L’EUROPA SULL’ORLO DELLA RECESSIONE

Se quella asiatica ancora corre (vedi i risultati straordinariamente positivi di Cina e Giappone) e quella americana galleggia bene sull’ espansione dei redditi e dei consumi, l’economia europea invece già arranca e, in qualche caso addirittura arretra. È questo il quadro a tinte fosche che emerge dalla lettura degli ultimi dati statistici. Se in Italia siamo arrivati al 5° trimestre consecutivo in cui la variazione congiunturale si attesta intorno allo zero, il Regno Unito ha visto nel secondo trimestre una contrazione dello 0,8% ma c’è anche chi sta peggio -come la Germania- dove l’indice della produzione industriale di Giugno ha segnato un meno 1,5% e quello “Markit”sulla fiducia delle piccole e medie imprese vede un bel 43,2 (ai minimi da 7 anni), con la Francia al 49,7, la Spagna al 48,2 e l’Italia al 48,4 (secondo Markit l’espansione è indicata con un numero sopra al 50, sotto è contrazione).

 


Un po’ in tutto il mondo ci si interroga sulla tempistica di possibile arrivo della prossima recessione economica, ma c’è il rischio che nel Continente Europeo questa sia già arrivata. Rosie Colthorpe di Oxford Economics scrive: “il continuo ribasso evidenziato dai recenti report sull’Eurozona toglie ogni speranza di una ripresa nella seconda metà dell’anno”. Fritz Scharpf, ex direttore del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung, scrive addirittura: in paesi come l’Italia l’unione monetaria non ha comportato solo pesanti costi socioeconomici, ma ha anche avuto «l’effetto di distruggere la legittimità democratica dei governi».

L’IMMOBILISMO EUROPEO PEGGIORA LA SITUAZIONE

In effetti per l’Italia qualsiasi sforamento nel senso di politiche fiscali espansive come -ad esempio- un massiccio piano di investimenti infrastrutturali o il taglio delle aliquote fiscali, sarebbe bersagliato dalla maggioranza degli stati membri dell’Unione che hanno espresso la nuova Commissione Europea. Eppure con le esportazioni al palo e una disoccupazione al 9,8% (in discesa, ma pur sempre quasi al doppio rispetto al 5,8% del 2008) per dare una scossa all’economia nazionale ci vorrebbero stimoli di ogni genere, non l’austerità di fatto imposta da Bruxelles. Tra l’altro la disoccupazione giovanile resta al 28,9% contro una media europea del 16,5%.


In questo senso anche i risultati dell’ultima indagine annuale dell’Area Studi di Mediobanca sui dati di bilancio aggregati delle principali imprese italiane: spiega che le 2.095 società italiane hanno accumulano liquidità e non investono. Nel 2018 gli investimenti sono rimasti congelati (-0,1% sul 2017) e rispetto al 2009 sono scesi in media del 4,7% fino ad oggi. Invece le disponibilità liquide a disposizione delle 2.095 imprese esaminate sono aumentate dell’81,7% dal 2009 e ammonta nel 2018 a 77,2 miliardi di euro, a fronte di investimenti a valori correnti stabili nel decennio e pari nel 2018 a 29,7 miliardi di euro.

L’ECONOMIA TEDESCA STA PEGGIO DI TUTTI

Ma se l’Italia piange, la Germania non ride. Il primo problema dell’economia è senza dubbio la crisi strutturale del comparto industriale automobilistico, cui è legato un gigantesco indotto, ma in realtà è in crisi l’intero sistema tedesco basato sul valore aggiunto delle esportazioni nel settore metalmeccanico. La domanda interna è invece debole e l’avanzo oramai strutturale dei conti pubblici non viene (ancora) trasformato in stimoli fiscali per tenere fede al rigore imposto anche agli altri stati dell’Unione. La Bundesbank prevede peraltro che l’economia teutonica resti in contrazione anche nel secondo trimestre. Cosa che, con il continuo calo della fiducia, indica una più che probabile prossima recessione tedesca.


Nonostante questo i falchi di Berlino sembrano abbastanza decisi a non cambiare strada, pur sapendo che le loro politiche economiche stanno trascinando l’intera eurozona verso il baratro. La Germania è ad esempio il maggior mercato di sbocco del “made in Italy” (il 12,6% delle esportazioni totali) e l’eventuale prosecuzione della stagnazione in atto non potrà non danneggiare la nostra industria.

Né si può troppo sperare questa volta nel nuovo intervento della Banca Centrale Europea di Francoforte, in arrivo per l’autunno perché, con la maggioranza dei titoli a reddito fisso acquistabili sul mercato che ha un rendimento negativo, tanto l’ipotesi di un ulteriore taglio dei tassi (già ampiamente negativi) quanto quello di un nuovo programma di acquisto di titoli sul mercato aperto avrebbe un’infima ricaduta sull’economia reale.

DOVREBBERO RIPARTIRE GLI INVESTIMENTI PUBBLICI

La verità è che -semplicemente- se le pubbliche amministrazioni non investono, neanche i privati investono. E conseguentemente la grande liquidità in circolazione rimane inutilizzata e incapace di generare a sua volta un reddito. Se questo è il problema è anche inutile l’immissione di nuova liquidità della BCE che servirebbe soltanto a rendere i tassi d’interesse ancora più negativi, dissanguando i risparmiatori che invece si aspettano di ottenere un rendimento.

Occorre perciò ribaltare il paradigma industriale che è valso sino a ieri: gli stati membri devono convertirsi a spendere (soprattutto quelli del nord Europa con forte surplus delle partite correnti) e investire sistematicamente, per immettere denaro in circolazione e al tempo stesso far schiacciare l’acceleratore agli investimenti dei privati.

All’Europa servirebbero soprattutto politiche fiscali espansive, magari accoppiate con politiche monetarie che ne supportano l’esborso : ad esempio il cosiddetto “helicopter money” o la sottoscrizione di emissioni di bond europei finalizzate alla copertura di importanti opere infrastrutturali. Sarebbe il miglior modo di far tornare le popolazioni del vecchio continente a credere all’importanza dell’Unione, e per riscattare il grigio destino cui sembra tendere l’economia o infine, magari, permettere una miglior qualità dell’accoglienza all’immigrazione (oggi di fatto priva di strutture per gestirla e indirizzarla).

Stefano di Tommaso




SELL-OFF ?

Dopo una settimana di pesanti ribassi dei titoli azionari (dal 3 al 6%) l’indice Standard & Poor’s 500 della borsa americana (la più liquida e influente di tutte) è ancora più alto del 17% del suo livello a inizio 2019. Niente male se consideriamo gli allarmi che le cornacchie di tutto il mondo stanno lanciando dalle principali testate giornalistiche!

 


Il punto è che le attuali quotazioni di Wall Street implicano una capitalizzazione di borsa delle aziende che fanno parte dell’indice pari a 16,7 volte i loro utili attesi nel 2019, che risulta pari a un rendimento lordo del 6% sul capitale investito sull’anno in corso, pur sempre da due a tre volte il rendimento dei titoli obbligazionari americani.

MA I PROFITTI CORRONO…

Se vogliamo chiederci perché dunque Wall Street non è crollata dopo le delusioni dovute al ritardo con il quale si muovono le banche centrali e dopo il rilancio delle tariffe doganali di Donald Trump conseguenti alle promesse non mantenute dalla Cina, ecco le due principali risposte:

1) i profitti delle principali società quotate sono decisamente elevati e implicano elevati rendimenti dei titoli azionari rispetto a quelli (veramente bassi) dei titoli obbligazionari;

2) i dati macroeconomici globali restano complessivamente positivi e addirittura persino il commercio internazionale non accenna a flettere più di tanto.

I motivi dell’ascesa dei margini aziendali non risiedono soltanto nelle buone condizioni della domanda di beni e servizi ma anche e soprattutto nelle efficienze apportate dall’automazione industriale, dalla digitalizzazione dei processi produttivi, dalla razionalizzazione dei costi generali, logistici e distributivi e infine dalle sinergie derivanti tanto dalle accresciute dimensioni aziendali quanto dalle fusioni e acquisizioni.

…E LE SUPERVALUTAZIONI DI BORSA ALLORA SI GIUSTIFICANO

Non sono infine indifferenti la diminuzione generale della tassazione degli utili d’impresa, nonché il bassissimo livello dei tassi d’interesse e di conseguenza l’accresciuto valore attuale netto dei flussi di cassa futuri che le medesime genereranno in futuro, fattori entrambi essenziali per valutare correttamente l’apparente supervalutazione delle azioni quotate.


Tale (quasi) ovvia considerazione è tuttavia anche il maggior cruccio degli investitori in queste giornate che precedono il prossimo Ferragosto nonché la principale causa degli alti e bassi vissuti nelle ultime giornate: gli utili attesi per fine 2019 saranno davvero all’altezza delle aspettative?


La domanda è lecita innanzitutto perché lo sapremo soltanto a Marzo/Aprile 2020 e poi perché la tendenza al rialzo dei profitti aziendali è pur sempre tutta da confermare alla luce dell’acuirsi del conflitto commerciale in corso tra America e Cina e della possibile “guerra delle valute” che rischia di scatenarsi di conseguenza (si veda un mio recente articolo che ne preconizzava il pericolo).

L’ultima preoccupante risposta della Cina ai dazi imposti dagli U.S.A. è stata infatti la svalutazione della sua divisa di cambio (lo Yuan) oltre il limite psicologico delle 7 volte un Dollaro americano che fino a ieri aveva tenuto sempre.

L’INDICE DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE

Ma soprattutto è tutta da confermare anche alla luce di un altro fattore che sembra avere imboccato la via del ribasso e che può far temere gli Investitori ben più della guerra degli annunci tra America e Cina: il ribasso oramai cronico della produzione industriale, che lascia temere la fine dell’attuale ciclo di espansione dell’economia mondiale e l’arrivo di una nuova recessione.

Il grafico che segue ne mostra l’andamento attraverso quello dell’indice globale più accreditato:


Ovviamente la produzione industriale non è tutto: la digitalizzazione dell’economia globale e la necessità di riciclare e allungare la vita dei beni prodotti (onde ridurre gli effetti ambientali) portano a produrre meno oggetti e a sostituirli con servizi e informazioni “immateriali” (si pensi per esempio al crollo delle vendite della carta stampata, dei CD, DVD e dei giocattoli, sostituiti da medesimi “prodotti” forniti però in via digitale).

Dunque se la produzione industriale scende, invece i Prodotti Interni Lordi salgono ancora nel mondo, ma fino a quando? Storicamente il ribasso dell’andamento della produzione industriale ha sempre preceduto quello dell’economia reale. E tutte le volte che si prelude ad un’inversione dell’andamento economico globale le borse valori flettono, in risposta al calo delle aspettative.

IL GIOCO DELLE ASPETTATIVE

La guerra dei nervi in corso tra America e Cina determina forti incertezze tra gli Investitori e ciò che li scuote è proprio il gioco di aspettative: cosa succederà nei prossimi mesi?

Dopo dieci anni e più di ripresa economica le premesse per una contrazione dell’andamento economico ci sono tutte, ma esistono molti altri fattori che fanno esitare a emettere giudizi affrettati: innanzitutto il fatto che sono oramai quasi tre anni (già da prima dell’elezione di Trump) che le cornacchie del “mainstream” (il concerto internazionale delle maggiori testate di giornali e telegiornali) intonano il “de profundis” dell’economia globale senza prenderci.

Ma poi non soltanto i profitti aziendali hanno sino ad oggi proseguito la loro corsa. L’occupazione globale ha continuato a crescere e sono in miglioramento anche i consumi e gli indici che rilevano la fiducia degli operatori. Non esattamente uno scenario apocalittico! Nessun ciclo economico dura in eterno e -si sa- persino gli orologi fermi forniscono l’ora esatta un paio di volte al giorno. Ma questo non significa che la loro osservazione risulti di qualche utilità.

È PRESTO PER GRIDARE L’ALLARME

Per questi motivi è forse ancora presto per suonare le campane a morto per le borse valori e soprattutto è poco lecito attendersi il loro crollo. È più logico guardare alla storia recente che, per fare un paragone meteorologico, ha sempre visto l’arrivo di qualche temporale estivo che le scuote, soprattutto quando, in assenza di molti operatori che se ne stanno in ferie, la speculazione prova ad assestare qualche colpo basso.


Ma ovviamente l’ondata speculativa che ha investito le borse valori di tutto il mondo deve far riflettere proprio sulle caratteristiche di liquidità e profittabilità delle imprese i cui titoli sono oggetto di selezione da parte degli investitori: mano mano che lo scenario si fa incerto si innalza il volo verso la qualità dei titoli prescelti: (per fare un paragone “nautico”) maggiore è quest’ultima, meglio si può evitare di imbarcare acqua durante la prossima buriana.

Stefano di Tommaso




I NUOVI PARADIGMI DELL’ECONOMIA CHE GOVERNI E BANCHE CENTRALI DOVREBBERO FARE PROPRI PER NON DELUDERE

È stato spesso affermato che il capitalismo sia un ecosistema per sua natura basato sull’evoluzione della specie. Se un operatore di mercato o un’importante istituzione risulta incapace (o si rifiuta) di cavalcare le tendenze di fondo dei mercati, allora perde di credibilità o viene rigettato dai propri interlocutori. In tal caso l’ecosistema nel suo complesso trova sempre il modo di aggirare l’ostacolo che si interpone alla propria evoluzione e procede, passando oltre.

 

LE RAGIONI DELLA DELUSIONE DEI MERCATI FINAZIARI

Questo è probabile sia ciò che sta accadendo in queste ore nei mercati finanziari dopo che le banche centrali sembrano aver fallito nell’interpretare correttamente i tempi che stiamo vivendo, nell’interpretazione dell’evoluzione del cambiamento di paradigma in atto, reagendo alle tendenze di mercato alla vecchia maniera, e per questo motivo restando puntualmente indietro, fino a perdere di autorevolezza.

Questo è probabilmente ciò che sta accadendo (delusione) sui mercati finanziari all’indomani della mancanza di indicazioni fortemente decisive da parte della Federal Reserve Bank of America sulla propria capacità di fornire ai mercati indicazioni sufficientemente rassicuranti. Mentre appare sempre più evidente che la tendenza del mercato a generare le condizioni per tassi di interesse progressivamente sempre più bassi (se non addirittura negativi) prosegue oramai da un decennio e non sembra potersi fermare presto.

IL RIBASSO DEI TASSI DI INTERESSE È DESTINATO A PERDURARE

È possibile che in seguito qualcuno dimostrerà che il mercato si sbagliava. Che non è possibile che la tendenza in corso vada avanti indefinitamente e che presto l’evoluzione tecnologica farà tornare a crescere i tassi d’interesse in funzione di una domanda di capitali che supererà l’offerta. Ma al momento non è ancora questo il caso e nessuno L mondo appare così autorevole da riuscire a contrapporsi alla tendenza in atto. Dunque risulta esercizio inutile la perscrutazione dell’orizzonte degli eventi da parte delle banche centrali in attesa che ritornino le condizioni per un rialzo del tassi di interesse. L’attuale tendenza al ribasso sembra infatti destinata a perdurare: vediamone i perché.


I tassi d’interesse sono per loro natura il prezzo che deriva dalla contrapposizione tra domanda e offerta di capitali. Le banche centrali non riuscirebbero a contrastare le tendenze di fondo delle oscillazioni che ne derivano nemmeno se si impuntassero fino a smettere di fornire al sistema l’incremento di base monetaria di cui esso ha necessità. Contrastarne l’esigenza significherebbe soltanto generare un danno al sistema economico globale stesso, che poi finirebbe per trovare altri percorsi per generare nuova massa monetaria, magari attraverso la diffusione di criptovalute e dei nuovi sistemi di pagamento digitali, aggirando sempre di più le banche, che possono controllare soltanto quelli tradizionali.


I MODELLI ECONOMICI DEL PASSATO NON APPAIONO PIÙ IDONEI

E se il sistema economico globale è in grado di dotarsi -in un modo o nell’altro- di una più ampia base monetaria riuscendo ad aggirare il sistema bancario, non è detto che l’allocazione di quei capitali in eccesso sul mercato possa poi però trovare ancora sufficiente riscontro nella domanda di capitali da parte degli operatori economici. Ecco che in tal caso i tassi di interesse tendono ad andare sotto lo zero anche perché la digitalizzazione dell’economia sembra avere la caratteristica di essere per sua natura deflazionistica. Cioè mano mano che l’economia digitale si diffonde, che genera e moltiplica ricchezze, al tempo stesso comprime costi e margini della produzione di beni e servizi, e dunque ne riduce i prezzi, riuscendo a moltiplicarne l’offerta.

Sono oramai alcuni anni che gli economisti si interrogano sul momento di possibile inversione dell’attuale ciclo di espansione economica. Purtroppo però gli strumenti di osservazione di cui loro sono dotati appaiono per la maggior parte fortemente arretrati e dunque incapaci di riuscire a interpretare correttamente gli scenari attuali, che sembrano avere caratteristiche profondamente diverse da quelli del passato: la ripresa in atto da un decennio in America e da un quinquennio in Europa è stata assai debole ma proprio per questo motivo sembra poter perdurare ancora a lungo.

Di conseguenza l’inflazione dei prezzi non risale, nonostante crescano i salari medi. Innanzitutto perché le statistiche ufficiali riportano soltanto una parte della realtà in divenire e le abitudini/esigenze nella gente sembrano cambiare così profondamente da generare bisogni molto più ampi e diversificati (per esempio: quelli di maggiori e diverse cure sanitarie) rispetto alla crescita dei salari, generando nel complesso un effetto di “povertà percepita” che contribuisce a sospingere al ribasso la domanda dei beni e servizi tradizionali. Ma poi anche l’offerta di beni e servizi a sua volta si modifica, a causa della possibilità di alcuni di essi di venire automatizzati, mentre si articola anche in altre direzioni dove invece la domanda (soprattutto quella delle nuove competenze) cresce più dell’offerta. Entrambe le tendenze hanno effetti deflazionistici sui panieri di beni di tipo tradizionale.

I NUOVI PARADIGMI DELL’ECONOMIA

I risultati pratici di queste marco tendenze costituiscono nuovi paradigmi che in molti casi sono destinati a perdurare nel tempo. Eccone qualcuno:

  1. Se la crescita economica registrata dalle statistiche appare insufficiente a soddisfare la crescente e diversificata esigenza di risorse nel portafoglio del consumatore medio, ecco allora che quest’ultimo percepisce un “effetto-povertà” che si riflette nell’economia con una discesa dei prezzi di molti beni e servizi e di conseguenza anche dei tassi d’interesse. Perché lo scenario deflazionistico si inverta non è dunque sufficiente che il prodotto interno lordo registri una crescita, ma è probabilmente necessario che esso cresca più di quanto crescono le esigenze complessive del consumatore medio e che dunque quest’ultimo percepisca, al contrario, un “effetto-ricchezza”, al momento assente. Effetto che lo porterà a incrementare la sua domanda di beni e servizi più di quanto ne cresca l’offerta.
  2. La politica monetaria appare sempre più evidente che di per sé non è più sufficiente ad imprimere un’accelerazione nell’andamento dell’economia, dal momento che buona parte delle risorse i esse nel sistema sembrano rimanere catturate dagli intermediari finanziari e “sgocciolando” più a valle nell’economia reale molto meno di quanto si potrebbe prevedere. Bisognerebbe invece adottare al contempo anche politiche espansive di tipo fiscale (riduzione delle tasse o nuove spese pubbliche infrastrutturali, piuttosto che il cosiddetto “helicopter-money”) per arrivare a far crescere la domanda di beni e servizi più di quanto ne cresca l’offerta e più di quanto cresca la diversificazione delle esigenze complessive del consumatore medio, generando quell’ ”effetto-ricchezza” già citato. Ma poiché le leve di politica fiscale restano in mani diverse da quelle di chi manovra le politiche monetarie e hanno pesanti risvolti ideologici nonché di interessi di parte, ecco che la loro attivazione appare molto più problematica da realizzare (soprattutto in Europa).
  3. La discesa del livello assoluto dei tassi nominali di interesse (e soprattutto il quasi azzeramento di quelli reali) fa inoltre crescere più che proporzionalmente il valore attuale netto dei flussi di cassa attesi, e cioè di tutte quelle attività finanziarie in grado di generare flussi di cassa positivi (o aspettative degli stessi per il futuro). In altre parole cresce il valore intrinseco dei titoli azionari quotati nei mercati regolamentati (le borse valori) per il solo fatto che i tassi scendono. Tale tendenza ha anche profondi effetti di ineguaglianza sociale, dal momento che ne beneficiano direttamente soltanto i detentori di capitale, mentre cresce meno che proporzionalmente o peggio si riduce) la remunerazione del lavoro, soprattutto di quei lavori semplici di cui c’è sempre meno bisogno a causa dell’automazione. L’intervento delle politiche previdenziali e di “welfare” per creare un cuscinetto che ne ammortizza gli effetti sociali è però quasi sempre fatto in deficit perché le entrate fiscali salgono meno che proporzionalmente alla crescita di redditi e consumi a causa dell’esigenza di riduzione delle tasse. Così crescono i debiti pubblici.
  4. La combinazione perversa dell’effetto dei tassi d’interesse che scendono (e dunque dei minori o nulli rendimenti dei risparmi accumulati per la pensione o per i consumi futuri), della minore capacità di risparmiare dovuta a quell’effetto-povertà che deriva dalla moltiplicazione delle esigenze del consumatore nonché della necessità di investire tempo e risorse in continui aggiornamenti delle competenze (sempre più necessari ai lavoratori di qualunque settore e livello) porta peraltro a spostare perennemente in avanti l’orizzonte del ritiro effettivo dall’attività lavorativa, generando anche in questo senso nuove istanze sociali, che i politici del passato non sono stati in grado di cogliere e che quelli di nuova generazione rischiano facilmente di deludere promettendo più di quanto riusciranno a realizzare davvero.

L’effetto finale di questi nuovi paradigmi può risultare fortemente “distopico” qualora i medesimi non verranno seriamente analizzati e correttamente interpretati dalla classe dirigente globale. Ma d’altro canto la considerazione del fatto che tutto quanto sopra descritto in fondo sta avvenendo solo perché il progresso è riuscito a prevalere sullo “status quo ante” e la società umana ha fatto importanti passi in avanti, lascia ben sperare che si trovino presto anche le risorse -e la necessaria consapevolezza- per sostenere nel tempo ed equilibrare lo sviluppo economico delle nazioni così come per gestirne correttamente le istanze sociali.

LE BANCHE CENTRALI HANNO SBAGLIATO

D’altra parte le banche centrali dalla metà dello scorso anno in poi hanno chiaramente mostrato di essersi sbagliate, promettendo ulteriori rialzi dei tassi di interesse e restrizioni delle politiche monetarie proprio nel momento in cui l’economia mondiale mostrava evidenti segni di rallentamento e importanti esigenze di cambiamento, accelerando così la caduta dei risultati di taluni importanti settori industriali come quello manifatturiero in generale e quello automobilistico in particolare.

L’errore è stato grave e avrebbe potuto esserlo ancor di più se da più parti non si fosse gridato l’allarme. Senza quell’errore macroscopico ci saremmo forse risparmiati lo svarione di fine anno delle borse valori e quel reflusso dei capitali sul mercato monetario che ha portato tensioni nei cambi valute e accentuato la discesa attuale dei tassi d’interesse. Ma proprio il fatto che oggi tutto ciò è più chiaro porta a far ben sperare per il futuro delle borse e dei mercati finanziari in senso lato e lascia supporre che i banchieri centrali, pur senza riconoscerlo apertamente, ne terranno conto di qui in avanti.

L’ORIZZONTE SEMBRA SERENO

Un’ultima tendenza è sempre più netta nell’ultimo decennio ed è quella alla progressiva riduzione della volatilità dei mercati finanziari nel loro complesso, anche a causa della sempre maggior correlazione degli stessi e della sempre maggiore possibilità per i risparmiatori di allocare le proprie risorse finanziarie in modo più diversificato, anche laddove siano limitatissime. Anche questa tendenza fa ben sperare per il futuro dell’economia e dei mercati finanziari.

L’abbondanza di capitali e la maggior diversificazione delle opportunità di investimento non hanno mai di per sé generato disastri. La significativa lontananza dello spettro dell’inflazione e l’ampia riduzione negli ultimi tempi delle tensioni geopolitiche rispetto a quelle che ci eravamo abituati ad osservare aiutano anch’esse a sostenere un moderato ottimismo con il quale affrontare le secche e le insidie nascoste della pausa feriale. I mercati finanziari forse un domani torneranno a tremare e a far tremare l’economia reale. Ma al momento sembra più che si tratti di un dopodomani…

Stefano di Tommaso




UNA NUOVA PARMALAT ?

Verrebbe da affermare che “è una storia tutta italiana” quella della tempesta in un bicchier d’acqua accaduta al titolo Bio-On (accusato) quotato all’ Alternative Investment Market (AIM) della Borsa Valori, le cui quotazioni sono cadute del 70% in una sola seduta, se non fosse che, qualora il fondo americano Quitessential Capital Management (accusatore) avesse ragione, significherebbe il fallimento dell’intera catena dei controlli sul mercato finanziario domestico, a partire dalla Borsa Italiana fino alla Consob, passando per le società di revisione Ernst&Young e PriceWaterhouse nonché dall’Agenzia delle Entrate (visto che Bio-On ha persino ottenuto il Patent Box). Praticamente una nuova Parmalat.

 

L’ANTEFATTO

Bio-On nasce nel 2007 vicino Bologna e viene portata alla quotazione in borsa dall’advisor Ambromobiliare nel 2014 con il nomad EnVent e con Banca Finnat nel ruolo di Specialist. Poco più di un anno fa il titolo diviene il primo “Unicorno” italiano, appellativo dato dal mercato finanziario alle start-up innovative che superano il miliardo di dollari di capitalizzazione. Il titolo arriva fino a 58 euro (1,06 miliardi di euro di capitalizzazione, pari a 1,210 miliardi di dollari), mentre lo scorso venerdì 26 luglio il titolo apriva gli scambi a 15 euro per concluderli a 23,7 euro, dopo l’intervento sul mercato dei soci fondatori, Cicognani e Astorri che hanno annunciato di aver acquisito 7.000 azioni a testa, per un controvalore totale di 211.000 euro (un’intervento simbolico quello dei duecentomila euro, nella totale rarefazione degli scambi sul titolo, che è stato sufficiente a far risalire la capitalizzazione di borsa da 282 a 452 milioni di euro).

LO SHOCK DEL MERCATO

Per dare un’idea dello shock che ha colpito l’intero mercato basti pensare che è del 4 di Luglio la pubblicazione presso Borsa Italiana di uno studiodi EnVent che, quando il titolo quotava 53,7 euro (che corrisponde ad una capitalizzazione di mercato di 1,01 miliardi di euro), cita un prezzo-target “di consenso” di 86 euro (che corrisponderebbe a oltre 1,6 miliardi di euro). Alla base del duro colpo le rivelazioni di Quintessential che nella notte di mercoledì 24 luglio ha pubblicato il report in cui definisce Bio-on un castello di carte, e havenduto allo scoperto il titolo in compagnia degli hedge funds Engadine Partners, Cadian Capital Management e Ennis Capital Partners.


CHI È L’ACCUSATORE

Il fondatore di Quintessential, che da New York fatto scoppiare quella che sembrava una bolla speculativa, (visto che prima della bufera Bio-on valeva 50 volte il fatturato) è l’oriundo italiano Gabriele Grego, il quale ha anche rilasciato interviste televisive e ha ampiamente motivato la sua sfiducia citando le relazioni di altri cinque esperti da lui coinvolti nell’indagine negli Stati Uniti e in Italia: scienziati e ceo di altre società che hanno tentato la stessa iniziativa di Bio-On e che sollevano grandissimi dubbi sulla veridicità dei risultati.


I PROBLEMI DELLA TECNOLOGIA DI BIO-ON

Secondo Quintessential c’è un problema alla radice dell’avventura di Bio-on, con la sua stessa tecnologia, i Pha(polimeri plastici biodegradabili) i cui “processi di produzione sono altamente complessi” e sono stati tentati senza successo da gruppi chimici molto più grandi come Zeneca, Monsanto e Metabolix. Bio-on inoltre afferma di possedere “la proprietà di oltre duecento tra brevetti concessi, formulazioni e domande di brevetto già richieste”. La rivista di innovazione tecnologica Wired ha consultato il Registro dei Brevetti presso il MISE e ha individuato solo due brevetti riconducibili a Bio-on. Il primo, Processo per recuperare e purificare poliidrossialcanoati da una coltura cellulare, è firmato da Simone Begotti, il responsabile scientifico di Bio-on, che però non ha altri brevetti depositati al Mise. Il secondo, Composizione comprendente almeno un polimero biodegradabile e almeno un plastificante, è firmato da Paola Fabbri dell’università di Bologna. Wired avrebbe chiesto chiarimenti all’azienda senza ottenerli. Secondo Greco, tuttavia, “non c’è un mercato sufficiente a generare utili. Purtroppo l’esperienza dei concorrenti della Bio-on ci dice questo”.

ACCUSE GRAVISSIME

Secondo Quintessential poi le joint venture di Bio-on sono scatole vuote utili solo a simulare fatturato e crediti e sono peraltro le uniche destinatarie delle fatture emesse da Bio-On, senza peraltro averle sostanzialmente mai pagate, se non con fondi che la stessa Bio-On avrebbe messo loro a disposizione. Accuse gravissime che possono squotere alle fondamenta la credibilità del sistema borsistico italiano qualora fossero verificate.

IL “TRACK-RECORD” DEGLI ACCUSATORI

Quintessential è specializzata in questo genere di inchieste. Utilizza tecniche investigative all’avanguardia e interviene solamente dopo aver acquisito una mole informazioni schiaccianti per confermare le proprie tesi. Dal 2015 il fondo newyorchese ha portato a compimento sette operazioni contro varie società che sono risultate ex-post disoneste, con un tasso di successo pari al 100%. In tutti i casi le tesi annunciate da Grego sono state confermate da inchieste ufficiali. In diversi casi il management delle società target è stato licenziato. In due casi le società hanno cessato di esistere settimane dopo l’intervento.

LA REPLICA DI BIO-ON

Dopo le accuse i manager-fondatori Marco Astorri, presidente e amministratore delegato, e Guido Cicognani, vicepresidente, hanno replicato mostrando l’impianto produttivo industriale di Castel San Pietro Terme, ottenuto mediante lo “scale-up” dell’impianto semi-industriale realizzato nel 2010 e da allora sempre operativo”. Ma, secondo la stampa, hanno per il momento evitato di fornire tutte le risposte, lasciando un alone di mistero intorno all’attività della società. In particolare sarà fondamentale comprendere se le numerose tonnellate di produzione generate dal 2010 ad oggi hanno effettivamente mai avuto degli acquirenti, e per quali importi.


IL RILANCIO DI QUINTESSENTIAL

Peraltro poco dopo (sempre Venerdì) Quintessential ha rilanciato la partita, annunciando che presto procederà a nuove scottanti rivelazioni e denunciando il bluff della società hawaiana Virdhi, che figura come startup innovativa e con cui, nel 2013, Bio-On aveva annunciato una partnership. Virdhi, però, era stata registrata pochi giorni prima prima dai proprietari che sono gli stessi i vertici di Bio-On: Marco Astorri e Guido Cicognani. Un’altra ‘scatola vuota’, secondo l’accusatore, senza dipendenti e senza brevetti.

NON FINISCE QUI

Lo scandalo è appena partito e sarà difficile che finisca qui. Da un lato ci sono una serie di inesattezze e mezze verità raccontate dalla società come dai suoi advisors, che fanno pensare che l’inchiesta non possa essere soltanto un fuoco di paglia. Dall’altro ci sono gli accusatori, che hanno mostrato sino ad oggi potenti artigli e grande sagacia, i quali inoltre nel farlo mettono a repentaglio la loro stessa credibilità. Rischiano infatti accuse di turbativa di mercato qualora vengano provate le tesi della difesa. Ma quali sono esattamente queste ultime? Per il momento non è dato di conoscerle fino in fondo…

Stefano di Tommaso