CRESCERE CON LE ACQUISIZIONI

Nel mondo i volumi dell’attività di Merger&Acquisition (fusioni e acquisizioni) sono in calo, ma non la numerosità delle operazioni. E proprio recentemente è stato dimostrato che le società che perseguono la crescita tramite numerose, piccole acquisizioni, creano nel tempo maggior valore per gli azionisti. Ma ciò avviene soltanto quando quelle imprese seguono un programma preciso, lineare, chiaro, coerente e compatibile con le possibilità interne. Sono anni che la letteratura manageriale gira intorno alla maggiore delle questioni che riguardano le fusioni&acquisizioni : è meglio fare poche grandi operazioni oppure perseguire un programma di piccoli passi? Un recente studio della McKinsey fornisce una risposta univoca dal punto di vista statistico: se guardiamo ai numeri hanno stravinto le prime, cioè quelle che hanno seguito la politica dei piccoli passi.

 

IL MERCATO DELLE FUSIONI E ACQUISIZIONI

Che l’economia mondiale si trovi a fronteggiare una prospettiva di rallentamento non lo dicono solo gli ultimi dati sulla produzione industriale di Usa, Europa e Cina bensì un indicatore meno noto ma che allarma governi e banchieri di tutto il mondo: la frenata delle fusioni e acquisizioni fra aziende. Nel terzo trimestre 2019 queste hanno segnato un calo del 28% sul trimestre precedente. Come si può vedere dal grafico che segue, secondo la banca dati finanziari Refinitiv il trimestre che si è appena concluso (al 30 settembre) è stato il più debole per valore delle operazioni degli ultimi due anni e mezzo (da inizio 2017):


Tra le cause del calo :

  • la caduta delle aspettative di crescita,

  • la non facilissima possibilità di accedere al credito per pagare le acquisizioni,

  • le valutazioni troppo elevate.

Partiamo da quest’ultimo fattore per andare a ritroso: la discesa delle valutazioni è mostrata nel grafico qui riportato: il multiplo dell’EBITDA (margine operativo lordo) medio nel mondo intero con cui sono valutate le aziende è sceso da 16 a 15 volte.


Ovviamente si tratta di una media globale sui valori, dunque molto influenzata dalle grandissime transazioni per le quali girano moltiplicatori molto elevati e altrettanto rialzata dalla prevalenza delle operazioni americane, dove i moltiplicatori sono all’incirca del 50% superiori a quelli europei. Il dato comunque è pur sempre eclatante: se nonostante il calo dei tassi di interesse (che dovrebbe far rialzare le valutazioni) assistiamo ad una loro decrescita, allora evidentemente sono le prospettive dell’economia che si sono indebolite.

LE FUSIONI E ACQUISIZIONI SONO UN’INDICATORE DELLE PROSPETTIVE DI CRESCITA DELL’ECONOMIA

Cosa peraltro testimoniata dal fatto che l’oscillazione nelle fusioni e acquisizioni nell’ultimo trimestre è forte in Europa (-31%), meno forte in Asia (-21%) ed è viceversa positiva negli Stati Uniti d’America (+3%) dove ha toccato il massimo di sempre, ma soltanto tra imprese americane, mentre anche lì è in calo l’attività fuori confine (-32%). Non a caso l’economia europea è in forte calo e quella americana è invece ancora in crescita.

In italia invece vanno a gonfie vele le operazioni di aggregazione tra piccole e medie imprese, la cui numerosità è in aumento del 18% nel periodo gennaio-settembre 2019 rispetto al medesimo del 2018, sebbene il controvalore delle stesse sia in discesa del 15%. Vale a dire che la dimensione media delle operazioni di fusioni e acquisizioni è fortemente diminuita (intorno al 30%).

LA FRAMMENTAZIONE DEL PANORAMA INDUSTRIALE ITALIANO E LA NECESSITÀ DI UN SUO CONSOLIDAMENTO

La cosa non deve stupire, anzi: il nostro Paese è caratterizzato da una dimensione media delle imprese assai ridotta rispetto al resto dei paesi OCSE e il consolidamento di queste ultime passa necessariamente attraverso processi di crescita “esterna”, cioè aggregandone altre per raggiungere la massa critica necessaria a sostenere investimenti e concorrenza.


L’esclusione dell’Italia dalla classifica dei migliori paesi dove fare impresa ha ragioni storiche. Il nostro Paese per esempio si piazza al 118° posto nel mondo per quanto riguarda la minor tassazione delle imprese e alla 112° posizione per le possibilità di accesso al credito.


Il “fil rouge” delle aggregazioni italiane è dunque spesso e volentieri la necessità di consolidamento, anche dimensionale, da parte delle imprese che vanno bene, soprattutto quando sono troppo piccole.

Non a caso è in crescita il numero delle quotazioni alla borsa delle piccole e medie imprese (dall‘1 gennaio al 30 settembre si sono quotate all’A.I.M.23 nuove imprese) e il numero di piccoli investimenti dei fondi di private equity, che hanno profuso più di 8 miliardi di euro in 112 operazioni (mentre erano 85 un anno fa), di cui 68 riconducibili a fondi italiani. Tra i più attivi, si segnalano Alto Partners, Wise e Idea Capital, con 3 operazioni ciascuno. Anche la quotazione in Borsa o l’ingresso di investitori del Private Equity in definitiva rispondono alla stessa esigenza nazionale: quella di consolidamento del panorama industriale nostrano.


LO STUDIO DELLA McKINSEY

Da notare poi che anche nel resto del mondo assistiamo ad una rivalutazione delle operazioni minori di fusioni e acquisizioni, rispetto a quelle giganti. Un recente studio della McKinsey afferma infatti che -negli ultimi vent’anni- le imprese che hanno perseguito una politica esplicita, sistematica e di lungo periodo orientata al perseguimento di fusioni e acquisizioni, hanno messo in cascina performances decisamente superiori in termini di creazione di valore per gli azionisti. Nel grafico che segue abbiamo una prima misura relativa a tale affermazione:


Come è possibile dunque che gli “acquirenti seriali” possano raggiungere migliori risultati di quelli “opportunistici”?

Per rispondere a questa domanda andiamo ad osservare altri dati quantitativi forniti dal suddetto studio McKinsey.

I VANTAGGI DELL’ESSERE “ACQUISITORI SERIALI”

Innanzitutto esiste un “know-how” anche nell’acquisire o nell’aggregare imprese. Dal grafico che segue si può osservare che le imprese di maggiori dimensioni che perseguono sistematicamente tali opportunità riescono nel tempo a migliorare la propria capacità di discernimento, di integrazione e di sviluppare una cultura comune a diverse organizzazioni, riuscendo a imporla su quella storica. Ecco un grafico che ne mostra le conseguenze :


Ma poi esiste anche un “rischio sistemico” nell’acquisire realtà esterne, che può essere controbilanciato soltanto dal principio statistico della diversificazione, cioè soprattutto quando le imprese acquisite sono numerose e nessuna di esse rappresenta una grossa scommessa. Dal grafico qui sotto riportato si può vedere che gli “acquisitori programmatici” sviluppano una maggior resilienza al passare del tempo e al mutare delle condizioni di mercato, riuscendo a sopravvivere più a lungo:


Le acquisizioni ripetute e premeditate insomma “fanno bene” all’impresa, anche e soprattutto quando entrano a far parte della cultura d’azienda, vengono accuratamente pianificate e sono svolte da un gruppo affiatato e competente.

È IL CONTRARIO DEL “COGLIERE UN’OCCASIONE”

A far mente locale quelle appena riportate appaiono come delle grandi ovvietà, eppure la maggior parte delle imprese e degli imprenditori ben difficilmente guarda alla possibilità di attingere al mercato delle fusioni e acquisizioni come parte integrante del processo di definizione della strategia aziendale e viceversa “coglie delle opportunità” in modo totalmente casuale o opportunistico, valutandole sulla base della “convenienza”.

Ma a guardar bene quella “convenienza” si può misurare soltanto nel medio termine e spesso non dipende quasi per nulla dal prezzo spuntato in sede negoziale ma bensì ha molto più a che fare con la capacità di digerire le acquisizioni e le aggregazioni all’interno della cultura organizzativa senza incorrere nel fenomeno del “rigetto” dell’impresa aggregata che nel tempo può determinare sanguinose perdite di denaro, clientela e altre opportunità.

UN APPROCCIO STRATEGICO FAVORISCE LE DECISIONI

Molto meglio dunque integrare nella strategia aziendale (con raziocinio premeditazione) la leva delle possibilità di acquisire o fondere altre imprese come parte integrante del processo di formulazione della strategia stessa, con un occhio particolarmente attento alla qualità e alla compatibilità delle risorse umane che derivano da quelle operazioni e affidandosi a gruppi di lavoro che nel tempo risultano affiatati ed esperti oppure affidandosi a consulenti capaci di ragionare e valutare quelle opportunità in termini di strategia “corporate” e non della propria immediata convenienza.

E quegli stessi consulenti è molto meglio se risultano capaci di condividere obiettivi di medio-lungo termine con le imprese clienti, piuttosto che risultare premiati se riescono a strappare qualche punto percentuale in memo nel prezzo o in più nelle garanzie ricevute.

E, di nuovo, tutto questo è molto più probabile che accada in ambienti aziendali dove la frequenza delle acquisizioni e aggregazioni è più alta e dove il loro processo di valutazione è basato sull’approccio strategico e nella capacità di contribuire ad un processo di crescita di valore, dove è più forte l’apertura culturale verso l’innovazione e la digitalizzazione dei processi e, in definitiva, dove le acquisizioni sono più esplicitamente indirizzate alla crescita di valore nel medio-lungo termine.


ANCHE GLI ANALISTI FINANZIARI DOVREBBERO CONSIDERARLO

Ciò dovrebbe infine valere anche per le imprese quotate in borsa, dal momento che chi giudica la validità di tali operazioni sono gli analisti finanziari, i quali sono notoriamente orientati al breve termine, mentre è nel periodo più lungo che si può effettivamente valutare la capacita di creare valore tramite operazioni di crescita “per via esterna”. In molti casi dunque non v’è altra strada che condividere i progetti più a lungo termine con investitori privati invece che con quelli di borsa, arrivando a preferire il “delisting” laddove tale scelta dovesse risultare penalizzante nel breve periodo.

La crescita costante delle dimensioni, della profondità e della specializzazione per settori economici che ha raggiunto oggi il mercato dei capitali può consentire alle imprese, anche a quelle molto grandi, di arrivare a ragionare in tali termini, senza preoccuparsi troppo di “fare un passo indietro” uscendo dal mercato borsistico. L’importante ovviamente -a qualsiasi livello dimensionale- non è la tipologia di investitori (di borsa o privati) che popola la compagine sociale dell’impresa, bensì la loro competenza, la vigile attenzione agli sviluppi del mercato e, in definitiva, la loro capacità di indirizzare e controllare il management verso un percorso di creazione di valore, che non è mai estemporaneo.

Stefano di Tommaso




TUTTI PAZZI PER LA CYBERSECURITY

Mentre l’industria manifatturiera segna il passo negli ultimi mesi, il mercato della sicurezza dei dati (cybersecurity) sta oggi vivendo un vero boom. Secondo il gruppo Gartner che formula a livello internazionale analisi e previsioni per il mercato della tecnologia, quest’anno la spesa complessiva per investimenti correlati alla sicurezza dei dati negli ultimi 13 anni si è già moltiplicata per 30 volte ed è prevista crescere nel 2019 dell’8,7% rispetto all’anno precedente per arrivare ai 124 miliardi di dollari, ben oltre la spesa per infrastrutture informatiche che crescerà soltanto del 3,2%. Se poi restiamo nelle previsioni tale cifra annua è vista ascendere ben oltre i 130 miliardi di dollari nel 2022. Non stupisce che venga da chiedersi se sia arrivata sul punto di scoppiare la bolla delle valutazioni delle imprese che se ne occupano fornendo servizi di sicurezza.

 

DOMANDA E OFFERTA DI CYBERSICUREZZA

Per poter rispondere a questo quesito bisogna tuttavia cercare di guardare al di là dell’orizzonte visibile di domanda e offerta di questo tipo di servizi informatici e chiedersi quali saranno i fattori principali della crescita.

Da un lato infatti la domanda di servizi di cybersicurezza è ampia e crescente, man mano che l’economia si digitalizza e che le imprese fanno sempre maggior uso dei sistemi gestionali integrati.

Dall’altro lato l’offerta di servizi di sicurezza informatica è oramai giunta a un punto di saturazione: nel corso dello scorso anno gli investimenti del Venture Capital nel comparto hanno superato i 5,3 miliardi di dollari, cresciuti del 20% rispetto all’anno precedente (4,4 miliardi di dollari) e del 100% rispetto a quello prima.

Ovviamente anche le valutazioni delle aziende che se ne occupano crescono conseguentemente, tanto a causa della crescita del mercato sottostante quanto perché c’è ancora molto denaro da investire nel settore, tanto tra gli operatori di capitale di ventura quanto nelle borse valori.

L’offerta dei servizi di sicurezza informatica abbraccia sostanzialmente tre settori:

  1. innanzitutto il software per la sicurezza,
  2. poi i servizi di installazione, manutenzione e personalizzazione dei sistemi di sicurezza, e infine:
  3. la formazione necessaria tanto agli operatori quanto agli utenti.

IL MERCATO SI ALLARGA PIÙ CHE PROPORZIONALMENTE

Sebbene vada montando il rischio di una repentina saturazione del mercato globale dei servizi di sicurezza dei sistemi informativi, tuttavia i motivi dell’entusiasmo generalizzato degli investitori per questo comparto sono relativamente semplici da cogliere : i danni che gli hacker (o lo spionaggio industriale) possono arrecare superano ancora oggi di molte volte la spesa necessaria per la messa in sicurezza.

Senza contare il fatto che gli “utenti” della cybersicurezza non sono soltanto le infrastrutture di telecomunicazioni e le imprese che devono proteggere i loro database e le loro tecnologie: oggigiorno anche la sanità, la pubblica amministrazione e gli istituti di ricerca mostrano crescenti esigenze di mettere in sicurezza i loro dati sensibili, così come gli attacchi informatici sono divenuti altresì strumenti di lotta politica, di spionaggio internazionale e di pressione nei confronti dell’opinione pubblica.

Mano mano cioè che il cyberspazio si popola e rimpiazza progressivamente gli strumenti di informazione e archiviazione tradizionali, si sviluppa in parallelo anche la necessità di garantirne la riservatezza, e proteggerne l’integrità e l’accesso. Anche la normativa di fa ogni anno più stringente (vedi ad esempio la GDPR) costringendo in molti casi le imprese a investire nella sicurezza per evitare di incorrere nelle sanzioni.

AL MOMENTO LA SPESA È CONCENTRATA IN POCHE AREE “RICCHE”

La crescita della spesa per la sicurezza informatica più è tutt’altro che omogenea nel mondo e si concentra fortemente-per il momento- nelle zone a più alta concentrazione di ricchezza e tecnologia. Il Nord America, per esempio, è previsto investire nel capitale di imprese del settore per buona parte del totale dei 5,3 miliardi di dollari sopra citati (poco più di 4 miliardi di dollari), mentre il restante miliardo sarà diviso più o meno alla pari tra Europa e Asia.

E ancora, nell’ambito dei soli Stati Uniti d’America, gli investimenti del venture capital nel settore nel corso del 2018 si sono concentrati prevalentemente tra gli investitori californiani, mentre negli Stati dove sono più presenti gli organismi governativi (Maryland, Virginia e Washington DC) sono ammontati “solamente” a 300 milioni di dollari.

È logico pertanto prevedere che nel tempo la spesa per i servizi di sicurezza digitale possa espandersi proporzionalmente anche a tutti gli altri stati d’America e, ancora un po’ più in là nel tempo, anche a tutto il resto del mondo. Ovviamente anche questo mercato è destinato nel tempo a concentrarsi in poche forti mani, così come è successo anche ai sistemi operativi, gestionali e di telecomunicazioni.

Senza contare il fatto che nessuno standard tecnologico è stato ancora raggiunto nel settore della sicurezza e che pertanto c’è da attendersi ancora forti e repentini cambiamenti nelle tecnologie adottate, con conseguenti rischi per chi potrebbe trovarsele spiazzato.

LE PROSPETTIVE RESTANO FLORIDE

Ma nel frattempo la corsa al nuovo oro informatico è al suo apogeo e, se le dimensioni e le articolazioni del cyberspazio si moltiplicheranno quanto dicono gli esperti, allora il mercato della sicurezza è ancora lungi dal trovare la sua saturazione e gli operatori che hanno la capacità di operarvi andranno ancora a lungo incontro a una domanda che supera la loro offerta di servizi, cosa che garantirà ancora a lungo margini interessanti e opportunità di crescita, tanto interna quanto esterna. Una vera manna per tutti: chi ci investe e chi ci lavora, nonostante i rischi citati.

Per quanto riguarda la Borsa Italiana, stamane approderà al listino del segmento AIM la società Cyberoo, la prima società italiana specializzata in cybersicurezza a quotarsi. Con un fatturato di 4,6 milioni di euro nel 2018 e una previsione di 6,6 per la fine di quest’anno (e un EBITDA di 2,4 milioni) la società è stata proposta al mercato con una valutazione di circa 20 milioni, ante aumento di capitale di 7,15 milioni che andrà a costituire un flottante pari al 26% del capitale, pur avendo ricevuto ordini pari a 40 milioni di euro. Un vero successo, nonostante le ridotte dimensioni. Nella foto : Fabio Leonardi, CEO.

Stefano di Tommaso




LA GRANDE PAURA

L’unico argomento che da più di un mese tiene oramai banco nel dibattito tra economisti, analisti finanziari e imprenditori è sempre e solo quello di quante probabilità ci sono che si scateni una nuova recessione globale. La settimana che si è appena chiusa ha visto materializzarsi nuovi timori da questo punto di vista, sebbene si sia poi chiusa meno peggio del previsto. E poi, come si può leggere più oltre, i soli timori non bastano a rovinare un quadro che, per quanto deteriorato, non è ancora del tutto negativo. È esattamente ciò su cui sperano gli investitori per un autunno borsistico che potrebbe, nonostante tutto, addirittura migliorare.

 

Ovviamente i mercati finanziari subiscono in tempo reale le tensioni e i timori, reagendo talvolta assai nervosamente come è successo durante questa settimana quando l’indice più importante relativo all’attività economica delle imprese in America è crollato oltre le aspettative (in particolare relativamente all’attività manifatturiera). Ecco un Tweet divenuto virale in rete riguardante l’indice ISM :


L’indice ISM viene elaborato dell’Institute for Supply Management sulla base di questionari sottoposti a centinaia di direttori degli acquisti di altrettante aziende di 20 comparti manifatturieri. Vengono elaborati 10 indicatori, più uno, il più importante, l’indice PMI, che risulta da una media pesata di altri indici. Letture del PMI superiori a 50 segnalano che più aziende hanno sperimentato la crescita dell’attività economica di quante l’hanno invece vista calare. E’ molto importante anche per gli operatori dei mercati finanziari, perché il settore manifatturiero è particolarmente sensibile all’andamento del ciclo economico e l’indice PMI ne ha spesso segnalato i punti di svolta.

L’indice PMI è dunque considerato una misura affidabile dell’andamento del ciclo economico americano che fino a ieri aveva “tenuto” con i servizi e i consumi, nonostante il calo del comparto manifatturiero. Prende dunque piede l’ipotesi del “contagio” anche in U.S.A. della stagnazione in atto nella zona dell’Euro.

Non si può però affermare che non ce lo si potesse aspettare! Guardiamo per esempio il confronto con l’anno precedente della lettura dell’indice di settembre tra America e Europa:

Scrive in proposito Alessandro Fugnoli:

La delegittimazione della narrazione ottimista si basa su due elementi. Il primo è l’ipotesi di un contagio esteso ormai anche agli Stati Uniti della recessione manifatturiera già visibile da un anno soprattutto in Europa ma estesa ormai ad ampie zone dell’Asia. Di questo contagio americano c’erano in realtà da settimane molti segni (meno merci e prodotti trasportati, sconti crescenti sulle auto, ordini più bassi delle consegne) ma il mercato aveva deciso di ignorarli, salvo cominciare ad arrendersi all’evidenza con l’ultimo dato ISM. (…) Quando quel di più che c’è da vendere sarà stato venduto, le borse ritroveranno il loro equilibrio, che sarà più in basso di quello che si pensava fino a tempi recenti ma non sarà catastrofico. Le possibilità che il mercato chiuda l’anno su nuovi massimi storici in America e di periodo in Europa sono ora legate a circostanze politiche, come un accordo all’ultimo minuto su Brexit, un impeachment che arriva sgonfio a dicembre e trova un senato orientato a respingerlo (come risulta a tutt’oggi) e a un clima minimamente costruttivo con la Cina (il mercato non spera più in un accordo, gli basta una tregua). Come si vede, si tratta di variabili che il mercato non controlla e su cui non ha molta visibilità. Su quello su cui la visibilità è maggiore, utili, tassi e buy back, le notizie sono contrastate, ma nel complesso più neutrali che negative.

Ecco le più aggiornate previsioni per la crescita economica:

Sebbene la volatilità dei corsi di borsa sia indubbiamente cresciuta nelle ultime settimane (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato a proposito dell’indice “VIX”, ovvero il CBOE Volatility Index, pubblicato quotidianamente dalla borsa di Chicago):


L’orizzonte dei mercati finanziari non è però così nero come si potrebbe pensare.

L’elevata probabilità di un terzo taglio di tassi a breve da parte della Federal Reserve (giunta oramai al 90%) comporta già di per sé un certo ottimismo e poi, appunto le circostanze politiche potrebbero anche migliorare, così come i timori sul calo del commercio internazionale potrebbero risultare eccessivi e i nuovi minimi toccati dalla disoccupazione tengono ancora elevati i consumi sebbene se ne percepisca comunque il rallentamento.


Se nel complesso perciò il quadro dovesse migliorare i mercati finanziari potrebbero addirittura guadagnare terreno, complici le nuove importanti immissioni di liquidità operate dalle banche centrali, anche se una nozione oramai sembra acquisìta: la congiuntura fa prevedere che i tassi d’interesse scendano ancora sino a quando non tornerà fare capolino un più di inflazione dei prezzi (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato):

Ciò che potrebbe cambiare decisamente in meglio le cose sarebbe casomai un intervento espansivo non soltanto delle banche centrali ma anche e soprattutto dei governi delle principali economie mondiali, che tuttavia, per farlo, dovrebbero cambiare atteggiamento e spingere sull’incremento dei debiti pubblici, cosa che negli ultimi due anni soltanto Donald Trump e XI Jimping hanno voluto fare e che oggi rischiano di non potersi più permettere di proseguire.

Dovrebbe farlo cioè anche la Germania, per salvare l’Euro-zona, così come dovrebbero farlo il Giappone (con più decisione rispetto a quanto si è visto) e di nuovo la Gran Bretagna (oggi però alle prese con soverchi problemi politici legati alla Gestione del braccio di ferro con Bruxelles). Difficile quindi che questo quadrante del cruscotto irrorerà delle positività tutte d’un colpo. Al di là dello spavento e dello scarso entusiasmo comunque, resta per i mesi a venire uno scenario più neutrale che negativo per le borse e addirittura leggermente ottimistico per i titoli a reddito fisso.


Certamente i nuvoloni di una nuova recessione si addensano. È impossibile ignorarli. E purtroppo, come citato poc’anzi, sono assai poco prevedibili le variabili-chiave che determineranno l’eventuale conferma delle aspettative negative appena emerse. Si può solo navigare a vista dunque, senza pretendere troppo dalla sfera di cristallo…

Stefano di Tommaso




IPO: FINALMENTE UN PO’DI RAZIONALITÀ

Negli USA troppo spesso negli ultimi anni le IPO (Initial Public Offerings, cioè le Offerte Pubbliche che precedono la quotazione delle matricole in Borsa) sono state sinonimo di modelli di business basati sull’economia digitale e di eccessi nelle valutazioni. Oggi il mercato dei capitali inizia a guardarci dentro in maniera più razionale e meno entusiastica, ma soltanto per quelle imprese che devono confrontarsi con troppa concorrenza, scarsa possibilità di fare profitti e continue necessità di investire, come WeWork, Uber e Lyft, ad esempio. Questo dunque non significa che il mercato delle IPO sia morto, anzi! Soltanto che gli investitori hanno finalmente aperto gli occhi. Un’interessante scenario che potrebbe ripetersi in Europa, Private Equity permettendo…

 

LO SCENARIO È CAMBIATO

Una statistica particolarmente significativa è stata prodotta da Jay Ritter, della Florida University: nel 2018 sul mercato americano ci sono stati 134 debutti in Borsa e l’81% di queste società mostrava perdite nell’ultimo bilancio. Mentre la scorsa settimana Eric Savitz per conto del settimanale americano Barron’s ha stilato una classifica delle 114 società che dall’inizio dell’anno fino ad oggi si sono quotate in borsa a Wall Street: più della metà di esse (esattamente 63) ha avuto ad oggi rendimenti assai positivi, a dimostrazione del fatto che le cose stanno cambiando! Eccone un estratto:


DIVERSI PROBLEMI AFFLIGGONO LE I.P.O.

Secondo Savitz ci sono diversi problemi concomitanti che hanno contribuito alla debacle del primo giorno di quotazione per giganti come “WeWork” (che affitta uffici temporanei in condivisione) o “Peloton” (una sorta di Tecnogym super tecnologica americana) fino all’abbandono del processo di quotazione da parte delle ultime matricole che volevano affacciarsi al listino come Endeavor, colosso di Media e Talent Agency, che ha rinunciato in extremis al suo Initial Public Offering. Sarebbe dovuto essere lo scorso venerdi’ 27 Settembre. Una decisione presa dopo aver gia’ ridotto a 27 dollari il prezzo di offerta ipotizzato, dai 32 annunciati solo la scorsa settimana. La societa’ controlla l’agenzia WME e lo sport estremo Ultimate Fighting Championship (UFC) e non fa profitti.

Ma non si può affermare che il mercato delle IPO si sia inaridito: è soltanto diventato più selettivo.

Innanzitutto la dimensione media delle IPO è molto cresciuta: se si guarda alla tabella sopra riportata si parla quasi solo di molti miliardi di dollari di capitalizzazione: questo ha di fatto allontanato molte piccole realtà che hanno trovato valide alternative sul mercato privato dei capitali (venture capital e private equity).

Ma non solo: se si guarda alla performance del primo giorno di quotazione per le IPO dal 1980 al 2018, l’incremento di valore medio (dunque al netto delle performances negative) è stato pari al 18%. Cioè 165 miliardi di dollari di maggior valore che non sono stati raccolti dalle imprese a causa di un prezzo “di uscita” troppo prudente. È facile immaginare che tale sottovalutazione abbia riguardato soprattutto le imprese a più bassa capitalizzazione, mentre probabilmente si è ecceduto all’opposto per le imprese più note al grande pubblico.

IL NUMERO DELLE QUOTATE SI È DIMEZZATO A WALL STREET

Il fenomeno del disamoramento del mercato borsistico da parte delle start-up e delle imprese di minori dimensioni ha peraltro raggiunto dimensioni allarmanti: vent’anni dopo il picco delle 8000 società quotate in America nel 1996 siamo scesi a circa la metà nel numero di imprese oggi quotate in borsa, come si può vedere dal grafico prodotto dalla Banca Mondiale:

Il fenomeno è ampiamente giustificato dall’enorme numero di fusioni e acquisizioni degli ultimi anni e dai conseguenti “delisting” che ne sono derivati, ma è macroscopico il fatto che nello stesso periodo non vi è stato un adeguato numero di IPO per controbilanciarlo.

Al tempo stesso la performance dei titoli quotati ha avuto negli Stati Uniti d’America un andamento molto migliore rispetto all’Europa e ai Mercati Emergenti, soprattutto negli ultimi 2 anni. Sinanco eccessiva.

Roe hi-tech Usa, Europa ed emergenti a confronto


Ovviamente lo scenario del minor numero e della maggior dimensione delle imprese quotate ha destato molte preoccupazioni tra le autorità, perché se in borsa si dovessero quotare soltanto grandi imprese già mature e magari con scarse prospettive di crescita gli investitori potrebbero decidere di starne alla larga.

Forse anche per questi motivi è tornata ad affiorare più razionalità nelle ultime IPO, con un maggior interesse verso quelle società che promettono vere e importanti innovazioni tecnologiche e, in prospettiva, grandi utili.

IL “DIRECT LISTING” INCOMBE

Un altro fenomeno che ha contribuito a deprimere i prezzi di borsa di talune tra le ultime matricole è stato quello del “Direct Listing”, ovvero della quotazione del titolo in borsa riservata alle imprese che già rispettano determinati parametri (ad esempio una decisa trasparenza dei bilanci e un adeguato livello di flottante) senza un previo collocamento azionario e dunque quasi senza l’intervento di una nutrita schiera di banche e intermediari attivi nel collocamento.

In questi casi, non essendoci stata una sollecitazione del pubblico risparmio, non esiste nemmeno un divieto di vendita dei titoli dopo la quotazione da parte di coloro che li detenevano in precedenza (il cosiddetto “Lock-Up”). Cosa che ha permesso ai titoli azionari quotati con tale modalità di andare profondamente al ribasso nei primi giorni di quotazione.

COSÌ COME IL RUOLO DEL PRIVATE EQUITY

Da non sottovalutare poi il ruolo del Private Equity nel catturare le migliori opportunità di crescita di valore delle aziende ai danni delle borse valori. Negli ultimi anni la “capacità di fuoco” (dry powder) dei fondi di p.e. È decisamente aumentata, con la conseguenza che, avendo ancora molti capitali da investire liquidi in banca, spesso questi ultimi hanno deciso di “trattenere” nella loro sfera più a lungo le imprese più capaci di accrescere il loro valore, prima di portarle sul listino azionario. Il risultato di questo fenomeno è ovviamente un minore spazio per la crescita di valore per le matricole di borsa, come si può vedere dal grafico qui sotto riportato:


MA MILANO NON STA A GUARDARE

Uno scenario americano dunque assai composito ma non deprimente, in vista delle numerose IPO in arrivo sul mercato borsistico milanese, dove sono previste 5 operazioni prima di fine anno, tutte sul segmento STAR : Ferretti, RCF Group SanLorenzo, NewLat e Franchi Marmi, per tutte le quali il vero nodo da sciogliere a questo punto è la corretta valutazione.

E in prospettiva per la prossima stagione (2020) ce ne sono molte altre: GVS di Bologna, Epta Refrigerazione, Golden Goose, SIA, Prelios e Adler. Tutte (o quasi) alle prese con il cosiddetto “dual track” decido cioè all’ultimo se mi quoto in borsa o mi vendo (ad un fondo?).

Comunque si giri la frittata dunque il Private Equity rispunta sempre a tormentare i sonni dei gestori attivi sul listino azionario. E non senza una ragione…

Stefano di Tommaso