UN’ONCIA D’ORO A 1500 DOLLARI?

È questa la previsione di molti analisti, con l’aggiunta (tutt’altro che scontata) che ciò potrebbe avverarsi in pochi giorni, per esempio se vedremo presto il taglio dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve di Washington e se altrettanto presto partirà il nuovo Quantitative Easing (stimolo di politica monetaria) europeo e se a queste due cose dovesse associarsi una discesa incontrollata del Dollaro americano. Ma non si pensi che ne nel frattempo tutto filerà sicuramente liscio: l’incremento della volatilità del prezzo dell’oro è possibile che continuerà, di pari passo con le sue quotazioni. E per chi volesse speculare senza troppi scrupoli c’è il rischio di farsi male.

 

Le banche centrali sono le prime artefici del gran balzo del metallo giallo (+10% da Maggio) non soltanto per le condizioni generali di politica monetaria che hanno portato i rendimenti reali sotto lo zero e hanno dunque favorito l’acquisto dei beni-rifugio. C’è molto di più: pare che le banche centrali cinese e russa ne stiano acquistando altre tonnellate a mani basse, principalmente per ragioni politiche. Solo nel primo trimestre 2019, la domanda di oro da parte delle banche centrali è aumentata di 145,5 tonnellate. Si tratta del valore più elevato da sei anni. Lo ha reso noto di recente il World Gold Council.


D’altra parte -si sa- spesso le aspettative degli operatori si sostengono l’una con l’altra, finendo per auto-realizzarsi. E oggi come oggi speculare al rialzo con il costo del debito che tende a zero è più facile che mai.

È L’ORO CHE SALE O È IL DOLLARO A SCENDERE ?

Perciò le aspettative, dopo l’ultimo balzo delle quotazioni, sono decisamente a favore di una prosecuzione dell’incremento di valore dell’oro. O potremmo forse meglio dire meglio che, con la prosecuzione degli stimoli monetari che promettono di apportare altra liquidità sui mercati finanziari, è in corso una svalutazione serpeggiante delle principali valute? In tal caso le quotazioni dell’oro non farebbero che riflettere un rapporto di valore tra di essi che non poteva non mutare.

Certamente il percorso annunciato dalla banca centrale americana (di inversione della politica monetaria tenuta fino a fine 2018) potrebbe spingere il Dollaro a scendere contro le altre valute, lasciando dunque uno spazio perché le quotazioni dell’oro, che sono espresse in Dollari, possano adeguarsi. Ma poiché la divisa valutaria che rappresenta il suo principale antagonista -l’Euro- cercherà di svalutarsi ancora di più (attraverso nuovi interventi della B.C.E.) ci sono poche possibilità che le quotazioni dell’oro e di numerose altre risorse minerarie ed energetiche a breve termine (diciamo nei prossimi 60-90 giorni) possano scendere. È più probabile il contrario!

MA QUANTO DURERÀ LA SUA CORSA ?

Ma siamo sicuri che sia in corso un vero e proprio “de-basement” del valore intrinseco delle principali valute di conto? La risposta non è così scontata, anche perché le aspettative, che sono alla base della crescita delle quotazioni dei metalli preziosi (eh sì, anche l’argento e il rame stanno facendo una bella corsetta), possono cambiare in un batter d’occhio. E nessun modello econometrico oggi è in grado di prevedere come potranno cambiare nel momento in cui una vera recessione facesse davvero il suo -pur-rapido- ingresso in scena. Qualcuno la prevede addirittura per il prossimo inverno.

E a quel punto, se le attuali aspettative di bassa inflazione infatti si tramutassero in attese di vera deflazione (e, perché succeda, il passo è assai breve), anche le quotazioni dell’oro ne verrebbero travolte. Perché si scatenerebbe di nuovo la caccia ai rendimenti reali positivi, rendimenti reali che l’oro non può avere per sua natura.

Oggi invece i mercati dei titoli a reddito tendono allo zero anche perché galleggiano su una montagna di liquame (sulla cui purezza si potrebbe argomentare a lungo) recentemente immesso dalle banche centrali e mai veramente ridimensionato. Le borse sono altresì ai massimi storici e sembrano restarci da molto tempo, alimentando così la loro possibilità di svolgere la loro funzione più vitale: quella di apportare nuove risorse alle leve fresche del business e della tecnologia, molti altri beni-rifugio (quali ad esempio le opere d’arte) hanno già raggiunto da tempo quotazioni considerevoli e invece i metalli preziosi non lo avevano ancora fatto per un coacervo di ragioni che oggi sono tutte cadute. Sembra dunque proprio arrivato il loro turno.

L’INFLAZIONE PUÒ FINALMENTE ARRIVARE ?

D’altra parte c’eravamo chiesti di recente come mai l’inflazione non risaliva nonostante l’economia globale proseguisse la sua corsa e le spiegazioni che c’eravamo date (“amazonification”, razionalizzazione dei costi alla produzione, maggiore efficienza dei canali distributivi di beni e servizi, eccetera…) erano tutte vere, ma non avevamo ancora riscontrato un‘ effettivo aumento dei prezzi delle materie prime. Piano piano invece ci stiamo arrivando: prima il petrolio, poi i metalli, magari a breve anche le derrate alimentari (la siccità e le ondate di calore in corso nel mondo anche quest’anno ne riduce l’offerta e può sospingerne la domanda)…

La corsa dell’oro (come quella -relativamente probabile- di altri fattori della produzione) costituiva forse un passaggio obbligato verso la “riflazione dei prezzi”. Ed entro certi limiti è persino una cosa sana. Certo nel breve periodo l’inflazione non farebbe che ridurre ulteriormente i tassi d’interesse reali, alimentando in tal modo la domanda di beni-rifugio.

Ma se avevamo qualche dubbio al riguardo così ce lo siamo tolto: governare l’economia globale è diventato sempre più difficile. Tanto che non bastano più le banche centrali: anche i governi debbono fare la loro parte! E se non la faranno (uno scenario forse più probabile del suo opposto) la prossima recessione arriverà presto, e con essa ritorneranno a scendere anche i prezzi che si erano gonfiati un attimo prima.

Stefano di Tommaso




VALE ANCORA LA PENA DI INVESTIRE IN BORSA?

Dopo anni che le borse restano sui massimi di sempre, l’investimento in titoli azionari è ancora consigliabile? Se lo chiedono in molti, sia perché gli indici azionari delle borse valori hanno toccato livelli storicamente insuperati che saranno difficili da superare ulteriormente, ma anche perché adesso il rendimento annuo atteso (l’utile per azione) diviene particolarmente basso e il confronto con altre rendite (ad esempio quelle da investimenti immobiliari e quelle da titoli a reddito fisso) risulta obbligato. Ma nonostante i molti dubbi la risposta di questo articolo è prevalentemente positiva: ancora oggi può convenire. Ovviamente dipende molto dal “timing” e dunque il “fai-da-te” è decisamente sconsigliabile.

 

Ebbene sul fronte del rendimento implicito di ciascuna tipologia di investimenti si sono viste nel recente passato importanti novità, a partire dalla crescita oltre ogni ragionevole attesa dei profitti aziendali che hanno fatto dell’investimento azionario il migliore di tutti. Ciò nonostante la progressiva razionalizzazione degli investimenti immobiliari abbia reso più efficienti questi ultimi (e dunque capaci di essere più remunerativi), e nonostante la rivalutazione dell’oro abbia restituito luce ad una categoria (quella dei beni-rifugio) che con la bassa inflazione sembrava destinata all’oblio.

Certo non si può negare che le borse sono tornate “di moda” anche a motivo della caduta fino al di sotto dello zero dei rendimenti obbligazionari (partire da quelli dei titoli di stato tedeschi), che ha acuito l’interesse degli operatori per classi di investimento piu rischiose!

MA I CRITERI SONO CAMBIATI

Molte recenti convinzioni degli economisti sono svanite quando, nonostante la crescita impetuosa dei prodotti interno lordi di molte nazioni, il costo della vita è cresciuto molto meno delle attese e l’inflazione comunemente rilevata dai “panieri di beni e servizi” selezionati dalle statistiche ufficiali è rimasta praticamente al palo. Ovviamente l’inflazione dei prezzi è diversa per ciascuna tipologia di beni e servizi e ce ne sono alcuni i cui prezzi sono praticamente raddoppiati in pochi anni ma, indubbiamente, quelli di prima necessità sono rimasti relativamente tranquilli mentre l’economia cresceva, e questo mentre le occasioni di accrescimento delle entrate personali si sono moltiplicate con la crescita del P.I.L.

Così con l’inflazione che viaggia intorno all’1% nel mondo mentre il ciclo economico prosegue la sua corsa al rialzo da più o meno un decennio (da molto meno qui in Italia ma -si sa- le province dell’impero sono sempre penalizzate) ovviamente numerosi luoghi comuni dell’economia iniziano a venire meno, a partire dalla famosa “Curva di Phillips” che postulava una relazione diretta tra inflazione e occupazione. Oggi persino le banche centrali evitano di farne menzione.

BENI RIFUGIO SI O NO ?

Ovviamente con l’inflazione che resta sotto controllo gli investimenti in valori immobiliari ovvero in “beni-rifugio” comporta qualche perplessità, perché si tratta di categorie di attività basate su una relativamente scarsa liquidabilità e su rendimenti netti che spesso sono bassi (quelli degli immobili, se si tiene conto di tasse, manutenzioni e oneri straordinari) o addirittura sono nulli (i beni rifugio).

Ma se i rendimenti nominali dei titoli a reddito fisso picchiano verso il basso e l’inflazione (quella statisticamente rilevata) non si ravviva allora quale rendimento dobbiamo attenderci dalle altre tipologie di investimento? Probabilmente uno più basso di quello che eravamo stati pronti ad accettare quando ne formulavamo i prezzi, che sono evidentemente inversamente proporzionali.

 

I RENDIMENTI ATTESI SONO SEMPRE PIÙ BASSI

Dunque se oggi l’investimento in un paniere di titoli azionari che rispecchiano lo Standard&Poor’s 500

(l’indice più diffuso relativo a Wall Street, la più importante borsa valori del mondo) rende in media l’1,9% non c’è troppo da scandalizzarsi. È quasi normale.

Ma quel numero non è statico come quello di un titolo obbligazionario (soprattutto se me lo compro e lo tengo fino alla scadenza). La valutazione dei titoli azionari dipende dalle prospettive di crescita delle aziende di cui rappresentano il capitale, nonché dalla rischiosità e dalla liquidità del titolo. Ebbene qui entriamo in in un mondo molto più esoterico e i cui significati non sono mai delle certezze assolute, dal momento che non io posso comperare un titolo azionario e tenerlo fino alla scadenza, perchè che quest’ultima non esiste, né è costante il rendimento che acquisto.

NEW ECONOMY O OLD ECONOMY ?

Innanzitutto circa metà della capitalizzazione di borsa di Wall Street è costituita da titoli della “new economy”, cioè caratterizzati da aspettative di forte crescita ma anche dalla scarsissima redditività e dalla quasi assenza dello stacco di dividendi. Dunque la media della principale borsa d’oltreoceano è quella “del pollo”: una metà del listino non rende nulla ma ha importanti aspettative di crescita di valore mentre l’altra metà rende quasi il doppio (in media) e dunque più dei titoli di Stato americani e non è detto che -viceversa- sia destinata al crollo. Esiste però una relativa buona redditività espressa da quella metà del listino che non afferisce all’era digitale sulla quale si possono costruire interessanti strategie di investimento.

LA “BONDIFICATION” DEI MIGLIORI DIVIDENDI

Negli anni precedenti si è diffusa per esempio una teoria -quella della “bondification” che resta valida anche oggi e che ho suggerito in passato a qualche amico che mi chiedeva consiglio. Vale a dire acquistare soltanto una volta l’anno titoli azionari selezionati sulla base di A) una cedola in arrivo particolarmente ricca e B) di prospettive decenti per il futuro dell’azienda cui si riferiscono. Molto meglio se: C) si tratta di titoli a limitata volatilità. Poco dopo incassare la cedola e attendere che il prezzo del medesimo titolo azionario che ha pagato la cedola recuperi almeno il valore d’acquisto (cosa che a volte è immediata). A quel punto vendere il titolo azionario e non pensarci più fino all’anno successivo, rimanendo con ciò al sicuro da eventuali scossoni dei mercati e con la liquidità in mano (teoricamente pronta per nuove avventure). Dal momento che la cedola in taluni casi supera di molto il rendimento dei titoli obbligazionari o dei titoli di Stato (quelli americani), l’operazione è lucrosa e a bassa rischiosità (almeno quest’anno lo è stata).

MA ESISTONO ANCORA TITOLI CHE VAL LA PENA DI COMPERARE

Ma tutti gli altri (nonché i gestori di patrimoni) movimentano molto di più le risorse investite e continuano a chiedersi oggi se alle attuali quotazioni è ancora consigliabile in generale restare sui titoli azionari.

E la risposta, in molti casi, è ancora positiva, soprattutto se teniamo conto di quella parte di titoli azionari della “old economy” che offrono prospettive comunque interessanti e ottima redditività: per esempio i grandi gruppi bancari e assicurativi (a dire il vero soprattutto quelli d’oltreoceano) che spesso quotano in borsa una capitalizzazione inferiore ai mezzi propri contabili e che, per vari motivi, offrono dividendi molto elevati. Se dunque associamo la prospettiva di buoni rendimenti, possibili rivalutazioni e bassa rischiosità ecco che, con un’economia (in generale nel mondo ma in particolare in America) che non accenna ancora a flettere, restano investimenti decisamente migliori della media.

Nel grafico qui sotto riportato ad esempio si può leggere qual è stato il calo dei prezzi delle quotazioni delle principali banche europee dal 2009 ad oggi:


Ovviamente questo vale quasi soltanto per i titoli più liquidi, quelli quotati nelle principali borse del mondo e quelli relativi alle imprese, banche, assicurazioni o gruppi finanziari più grandi di tutti. Tutti gli altri potrebbero risultare appetibili prede di future concentrazioni di settore oppure semplici vittime della globalizzazione. Meglio starne alla larga, dunque, quando il contesto generale appare più incerto.

ATTENTI ALLE IMPRESE INNOVATIVE

Un capitolo a parte è costituito invece dai titoli azionari cosiddetti “digitali” cioè che devono il loro “appeal” all’economia digitale, alle nuove tecnologie o a forme intelligenti di “sharing economy” (a partire da Google e Facebook, che offrono buona parte dei loro servizi gratuitamente ma che in realtà offrono un’ottima redditività). Le loro quotazioni (intese come multipli dei rendimenti offerti) sono indubbiamente più elevate della media e la scommessa è basata sulla validità delle aspettative di loro ulteriore espansione: se le aspettative di espansione del business eccedono la realtà risulteranno in una perdita del valore di borsa e viceversa. E poiché le borse riflettono oggi valutazioni in media decisamente elevate, non è così agevole riuscire a selezionare un pacchetto di titoli di questo genere evitando il rischio di incorrere in pesanti perdite.

Dall’altro lato però se guardiamo alle macro-tendenze della storia economica, non possiamo non prendere atto del fatto che buona parte delle imprese che cinquant’anni fa costituivano il maggior valore del listino di borsa oggi non esistono più o sono fallite o sono molto state ridimensionate. Questo ci insegna che è sempre corretto guardare al futuro, sebbene esistano persino casi illustri come quello della IBM, che fino a pochi anni fa era la regina di Wall Street e al tempo stesso sinonimo di tecnologia. Oggi è anch’essa fortemente ridimensionata. Dunque l’appartenenza alla categoria dei titoli tecnologici non assicura di per sé una garanzia di sopravvivenza alle fluttuazioni dell’economia.

MEGLIO AFFIDARSI AI PROFESSIONISTI DEGLI INVESTIMENTI

Queste considerazioni portano all’ovvia conclusione che, almeno per quella parte degli investimenti azionari in cui si scommette sulla crescita (che oggi si tende a ridurre rispetto a qualche anno fa) occorrono grandi diversificazioni e analisi professionali delle prospettive, dunque occorre l’expertise di grandi investitori superspecializzati e non si può pensare di muoversi da soli.

E poi tutte le imprese che si quotano in borsa perché propongono forti innovazioni rappresentano un investimento storicamente soggetto a volatilità decisamente più elevate che non quelle attive nei settori più maturi, dove la concorrenza è più prevedibile, i “cigni neri” sono meno probabili ed è meno accentuata la dipendenza dalla normativa, dall’evoluzione delle grandi infrastrutture e dal cambiamento delle abitudini della gente.

Questo purtroppo non significa necessariamente che sarebbe meglio investire nelle borse europee, dove è più probabile che il nuovo Quantitative Easing si materializzi e dov’è è prevalente la categoria delle imprese tradizionali rispetto alle borse asiatiche e americana. Anzi: il mondo continua a cambiare e l’investimento in azioni non può non seguire le tendenze globali e la miglior liquidità dei mercati dove possono essere scambiate. Dunque promuoviamo a pieni voti ancora una volta l’investimento azionario, ma non alla vecchia maniera. E sono proprio le modalità e la selezione dei target a fare oggigiorno la differenza.

MA ANCHE IL “TIMING” È IMPORTANTE

Ma forse l’argomento più importante per l’investimento azionario risulta nella tempistica di “entrata” e “uscita” per ciascun titolo. Ogni investimento è teoricamente valido se si riesce a liquidarlo ad un prezzo migliore di quello di ingresso e, viceversa, persino un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno. Così persino il peggior investimento potrebbe essere disinvestito in un momento particolarmente favorevole e risultare in un buon affare. La selezione del momento migliore per farlo è oggigiorno divenuta perciò la cosa più difficile da indovinare e questo è anche il miglior motivo per muoversi sempre e soltanto attraverso operatori superspecializzati. Senza i quali gli strumenti per indovinare la tempistica rischiano di essere inadeguati!

Stefano di Tommaso




VERSO LA GIAPPONESIZZAZIONE DELL’ECONOMIA EUROPEA

All’inizio degli anni ‘90 il Giappone, al termine di un lungo ciclo di espansione economica e di incremento dei prezzi delle attività finanziarie e immobiliari, aveva visto scoppiare quella bolla speculativa ed era entrato in ciò che oggi, con il senno di poi, viene considerato un “decennio perduto” per l’economia interna. La stagnazione che ne fece seguito durò anche più di un decennio dal momento che ancora nei primi anni del nuovo millennio la ripresa finalmente arrivata apparve come una luce in fondo al tunnel molto flebile e incerta. E il panorama non mutò di molto nemmeno con l’avvio di forti stimoli monetari e una politica di conseguente svalutazione “competitiva” dello Yen che si sperava avrebbe fatto rifiorire le esportazioni. E così è stato anche negli anni a seguire: il Giappone non ha mai più vissuto un vero e proprio boom economico. I prezzi degli immobili scesero per quasi un ventennio e quasi a nulla giovarono i tassi d’interesse calati fino allo zero (per primi nella storia economica), già alla fine degli anni ‘90.

 

Al giorno d’oggi molti illustri commentatori, osservando taluni aspetti dell’andamento economico europeo, sono tornati a parlare -così come era già successo 5-6 anni fa, di “giapponesizzazione” dell’economia del vecchio continente.

IL RECORD MONDIALE DEI TASSI NEGATIVI

In effetti l’euro-zona oggi come oggi vanta il record mondiale dei tassi d’interesse negativi, si accompagna a tassi di crescita del prodotto interno lordo molto vicini allo zero assoluto e continua a veder ridotta la volatilità dei propri mercati finanziari che non rilasciano nemmeno “l’attrattiva della tecnologia” (che offrono invece in abbondanza le borse asiatiche e quelle americane) a coloro che dovrebbero investirci sopra. E poiché insieme all’industria anche i consumi stentano a decollare, l’Europa sembra seriamente impostata ad avere un‘inflazione strutturalmente “troppo bassa” (leggi: deflazione) anche nei prossimi anni.

Il fenomeno della possibile “giapponesizzazione dell’economia europea” non appare tuttavia destinato a creare grandi scompensi o rapidi crolli dei mercati, sebbene non sembri neppure destinato a scomparire in fretta (anzi!). Stiamo dunque entrando anche noi europei in un altro “decennio perduto”? (nel grafico: il decennio perduto del Giappone)

Il dubbio ha molto senso, poiché nessun governo europeo -nè tantomeno quello dell’Unione- sembra indirizzato ad accompagnare con opportuni stimoli di politica fiscale l’impostazione data da Mario Draghi alla politica monetaria della Banca Centrale Europea, tornata ad essere impostata nuovamente sull’espansività.

IL “MONITO” DI MARIO DRAGHI E LA TESTARDAGGINE TEDESCA

Il governatore della B.C.E. ha giustamente ammonito i governi dell’Unione sulla necessità -questa volta- di una manovra congiunta con gli Stati membri, fatta di stimoli monetari e facilitazioni fiscali per poter sperare di trarre l’economia interna all’Unione dalle secche nelle quali si sta cacciando. Me egli è innanzitutto giunto alla scadenza del suo mandato come governatore della BCE, e poi ha appena potuto constatare che, all’ultima tornata elettorale comunitaria, nulla è cambiato tra i politici ed i partiti che comporranno il nuovo governo europeo. In particolare nessuno tra gli stati membri dove l’economia è più florida e dove i debiti pubblici appaiono maggiormente sotto controllo ha davvero intenzione di unificare le proprie finanze pubbliche con quelle -assai più disastrate- delle economie periferiche dell’Unione.

Secondo il loro punto di vista queste ultime dovrebbero prima sanificare i loro conti pubblici, e soltanto poi ci sarebbe spazio (politico) per convergere in maniera più decisa verso l‘unificazione fiscale. Ma “sanificare” secondo Germania, Austria, Olanda eccetera significa porre in atto politiche di austerità che cozzano fortemente contro il buon senso di ogni plausibile politica economica comunitaria e che -si è già visto con chiarezza in Grecia- quali danni possano apportare in un momento in cui servirebbero forti stimoli alla ripresa economica. Questo aspetto irrisolto della convivenza tra situazioni oggettivamente molto differenziate all’interno della medesima comunità europea genera uno “stallo dell’aeronave continentale che può solo contribuire a farle perdere quota.

MA OGGI IL QUADRO È MUTATO

Anche perché la situazione in passato vedeva una certa floridità dell’economia della Germania come di molti altri Stati membri al centro dell’Unione europea. Dunque la preoccupazione principale di questi ultimi era quella di mantenere basso il cambio dell’Euro (grazie agli Stati “satelliti”) per poter continuare ad esportare senza rivalutazioni del cambio e proseguire ad accumulare un surplus monetario che un giorno sarebbe stato utilizzato per far premio su coloro (come l’Italia) che invece avevano accumulato un deficit.


Oggi le cose stanno diversamente: l’industria tedesca sta soffrendo (-4% la produzione industriale „crucca“ a Maggio 2019) ben più di quella italiana (la seconda in Europa per dimensioni e tornata a crescere) e di quella francese (che è addirittura salita del 2% in Maggio). Dunque la Germania accumula meno surplus ed è oggi meno interessata a veder scivolare il cambio dell’Euro verso il basso.

Per tutti questi motivi le aspettative che oggi la nave dell’economia europea riesca a cambiare rotta in tempo, prima di impantanarsi del tutto, appaiono oggettivamente molto ridotte, sebbene l’esperienza giapponese dovrebbe fornirci invece qualche indicazione pratica al riguardo: neanche a farlo apposta il deficit del bilancio pubblico giapponese è atteso quest’anno nell’intorno del 4% del prodotto interno lordo (a causa di una politica fiscale fortemente espansiva), mentre il deficit americano viaggia oltre la soglia psicologica del 5% ed è in ulteriore aumento. La lezione della storia evidentemente è servita. Almeno a loro…

Stefano di Tommaso




BENVENUTI NELL’ERA DEI TASSI NEGATIVI

Si è detto che nella spirale dei tassi negativi che sembra in arrivo ci avrebbero rimesso soprattutto le banche. Non soltanto perché il loro margine sull’intermediazione del denaro si assottiglia, ma anche a causa dei rischi conseguenti alla discesa dei tassi che consistono principalmente in un’economia stagnante e possibili maggiori insolvenze. Ma la prospettiva di una recessione nei prossimi mesi, che sembra alla base della discesa dei tassi, è davvero uno scenario realistico ? Non ci sono evidenze al riguardo. E lo scenario che si prospetta: di tassi sotto zero ancora per lungo tempo, non ha soltanto svantaggi. Anzi…

 

PREOCCUPAZIONI FONDATE

Il fatto che le banche centrali di tutto il mondo stanno oggi interrogandosi sul rischio che una nuova crisi di fiducia dei mercati finanziari possa provocare nuove contrazioni dell’economia reale (così come stava accadendo a fine 2018) si rileva da due cose:

  1. dopo anni di crescita economica basati sull’espansione della massa monetaria i mercati si sono assuefatti a dosi crescenti di testosterone e temono molto un’eventuale riduzione della base monetaria;
  2. i governatori delle banche centrali iniziano ad affermare che per rilanciare la crescita economica oltre l’orizzonte normale dei cicli economici non bastano più soltanto nuove facilitazioni monetarie ma occorre un coordinamento con i governi per agire contemporaneamente anche sul fronte delle politiche fiscali.

    D’altra parte dopo quanto accaduto alla fine dello scorso anno (borse calate vistosamente e forte riduzione della spesa per consumi) è divenuto chiaro a tutti che è vicina la possibilità di incorrere in nuove recessioni, seppure magari solo temporanee.

SENZA INFLAZIONE TORNA LA POSSIBILITÀ DI UNA “STAGNAZIONE SECOLARE”

C’era stata intorno al 2015-16 un’importante corrente di pensiero (con a capo economisti del peso di Larry Summers) che aveva formulato un’oscura previsione: il mondo stava generando le condizioni per una prolungata fase di stagnazione della crescita dell’economia reale (la cosiddetta Stagnazione Secolare) con la conseguente prospettiva di incombente deflazione e calo sotto zero dei tassi di interesse.

Una previsione presto bollata come irrealistica con l’arrivo del nuovo governo degli Stati Uniti d’America che, con le sue proposte del taglio delle tasse (effettivamente realizzato) e di nuovi importanti investimenti infrastrutturali (ad oggi non ancora realizzati) aveva generato forte crescita economica e si pensava avrebbe generato le condizioni per una reflazione forzosa dell’economia.

Anche la Cina ha perseguito negli ultimi anni la doppia strada dell’intervento dello stato nell’economia e dell’espansione monetaria interna. La Banca Centrale Europea ha proseguito con il suo Quantitative Easing così come quella del Giappone e sono passati quasi tre anni da quell’autunno del 2016 ma, nonostante ci si chieda quanto la crescita economica recentemente vissuta sia sostenibile o se il mondo grazie a tutti quegli stimoli monetari e fiscali ha soltanto semplicemente ritardato il suo appuntamento con la dura realtà dei cicli economici, quella temuta reflazione non si è ancora vista.

IL RITARDO DELLE BANCHE CENTRALI

Anzi: l’abbondanza di liquidità dei mercati finanziari ha provocato un calo fin sotto lo zero dei tassi d’interesse, calo cui si dovranno prima o poi adeguare anche le banche centrali. Ma il loro ritardo nell’intervenire ne ha messo in discussione l’autorevolezza in termini di “forward guidance” ed appare oggi come l’unico vero motivo dell’inversione della “curva dei rendimenti” (quando quelli a breve termine superano quelli a lungo termine: i tassi a breve sono controllati dai banchieri centrali mentre quelli a lungo termine sono espressi direttamente da domanda e offerta dei mercati finanziari).


A tale proposito c’è una triste statistica relativamente ai periodi storici precedenti in cui è scesa sotto zero quella curva: pressoché tutte le volte che è successo il mondo ha poi affrontato una recessione globale entro un paio di anni. Ma se la curva si inverte soltanto perché i banchieri centrali vogliono imporre il loro controllo e reagiscono troppo lentamente alle situazioni di mercato, è ancora corretto assegnare un valore “segnaletico” dell’inversione della curva dei rendimenti?


Le evidenze riscontrabili parlano di un certo ritorno alla fiducia da parte degli investitori a partire dal secondo semestre del 2019, mentre il temuto crollo dei profitti aziendali dopo la mini-crisi della fine dello scorso anno non sembra ancora esserci stato. Dunque le prospettive per il resto dell’anno sembrano buone almeno a metà e il lunghissimo ciclo economico positivo che stiamo vivendo non accenna ancora a flettere.

I VANTAGGI DEI TASSI SOTTO ZERO

Il fatto poi che i tassi d’interesse restino molto bassi presenta indubbiamente una serie di vantaggi:

  1. è una prova indiretta della limitatezza dei rischi di inflazione dei prezzi
  2. consente una migliore sostenibilità dei debiti pubblici che altrimenti avrebbero costituito una seria minaccia per gli equilibri globali
  3. potrebbe costituire un deciso vantaggio in ordine alla finanziabilità delle innovazioni tecnologiche così come delle grandi opere infrastrutturali che ancora mancano al mondo civile per poter spianare la strada verso ulteriori crescite economiche “sostenibili”.

La crescente globalizzazione dell’economia infatti impone al mondo di trovare nuove forme di trasporto (si veda ad esempio il progetto di Hyperloop) e di telecomunicazioni (a banda sempre più larga) che facilitino il dialogo e l’interscambio tra sedi lontane. Il problema delle possibili disastrose conseguenze dell’inquinamento impone altresì di sostituire gli attuali sistemi di generazione dell’energia (basati sull’emissione di sostanze nocive) con altri maggiormente eco-sostenibili. Lo sviluppo inoltre delle nuove tecnologie impone di per sè degli investimenti crescenti e lunghi periodi di sperimentazione prima di trovarne un ritorno economico. E infine l’eventuale prosecuzione dei programmi di esplorazione spaziali necessiterebbe di ulteriori ingenti investimenti.

Il mondo dunque oggi affoga in una montagna di liquidità ma esistono al tempo stesso molteplici interessanti opportunità per utilizzare questa liquidità (laddove essa fosse intelligentemente indirizzata da opportune politiche fiscali, ad esempio). Innanzitutto le “asset class” (le categorie di investimento) più remunerative da quarant’anni a questa parte sono sempre di più il “venture capital” (l’investimento seriale in Start-Up tecnologiche) e il “private equity” (il capitale investito dai fondi nelle imprese non quotate).

Ma in generale gli operatori economici necessiterebbero di avere a disposizione grandi quantità di capitale per poter sostenere il crescente volume di investimenti che il progresso rende possibili e che sembrano altresì necessari a far proseguire lo sviluppo dell’umanità.

OCCORRE MAGGIOR COORDINAMENTO

Dunque pensare oggi di lasciare i banchieri centrali liberi di pilotare la riduzione della massa di liquidità in circolazione non è necessariamente una buona idea, anzi! Intanto per la forte dipendenza delle quotazioni delle principali borse valori dal livello di liquidità disponibile. La persistenza di forte liquidità disponibile in un contesto non-inflattivo costituisce invece la premessa necessaria per poter pensare finanziare a costi accettabili le grandi prospettive che si dischiudono al progresso tecnologico. Quel che occorre casomai è una maggior capacità politica di indirizzare tali risorse nella direzione giusta e affinché non vadano inutilmente sprecate in metalli preziosi, beni rifugio et similia.

Giungere a un’era di tassi d’interesse negativi insomma potrebbe non risultare così inaccettabile, poiché costituiscono di fatto una “tassa” imposta implicitamente al mantenimento di liquidità non investite e genera un forte incentivo ad allocarla su progetti di lungo termine che, seppur con rendimenti limitati, possono invece generare un profitto. È una nuova forma della “lotta alla manomorta” che premia gli investimenti di capitale e penalizza la rendita finanziaria.

E, finché si prospettano ancora ampie ed interessanti opportunità di investimento di lungo termine che possano aiutare a combattere le prospettive altrimenti prevalenti di “stagnazione secolare”, è fondata la speranza che lo spettro dell’inflazione possa restare nell’armadio ancora a lungo e viceversa appare ancora una volta utile immettere ulteriore liquidità nel sistema.

Dunque i tassi negativi potrebbero risultare assai positivi, a condizione di riuscire a trovare maggior coordinamento tra le nazioni.

Stefano di Tommaso