2.6% del trimestre precedente, al 3.6%) quel che si può pensare è che le vendite di titoli a reddito fisso che hanno determinato tale risalita dei rendimenti possano portare di fatto più instabilità per il mercato borsistico.

Per due buoni motivi: la relativa scarsità di liquidità che -non abbondando- evidentemente si è spostata dall’obbligazionario all’azionario, e il rendere evidentemente “più cari” i titoli azionari in confronto con i primi.

MORALE :

Quanto a lungo possono perciò continuare a crescere le quotazioni dei titoli azionari se al tempo stesso:

  • I fattori macroeconomici non brillano
  • L’instabilità politica cresce
  • I profitti crescono sempre meno
  • I Buy-Back si riducono
  • I moltiplicatori sono troppo alti
  • I tassi e l’inflazione tornano a crescere?

Rispondere a questa domanda potrebbe sembrare facile, sebbene la sensibilità degli investitori professionali dipenda da un tal numero di fattori che nessuna previsione, persino quando presa sui massimi di sempre e alla vigilia di eventi che potrebbero risultare negativi, sia mai davvero scontata.

E soprattutto ciò che può fare davvero la differenza non è tanto l’orientamento generale degli umori di mercato, quanto la tempistica con la quale essi materializzano guadagni e perdite dei titoli. Ovviamente azzeccare quest’ultima è la cosa più difficile.

Motivo per cui le considerazioni appena fatte, che porterebbero ad aprire la mente verso la possibilità che il fine anno in arrivo possa non essere così tranquillo come molti vorrebbero far credere, in realtà siano -per fortuna- soltanto pura teoria e niente più. Da prendere, appunto, come si dice: col “beneficio di inventario”.


Stefano di Tommaso