SE LA “CORPORATE AMERICA” ALLUNGA IL PASSO

Se i mercati finanziari corrono al rialzo non è detto che questo significhi che l’economia torni a crescere, anzi. Era scritto da tempo che i mercati avrebbero potuto fare meglio data la scarsità di alternative dove andare ad investire la liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali, la nullità dei rendimenti dei titoli a reddito fisso e il mancato declino dei profitti delle grandi multinazionali americane. Ma in un momento in cui l’euforia regna sovrana, soprattutto oltreoceano, rilasciamo a comprendere cosa succede davvero? L’economia torna a crescere inaspettatamente come nel 2016 oppure quello delle borse che battono tutti i record è solo un fuoco di paglia? E se fosse, le borse sono destinate a crollare o potranno continuare a sostenersi? Per provare a scrutare il prossimo futuro andiamo dunque a vedere qualche dato statistico.

 

L’OTTIMISMO DELLE BORSE

Sicuramente il detonatore dell’ottimismo delle borse è arrivato, ancora una volta, dal presidente americano: è lui ad aver alimentato la speranza che l’escalation delle tariffe, pianificata per il prossimo 15 dicembre, possa oramai considerarsi superata dal buon andamento delle negoziazioni in corso tra America e Cina. E sembra essere lui ad aver “vinto” il lungo braccio di ferro con l’altro capo del Pacifico senza aver concesso quasi nulla all’avversario che avrebbe preteso di continuare con lo squilibrio nei rapporti commerciali che l’amministrazione Obama considerava “normale”.

Sembrava che questo presidente avrebbe scatenato conflitti e recessione economica con il suo pugno fermo e le sue minacce a 360 gradi e invece i fatti stanno facendo venire a galla una diversa realtà: i conflitti nel mondo si sono attenuati, il terrorismo sembra ridursi, la questione mediorientale sembra più sotto controllo di quanto vogliono farci credere i giornalisti e persino le tigri asiatiche, pur dopo aver subìto la spuntatura delle loro unghie, sembrano interessate a collaborare su un percorso di normalizzazione.


Di certezze ovviamente è difficile disporre, ma di ipotesi di moderato ottimismo si è invece riempita la bocca Wall Street, soprattutto quando ha dovuto prendere atto che le imprese americane continuano a marciare verso migliore efficienza e maggiore innovazione e dunque a macinare risultati tangibili nonostante le prospettive di “fine ciclo espansivo” restino piuttosto grigie.

UN ESEMPIO DI EFFICIENZA PER TUTTI: TESLA

Un esempio per tutti ci viene fornito dagli straordinari risultati economici della fabbrica di automobili Tesla: in un settore martoriato dal calo delle vendite e dove il più ottimista intona il “de profundis”, Tesla sta riuscendo a tenere fede al suo percorso di crescita e, al tempo stesso, sta mostrando di poter fare decisi progressi nella direzione della generazione di cassa e dell’efficienza nei costi.

E sono proprio la capacità di generare cassa e di migliorare l’efficienza nei costi i veri “leitmotiv” della salute dell’intero comparto industriale americano: il profondo rinnovamento tecnologico che le imprese americane hanno cavalcato in anticipo sul resto del mondo oggi genera abbondante efficienza e quest’ultima si trasmette ai profitti aziendali!

Dunque persino laddove la produzione industriale si riduca e i consumi dovessero non brillare, il guadagno di efficienza che genera profitti e alimenta a sua volta la disponibilità di denaro per investire in ulteriori innovazioni è qualcosa che rivoluziona le industrie obsolete e fa crescere le quotazioni delle aziende che possono stare alla testa del rinnovamento, guarda caso prevalentemente americane.

IL RINNOVAMENTO TECNOLOGICO FA EFFICIENZA

La “Corporate America” insomma allunga il passo mentre le imprese industriali del resto del mondo fanno fatica a tenere botta. I motivi sono molti: il mercato del lavoro nordamericano è tra i più flessibili e qualificati, il mercato dei capitali abbonda di risorse finanziarie che cercano una collocazione, il sistema fiscale è tra i più favorevoli e contribuisce ad attirare capitali, il sistema giudiziario è snello e imparziale, i vincoli burocratici per investimenti e nuove intraprese sono spesso ridotti all’osso. Esattamente il contrario di quanto avviene in Europa e molto più garantista ed affidabile di ciò che è possibile realizzare nei paesi asiatici.

Sono considerazioni che lasciano presumere che il divario con l’industria europea aumenterà ancora, ma che fanno anche ben sperare circa le sorti dei mercati finanziari e sinanco dell’economia reale. Partiamo da quest’ultima: se, nonostante tutto, il modello industriale americano mostra i suoi muscoli, ecco allora che è possibile sperare che qualcuno nel mondo aguzzi l’inferno e finisca per imitarlo. Generando efficienza e profitti che potranno essere reinvestiti in innovazioni e posti di lavoro.

I MERCATI POTREBBERO SOPRAVVIVERE AD UNA MODERATA RECESSIONE


Ma anche i mercati finanziari potrebbero tranquillamente sopravvivere alle prospettive di una recessione moderata e, soprattutto, localizzata nelle zone meno dinamiche del pianeta (come appunto l’Eurozona oggi).

Certamente i tassi d’interesse non potranno ripartire al rialzo sino a quando non si materializzi qualche tacca d’inflazione dei prezzi e sino a quando non si potrà sperare nella ricrescita dei rendimenti reali (oggi sottozero in Europa e intorno allo zero nel resto del mondo).

Altrettanto certamente le borse continueranno a correre soltanto se i profitti riprenderanno a crescere, dunque soprattutto “laddove” i profitti cresceranno. Ma senza shock esogeni oggi non prevedibili non sembra ipotizzabile nemmeno un crollo dei mercati finanziari, dei rendimenti e dei dividendi. Casomai i conflitti politici potranno alimentare instabilità e incertezza, come per esempio in Italia e in Francia, dove l leadership governativa è sempre più sotto assedio. Ma è difficile immaginare che ciò possa generare dei disastri, sebbene dei rallentamenti invece si.

Le condizioni macroeconomiche invece lasciano pensare che la congiuntura economica possa incupirsi, mano mano che ci avviciniamo alla fatidica scadenza del 2020 (da molti considerato l’anno in cui la recessione globale potrebbe manifestarsi). I segnali statistici restano e, casomai, la stagnazione economica europea non fa che anticiparli. Dunque è difficile pensare di poterla scansare come è successo nel 2016 quando è stato eletto Trump. Quel che si può sperare è che questa volta essa generi ben pochi danni e che rappresenti più una pausa fisiologica che non una vera e propria crisi.

Se ciò si verificasse i mercati finanziari continuerebbero a brindare, seppure con doverose (e forse significative) differenze di performance tra le sponde dei due oceani.

Stefano di Tommaso




ORA TESLA HA SFANGATO

Per tutti i deterattori delle iniziative visionarie di Elon Musk, uno dei più controversi imprenditori dell’automobile dai tempi di Preston Tucker, è una pessima notizia: la sua Tesla Inc. adesso fa utili e genera cassa, dopo ben 16 anni di fatica , investimenti e perdite finanziarie a dir poco da capogiro, colpi di scena sensazionali e un‘incredibile serie di annunci a sorpresa relativi a nuove modalità di produzione, nuovi veicoli, nuove modalità di guida e, a breve, persino nuove modalità di possesso del veicolo.

 

Ora è la volta dell’introduzione dell’intelligenza artificiale nelle automobili e Tesla ha avuto di nuovo il coraggio di fare un importante passo avanti nella tecnologia, ben prima dell’annuncio di risultati economici positivi, effettuando la costosa acquisizione di una società come DeepScale. Fondata da un gruppo di professori dell’Università di California, che ha sviluppato la capacità di inserire in pochissimo spazio e con un trascurabile consumo di energia il funzionamento di un computer basato su reti neurali per l’elaborazione della visione artificiale. Ragione

Ce n’è abbastanza per girarci un film e raccontare la saga di un imprenditore -neanche cinquantenne- che ha saputo evitare di fermarsi persino quando i giornali lo dipingevano come un truffatore e lui stava per finire in galera. Indubbiamente la fortuna aiuta gli audaci ma, dopo 16 anni di detrattori e accuse di bancarotta fraudolenta, è oramai abbastanza chiaro che, se Musk sembra avercela fatta, non è soltanto merito della sua cocciutaggine.

QUALI INGREDIENTI DEL SUO SUCCESSO

Strategia: Tesla ha voluto perseguire un modello di business-per così dire- “olistico”, cioè basato su h ecosistema totalmente differente da quello dei produttori tradizionali, basato su un prodotto radicalmente innovativo e dal costo intrinseco più basso di quello tradizionale;

 

Distribuzione: Tesla ha basato lo sviluppo delle proprie vendite sulla notorietà e la comunicazione, non sulla capillare presenza sul territorio;

Produzione: è qui che forse Tesla ha davvero mostrato la propria capacità di innovare nonché quella (ancora da dimostrare) di fabbricare a costi decisamente più bassi e fare quasi tutto in casa. Sicuramente la Gigafactory del Nevada e l’imminente inaugurazione di quella Cinese hanno creato lo standard di produzione prossimo venturo: totalmente automatizzato e verticalmente integrato. Due qualità oramai nemmeno più perseguite dai produttori tradizionali;
Tecnologia: Tesla ha avuto il coraggio di immaginare il prodotto in una forma e un sistema di funzionamento completamente diversi sino la punto che la gente lo chiede perché è comodo e soprattutto perché è “cool” e quasi mai per coscienza ecologica o per ragioni pratiche. La nuova frontiera della guida autonoma peraltro lo porterà a sostenere modelli di possesso completamente diversi, con l’inaugurazione dei “robo-taxi” e altre modalità di condivisione dell’uso del medesimo, cosa che aprirà le porte al “pay-per-use” che oggi è solo sulla carta e che opporrà una decisa concorrenza al modello di ride-hailing (offri un passaggio) di Uber et similia;

Assistenza : le auto Tesla anche quando sono in circolazione restano costantemente in contatto con la casa madre per poter intervenire in caso di incidente o di mancanza di energia a breve distanza. Tesla ha inoltre promosso la creazione di “punti di ricarica” gratuiti in buona parte dei Paesi Occidentali e nelle principali città del mondo, contribuendo a sfatare il mito della difficoltà di utilizzo pratico dei suoi veicoli.

INDUSTRY DISRUPTION

Con la sua radicale volontà di innovazione la Tesla ha dunque probabilmente sepolto in maniera ostinata e definitiva il precedente oligopolio delle fabbriche di automobili tradizionali, capace di far miseramente fallire qualsiasi tentativo di concorrenza da parte dei nuovi entranti, di respingere buona parte delle nuove tecnologie che avrebbero comportato la necessità per esse di rinnovarsi, di investire pesantemente e di rischiare l’osso del collo.

Oggi non c’è dunque molto da stupirsi se l’industria automobilistica tradizionale boccheggia con le vendite di veicoli nuovi e subisce ancora gli strascichi giudiziari della frode relativa alla misurazione delle emissioni nocive, ed è in pesante arretrato nello sviluppo di risposte di mercato efficaci per tenere botta alla nuova generazione di produttori di veicoli basati su tecnologie alternative, con il serio rischio di non riuscire a riconvertirsi in tempo prima di veder scomparire l’ecosistema che le sorreggeva.

E non c’è nemmeno da stupirsi del fatto che la capitalizzazione di borsa di Tesla sia tornata alle stelle (54 miliardi di dollari) mentre quelle dei colossi del recente passato resti o molto più indietro: da General Motors (36 miliardi di dollari) alla Toyota (24 miliardi di dollari) fino a FiatChrisler (meno di 12 miliardi di dollari) e alla Ford (meno di 9 miliardi di dollari).


Stefano di Tommaso




LA SFIDUCIA ALIMENTA LE PROBABILITÀ DI RECESSIONE GLOBALE

Se i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali riuniti a Washington per al simposio annuale di IMF e WORLD BANK evitano accuratamente di menzionare ogni previsionie di recessione nel mondo (anzi il comunicato ufficiale della scorsa settimana parla di un 2019 nel quale il reddito globale lordo salirà del 3% e di prospettive in miglioramento per il 2020), in privato tuttavia le parole usate nei corridoi da quegli illustri partecipanti sono ben diverse. Vediamo allora quali e, soprattutto, perché.

 

I TIMORI CHE CIRCOLANO

Innanzitutto ci sono i timori di nuove tensioni commerciali: sebbene siano stati sino ad oggi spesso infondati visti gli sviluppi positivi delle relazioni sino-americane, hanno indubbiamente contribuito a ridurre le aspettative di crescita economica.

Poi ci sono i timori (anch’essi poco fondati) legati alle problematiche che può creare la forte espansione in corso del livello di debito globale, cosa che può trasformarsi in una zavorra importante in caso di peggioramento della congiuntura economica internazionale, ma indubbiamente con i tassi d’interesse a zero (o dintorni) può altrettanto realisticamente fare ben pochi danni, se non -appunto- alle aspettative degli investitori e risparmiatori.

Infine c’è l’inequivocabile segnale fornito dal rallentamento (se non dall’arretramento, come per esempio in buona parte d’Europa) degli indici relativi alla produzione industriale, nonostante i servizi e i consumi tengano ancora “botta”. Di seguito un grafico che mostra l’elevata correlazione tra il rendimento dei titoli di stato americani (quelli europei sono scesi guarda caso anche di più) e l’andamento dell’indice ISM relativo alla produzione industriale:


DUNQUE LE PREVISIONI PEGGIORANO

Non è assolutamente una coincidenza se la fiducia generale scende parallelamente ai tassi d’interesse e c’è chi ne conclude (anche pubblicamente) che dunque l’entrata in recessione dell’economia mondiale nel 2020 è oramai cosa certa, come Erik Nielsen, capo economista dell’Unicredit.

Mentre Penelope Goldberg -capo economista della Banca Mondiale- non arriva a tanto, ma lancia al tempo stesso forti perplessità sulla tenuta delle prospettive indicate più sopra in occasione del simposio e allo stesso tempo Gita Gopinath, sua omologa (capo economista) al Fondo Monetario Internazionale si chiede se il rallentamento della produzione industriale possa arrivare a “contaminare” anche l’erogazione di servizi (che sino ad oggi non è calata come la produzione industriale ma che, se arrivasse, allora la frittata sarebbe fatta).

Certo oggi ci troviamo di fronte al maggior abbassamento delle prospettive di crescita economica globale dai tempi della crisi del 2008 -2009 (vedi il grafico con l’accortezza di considerare i dati dei due istogrammi finali a destra in azzurro quali mere ottimistiche previsioni):

QUALI STRUMENTI PER CONTRASTARE IL DECLINO

Se quello appena dipinto è il quadro d’insieme, allora bisognerebbe mettere in campo tutti gli strumenti possibili per contrastare il “declino” in corso. Su questo concordano (per una volta) tutti gli economisti ed i banchieri centrali: ci vorrebbero fior di stimoli di politica fiscale (taglio delle tasse ed espansione della spesa pubblica) e non soltanto stimoli monetari (poco efficaci tanto quanto il debito è divenuto poco pericoloso per lo stesso motivo: con i tassi a zero le banche centrali devono lavorare di fantasia).

Questi agirebbero in maniera molto più diretta per stimolare la ri-crescita ma il problema è che, se i malanni dell’economia globale stanno per diventare un’epidemia, tuttavia l’antidoto al virus della caduta delle aspettative degli operatori (che tutti ammettono che potrebbe risultare più efficace nell’allontanare lo spettro di una recessione globale) consiste al tempo stesso nel compiere quelle manovre che più dipendono dalla volontà (e dal coraggio) della politica: ci vorrebbero cioè degli stimoli di natura fiscale nonché la promozione di quegli investimenti infrastrutturali in arretrato in tutto il mondo e non soltanto nei paesi emergenti. Due categorie di interventi gli stimoli fiscali e la spesa per infrastrutture che andrebbero inesorabilmente a incrementare ancora i debiti pubblici, già arrivati ai massimi di sempre.

L’unica grande economia globale che potrebbe pensare di farlo senza praticamente incorrere affatto nel timore di ritorni di fuoco nelle aspettative sarebbe quella tedesca (con indubbi benefici anche per il resto della zona Euro). Ma quest’ultima si guarda bene persino dal teorizzarlo e -cosa ancor più grave- non percepisce (o non vuole farlo) quanto grande sarebbe in tal modo il proprio ruolo nello scacchiere globale per fungere da locomotiva economica internazionale. E, come si può vedere dal grafico qui accanto, sarebbe anche quella che ne ha più bisogno.

Al tempo stesso in cui queste considerazioni vengono trattate nel simposio di Washington, fiocca un altro dato statistico poco rassicurante che arriva dall’altra parte del mondo: la crescita economica della Cina -pur sempre assai elevata in assoluto: il 6%- è tuttavia la più bassa dal 1992 ad oggi.

MA SONO LE ASPETTATIVE A FARLA DA PADRONA

Ma -come se non bastasse ancora- il colpo di grazia alle aspettative già molto esili di una nuova accelerazione della crescita nel 2020 lo potrebbe dare l’ultima voce che gira insistentemente negli ambienti politici americani: quella che l’amministrazione Trump starebbe preparando una manovra di restringimento dell’accesso di capitali da e per la Cina. Ci sono state peraltro diverse smentite ufficiali in tal senso, in linea con la politica di parziale distensione che l’America vuole esibire nelle ultime settimane, ma il timore, una volta generato, rimane.

Come al solito: di certezze nessuno può parlare, ma di probabilità legate al degenerare delle aspettative senza dubbio sì. Impensabile sopravvalutare l’intelligenza della politica e sperare allegramente che -grazie a quest’ultima- la meteorologia economica volgerà al sereno. In democrazia l’intelligenza della politica resta direttamente collegata a quella dei suoi elettori e, mentre siamo tutti fiduciosi che nel lungo termine essa sarà migliore, nel brevissimo periodo qualche perplessità non può che generarla.

Un filosofo come Bertrand Russel affermava che: “l’intelligenza dev’essere proprio la qualità meglio distribuita al mondo, perché nessuno si lamenta di averne meno degli altri”, ma Nikita Chrušcëv mostrava ancor più realismo quando affermava che: ”gli uomini politici sono uguali dappertutto: essi promettono di costruire un ponte anche dove non c’è un fiume”.

Ecco perché mi associo al coro di chi nutre quelle perplessità.

Stefano di Tommaso




L’ALLARME LANCIATO ALL’ASSEMBLEA DI FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE E BANCA MONDIALE SARÀ ASCOLTATO?

L’assemblea del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale rappresenta una di quelle rare occasioni nell’anno in cui i leaders di tutto il mondo possono confrontarsi, più o meno liberamente, sui grandi temi economici. L’appuntamento stavolta, 75 anni dopo Bretton Woods, e alla vigilia di una nuova possibile recessione globale, potrebbe trovare nuovi slanci verso nuove forme di collaborazione transnazionale. Gli argomenti sul tavolo sono arcinoti, ma lo sono meno i possibili rimedi.

 

IL NUOVO ORDINE MONDIALE RESISTE DA 75 ANNI

Con l’approssimarsi della fine della seconda guerra mondiale, le principali economie del mondo sentirono il bisogno di tornare a promuovere una crescita economica bilanciata atta a creare le basi per la stabilità monetaria globale e per rimediare ai danni della guerra e ai debiti che quest’ultima aveva generato. Ne sortì un un programma ufficiale (curato inizialmente dalla delegazione inglese di John Mainard Keynes), inteso a smussare i problemi dei paesi troppo indebitati con le risorse di quelli che godevano di ampio surplus, ma alla fine la versione finale fu quella americana, che eliminò la previsione di contributi a fondo perduto da versare ai paesi più poveri, lasciando in piedi soltanto la previsione del rifinanziamento dei paesi troppo indebitati.

Questo programma fu presentato ad una conferenza internazionale tenuta a Bretton Woods nel New Hampshire nell’aprile 1944, cui presero parte 44 nazioni e in cui furono approvate le linee guida del nuovo ordine monetario globale con la conseguente dotazione di un “fondo monetario internazionale”, cui seguì la creazione di una “banca mondiale” per finanziare lo sviluppo e il lancio di quel famoso “piano Marshall” che in Italia tutti ricordano per aver finanziato la ricostruzione del Paese.

Quell’ordine globale, con piccole variazioni, ha tenuto da allora per tre quarti di secolo, cercando sempre di trovare un equilibrio tra l’esigenza di stabilità monetaria e quella del finanziamento di progetti infrastrutturali che favorissero lo sviluppo dei paesi più arretrati.

Gli interventi del Fondo Monetario (un po’ meno quelli della Banca Mondiale) negli anni sono stati talvolta ampiamente criticati (e spesso a ragione) dal momento che quasi sempre sono stati condotti in modo autoritario, ambiguo e discutibile, anche se rimane la questione di come sarebbe apparso il mondo oggi ai nostri occhi se tali istituzioni non fossero mai esistite.

IL SUMMIT DEL 2019

Oggi a 75 anni da quei giorni, sta per aprirsi a Washington il summit (18-20 Ottobre) delle 189 nazioni che oggi partecipano a queste due istituzioni. L’economia globale di recente ha attraversato una crisi finanziaria paragonabile soltanto a quella del 1929 e, dopo di essa un decennio di ricrescita più o meno sincronizzata a livello globale, soprattutto negli ultimi tre-quattro anni. Ma oggi molte nuvole nere si addensano all’orizzonte degli eventi (persino in Asia, che fino a ieri sembrava marciare imperterrita verso una crescita senza ostacoli) e perciò questo congresso mondiale al quale parteciperanno i ministeri economici e finanziari di 189 paesi è percepito come particolarmente importante.

La narrativa prevalente degli organi di comunicazione di massa indica tra le esigenze prioritarie cui trovare un rimedio l’esplosione dei debiti pubblici, le guerre commerciali e il controllo dell’inquinamento, ma è soprattutto sulle raccomandazioni che verranno proposte per rimediare a tali problemi che si svilupperà il dibattito, visto che non esiste più una teoria economica prevalentemente accettata che abbia mostrato serie capacità d’interpretazione e previsione degli ultimi eventi.

La congiuntura economica mondiale vede oggi da un lato una timida ripresa dei consumi e un calo generalizzato della disoccupazione, ma dall’altro lato la crisi degli attuali sistemi di previdenza sociale, un serio rallentamento della crescita globale, il declino della produzione e dei margini industriali, nonché un mercato finanziario afflitto da prospettive deludenti e tassi di interesse per buona parte sotto lo zero.

Il nuovo amministratore delegato del Fondo Monetario, la bulgaro-francese Kristalina Georgieva ha fatto notare che mentre soltanto due anni fa la crescita economica nei tre quarti del mondo stava accelerando, oggi quasi il 90% del mondo sta vivendo una decelerazione di quella crescita, arrivata ai minimi da dieci anni a questa parte.

 

I BANCHIERI CENTRALI HANNO TERMINATO LE MUNIZIONI ?

Grandi protagonisti dell’ultimo decennio sono stati indubbiamente i banchieri centrali, i quali hanno concertato tra loro (meglio di quanto abbiamo fatto i rispettivi governi) una serie di interventi atti a profondere liquidità al sistema finanziario, che inizialmente sembravano aver funzionato.

Ma lo “sgocciolamento” di quelle risorse immesse sui mercati finanziari verso l’economia reale non è quasi mai avvenuto, provocando di conseguenza il calo generalizzato dei tassi d’interesse fin sotto il limite dello zero. Oggi nuovi dubbi sorgono circa la possibile efficacia di nuovi interventi di politica monetaria e tutti concordano sulla necessità di pensare anche in altre direzioni affinché nel complesso gli sforzi abbiano effetto.

L’azzeramento (o quasi) dei tassi di interesse ha decisamente depotenziato i rischi connessi all’eccesso di indebitamento che il mondo sta vivendo, ma genera di per sè altri problemi e, in assenza di inflazione, può addirittura favorirne l’opposto, ovvero la deflazione, oltre che privare i detentori di risparmio di una rendita affidabile per la vecchiaia.

Ma soprattutto l’accusa prevalente rivolta ai banchieri centrali (in parte anche a ragione) è quella di aver favorito, con i loro interventi, l’incremento della concentrazione della ricchezza in poche forti mani e, in definitiva, l’incremento delle disuguaglianze sociali. Questo tema è esploso negli ultimi anni e rischia di generare un ulteriore indesiderabile divario tra la politica e l’economia.

LA STAGNAZIONE SECOLARE INCOMBE ?

L’economia globale si trova dunque oggi a fronteggiare una sorta di “buco nero” che assorbe ogni nuovo possibile intervento di politica monetaria, come fa notare l’ex rettore dell’Università di Harvard ed ex ministro del Tesoro americano Larry Summers, autore di un saggio (nel 2013) noto come “teoria della stagnazione secolare“ (la caduta cronica della domanda di beni e servizi) che oggi più che mai sta provando le sue qualità di discernimento.

Il problema principale, secondo Summers, è che la situazione attuale volge verso l’assenza di prospettive positive che rischia di durare molto a lungo, rischiando di incancrenirsi e di rendere inefficace ogni ulteriore iniziativa. Un’interpretazione severa della situazione di “aureo declino” che stiamo vivendo che richiede la necessità di riconoscerne la gravità.

LA RICETTA PROPOSTA: STIMOLARE LA DOMANDA

Senza un radicale ripensamento delle politiche economiche e fiscali insomma non se ne esce. Senza una forte discontinuità e adeguati stimoli alla domanda aggregata le risorse private non saranno mobilitate e quelle pubbliche saranno sprecate. Ogni sforzo perciò, secondo Summers, dovrebbe essere rivolto a risvegliare la domanda di beni e servizi, ignorando ogni altra questione per poter concentrare sufficiente capacità di fuoco in tale direzione.

Per tali motivi andrebbe colta nel mondo (in modo auspicabilmente coordinato) ogni possibilità di ridurre i costi (e le tasse) che affliggono le transazioni tra privati, ogni occasione per stimolare gli investimenti tecnologici nonché l’ampliamento e il rinnovamento delle dotazioni infrastrutturali, i consumi e l’adottamento delle nuove tecnologie. Persino gli investimenti atti a rendere l’economia globale più “verde” possono aiutare ad andare in tale direzione, evitando di cercare di “bilanciare” tali sforzi con altri rivolti alla prevenzione dell’eccessivo indebitamento o al riequilibrio nei rapporti tra parti contrapposte.

Una ricetta forte, dunque, da vera situazione di emergenza in cui ogni nazione dovrebbe imporsi di collaborare superando le divisioni e i dissidi. Una ricetta peraltro non troppo diversa da quella raccomandata da Keynes subito dopo la grande depressione e messa effettivamente in pratica dopo il trattato di Bretton Woods.

Chissà se questa volta l’ingente quantità di forze e cervelli che si daranno appuntamento a Washington riuscirà a far partorire alla montagna il topolino, a trovare cioè un afflato comune per opporsi al rischio immanente di una stagnazione secolare? Anche il tempo, in tali situazioni di emergenza, può risultare prezioso.

 

Stefano di Tommaso