DIGITALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: UNA RIVOLUZIONE È IN CORSO

Quasi tutte le imprese del mondo hanno compreso ciò che succede sui mercati e stanno cercando in ogni modo di incrementare il loro grado di digitalizzazione, tanto per poter resistere alla competizione sul mercato quanto per riuscire a creare più valore per i loro azionisti. È questo ciò che emerge dall’analisi di una serie di dati statistici sul comportamento delle imprese nei paesi occidentali, ma che vale a maggior ragione per quelle che arrivano dai paesi emergenti.

 

INIZIA LA “TRASFORMAZIONE DIGITALE”

La trasformazione digitale del business che oggi in corso è il risultato della diffusione sempre più capillare di internet (a sua volta sempre più veloce e affidabile) e della combinazione che ne consegue di una serie di tecnologie vecchie e nuove, che vanno dalla maggior diffusione dell’informatica nelle attività tradizionali d’azienda (ivi inclusi i sistemi di calcolo, gli ERP gestionali, il CAD-CAM in supporto alla progettazione e alla produzione e i sistemi di CRM), per passare attraverso l’uso della “nuvola” (il c.d. “Cloud”) che porta efficienza nella gestione dei server aziendali e nell’accessibilità da remoto degli stessi, fino al cosiddetto “back-end” più estremo, che consiste nella business intelligence per ottenere informazioni di mercato, nell’uso di supercomputer per l’analisi dei “big data” e alla loro elaborazione, (soprattutto quando derivano dalla “internet delle cose”), nei sistemi di intelligenza artificiale per le decisioni analitiche, sinanco all’uso della blockchain per l’autenticazione degli imput.

UN PROCESSO NECESSARIO, IRREVERSIBILE E PERVASIVO

La digitalizzazione delle attività delle imprese dunque -financo quelle più tradizionali- sembra un processo necessario, irreversibile e pervasivo. Una vera e propria deriva, quella elettronica, con l’avanzamento della quale bisogna riuscire a fare i conti anche per valutare le aziende, stimare la loro capacità di reggere la concorrenza e quella di crescere senza senza che i costi sopravanzino i ricavi.

Ovviamente è una manna per chi con l’informatica fa affari, mette a punto nuove tecnologie digitali e fornisce servizi oggi sempre più essenziali, ma può essere una manna anche per i business che sono costretti ad adeguarsi, perché la progressiva digitalizzazione libera risorse umane che possono essere dedicate alla qualità, al rapporto con la clientela e alla pianificazione creativa. L’automazione industriale affranca l’uomo dai lavori più umili, fa efficienza nei costi e aiuta a rilevare quelli superflui, accelerando la personalizzazione dei prodotti e i tempi di reazione alle esigenze del mercato. Ma, altrettanto ovviamente, tutto ciò ha più di un costo.

COME CAMBIA IL PANORAMA COMPETITIVO

Quanto più l’azienda diviene “digitalizzata”, tanto più si espone al rischio di attacchi informatici, di furto di informazioni sulle quali ha investito e di minacce di blocco delle attività in caso di guasti. Per questi motivi l’impresa ha bisogno di un maggior numero di esperti (interni ed esterni) e più investimenti nell’infrastruttura digitale, così come nella cybersicurezza per controllare la fuga di informazioni all’esterno e l’autenticità degli imput interni. Quest’ultima è un’altra manna per chi la fornisce ma anche e soprattutto per chi dovrà provvedere alla formazione del personale su nuove tecnologie e cyberspazio.

La nuova ondata “digitale” si stima che possa far sviluppare il prodotto interno lordo globale di 15.000 miliardi di dollari, e generare così molti nuovi posti di lavoro. Ma si stima anche che entro il 2030 il 30% del totale dei “vecchi” posti di lavoro nel mondo sia a rischio e anzi che possa essere perduta quasi la metà dei posti di lavoro meno qualificati nel mondo). Le tecnologie digitali dunque incrementano i margini di profitto, stimolano il riassetto della competizione e muovono l’esigenza di sempre nuovi investimenti, riducendo le barriere geografiche a beneficio della globalizzazione e ottimizzando i costi di trasporto e logistica, ma portano con sè anche tanti problemi.


SI IMPONE LA CRESCITA E UNA MAGGIOR CAPITALIZZAZIONE

Innanzitutto le nuove tecnologie portano i loro benefici soltanto nel tempo e soltanto alle imprese che più danno prova di riuscire ad adattarsi al nuovo “ambiente” digitale, mentre le sospingono inesorabilmente a percorrere la crescita dimensionale, la razionalizzazione delle spese, dei servizi comuni e degli impianti produttivi. Per questo motivo mettono di conseguenza a repentaglio la sopravvivenza delle attività più piccole, più localizzate è più suscettibili di essere sostituite dalla concorrenza che proviene dal resto del mondo, dalla sharing economy (che fornisce gratis montagne di prodotti e servizi in cambio di meta-dati) e dalle imprese capaci di continuare a investire in nuove tecnologie.

Un altro tema non indifferente è quello della comunicazione d‘azienda, della pubblicità, nonché della distribuzione e commercializzazione di prodotti e servizi: con il progresso della digitalizzazione crollano le riviste specializzate, il commercio all’ingrosso, i negozi fisici e le reti di vendita tradizionali, a beneficio dei nuovi canali digitali e dei nuovi media interattivi.

Si sviluppano perciò sempre più i sistemi di profilazione della clientela e di interpretazione induttiva dei suoi gusti, aumenta il dialogo diretto tra produttori e consumatori, tra esperti e utenti, tra fornitori e utilizzatori, crollano persino i precedenti sistemi di marketing, perché le imprese non potranno più continuare a “spingere” le vendite (approccio “push”) ma saranno costrette a provocarne la domanda, l’interesse, la referenza positiva (approccio “pull”) e, per farlo, dovranno raggiungere dimensioni e capacità finanziarie superiori a quelle del passato.

COME CAMBIA LA PERCEZIONE DEL VALORE D’IMPRESA

In poche righe è difficile esplorare la vastità delle conseguenze della digitalizzazione, ma due parole occorre farle circa uno dei temi più caldi in materia di gestione industriale: quello della creazione del valore. Va da sé che nessuna impresa riesce davvero a nuotare controcorrente e che quindi se essa rimane indietro sul fronte digitale allora fronteggia rischi di ogni genere e assomma costi occulti di futura evoluzione forzosa, dal momento che dovrebbe contabilizzare tra le passività potenziali tutti quegli investimenti “digitali” che sarebbero necessari ma ancora non sono stati effettuati. E bisognerebbe dunque tenerne conto nel calcolo della posizione finanziaria netta.

Un’impresa che non “cavalca” l’era digitale si espone inoltre a subire gli attacchi della concorrenza e a quello di vedersi appiattire i margini. Di conseguenza i suoi “moltiplicatori di valore” scendono e il suo merito di credito si riduce. Per tali motivi persino nelle “due diligence” che precedono le cessioni, le quotazioni in borsa, le emissioni di prestiti e ogni altra operazione sul capitale, bisognerà iniziare a tenere conto del grado di digitalizzazione delle imprese per stimarne correttamente il valore le prospettive e la rischiosità.

È L’ALBA DI UNA NUOVA ERA E NON SOLO PER IL BUSINESS

È una vera e propria nuova era industriale quella che si apre con l’ondata di digitalizzazione del business. Essa spazza via i vecchi presupposti per generarne di nuovi e diversi, aprendo i cancelli per la corsa a ulteriori sviluppi delle tecnologie che promettono sì grandi risultati, ma anche molti problemi da risolvere, il sovvertimento dell’ordine costituito, la radicalizzazione delle scelte, la distruzione dei valori delle attività tradizionali, l’appannamento dei brand tradizionali, la minor necessità di punti vendita fisici, degli spazi espositivi e persino delle materie prime perché la produzione industriale fa efficienza, si virtualizza (si pensi ai rotocalchi, o ai biglietti per il trasporto).

Ciò riduce la domanda di beni fisici per varie strade: sviluppandone la durata, efficientandone l’utilizzo e stimolandone la condivisione (si pensi alle auto in città) e incrementa quella di servizi “online”, in tempo reale e personalizzati, a scapito di quelli tradizionali. La rivoluzione digitale dunque non è destinata a restare soltanto nella sfera del business, ma si trasmette inesorabilmente anche negli usi e costumi, nelle abitudini e nelle decisioni di consumo, nelle cure sanitarie e nello stile di vita. Cambiano così le preferenze di spesa, la percezione del lusso e dell’esclusività, le necessità fisiche e quelle psicologiche.

L’intelligenza artificiale è destinata peraltro soltanto a complicare la decrittazione del panorama che si prospetta, permettendo alle nuove tecnologie di influire ancor più profondamente nella vita quotidiana, nella reale capacità di autodeterminazione e nell’incrementare il potere economico di chi può effettuarvi i maggiori investimenti. Inizieremo presto a darla per scontata, così come facciamo oggi quando scattiamo al meglio un fotografia con il telefonino, ma così facendo rischiamo anche di perdere la nostra consapevolezza, la capacità di giudicare in autonomia e di interpretare correttamente l’animo umano.

È UNA RIVOLUZIONE, DA MANEGGIARE PERCIÒ CON CAUTELA

E come tutte le rivoluzioni, quella digitale va necessariamente maneggiata con attenzione anche dal punto di vista politico, effettuando ogni sforzo per comprenderla profondamente e non sottovalutarla.

Il ricambio epocale in corso, che talvolta facciamo persino fatica a identificare e a considerarne le incredibili e numerosissime conseguenze infatti, apre ancora una volta all’umanità gli orizzonti del progresso e dello sviluppo economico, ma si appresta inevitabilmente a lasciare molte vittime sul campo. Non soltanto alcune imprese si spegneranno ed altre compariranno. Si amplia anche il divario tra le generazioni, si generano ostacoli sempre più elevati tra coloro che possono studiare e aggiornarsi e coloro che rimangono intellettualmente arretrati, tra nazioni povere e nazioni ricche, così come tra classi e gruppi sociali, incrementando le disuguaglianze e alimentando i rischi di radicalizzazione politica e di nuovi conflitti regionali.

STORIA E LETTERATURA SONO DI SCARSO AIUTO

La storia dell’uomo da questo punto di vista è relativamente povera di insegnamenti, perché la crescita esponenziale in corso di ricchezze, tecnologie, potere e conoscenza non ha eguali nel passato. Le fratture sociali che essa può determinare non sono mai state così marcate. L’evoluzione degli eventi non è mai stata così rapida. La libertà individuale (quella “vera”, delle coscienze e non quella apparente, di movimento) non è mai stata così in pericolo. Il ciclo di vita dell’essere umano non è mai stato così lungo da porre così pesanti dubbi sulla capacità di sostentamento degli anziani. Le barriere geografiche e fisiche in passato non hanno mai contato così poco.

Tutti noi abbiamo in mente l’incubo cui si caccia l’umanità nello scenario del “Grande Fratello” dipinto da Orwell in “1984”. Il rischio di un futuro fortemente “distopico” si affianca perciò alle prospettive radiose di creazione di ricchezza e di liberazione dalla schiavitù del lavoro fisico. Nessuno è dunque in grado di prevedere a quali scenari andiamo davvero incontro. È come disporre di un veicolo sempre più veloce e potente che accelera costantemente e però non riesce a scrutare più di tanto oltre la nebbiolina che la nostra condizione umana lascia sulla strada verso il futuro.

E non è così scontato per i vertici del business, della società civile e dell’intellighenzia comprenderne le modalità di conduzione, i rischi, le opportunità da non mancare, e i disastri da evitare.

Stefano di Tommaso

 

 




FIAT, ADDIO!

Strabiliante che la politica italiana non abbia nulla da commentare di fronte alla cessione della sovranità sulla più importante impresa nazionale. Per una vicenda molto minore di questa (i cantieri STX di Saint Nazare) il governo d’oltralpe ha opposto invece a Fincantieri una fiera resistenza ottenendo importanti garanzie occupazionali. Da noi nemmeno l’ombra…

 

DIETRO LA VICENDA, UNA LOTTA POLITICA DI COPERTURA

Giulio Sapelli, economista di area cattolica, intervistato dal “Sussidiario” -giustamente- spara a zero su ciò che sta succedendo al Bel Paese. Ora che il governo gialloverde non c’è più, forse nemmeno il suo antidoto: il Conte-bis, serve più, e Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, in un momento in cui l’Unione Europea versa nel caos politico. Cosa significa infatti la lettera di richiesta di chiarimenti sulla manovra economica giunta da Bruxelles se non il tentativo di fornire un “assist” all’amico Renzi per mettere in difficoltà Giuseppe Conte?

I PROBLEMI DI MACRON

Macron è alle prese con molti problemi interni (i “gilet jaunes” non hanno mai smesso davvero di dare battaglia) e ha quindi davanti a sé una campagna elettorale difficilissima. Con il suo partito lacerato, il disegno di Macron è quello trovare una via d’uscita “gollista” che in Francia, quando si solletica l’orgoglio nazionale, funziona benissimo. Ovvero: fare il duro con l’Unione Europea per ottenere qualcosa per il suo paese. E immaginiamoci cosa si appresta a fare con l’Italia ora che sta per arrivare la stagione delle nomine ai vertici degli enti pubblici: Macron vorrà imporre la presenza francese nell’economia italiana. E Renzi sembra essere sceso in campo per questo: aiutare i francesi in questa posizione, sostiene Sapelli.

D’altra parte che la Francia abbia ottenuto dal Conte-bis più di un occhio di riguardo lo si può vedere a proposito della tormentata vicenda Fiat-Chrysler, prima con Renault e ora con Peugeot, di cui il governo di Macron ha il 12,24% e, di fatto, anche l’ultima parola. Clamorosa perciò l’assenza totale della politica nella vicenda: Conte si sta limitando al ruolo di semplice spettatore. Un silenzio, quello espresso di fronte alla perdita finale del gruppo Fiat, che fa più rumore di mille cannoni.

UNA STORIA TRAVAGLIATA DI SOSTEGNI ITALIANI

Fiat era già stata fatta a pezzi negli anni precedenti: stabilimenti delocalizzati in Polonia, Serbia, Turchia, Brasile, Argentina, India e Cina; sedi legali, fiscali e finanziarie spostate in Gran Bretagna, Lussemburgo e in America, e ora, mentre gli azionisti (quasi tutti residenti all’estero da tempo) incassano 5 miliardi e mezzo di euro cash (sostanzialmente esentasse), l’Italia dice addio anche alla proprietà italiana del marchio, nonostante l’oceano di contributi, agevolazioni, incentivi e cassa integrazione straordinaria concessi al gruppo negli anni recenti per tenerlo in piedi.

Ma nemmeno i giornali e le televisioni osano contestare l’accordo, visto quanto il gruppo spende in pubblicità sui media. Ad appena un anno dalla morte di Marchionne che l’aveva salvato, il gruppo rappresentato da John Elkann sembra voler “sbaraccare” dall’Italia, cedendo il controllo alla Francia; il paese che più ha messo le mani sull’industria nazionale negli ultimi anni. E con il tacito assenso di questo governo. Gli schiaffi di Renzi a Conte possono essere interpretati anche come un “altolà”!

UN PREMIO AGLI AZIONISTI IN CAMBIO DEL CONTROLLO

Secondo il “Fatto Quotidiano”è evidente la volontà francese di restare alla guida del gruppo. In cambio Psa riconosce ai soci Fca un premio di maggior valore da 6,7 miliardi rispetto alle quotazioni di Borsa, afferma Philippe Houchois, analista di “Jefferies”. Senza contare, oltre al dividendo straordinario di Fca, le quote di Comau che verranno distribuite ai soci. Senza quel premio invece agli azionisti di Peugeot sarebbe spettato il 60,15% del nuovo gruppo e a quelli di Fca il 39,85%, anziché il 50% a testa. Insomma, i conti della “fusione alla pari” non tornano, scrive Fiorina Capozzi sul “Fatto” e la contropartita in gioco è lo scettro del comando ai francesi.

È RIMASTO POCO MA POTEVA OCCUPARE 130.000 ITALIANI

Con il grosso dei profitti che arrivava oramai soltanto dalla parte americana del gruppo (dove siede l’Amministratore Delegato) che fine faranno, ora, i residui posti di lavoro degli operai degli stabilimenti di Cassino, Melfi e Pomigliano d’Arco? Negli ultimi anni la Fiat ha chiuso Termini Imerese e Rivalta, senza contare l’Alfa Romeo di Arese. Nella storica fabbrica torinese di Mirafiori ormai si produce solo il Suv della Maserati, mentre a Cassino le Alfa (Giulia, Giulietta e Stelvio), a Melfi si assemblano la 500 X e la Jeep Renegade, a Pomigliano la Panda. La Cinquecento è prodotta in Polonia, le grandi Jeep in Brasile e in India, la Tipo in Turchia. Il gruppo oggi ha 130.000 dipendenti, in 119 stabilimenti distribuiti nel mondo.


Negli anni Sessanta, Mirafiori dava invece lavoro a 65.000 operai. Oggi, le poche migliaia di addetti rimasti in Italia si limitano all’unica linea veramente attiva: della Maserati Levante. Quale futuro si prospetta per questi operai non è difficile immaginarlo.

La famiglia Elkann sembra lavarsene le mani visto che a dettare legge saranno i francesi. E, se facciamo eccezione per alcune nicchie del lusso come Ferrari, Maserati, Bugatti e Lamborghini (che appartengono tutte a stranieri, ma che ragionevolmente continueranno ad essere prodotte in Italia), stiamo dando l’addio -senza nemmeno parlarne- all’auto made in Italy, uno dei pochi vessilli dell’industria italiana.

Stefano di Tommaso




ECONOMIA REALE: OTTIMISTI O PESSIMISTI?

È dall’inizio dell’anno che tutti si chiedono quando arriverà la recessione. Ma forse è più corretto retrodatare la questione già a metà del 2016, prima dell’avvento dei cosiddetti “Trumponomics” ovvero degli stimoli fiscali che il Presidente degli Stati Uniti d’America ha introdotto (annunciandoli alla fine del 2017 con valenza dal 2018) provocando una nuova ondata di crescita economica globale e, soprattutto, una impressionante crescita dei profitti aziendali, portando peraltro le borse di tutto il mondo a battere sempre nuovi massimi.

 


LE GUERRE COMMERCIALI

Nello stesso periodo tuttavia lo stesso Presidente ha avviato una serie di serrati confronti/scontri commerciali con la Cina e con l’Europa e la prospettiva di guerre commerciali e di conseguenti Calì del commercio globale hanno alimentato il canto delle cornacchie da parte di buona parte dei “guru” economici e finanziari, portandoli a prevedere disastri e povertà. Nonostante i media di tutto il mondo non scrivano e non raccontino praticamente null’altro, la sostanza delle cose sembra essere parecchio diversa dalla narrazione.

La verità profonda è che le tensioni geo-politiche negli ultimi due-tre anni non sono che diminuite, il commercio mondiale non è nemmeno andato così male come vorrebbero farci credere. Semmai ciò che è letteralmente crollato è la produzione industriale occidentale, e soprattutto quella legata all’industria automobilistica europea, mentre il pendolo dell’economia è rimasto negli ultimi anni fin troppo a lungo in fase espansiva, ma nessuno può negare che esso non potrà restare appeso in eterno ad un estremo. Oscillerà ancora, indipendentemente dalle guerre commerciali e dalle vicende politiche.


I FATTORI CICLICI

I fattori ciclici che determinano l’andamento dell’economia cioè rischiano ancora una volta di prevalere su quelli di natura fondamentale, rendendo ad un certo punto inevitabile il rallentamento economico globale. È sempre stato così e ben difficilmente potremo presto affermare di aver potuto dimenticare la ciclicità dell’andamento delle economie.

Quel che piuttosto occorre notare è anche la forte localizzazione dell’attuale rallentamento della crescita economica, con l’Europa in testa nel mancato rinnovamento dei propri comparti industriali prevalenti e nelle sempre più profonde fratture politiche che l’attraversano, tali da determinarne da un lato la disgregazione (vedi la Brexit ma anche le tendenze separatiste di molte altre nazioni che vogliono recuperare la loro indipendenza dall’eccessiva influenza che hanno Germania e Francia nel governo dell’Unione. Il mix di scarso dinamismo economico e forti tensioni politiche ha fatto dunque del vecchio continente la vera palla al piede dello sviluppo economico globale.


LA CADUTA DEI RENDIMENTI

Ma ciò che più colpisce è la clamorosa discesa dei rendimenti a lungo termine espressi dal mercato dei capitali: una tendenza contro la quale nulla ha potuto nemmeno la più potente delle banche centrali, la Federal Reserve americana che qualche mese fa ha dovuto inchinarvisi, assecondandola e rinunciando a qualsiasi pretesa di “forward guidance”.

Le cause sono numerose, a partire dall’importante rallentamento della velocità di circolazione della moneta, che ha imposto alle autorità monetarie nuove immissioni di liquidità nel sistema prima che questo si bloccasse.

Ma una concausa non meno importante è la gigantesca massa globale di liquidità che cerca collocazioni più tranquille delle borse valori, del private equity e del venture capital, trovandole sempre meno tra i titoli a reddito fisso, i cui corsi sono cresciuti con troppo, portandone in molti casi sotto lo zero i rendimenti.


E un’altra concausa sicuramente rilevante è l’innovazione tecnologica dilagante negli ultimi anni, che peraltro ha direttamente generato la progressiva digitalizzazione delle imprese nonché la sempre più pervadente globalizzazione delle economie, che appaiono ai giorni nostri sempre più interdipendenti è sempre più permeabili agli scambi intercontinentali di merci e servizi. Esse hanno trovato nelle ricadute gestionali delle nuove tecnologie cui sono state forzate a piegarsi, anche l’occasione di drammatici efficientementi nei costi industriali e nella logistica integrata, impedendo con ciò all’inflazione dei prezzi di svilupparsi nonostante la massa di liquidità in circolazione, il calo della disoccupazione e l’incremento dei redditi disponibili.

I PROFITTI AZIENDALI NON SONO DIMINUITI

Anche questo è stato alla base dell’importante crescita degli utili aziendali nel mondo, cosa che ha reso le azioni quotate alle borse valori molto meno “care” di quanto possa far sembrare l’impennata degl’indici azionari, ma soprattutto sono stati i timori di guerre commerciali e di possibili restringimenti alla libera circolazione delle merci a imporre una nuova ondata di investimenti volti a rivedere l’assetto futuro delle cosiddette “supply chain” globali (cioè delle filiere di fornitura industriale) e non è detto che questo fatto non possa generare ulteriori benefici nell’efficienza futura dei fattori produttivi.

Senza dunque arrivare a voler sostenere che le guerre commerciali “fanno bene” all’economia reale, alla luce di tali grandi bradisismi, possiamo però prudentemente affermare che i fattori ciclici, l’inellutabilità dell’innovazione tecnologica e la forzata revisione delle filiere di fornitura industriale sono concause che hanno tutte congiurato per un rallentamento della crescita globale, che personalmente trovo però molto meno “sincrona” di quanto lo sia stata l’accelerazione fino a uno-due anni fa: la Cina ha chiuso il quarto trimestre del 2019 con una nuova riduzione della crescita economica, che pur tuttavia continua a ritmi impensabili per le economie occidentali (6% annuo) e ci sono aspettative che questa possa addirittura riprendere quota nell’ultimo trimestre dell’anno, probabilmente in forte controtendenza rispetto all’Europa e alle Americhe.


L’AMERICA È SEMPRE IN TESTA

Gli U.S.A. in realtà sono molto meno simili al vecchio continente di quanto lo siano al sud-est asiatico, nonostante le apparenze: se non arriverà un vero e proprio terremoto politico con l’impeachment del presidente Trump (ad oggi ancora poco probabile) il dinamismo del suo sistema industriale e, soprattutto, il ritmo sempre più serrato di investimenti nell’innovazione tecnologica possono fare ben sperare che sosterranno ancora a lungo la loro crescita economica e la loro pervasiva presenza nelle economie del resto del mondo.

I mercati finanziari non per niente restano profondamente ottimisti e sono a loro volta una delle cause della migliore performance americana: il loro efficiente e trasparente funzionamento attirano costantemente capitali verso la zona-Dollaro e contribuiscono a sostenere gli investimenti nelle innovazioni tecnologiche.

Questo circolo virtuoso (in parte a spese del resto del mondo, ma con ricadute positive per il progresso umano e dunque non soltanto per gli U.S.A.) non appare destinato a interrompersi domani mattina. Si pensi ad esempio al settore automobilistico in America, che sembra aver gettato alle spalle ogni genere di timore, basato com’è sempre più sulla fornitura di tecnologie per il rimpiazzo dei carburanti fossili e per la guida autonoma e intelligente. Gli U.S.A. stanno insomma facendo soldi proprio dove l’Europa li perde. Ma ciò vale anche per le tecnologie militari, quelle di sicurezza informatica, per le biotecnologie e per le ricerche mediche. È difficile trovare un settore dove gli U.S.A. non siano all’avanguardia e Wall Street non fa che riflettere un mix di imprese e settori industriali che appare sempre più diverso da quello del vecchio continente.

Ecco dunque che ancora una volta il resto del mondo sembra dipendere non poco dalla “locomotiva americana”, soprattutto se una serie di tregue e di accordi con l’ex-Celeste Impero, da anni il vero antagonista economico dell’America, prenderanno il posto dei timori che hanno dominato (a torto) le previsioni nel corso del 2019.

IL BICCHIERE È “MEZZO PIENO”

Se vogliamo rispondere alla domanda iniziale allora, a livello globale dovremmo affermare che il bicchiere è mezzo pieno, insomma, seppure nessuno possa asserire che lo sia del tutto. Molto dipende anche dalle prospettive individuali delle singole nazioni, dei loro sistemi politici ed industriali, e dai fattori demografici e sociali. E certamente quella nostrana ed europea non è delle più rosee.

Stefano di Tommaso




BORSE AL TOP: VALUTAZIONI ESAGERATE?

2019: se da un lato si moltiplicano i segnali di stanchezza del ciclo economico espansivo che ha piacevolmente portato sviluppo economico in tutte le economie mondiali (addirittura l’Eurozona -Germania in testa- sembra esserne già da quest’anno decisamente ai margini, in anticipo rispetto al resto del mondo) dall’altro lato i mercati finanziari continuano a inanellare record di ogni sorta. Non solo i mercati obbligazionari hanno vissuto forse il miglior anno di sempre dal momento che i tassi d’interesse sono scesi a zero, ma anche le borse stanno continuando a segnare nuovi massimi, incuranti delle prospettive calanti e del rischio di deflazione in agguato. La domanda che oggi circola spesso (a questi livelli di borsa le valutazioni sono esagerate?) è allora più che legittima. Eppure la risposta sembra essere un bel “no”: se guardiamo ai multipli del reddito e all’attualizzazione dei flussi di cassa futuri ciò non sembra affatto. Proviamo a scoprirne i perché.

 

UNA CRESCITA ESPONENZIALE

Innanzitutto proviamo a vedere dove si trova l’indice degli indici di borsa: lo Standard & Poor 500 di Wall Street, perché evidentemente traccia un punto di riferimento per tutti gli altri indici. Dello SP500 è reperibile inoltre un numero di anni sufficientemente lungo (oltre 50) per poter fare qualche considerazione di fondo. Ecco il grafico:


Si può chiaramente vedere l’impennata esponenziale dell’indice, seppur con qualche importante scossone tra il 2000 e il 2009, cui è seguita una crescita -appunto- esponenziale, come se il troncone di sinistra del grafico fosse ripreso esattamente da dove si era fermato poco prima della grande sbornia della “new economy” e poi delle cartolarizzazioni, tra il 1998 e il 2008.

Tra il 1954 e il 2019, sebbene non vi siano più state guerre mondiali e catastrofi naturali tali da far regredire il mondo, sono cambiate molte cose, a partire dai livelli inflazione e dei tassi di interesse, ma stranamente i “prezzi” medi delle azioni, se ci si basa sui multipli degli utili, non sono quasi mai cambiati.

MA I MULTIPLI NON SONO QUASI CRESCIUTI

Se nello stesso periodo proviamo a guardare com’è oscillato il principale moltiplicatore di valore utilizzato in borsa (quello dei profitti aziendali: il c.d. “Price/Earnings”) , troviamo una vera sorpresa :il prezzo delle azioni dell’indice medesimo è sempre rimasto a oscillare piuttosto vicino alla media di 16 volte gli utili, con l’unica eccezione di un paio di picchi, nel 1992 e nel 2001.

Ancor più sconvolgente è il fatto che il medesimo indicatore P/E è restato nella media di lungo periodo durante gli anni 2011-2019, cioè nonostante il più deciso calo nei tassi di interesse dell’ultimo secolo! Per essere più precisi: man mano che l’indice negli scorsi 8 anni toccava nuovi massimi, il prezzo medio delle azioni passava dalle 12 volte alle 23 volte gli utili, per poi addirittura ridiscendere sotto la media storica a fine 2018 !

E QUESTO NONOSTANTE I TASSI SIANO SCESI

Ora, è assolutamente intuitivo che, se i tassi di interesse sono percepiti come stabilmente bassi, anche il moltiplicatore degli utili dovrebbe risultare più alto di quando i tassi sono alti. Se infatti vediamo il prezzo delle azioni come una sequenza di utili futuri attualizzati ad un determinato tasso di sconto finanziario, quando quest’ultimo scende la sommatoria degli utili futuri attualizzati dovrebbe risultare maggiore.

E invece no: il prezzo delle azioni dell’indice visto come numero di volte gli utili futuri attesi risulta estremamente conveniente persino oggi che i prezzi delle azioni sono alle stelle, perché evidentemente anche i profitti sono alle stelle, e ciò nonostante i tassi giacciano ai minimi storici dell’intero periodo.


UNA FORTE COMPONENTE DI AZIENDE “DIGITALI” PROMETTE CRESCITE DEGLI UTILI A DOPPIA CIFRA

Volendo scavare ancora di più potremmo chiederci se ci troviamo in un periodo in cui l’elevato livello di profitti attesi per l’anno in corso delle imprese che fanno parte dell’indice non sia forse giudicato poco sostenibile nel medio termine. Questo potrebbe giustificare un limitato moltiplicatore degli utili nella valutazione delle aziende quotate, cosa tanto più probabile quanto sia attesa una recessione prossima ventura.

Ma se guardiamo meglio nemmeno questa è in realtà una prospettiva realistica. Per spiegarlo proviamo a fare una prima considerazione: qual’è la quota di imprese “tecnologiche”molto spesso ex-Startup o comunque legate all’economia digitale tra le imprese che popolano l’indice SP500? Nel riquadro che segue sono riportati i pesi per settore d’appartenenza:


Dove si vede che il peso del solo settore IT rappresenta un quinto del totale. Se ci sommiamo le imprese del settore comunicazioni siamo quasi al 30%. Per non parlare di tantissimi altri colossi come Amazon o Uber che fanno parte dell’indice ma non vengono classificate come imprese IT sebbene esse rappresentino più di tante altre l’economia digitale che poi è anche quella che incorpora le aspettative di crescita più elevate.

Dunque possiamo tranquillamente affermare che nell’indice SP500 esiste una consistente componente ad elevate aspettative di crescita degli utili e che normalmente non vengono valutate dunque soltanto sulla base degli utili previsti nell’esercizio, bensì soprattutto di quelli prospettici.

Sarebbe perciò intuitivo attendersi che il moltiplicatore degli utili (attuali) possa crescere in valore mano mano che il numero di imprese innovative cresce nella popolazione che compone l’indice. E invece non è successo. È successo quasi l’opposto. Ecco per quale motivo è difficile considerare sopravvalutati i prezzi delle azioni dell’indice SP500 nonostante esse abbiano sfondato i massimi di sempre.

I MULTIPLI DELLE VALUTAZIONI NEL MONDO

E bisogna anche aggiungere che, se da un lato di tutte le borse quella di Wall Street è sicuramente quella che incorpora il maggior numero di (e peso) di imprese “digitali”, dall’altro lato è anche quella che mostra i moltiplicatori più elevati, come mostra la dettagliata tabella sotto riportata:


Ed è ovviamente anche più intuitivo soppesare il livello delle valutazioni di borsa nel grafico che segue:


È tempo che sentiamo dire che il livello dei moltiplicatori di valore nel tempo dovrebbe tendere ad allinearsi. Ma come si può vedere siamo lontani da ciò. Anzi secondo molti analisti il livello non elevatissimo dei medesimi a Wall Street unitamente al fatto che quest’ultima resta la borsa più liquida è più trasparente, fa pensare che sarà anche in futuro quella che mostrerà la miglior dinamica.

Stefano di Tommaso