L’ECONOMIA RALLENTA… MA NON RETROCEDE

Circolano pessime aspettative sull’andamento economico del prossimo futuro, in particolare per l’Europa e ancor più in particolare per ITALIA e Germania, cioè per le economie che risentono di più del rallentamento globale a causa della loro forte propensione all’esportazione di impianti e macchinari. Per gli U.S.A. si parla di una seconda parte dell’anno in crescita media dell’1% (e se fosse le previsioni del 2% su base annua sarebbero smentite) e persino la Cina, notoriamente in crescita tanto demografica quanto strutturale, nell’ultimo trimestre sembra aver rallentato la sua corsa al 5% su base annua, quasi 2 punti in meno che nel 2018. Ecco una serie di segnali che fanno pensare che il pendolo dei cicli economici stia invertendo la sua corsa, indicando l’imminenza di una stagnazione globale (ma non di una recessione).

 

Sebbene si moltiplichino le notizie sul rallentamento della crescita economica globale, indubbiamente le banche centrali stanno facendo la loro parte per scongiurare il peggio: la BCE di Mario Draghi (prossimo all’uscita) ha promesso di immettere sul mercato almeno 20 miliardi di euro al mese per una durata indefinita, ma la FED americana ha annunciato la scorsa settimana un’iniezione quotidiana di liquidità pari a 75 miliardi (al giorno, non al mese) sul mercato interbancario fino al 10 ottobre, per un totale di interventi a vario titolo che potrà arrivare in 20 giorni (dal 21 settembre) a 1300 miliardi di dollari. Ma lo scorso giovedì la Federal Reserve ha deciso di ampliare ulteriormente gli interventi sul colossale mercato monetario americano, aumentando da 75 a 100 miliardi di dollari al giorno l’iniezione di liquidità a favore delle banche e raddoppiando da 30 a 60 miliardi l’offerta di finanziamenti a 14 giorni per i “pronti contro termine”, portando il controvalore complessivo della manovra a 1600 miliardi di dollari.

IL SISTEMA BANCARIO È DI NUOVO IN CRISI ?

I numeri sopra esposti sono una vera enormità sinanco per la banca centrale americana, soprattutto a pochi mesi dall’ultimo rialzo dei tassi! Cosa che evidenzia una verità probabilmente inequivocabile: il sistema finanziario americano è già adesso andato in crisi, facendo crollare ai minimi storici oltre ai tassi di interesse anche la velocità di circolazione della moneta. Le banche centrali lo sanno e stanno silenziosamente cercando di contrastare il fenomeno.


D’altra parte se i tassi d’interesse vanno sotto lo zero significa una sola cosa: ci sono aspettative di recessione e di deflazione, altrimenti risalirebbero in fretta. La deflazione è un’aspettativa di calo dei prezzi che è specularmente all’opposto dell’inflazione, ed è altrettanto pericolosa: se io mi aspetto che un qualsiasi bene scenderà di prezzo allora rimando il momento in cui lo acquisterò perché poi mi costerà meno, ma questo è un freno all’economia cui mancherà la mia iniziativa di acquisto e, a livello collettivo, se di quel bene caleranno le vendite, nessuno aumenterà la sua produzione e a chiunque converrà rimandare gli investimenti per migliorarne le caratteristiche, per timore che tali investimenti non renderanno nulla.

Se tutti volessero investire ci sarebbe più domanda di capitali e i tassi d’interesse salirebbero. Se i tassi scendono è anche perché nessuno vuole investire o acquistare beni durevoli o peggio: se ci sono aspettative di deflazione farlo oggi significherà pagare più che domani.

IL “RIGGED CAPITALISM” DI MARTIN WOLF

Secondo Martin Wolf, il principale commentatore economico del Financial Times, non si tratta soltanto della fine di un ciclo economico ma è soprattutto colpa di una serie di deviazioni di un capitalismo, nell’accezione più occidentale del termine, oramai deviato e intorpidito, dove le rendite di posizione la fanno da padrone, la diseguaglianza cresce esponenzialmente e la produttività ristagna, anzi decresce. Ecco l’articolo : https://www.ft.com/content/5a8ab27e-d470-11e9-8367-807ebd53ab77

Io sono parzialmente d’accordo con questa lettura della situazione congiunturale, anche se probabilmente si tratta di due concause (il “rigged capitalism” e la fine del ciclo economico espansivo) che oggi spingono il mondo verso un rallentamento della crescita economica ma non a una vera e propria recessione.

 

INTANTO LE ASPETTATIVE SONO AI MINIMI TERMINI…

Un indicatore molto affidabile delle tendenze di fondo dell’economia è l’indice di fiducia degli operatori della Markit (l’indice PMI), diverso peraltro per ciascun comparto industriale. Di seguito riportiamo i dati relativi all’Eurozona che, senza eccezioni, dipingono uno scenario davvero poco rassicurante:


L’indice PMI Composito della Produzione nella zona Euro è a 50.4 (51.9 ad agosto). È il valore minimo da 75 mesi.
L’indice PMI delle Attività Terziarie nella zona Euro è a 52.0 (53.5 ad agosto). È il valore minimo da 8 mesi.
L’indice PMI della Produzione Manifatturiera nella zona Euro è a 46.0 (47.9 ad agosto). È il valore minimo da 81 mesi.

Ancora peggio la pensano gli investitori, le cui aspettative sono effettivamente poco rassicuranti:


…MA QUELLA IN ARRIVO PIÙ CHE UNA RECESSIONE SEMBRA UNA STAGNAZIONE

Ajay Rajadhyaksha, capo economista della Barclays non ha peli sulla lingua: ”stimiamo che l’economia globale crescerà di 50 punti base più lentamente quest’anno rispetto al 2018 ed è improbabile che il 2020 sia migliore…sarà un po’ più debole del 2019 ma non una vera e propria recessione… i servizi in tutto il mondo si stanno ancora espandendo. I mercati del lavoro globali sono in discrete condizioni, anche se la crescita dell’occupazione è rallentata e i consumi dovrebbero continuare a sostenere l’economia mondiale. La mancanza di pressioni sull’inflazione ha consentito alle banche centrali di ruotare rapidamente verso l’allentamento finanziario e questo favorirà i titoli obbligazionari nelle aree del mondo dove i rendimenti sono più alti”.

È da tempo peraltro che i giornali citano un indicatore molto affidabile dell’imminenza di una nuova recessione: l’inversione della curva dei rendimenti. Vale a dire che se i tassi a lungo termine vanno sotto i livelli di quelli a breve termine allora significa che c’è solo una cosa che controbilancia il “premio per l’illiquidità” che un risparmiatore vorrebbe se investe a lungo termine invece che a breve: un’ aspettativa di peggioramento dell’economia e dunque di deflazione.

L’INDAGINE DI ADAM SLATER DI OXFORD ECONOMICS

Adam Slater, economista di Oxford, ci fa notare in un recente articolo che dal 1974 ad oggi questo evento ha anticipato in media di 13 mesi l’imminenza di una recessione in oltre l’80% dei casi , sebbene talvolta ci siano voluti quasi 2 anni dopo l’inversione della curva dei tassi perché si manifestasse l’inflazione.

Il Financial Times di qualche giorno fa ha pubblicato la notizia che Adam Slater ha recentemente messo sotto osservazione altri 6 indicatori economici che potrebbero aiutare a predire una recessione:

  1. la produzione industriale
  2. la valutazione media dei titoli quotati
  3. Il prezzo delle Commodities (materie prime e generi alimentari)
  4. i tassi dei finanziamenti
  5. la disponibilità di credito
  6. i profitti aziendali

Ecco una sintesi dei risultati di tale indagine:

Sebbene il tempo di anticipo con il quale questi indici possono formulare una previsione di recessione possa variare considerevolmente, gli ultimi 4 di essi (cioè la maggior parte) hanno mostrato nei 45 anni passati capacità predittive assolute (cioè hanno fornito un’indicazione di recessione in arrivo prima della sua effettiva manifestazione) nel 64% dei casi.

 

LE IMPRESE RACCOLGONO PIÙ DENARO…

Un segnale inequivocabile del fatto che le maggiori imprese del mondo vedono grigio per il prossimo futuro è che stanno approfittando del momento favorevole per tassi bassi e liquidità abbondante sul mercato dei capitali per mettere fieno in cascina ed emettere a tutto spiano titoli obbligazionari. Ecco un grafico che ci indica il picco di nuove emissioni obbligazionarie cui siamo arrivati in Settembre:

E RIDUCONO I PROFITTI

Anche dal punto di vista dei profitti aziendali stiamo riscontrando le prime avvisaglie di una loro riduzione: negli Stati Uniti d’America le imprese “Blue-Chips” (le maggiori) li hanno già limati in media di uno 0,3% (sul valore delle azioni) nel secondo trimestre, dopo un’ulteriore limatura dello 0,2% nel primo trimestre. E dopo due trimestri consecutivi si potrebbe facilmente parlare di “recessione dei profitti”, che nel grafico di Slater predice in media una recessione con 9 mesi di anticipo.

Se non fosse che oggi come oggi nessuna grande impresa è più soltanto in una giurisdizione fiscale e, come si può leggere dal grafico qui riportato, i profitti marciano piuttosto bene in quelle meno avide di introiti fiscali:

Insomma il lieve calo della redditività delle imprese è soltanto un segnale di allarme, non una vera e propria capitolazione. Certamente se anche nel terzo trimestre (che si chiude a breve) i profitti scenderanno allora la vera questione si sposterà sulla capacità (e volontà) di continuare con gli investimenti da parte delle imprese, che a sua volta dipende molto dall’andamento del commercio internazionale e dalla dinamica dei consumi.

La prudenza attuale non significa però necessariamente l’entrata in recessione dell’economia. Per numerose ragioni la produttività industriale sembra (statisticamente) in calo da quasi 60 anni (come si può vedere dal grafico qui riportato):


E crescono costantemente le diseguaglianze sociali (come si può vedere da quest’altro grafico):


E persino la creazione di nuove iniziative imprenditoriali si riduce :


Eppure la ricchezza globale aumenta, le dimensioni dell’economia mondiale negli ultimi 50 anni si moltiplicano per 8 come si può vedere dal grafico qui sotto riportato:

Del resto sono anni che gli economisti prevedono qualcosa, ogni volta dovendo ricorrere a qualche sotterfugio per spiegare il motivo per il quale si erano sbagliati. Si legga ad esempio questo grafico che riassume le indicazioni del Fondo Monetario Internazionale fino al 2015 :


Scarsa affidabilità dunque, e probabilmente è oggi altrettanto scarsamente affidabile la previsione quasi unanime di imminente recessione.

E le tendenze per l’anno in corso e quello che verrà sono state riviste sì al ribasso, ma per il momento restano (lievemente) positive:


Il mondo dunque, nonostante tutto sembra andare comunque più avanti che indietro, forse soltanto un po’ più lentamente del previsto!

Stefano di Tommaso




TWILIGHT ZONE

Tre eventi relativamente importanti nelle ultime due settimane hanno turbato assai poco quella che ancora oggi può sembrare la calma “olimpica” dei mercati borsistici, giunti da tempo in prossimità di nuovi record : 1) il più importante attacco agli impianti petroliferi sauditi da almeno un decennio, 2) il taglio dei tassi di 1/4 di punto da parte della banca centrale americana e 3) una repentina, inattesa quanto poi rivelatasi insignificante, crisi di liquidità sul mercato del denaro interbancario in America, cosa che -molto più della prima e nonostante la seconda- ha fatto temere per il peggio riguardo alla sorte delle principali borse mondiali, intravedendovi similitudini con quanto accaduto nel 2008 poco prima del grande crollo. Niente di più sbagliato, per fortuna, ma all’alba dell’undicesimo anno di crescita (relativamente) costante degli indici di borsa a WallStreet e, a ruota, delle principali altre borse, evidentemente qualcosa sta davvero cambiando. Vediamone il perché, a partire dall’analisi degli antefatti citati.

 

LO CHOC PETROLIFERO

Innanzitutto lo choc petrolifero: undici droni da combattimento, qualcuno dice inviati da movimenti irredentisti arabi, qualcun altro dice da fazioni ispirate dall’Iran, hanno bombardato con grande precisione degli impianti petroliferi sauditi provocandone un vero e proprio dimezzamento della capacità produttiva. Forse si è trattato del più importante colpo inferto a una nazione araba, un vero e proprio atto di guerra, cui peraltro è seguita la dichiarazione dell’OPEC, l’organizzazione delle nazioni maggiori esportatori di petrolio, che nulla sarebbe stato fatto per supplire al calo della produzione. Quando è successo i prezzi del greggio sono saliti di oltre il 15% per poi concludere la settimana a un +5% circa. Le borse ovviamente hanno accusato il colpo, ma soltanto di un punto percentuale, terminando la settimana poco sotto la sua partenza, a meno 0,5%.

IL TAGLIO DEI TASSI AMERICANI

Poi il taglio dei tassi d’interesse da parte della FED, manovra ampiamente scontata dai mercati, accompagnata peraltro da ben pochi commenti da parte di un governatore quasi infastidito dal doversi trovare ad attuarla (qualche settimana prima aveva già tagliato i tassi dello stesso ammontare: 0,25% ma aveva anche aggiunto che si trattava di un aggiustamento non necessariamente da ripetersi). Morale il mercato borsistico è sì risalito, ma di poco, dal momento che la vera domanda era di quanto sarebbero stati tagliati i tassi, non se sarebbe successo.

LA CRISI DI LIQUIDITÀ DELLE BANCHE U.S.A.

Mentre ciò accadeva, un terzo evento si è consumato in modo imprevisto, violento ma anche quasi senza effetti collaterali: una crisi di liquidità del sistema bancario americano dovuta alla concomitanza di diverse scadenze tecniche, cui è seguito un picco dei tassi a brevissimo termine fino quasi al 10% (da meno del 2%) e cui ha fatto fronte immediatamente la stessa banca centrale americana immettendo in due tornate molti miliardi di dollari, al contrario di ciò che aveva sempre dichiarato di voler fare.

Neanche in questo caso il mercato borsistico ha fatto però una piega, forse giudicando il fenomeno abbastanza irrilevante dal momento che probabilmente nessuno aveva preso troppo sul serio le dichiarazioni di un governatore di quella banca centrale che, quasi ogni giorno, viene raggiunto dagli strali del presidente degli Stati Uniti d’America per il suo immobilismo. Dunque anche in tal caso ogni teoria è valida: la sua reputazione è completamente screditata oppure è intervenuto così bene da lasciare le cose come stavano fornendo stabilità al sistema?

LA FEDERAL RESERVE HA PERSO IL CONTROLLO?

Come anticipato più sopra qualcuno ha voluto vedere in questa tempesta del mercato interbancario, consumatasi però in un bicchier d’acqua e nello spazio di qualche giorno, un prodromo dell’ennesima crisi di fiducia del sistema finanziario americano, esattamente come era avvenuto poco prima del grande crollo del 2008, a seguito della crisi dei mutui “sub-prime” e del fallimento della Lehman Brothers. Anche in quel caso il mercato era pieno di ottimismo e ci ha messo qualche giorno a peggiorare ma, si obietta con vigore, oggi non esistono forti situazioni di squilibrio né una crisi di fiducia in vista. Soltanto è una banca centrale che sembra aver perso ogni capacità di indirizzo dell’economia e delle borse, nonostante si pronunci pubblicamente sempre più spesso.

Decisamente simili le cose in Europa, dove la settimana delle borse ha praticamente chiuso in parità, sebbene questo sia un segnale negativo, dal momento che le borse europee hanno ancora de recuperare uno svantaggio accumulato in precedenza rispetto a quella americana. Altrettanto negativo gli indici di fiducia degli operatori e dei consumatori nel vecchio continente, che lasciano un po’ di perplessità a chi avrebbe voluto mostrare più ottimismo sui mercati finanziari (anche perché in Europa la liquidità abbonda), ma è stato costretto dai fatti dell’economia reale a mantenere un approccio neutrale.

UN AUTUNNO CALDO E INCERTO ?

L’autunno in arrivo insomma da un lato mantiene le sue promesse di stabilità e persino di un cauto ottimismo da parte dei mercati finanziari, tutti prossimi ai massimi storici di sempre e con le quotazioni dei bond così in alto da contare i rendimenti più bassi di sempre, dall’altro lato la stagione si apre all’insegna dell’incertezza-tanto geopolitica quanto economica e addirittura ultimamente anche della credibilità delle istituzioni finanziarie- e i mercati finanziari non riescono a ignorarla completamente.

Il lungo ciclo economico positivo sembra stare consumando lentamente le sue ultime battute, nonostante che da molte parti sembri voler continuare a mostrare ancora vigore. Da tutte le parti si proclama la necessità di nuovi interventi di stimolo alla crescita economica, questa volta di tipo fiscale e dunque dove sono necessarie volontà politiche e capacità di coordinamento globale tra i governi che al momento non sono estremamente evidenti.

GLI INVESTIMENTI FANNO BEN SPERARE

Il settore privato peraltro sembra aver molta voglia di cogliere il momento storico della grande liquidità in circolazione e dei tassi di interesse ai minimi storici: nelle emissioni di Corporate Bond si registra un affollamento di nuove emissioni ne non si vedeva da tempo. È una “provvista per momenti peggiori” o il segnale che gli investimenti privati stanno ripartendo alla grande? (Nel grafico: il livello di emissione di prestiti obbligazionari nel mondo alle varie date)

Difficile immaginare che non si tratti di entrambe le cose, anche se il combinato disposto dei tassi quasi a zero e delle riserve di liquidità per il dopodomani riducono fortemente la velocità di circolazione della moneta e costringono le banche centrali a continuare i loro interventi.

C’è poi il problema dei problemi: quello della decisione di avviare le grandi opere infrastrutturali che in tutto il mondo erano state invocate da molti e promesse da quasi tutti i governi, e che oggi sembrano essere rimaste al palo. Non v’è traccia del loro effettivo avvio o quantomeno della loro incentivazione fiscale o anche solo del loro (indiretto) sostegno finanziario (laddove fossero promosse da privati). Ma nessun privato può (ancora) riuscire a sostituire i governi delle nazioni e gli organismi sovranazionali in questo campo, e dunque nessun serio progresso è ancora visibile su questo fronte.

MA MANCA LA FIDUCIA

Manca insomma anche in tal caso un’iniezione di entusiasmo, una maggior fiducia e/o un’evidente volontà di collaborazione globale per riuscire a ritrovarsi in un mondo migliore. Anzi! Quello della fiducia sembra proprio essere il problema principale del momento. E per ripristinarla non bastano i bazooka delle banche centrali. È come se fossimo tutti consci della situazione crepuscolare ma nessuno avesse seriamente intenzione di accendere le luci artificiali.

Anche se possiamo ancora definirlo uno splendido crepuscolo, in un clima generale mite e con una macchina economica relativamente sana in cui le imprese sembrano continuare a fare profitti e addirittura le tecnologie continuano a inanellare progressi formidabili, saltano agli occhi casi come “WeWork”, la catena internazionale di uffici temporanei, che pare avere seri problemi a riempire le sue strutture e a pagare di conseguenza gli affitti ai proprietari degli immobili. È un segnale di rallentamento dell’economia o un caso isolato (per quanto WW sia in tutto il mondo)?

E MANCA LA CAPACITÀ DI REAGIRE

Si tratta dunque di una calma soltanto apparente prima dell’abbattersi di nuove tempeste o soltanto di qualche increspatura tra le nuvole all’orizzonte dell’economia che presto andrà a scomparire? Ovviamente nessuno può dirlo, anche perché è la recente storia economica che ce lo insegna: nessuna grande crisi economica ha distribuito gli annunci per le strade con mesi di anticipo quando si è manifestata. Il fattore-sorpresa è essenziale perché scatti una crisi. Ma è poi vero anche il contrario: sono diversi anni che gli economisti continuano ad affermare che il ciclo economico positivo è agli sgoccioli eppure quel che è successo è sotto gli occhi di tutti.

Non esistono oggi in definitiva teorie economiche dotate di seria capacità predittiva, né guru infallibili che hanno vaticinato. La scienza economica è probabilmente in impasse. Semplicemente noi ci chiediamo ugualmente anche stavolta se le zone d’ombra che stiamo attraversando possano costituire dei prodromi di una nuova recessione o sono soltanto delle periodiche variazioni di un ancora lungo ciclo di crescita. O ancora sono forse più semplicemente la controprova dell’avvento (da molti preconizzato) di una relativa “stagnazione secolare”. (Nel grafico: la quota di prodotto interno lordo 2018 delle prime economie nel mondo)

Una sorta di aureo declino dell’occidente, dai contorni dorati ma senza che se ne intraveda la fine oltre l’orizzonte. Io scommetterei su quest’ultima possibilità. Una situazione dalla quale potremmo probabilmente uscire senza grandi problemi, se solo lo volessimo davvero, però!

 

 

Stefano di Tommaso




PETROLIO? NIENTE PANICO (ANZI!): CI SONO GLI AMERICANI

La favoletta della mano iraniana (o di quella della resistenza yemenita) sull’attacco agli impianti petroliferi dell’Arabia ha fatto il giro del mondo suscitando soltanto ilarità, dal momento che nemmeno gli Stati Uniti d’America hanno potuto conprovare che siano stati i persiani a compiere quel gesto disperato, limitandosi ad affermare che “potrebbero averlo ispirato”. Ma intanto il rischio di minor immissione sul mercato di quasi metà della produzione saudita ha prodotto nel breve termine il suo effetto di far innalzare i corsi del petrolio e far temere che gli stessi resteranno alti anche in futuro. La verità fortunatamente è più o meno il contrario.

 

I mercati hanno reagito al rialzo alla notizia del bombardamento più letale di sempre andato a segno sugli impianti di Riyad da parte di una pattuglia di undici droni para-militari, non tanto a causa degli ingenti danni alla capacità produttiva della Saudi Aramco (che tutti sanno essere rapidamente riparabile) quanto a causa delle immediate dichiarazioni dell’OPEC (il cartello dei paesi produttori) di non voler intervenire per calmierare il prezzo e, anzi, di voler tagliare ulteriormente le quote di produzione di greggio allo scopo di sostenerne i prezzi.

Un effetto che però rischia di durare assai poco, perché il mercato del petrolio resta endemicamente afflitto da problemi di sovrapproduzione rispetto alla domanda. Di seguito un raffronto con i precedenti attacchi mostra che l’ultimo è stato il piu violento di sempre. Nel grafico successivo lo scossone alle quotazioni che ne è conseguito.


Per comprendere come stanno davvero i fatti è necessario ricordare quali effetti sta provocando la diffusione delle nuove tecnologie di estrazione di petrolio e gas attraverso la fratturazione idraulica dei giacimenti nascosti (il c.d. “fracking” attuato al momento quasi soltanto da compagnie petrolifere attive sul suolo americano). Grazie a ciò la produzione di petrolio americano è cresciuta di oltre il 40% (oltre 3 milioni e mezzo di barili in più al giorno) in soli tre anni, facendo degli Stati Uniti d’America il primo produttore al mondo di petrolio, sebbene al momento buona parte di quanto estratto vada in autoconsumo.

IL RUOLO DELL’OPEC

Nei due grafici che seguono i Paesi principali estrattori e consumatori di petrolio:


Ma soprattutto occorre guardare al fenomeno appena evidenziato in prospettiva: l’estrazione di petrolio e gas nel mondo continua a crescere più o meno quanto la sua domanda, ma anche a causa del fatto che esistono sanzioni che hanno messo al bando l’importazione dai Paesi “carogna” (ovviamente dal punto di vista degli americani) e che l’Opec (l’organizzazione dei paesi che estraggono petrolio) ha imposto a chi vi aderisce forti restrizioni dell’ammontare di barili che vengono estratti allo scopo di sostenere il prezzo (riuscendovi soltanto in parte). Morale esiste una forte capacità di estrazione di petrolio oggi inutilizzata .


E QUELLO DEL “FRACKING”

Esiste però appunto poi il Fracking: con prezzi troppo bassi il petrolio da estrarre con il tale modalità per buona parte non viene estratto, ma non appena il prezzo cresce un po’ cambia tutto (pare che già oggi ci siano solo in America 4000 nuovi pozzi petroliferi pronti per entrare in funzione). Ovviamente l’America si chiede come farà in futuro per esportarne di più, pur in presenza di forti riduzioni delle quote estrattive concordate dai Paesi Opec appunto onde evitare che il prezzo del barile scenda al di sotto di determinati livelli.

Ovviamente negli Stati Uniti d’America convivono due interessi contrapposti: da una parte quello che riguarda gli interessi dei consumatori americani, i quali hanno la speranza che una materia prima così essenziale per la loro economia per molti versi possa costare il meno possibile, contribuendo così anche alla bassa inflazione sino ad oggi registrata che a sua volta sta facendo scendere i tassi di interesse sui prestiti. Il governo americano, così come il suo presidente, non possono che schierarsi ufficialmente in questa direzione. Inoltre prezzi troppo alti del petrolio non sono sostenibili nel a lungo termine senza generare un rallentamento dell’economia globale e quindi un calo della domanda: cioè un boomerang per i paesi produttori. Dall’altra parte c’è però l’interesse contrapposto delle compagnie che estraggono e negoziano petrolio e gas, le quali potrebbero guadagnare di più se i prezzi del barile crescessero, a condizione ovviamente di trovare in parallelo anche nuovi mercati di sbocco per le loro esportazioni.


Senza che ufficialmente vi sia perciò alcuna posizione a favore di queste ultime da parte degli organi di governo americani, le pressioni che i petrolieri esercitano sul “deep state” fanno sì che l’America trovi sempre degli ottimi motivi per “persuadere amichevolmente” paesi come l’Arabia Saudita a ridurre le proprie esportazioni di petrolio, oppure per erogare a raffica sanzioni all’Iran, al Venezuela o alla Russia, con motivazioni ufficialmente politiche, ma guarda caso sono tutti grandi esportatori di petrolio e gas. Si calcola che l’effetto combinato delle sanzioni alle esportazioni di petrolio da parte di questi paesi abbia ridotto le forniture globali di oltre 3 milioni di barili di petrolio al giorno. Guarda caso lo stesso ammontare di maggior produzione americana negli ultimi tre anni.

IL “DEEP STATE” OVVERO IL RUOLO DELLE LOBBY PETROLIFERE

Ma cos’è il Deep State o “stato nello stato”? Esso indica una situazione in cui taluni organi interni allo stato, ad esempio nelle forze armate, nei servizi segreti, nella polizia, nelle agenzie governative o in altre burocrazie di governo non rispondano alla leadership politica, bensì a gruppi di potere dai quali ottengono favori in cambio di azioni (o ostacoli) che non rispondono alle direttive ufficiali della politica bensì a interessi di parte. Si obietta persino della sua esistenza e non è facile identificarlo, per la sua natura profondamente occulta. Ma non è difficile immaginare per chi possa tenere le parti.

Se dunque l’Opec collaborasse controllando maggiormente le quote di produzione (lo ha già annunciato per la prossima riunione di Ottobre) ovviamente gli americani avrebbero la possibilità di introdurre alla chetichella più petrolio, perché parte della domanda resterebbe insoddisfatta (condizione essenziale per farne lievitare i prezzi). Ovviamente il giochino non potrà durare in eterno ma l’effetto di incremento del prezzo del petrolio può permettere anche al gas (soprattutto al GPL: gas da petrolio liquefatto) di rincarare in parallelo e invece la distribuzione del gas naturale segue dei canali molto diversi: dai grandi gasdotti continentali d’Europa (che attingono altrove: dalla Russia al Kazakhstan) fino alle gigantesche navi gasiere che lo trasportano dall’America. E soprattutto è una materia prima che rimane al di fuori dalla sfera di influenza dell’Opec.

IL RUOLO DEL GAS

Ci sono dunque immensi interessi di parte a far crescere il prezzo del barile di petrolio (a partire dal fatto che la Saudi Aramco -la più grande compagnia petrolifera al mondo- vuole quotarsi in borsa). Ma perché ciò accada una macchina molto sofisticata di accordi, sanzioni e controlli dovrebbe funzionare a puntino oppure deve scoppiare qualche guerra. E la cosa non è così scontata, anzi!

Innanzitutto ci sono ancora dei limiti potenti alle quantità di petrolio che può essere “imbottigliato” sotto forma di GPL e venduto in giro per il mondo. Poi resta possibile che l’Opec si spacchi nel chiudere tutti e due gli occhi davanti al doppio gioco americano che le ha permesso di vendere sottobanco più petrolio di quanto dichiarato. È poi sempre possibile che parte della produzione oggetto di bando da parte degli americani prenda ugualmente il mare e anche che le quote di estrazione di petrolio concordate in sede OPEC vengano solo parzialmente rispettate. Senza contare il fatto che i venti di recessione che iniziano a spirare in Europa (in particolare sul fronte dei trasporti, grandi consumatori di petrolio) e le istanze ambientaliste cospirino negativamente sulla domanda complessiva di greggio nel mondo.

Ma poi anche le tensioni USA-Cina che avrebbero potuto aiutare ad alimentare dei focolai di guerra in giro per il medio-oriente (dov’è la maggior produzione petrolifera globale) sembrano essere entrati in una fase di assestamento, coincidenti con l’interesse del presidente Trump di farsi rieleggere l’anno prossimo.

MOLTI OSTACOLI AL RIALZO DEL PETROLIO

Tutti questi fattori che fanno pensare che il problema della sovrapproduzione di petrolio nel mondo non si riuscirà tanto facilmente ad evitarlo solo grazie a qualche accordo para-militare, qualche sanzione o qualche funzionario troppo zelante. E che le probabilità cumulate che il prezzo del petrolio resti elevato nel prossimo futuro non sono poi così forti. Se si guarda al prezzo del petrolio con la prospettiva di un anno si intravede una tendenza di fondo al ribasso, di volta in volta contrastata da taluni eventi che -a pensar male- sono “stati fatti accadere” per puntellarne il prezzo. Ma sarà difficile che riescano a invertirla.

Stefano di Tommaso

 




L’ACUTA STRATEGIA DI APPLE

Stavolta Apple ha fatto di tutto per rendere interessante la sua presentazione dei nuovi prodotti 2019. Non che in passato non fosse stato tutto perfetto, ma quest’anno si è potuta notare un’attenzione maniacale ad ogni particolare. I prodotti mostrati sono subito sembrati davvero eccellenti, ma non si è potuto fare a meno di notare più di uno sbadiglio tra il pubblico: le novità vere erano ridotte al lumicino. Eppure in borsa il titolo ha performato bene. Vediamone i numerosi perché…

 


Credo di condividere su queste pagine non un’opinione personale bensì un sentimento assai diffuso tra gli utenti ed i fan della mela morsa, eppure nessun investitore si è veramente disamorato del titolo Apple dopo la presentazione (anzi è salito riavvicinandosi alla capitalizzazione di un trilione di dollari): perché?


PREZZI RIDOTTI

Per riuscire a rispondere dobbiamo cercare di andare oltre le apparenze, oltre la vetrina e la cortina fumogena mediatica, per arrivare a notare l’unica vera grande novità introdotta da Apple in questa tornata annuale: il calo generalizzato dei prezzi (purtroppo molto ridotto in Italia).

Il cavallo di battaglia per Apple stavolta è diventato un onorevolissimo iPhone 11 con schermo da 6,1 pollici (dunque a metà tra l’iPhone X da 5,8 pollici e l’X Max da 6,5 pollici) dotato del potentissimo nuovo processore A13, di ottime caratteristiche generali al prezzo base, udite udite, di 699 dollari (in Italia sarebbero circa 620 euro ma da noi hanno scelto di proporlo a 870).

Questa sì che invece è una novità! E le notizie riguardo ai prezzi continuano con un aggressivo piano rateale, con una “decente” proposta di scambio tra vecchio e nuovo iPhone è un migliorato servizio “assicurativo” su rotture e sostituzioni.

Ecco dunque il perché! Apple ha tenuto debitamente conto del momento poco entusiasmante per il mercato dei cellulari, della scarsissima disponibilità di connessioni 5G nel mondo, dell’ancor più scarsa disponibilità di applicazioni software evolute che ne esaltino le differenze ed ha puntato diritto all’appuntamento con il 2020, quando si spera che tali limitazioni tecnologiche saranno state smussate e quando la necessità di upgrade dei vecchi cellulari da parte degli acquirenti risulteranno maggiori.

Apple ha poi voluto affascinare la sua base di clientela “top spending” con due iPhone Pro (e Pro Max) dalle meravigliose caratteristiche foto-cinematografiche, che tuttavia non costituiscono una novità sul mercato degli smartphone e (a parte le tre telecamere invece che due) ricalcano quasi pedissequamente l’Xs e l’XsMax, se non fosse che assicurano più velocità e un’autonomia molto maggiore della batteria. Ma è chiaro che Apple lo ha fatto soltanto per non deludere nessuno. Il fresco successo dell’iPhone Xr, il predecessore dell’iPhone 11 introdotto all’inizio del 2019, assicura che i grandi numeri di vendita anche stavolta saranno su quest’ultimo!


AMPLIARE LA BASE DI CLIENTELA

Nel frattempo ha puntato dritto verso l’ampliamento (quasi a tutti i costi) della propria base di utenti, alla quale vende ogni giorno sempre più servizi, musica, video e adesso anche giochi: una fetta di ricavi sempre più importante per il bilancio Apple e, soprattutto, ricorrente. Cioè capace di entusiasmare gli investitori ben più di un lancio ben azzeccato di un nuovo prodotto!

Ampliare la base di clientela affezionata e (sopratutto) abbonata a qualche servizio accessorio è divenuta -a quanto pare- la priorità del 2019 per Apple. Solo così si spiega l’abbinamento della vendita di iPhone 11 (già molto aggressiva per il rapporto prezzo/qualità) a un anno gratis a AppleTv. Se si opta per la sostituzione di iPhone X con iPhone 11 fanno 17 dollari al mese ivi compreso un anno di Apple Tv. Praticamente quanto chiede Netflix ai suoi abbonati senza cambiargli il telefonino!


UN ANNO DI TRANSIZIONE

Apple ha deciso di utilizzare dunque tutti i suoi muscoli finanziari per puntare a risultati migliori nel 2020, un anno meno contrastato di quello attuale, probabilmente meno pervaso dalle ansie da guerre commerciali con l’Asia (che resta un mercato dove Apple realizza i prodotti ma dal punto di vista delle vendite vi è ancora penetrata troppo poco) e nel quale potrà sferrare un attacco corposo sotto il profilo dell’hardware (cioè gli apparecchi) quando l’era della 5^a generazione delle reti cellulari potrà fare la vera differenza sotto il profilo delle applicazioni, dei giochi e dell’integrazione tra auricolari, orologi intelligenti, smartphone e computers.

Prima di quel momento Apple ha deciso di puntare su una strategia “orizzontale”, vale a dire quella di ampliare il più possibile la base di clientela cui offrire non solo prodotti ma anche servizi. E con la quale limitare i danni del calo di vendite di telefonini, fidelizzare la clientela e affascinarla con i dettagli, con foto e video in 4K e con un design sempre più aggressivo.

STRATEGIA “ORIZZONTALE” PIÙ CHE “VERTICALE”

E mentre lo sviluppo dei nuovi iPhone “5G” veramente rivoluzionari va silenziosamente avanti, Apple intende affascinare i suoi clienti con nuovi servizi, promozioni, aggiornamenti e contenuti di ogni genere, che saranno probabilmente fatti uscire a getto continuo di qui al prossimo anno, e dei quali potrà beneficiare probabilmente la clientela di ogni e qualsiasi prodotto con la mela morsa, a partire dall’orologio intelligente. Giusto in cambio di qualche centesimo qua e là, incrementando probabilmente l’attività di Apple Store e quella dei pagamenti digitali, spingendo il più possibile la quota dei ricavi ricorrenti e di pagamenti rateali fino a rendere meno interessante quella relativa alle vendite di apparecchi.

La strategia “verticale”, cioè quella di differenziazione distintiva dei propri prodotti, sulla quale appoggiare una richiesta di un prezzo più elevato per l’hardware, quest’anno non avrebbe dato grandi frutti. Nonostante la delusione gli analisti glielo hanno riconosciuto, tributando quindi al moderatissimo suo leader Tim Cook forse ancora maggior rispetto di quanta egli ne avesse guadagnata due anni fa, con il lancio dell’iPhone X.


Niente male per una presentazione prodotti 2019 le cui novità scarseggiavano così vistosamente!

Stefano di Tommaso