PRONTI ALLA NUOVA GUERRA DELLE VALUTE ?

Tutti sanno che il presidente Trump ha particolarmente a cuore la riduzione del corso valutario del Dollaro, a suo parere (e non soltanto) essenziale per poter costringere la Cina, la sua presunta illegalità e le sue esportazioni in dumping a più miti consigli. Se infatti il Dollaro perdesse nel cambio contro le altre valute e la Cina continuasse a manipolare al ribasso il cambio estero del Renminbi (ovvero lo Yuan) ecco che tutti i cinesi che potessero permetterselo cercherebbero di far fuggire all’estero i capitali accumulati dentro i confini della grande muraglia, scatenando forse anche una corsa a ritirare banconote agli sportelli delle banche.

 

La Cina ha arginato quel rischio fino ad oggi anche grazie alla pesante mano dello stato sull’economia interna, ad una rigida determinazione a contrastare l’esportazione dei capitali e all’enorme potere discrezionale dei pubblici amministratori e dei tribunali sui cittadini e gli imprenditori che dovessero “sgarrare” alle regole imposte.

LA FORZA DEL DOLLARO PUÒ DANNEGGIARE GLI U.S.A.

L’attuale situazione (di progressiva ma controllata svalutazione della divisa cinese) è tuttavia sostenibile soltanto nella misura in cui il Dollaro resti ancora forte. Questo spiega peraltro l’ira di Trump contro il presidente della sua Federal Reserve per non aver già abbassato i tassi (ex post piuttosto inutilmente rialzati fino al 2018 per contrastare un‘ inflazione quasi assente) e di continuare a drenare liquidità vendendo i titoli acquistati all’epoca del Quantitative Easing. Ma Trump non cela la sua ira nemmeno contro Draghi reo di aver detto qualche giorno fa nel convegno di Sintra di essere pronto a tagliare ancora i tassi e ad aprire, se necessario, un uno ciclo di stimoli monetari (con l’immediato effetto di un ribasso dell’Euro contro Dollaro).

Di seguito nel grafico un indicatore sintetico della forza del Dollaro:


Ma la verità è che nessun Paese al mondo (nemmeno gli U.S.A.) vuole veder rivalutarsi la propria moneta per timore di perdere competitività nei commerci internazionali ! Non lo vuole nemmeno il Giappone, nonostante le notizie sul fronte dell’economia reale nipponica siano decisamente buone, con il suo governatore della Banca del Giappone attento a monitorare al ribasso il cambio (e dunque non si venga a dire che il suo 240% di debito pubblico sul PIL è eccessivo). Anzi spera molto in una svalutazione nell’ordine del 5%. E non lo vuole nemmeno l’Europa che cerca di proteggere le proprie esportazioni dal rischio di diventare non competitive qualora il cambio salirà (e c’è una certa probabilità che ciò avvenga ugualmente).

MA IL PETROLIO SALE

Per fortuna di Trump (e dell’America) le quotazioni di petrolio e gas sono in crescita e, dal momento che gli U.S.A. ne sono esportatori netti, la cosa costituisce per la sua economia interna un vantaggio. Salgono di conseguenza anche l’oro (probabilmente acquistato anche dagli stessi esportatori di petrolio e gas) e le borse, dove finisce buona parte della liquidità in eccesso che tutt’ora permea i mercati finanziari ma che non trasuda nell’economia reale. Salgono beni di lusso e valute-rifugio, come il Franco Svizzero. Salgono anche oltremisura le quotazioni dei titoli a reddito fisso (obbligazionari), con il record appena toccato nella quantità (12 trilioni di dollari) di quelli che presentano sul mercato secondario un rendimento negativo. Salgono persino le borse dei paesi emergenti, anzi sono talvolta quelle che hanno fino ad oggi performato meglio!

Nel grafico che segue la crescita dell’ammontare di titoli a reddito negativo:


LA GEO-POLITICA È ROVENTE E CI RIMETTE L’EUROPA

La situazione generale insomma è -comunque la si guardi- molto tesa, nonostante le quotazioni di Wall Street abbiano appena toccato il loro record di tutti i tempi. E il motivo non è soltanto psicologico di apprensione per i risultati del prossimo G20.

Ci sono parecchi fronti bellici caldi (a partire dalla guerra appena evitata per un soffio con l’Iran, anche perché non conviene a nessuno), c’ è il rischio deciso di una recrudescenza delle guerre doganali (per esempio con la Germania) e si può palpare l’apprensione condivisa dai mercati per l’instabilità politica dell’Europa, oggi messa a dura prova tanto da uno scontro senza quartiere con la Gran Bretagna, quanto dall’insubordinazione degli stati meno benestanti dell’Unione (come il nostro). Argomenti che tra l’altro mettono in seria discussione la capacità di leadership dell’attuale giunta europea e che fanno emergere forti contrasti di interesse in seno all’Unione.

Di conseguenza le borse europee vanno (e andranno) peggio delle altre.

La stessa borsa americana è sì ai massimi, ma è al tempo stesso è anche “ tra color che son sospesi”, pronta a cedere bruscamente i suoi livelli qualora l’incontro dei due presidenti (americano e cinese) al prossimo vertice del G20 in Giappone non sortirà almeno una tregua duratura nel confronto tra le parti, che rischia di andare avanti ancora per un ventennio, tanto quanto durò quello con l’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda.

È PROBABILE UNA TREGUA NELLA GUERRA COMMERCIALE

Oggettivamente però è più probabile che invece tutto prosegua in forma rassicurante e che di conseguenza le borse salgano ancora, alla fine di questa settimana, quando ci sarà il confronto, piuttosto che il contrario. I motivi sono numerosi. Tra questi la liquidità abbondante e i profitti aziendali che continuano a crescere. Ma ciò non significa che si possa sperare che le due corazzate globali (America&Cina) possano di punto in bianco invertire la loro rotta di collisione e fare scalo insieme per brindare in qualche porto caraibico! I confronti accesi tra America e Cina più probabilmente continueranno, declinandosi su migliaia di temi minori, dove gli interessi delle due parti sono contrapposti.

LE TENSIONI POTREBBERO ALIMENTARE SVALUTAZIONI COMPETITIVE

Ed è per questo che la sensazione generale è che la tensione che oggi viene registrata, se non riguarderà le borse, allora si palperà meglio per l’appunto sui cambi valute. Con l’Euro che rischia di farne le spese apprezzandosi sul Dollaro più di quanto converrebbe all’Unione, il Dollaro che vedrà la Federal Reserve molto cauta nell’abbassare i tassi e perciò ben difficilmente riuscirà a perdere terreno sul resto del mondo (come vorrebbe Trump) e il Renminbi che proverà ancora una volta a rasentare il suo minimo storico: quota 7 (contro Dollaro), livello di svalutazione considerato al limite della soglia del dolore, prima di generare un fuggi-fuggi dall’ex celeste impero.

Ovviamente se ciò dovesse accadere non si può pensare che nessuna delle grandi banche centrali resterà a guardare, rispondendo passo passo ad ogni manovra degli altri e di fatto proseguendo a tutta marcia verso una riduzione generale del valore delle principali divise. In tal caso un po’ di inflazione inizierebbe a fare capolino e ciò potrebbe ulteriormente favorire i beni-rifugio e l’oro. Se non fosse molto pericoloso per il rischio che da ciò si dipani una nuova recessione globale potremmo quasi esserne contenti, dal momento che si materializzerebbe una monetizzazione di fatto del debito pubblico globale.

Tutto questo mentre il ciclo economico continua a ridurre la sua marcia positiva, l’Asia continua a guadagnare terreno a scapito dell’Europa e l’America guarda sempre più solo a sè stessa e agli altri paesi del continente come mercati naturali di sbocco delle sue esportazioni. E tra due vasi di ferro quello di coccio potrebbe risultare l’Europa, stretta tra molti problemi e poche leve a sua disposizione.

Stefano di Tommaso




TUTTI PAZZI PER LIBRA!

Il lancio della criptovaluta di Facebook appartiene a quella categoria di eventi che potremmo definire “singolarità” nella storia, oppure anche “salti quantici”. Ci voleva un colosso globale che capitalizza 540 miliardi di dollari (quasi tre volte il prodotto interno lordo della Grecia) perché le solite manfrine circa la pericolosità della moneta virtuale abbandonassero le torri eburnee della dietrologia (e della politica) e venissero abbattute dal futuro che avanza.

 

Tutta una generazione di burocrati e boiardi sovranazionalisti e fintamente democratici hanno combattuto (e quasi ucciso) quel miracolo che è stato BitCoin, asceso ben al di sopra dei 10000 dollari lo scorso anno per poi scendere bruscamente e infine stabilizzarsi a tale quota (siamo tornati oggi a circa 11000 US$). Quale era il principale strale che veniva scagliato contro le criptovalute? Quello della presunta illegalità (e impossibilità di fiscalizzare) le relative transazioni a causa dell’impossibilità di risalire agli effettivi titolari. Un argomento piuttosto “feudale” da parte degli stati sovrani che lo hanno brandito ma che alla fine ha fatto breccia nell’impedire una larga diffusione delle medesime criptovalute presso il pubblico, agitando gli spettri del terrorismo e dell’illegalità.

IL CONSORZIO

Con Libra, la moneta virtuale annunciata da Facebook (e da un consorzio di altre 26 grandi imprese che hanno investito nel progetto dell’infrastruttura della blockchain e dei pagamenti “peer-to-peer” che vi sarà collegata la bellezza di 10 milioni di dollari ciascuna), quel problema dell’anonimato non esisterà, ma si è ugualmente già mossa all’attacco tutta una schiera di scettici e disfattisti per trovare altre valide motivazioni utili a sperare di farla morire quand’è ancora nell’utero materno (Libra verrà infatti lanciata ufficialmente a fine anno). Anzi le 27 multinazionali che costituiscono e sostengono finanziariamente il consorzio è previsto che saliranno a 100 (di numero) e ciascuna avrà un singolo voto nelle decisioni che lo riguardano. Dunque Facebook non governerà la valuta digitale.

D’altra parte il mercato dei sistemi di pagamento digitali è uno dei più effervescenti del momento e Libra ci si tuffa a pieno diritto, virtualmente andando a poter disintermediare tutti gli altri per divenire la regina dei pagamenti online. Molti altri stanno cercando di fare altrettanto, ma non dispongono di un mercato “captive” di due miliardi di persone e non hanno investito il miliardo di dollari in infrastrutture che permetteranno di diffondere capillarmente nel mondo la nuova moneta digitale.

NON È BITCOIN

Libra non costituirà nemmeno una riserva di valore come si sperava fosse BitCoin, perché non si rivaluterà man mano che si diffonde: la sua convertibilità resterà ancorata a un paniere di valute (dette “fiat”, vale a dire quelle di corso legale nelle principali nazioni) rispecchiandone l’andamento medio. Dunque per esplicita scelta Libra non costituirà una difesa dall’inflazione o dal diritto di signoraggio degli stati emittenti) e servirà (quasi) soltanto per effettuare transazioni, tanto nazionali quanto internazionali, con buona pace delle banche centrali degli stati sovrani, ai quali verrà tuttavia tolta ugualmente di fatto una delle leve più forti per esercitare il loro potere sull’economia: il controllo della quantità di moneta in circolazione.

Ma con la diffusione della digitalizzazione (e conseguente globalizzazione) dell’economia, come sarebbe stato possibile che ciò prima o poi non avvenisse? Entro certi limiti è un po’ come stampare da parte di un consorzio privato della moneta contante. Indubbiamente si genera un moltiplicatore della base monetaria che le banche centrali non potranno controllare. Con il vantaggio che a differenza del contante Libra sarà scambiata in forma digitale ma non anonima e non sarà affatto facile rubarla (grazie a una sofisticata forma di blockchain), mentre risulterà immediato poterla spendere dovunque, di fatto senza costi di cambio valute. Sarà una vittoria della grande finanza che inizia a fregarsene della politica delle nazioni oppure è una vittoria delle libertà civili? Difficile affermarlo oggi, ma quel che è certo è il dibattito rovente che ne seguirà.

TUTTI COMMENTANO, QUALCUNO ESULTA…

La cosa che mi ha invece meravigliato, affascinato a anche divertito è stato il risveglio, quasi improvviso, dell’entusiasmo di tutti coloro che avevano progetti legati all’emissione di altre criptovalute, al collocamento di nuovi “coin” (conii) o di altri “digital token”, tutti gasatissimi dalla possibilità dell’indiretta riabilitazione mediatica degli stessi, cosa peraltro invece tutta da dimostrare (anzi!).

Quello delle monete digitali è uno di quegli argomenti circa i quali ognuno si sente in diritto di fare il tifo, di indignarsi, o comunque di dire la sua, quand’anche non avesse nulla da aggiungere. I soloni della politica e della finanza saranno indubbiamente in prima fila, ma possiamo aspettarci anche sociologi, psicanalisti, industriali, finanzieri, economisti e giornalisti di ogni fazione (compreso il sottoscritto, ovviamente)!

…E GLI ALTRI ROSICANO

Ci sono rischi per le finanze pubbliche ? E per l’economia? E per le banche? Ma certamente, cari tutti! Ci sono tutti i normali rischi che corrono coloro che -rimanendo fermi- pensano sia doveroso regolamentare qualsiasi cosa nuova che appaia sul mercato e sia accettabile imbrigliare la realtà del mondo che avanza nella loro fantasia di un mondo che non deve cambiare per poter conservare lo status quo ante e le relative rendite di posizione. E invece il mondo cambia ugualmente, in questo o in chissà quanti altri possibili modi: è letteralmente senza speranza l’idea di regolamentare tutto.

E l’economia digitale ha più di ogni altro settore industriale un forte bisogno che cresca la base monetaria. Il mondo del commercio elettronico, delle imprese digitali, quello dei privati che inventano nuovi servizi e si organizzano digitalmente, e in generale i produttori di articoli di ogni genere sparsi tra i paesi emergenti avevano tutti fame di nuova moneta. Forse è anche per la sua scarsità se all’alba del 2019 ci troviamo ancora una volta a lottare contro lo spettro della deflazione.

E se nessuno gliela fornisce (la base monetaria) allora con questa -o con chissà quali altre diavolerie- le imprese cominciano a fabbricarsela da sole. È una legge di natura. Anche gli euroburocrati se ne facciano una ragione!

Stefano di Tommaso




INSIEME AI TASSI SPROFONDANO LE BANCHE

Con il moltiplicarsi dei segnali che annunciano la fine del ciclo economico espansivo il momento per i mercati è divenuto particolarmente delicato: le banche centrali abbasseranno i tassi di interesse? E le borse come reagiranno? In realtà è un falso problema perché i tassi sono già calati sui mercati finanziari e dunque le uniche domande che hanno senso sono casomai se l’attuale situazione potrà perdurare e in tal caso quando le banche centrali interverranno e con quali strumenti. Ma per ironia della sorte la scarsa prontezza di queste ultime, insieme alla prospettiva di rendimenti prossimi allo zero hanno messo al tappeto le più improbabili tra le vittime: le banche stesse!

 

IL PRIMO PROBLEMA È IL RITARDO DELLE BANCHE CENTRALI

In realtà ciò che ha danneggiato davvero i bilanci degli istituti di credito è stato il ritardo con il quale si stanno muovendo le banche centrali: la situazione di incertezza ha spinto gli investitori istituzionali a vendere azioni e acquistare titoli a reddito fisso (cioè titoli di debito, spesso di Stato) e il rialzo delle quotazioni di questi ultimi ha fatto scendere i loro rendimenti. Ma le banche centrali non hanno anticipato i mercati nè reagito prontamente incrementando gli stimoli monetari o abbassando il tasso di sconto, anzi, il dibattito sull’opportunità di fare ciò è appena iniziato.

Il settore bancario ha sempre agito, quale intermediario finanziario per eccellenza, da “grossista” del denaro. Mano mano che la dimensione media delle imprese si accresce e la capillarità del mercato dei capitali aumenta, questa funzione di grossista risulta sempre meno necessaria al funzionamento dell’economia reale. Ovviamente la prima conseguenza è la riduzione del “moltiplicatore del credito” che in passato contribuiva ad incrementare la base monetaria e ad accelerare la sua circolazione.

Oggi che quel moltiplicatore viene meno (in Italia addirittura la riduzione del credito erogato agisce al contrario: riducendo la base monetaria), così che alle banche centrali non resta che immettere nuova liquidità per controbilanciare il fenomeno. Ma se non agiscono prontamente creano di fatto un ostacolo alla crescita economica. Ecco perché non si registra alcuna ripresa dell’infrazione.


LA DOMANDA NON È SE MA QUANDO TAGLIERANNO I TASSI

Di qui la mia convinzione (al momento apodittica, ma logica) circa il fatto che -se i tassi di mercato resteranno così bassi o addirittura continueranno a scendere verso lo zero- anche le banche centrali dovranno presto o tardi adeguare quelli da esse amministrati e/o lanciare qualche nuovo stimolo monetario. Non c’entra il timore dell’inflazione (agitato dai teorici della Curva di Phillips, da qualche anno clamorosamente smentita dai fatti). Non si tratta di misurare la salute dell’economia (anche perché esiste oggi un immenso problema circa la corretta rilevazione dei dati statistici). Si tratta semplicemente di evitare uno scollamento clamoroso dei saggi di sconto dagli andamenti dei tassi sui mercati.

Sembrano quindi molto lontani i tempi della “forward guidance” e se le banche centrali taglieranno presto i tassi e/o introdurranno nuovi stimoli monetari, forse i mercati finanziari se ne potranno giovare, ma soprattutto sarà l’economia reale che ne potrà godere, prolungando l’attuale ciclo economico o più semplicemente riducendo l’impatto della sua inversione: il cosiddetto “soft landing”. Se le banche centrali tarderanno invece ancora una volta a muoversi, allora contribuiranno a spianare la strada alla cosiddetta “stagnazione secolare”, togliendo ossigeno all’economia reale e perdendo ulteriore credibilità.

LE RAGIONI DEL RIBASSO DEI TITOLI BANCARI

Oggi i bilanci delle banche soffrono ovviamente per la riduzione della forbice tra tassi attivi e passivi (poiché i tassi vanno verso lo zero o peggio) e potrebbero invertire la cattiva congiuntura soltanto se diventeranno ancora una volta il veicolo dell’immissione di nuova liquidità da parte delle banche centrali.

Le borse valori evidentemente non possono non tenere conto del fatto che se si approssima una recessione e l’inflazione non risale le prospettive di reddito delle banche sprofondano e, anzi, le borse soffrono a loro volta perché lo spostamento dei risparmi verso il mercato obbligazionario spinge gli investitori a vendere i titoli azionari. Ciò vale in particolare per le banche europee, che sono anche le più colpite dalla congiuntura attuale.


Così si spiega il problema della bassa valutazione delle banche che è oramai esploso, non soltanto perché gli istituti di credito sembrano condannati a ridurre costantemente la loro redditività, ma anche per la farraginosità delle scritture contabili che lascia dubbi circa l’effettivo valore delle poste attive, l’eccesso di normative sugli obblighi di loro capitalizzazione, la necessità di ulteriori aggregazioni che possano far scattare risparmi nei costi generali e infine la minaccia (divenuta oggi realtà) dell’arrivo delle “FinTech”, cioè le banche virtuali con pochissimo personale e molta intelligenza artificiale.

LA MANCATA CORRELAZIONE TRA TITOLI DI STATO E BANCHE

Senza contare i timori legati ai titoli di stato che si trovano nei loro portafogli e la progressiva disintermediazione del settore bancario ad opera del mercato dei capitali. La crescente concentrazione della ricchezza globale in poche mani forti infatti rende meno necessario il ricorso al sistema bancario, tanto per l’impiego dei capitali quanto per l’erogazione dei finanziamenti. Ed è essa stessa (come abbiamo visto poc’anzi) causa del ribasso dei tassi di interesse.

Qui di seguito si può ben notare il momento (fine Aprile) dell’inversione della correlazione tra l’andamento dei BTP italiani e l’andamento dei titoli bancari. Con il degrado delle aspettative di ripresa economica quelli delle banche sono scesi, insieme ai tassi di interesse. Di conseguenza le quotazioni dei titoli a reddito fisso sono salite.


A meno perciò di nuovi stimoli monetari, o di un’inversione delle prospettive di recessione e deflazione, il Sell-Off dei titoli bancari pare destinato a continuare, nonostante che la capitalizzazione di borsa delle banche si trovi già oggi spesso sotto la metà del valore contabile del patrimonio netto.

LA PROPENSIONE A DISTRIBUIRE ELEVATI DIVIDENDI

Questo spiega anche la razionalità della crescente propensione delle banche a distribuire maggiori dividendi: almeno per le banche di grandi dimensioni e quotate alle borse valori infatti la loro ritenzione non genera grande valore per gli azionisti. Meglio coccolarli il più possibile, sinanco laddove la generosità di quei dividendi arrivi a costituire il maggior rivale dei titoli obbligazionari emessi dalle banche stesse…


Stefano di Tommaso




AD OVEST NULLA DI NUOVO, MA A ORIENTE SI..!

Mentre l’Occidente si avvita in inutili polemiche politico-egemoniche e stenta a vedere nuovi spunti per la prosecuzione della crescita economica dell’ultimo decennio (che potrebbero facilmente provenire dall’avvio degli investimenti infrastrutturali legati alle nuove tecnologie per i quali ci sarebbero tutti i quattrini se solo li si volesse lanciare), l’estremo Oriente corre più veloce e continua la sua corsa fatta di moltissimi investimenti, demografia frizzante, pace sociale e record di efficienza.

 

L’AMERICA E’ A RISCHIO RECESSIONE

L’America celebra le statistiche del primo trimestre 2019 con la ricrescita della ricchezza nazionale lorda a circa 109 trilioni di dollari (più di 10 volte quella italiana con una popolazione soltanto 4 volte tale), più o meno esattamente a quanto era arrivata alla fine del terzo trimestre 2018 (vedi grafico). Storicamente si può vedere che ciò è sempre avvenuto in corrispondenza dell’approssimarsi di una recessione.


È poi stato calcolato che dall’inizio del 2018 il più diffuso indice azionario di Wall Street abbia superato quota 2800 almeno nove volte, per ritrovarsi ancora oggi al medesimo punto di arrivo (il massimo storico è stato 2950, ma sono appena stati distribuiti copiosi dividendi).


Ecco cosa ne deducono i”graficisti” a proposito dell’attuale situazione di Wall Street:


Per continuare con i corsi e ricorsi della storia recente, soltanto tre estati fa la Federal Reserve lanciava la sua campagna di “normalizzazione monetaria” per poi doverla interrompere l’anno scorso poco prima di provocare un disastro annunciato, rialzando i tassi d’interesse e togliendo liquidità dai mercati (liquidità che per fortuna è stata nel frattempo immessa dalle altre banche centrali del mondo). Oggi la FED annuncia pubblicamente che li può riabbassare presto, smentendo così clamorosamente le proprie previsioni. Il problema più che altro è sembrato essere quello valutario, perché se non lo avesse fatto il dollaro si sarebbe apprezzato troppo, e delle sanzioni di Trump la Cina se ne sarebbe fatta un baffo.

Ecco la recente dinamica dei tassi americani (nel grafico: a 30 anni, 20 anni, 10 anni e a 3 mesi). Essi oramai possiamo affermare che rimangono in costante discesa, non lasciando presagire nulla di buono per l’andamento dell’economia.


L’EUROPA SI GUARDA BENE DALL’AGIRE CON LA POLITICA FISCALE

In Europa siamo all’ennesimo colpo di clava dovuto allo strapotere germanico sulla Commissione Europea che, pur essendo sul punto di essere sostituita, ancora una volta finge di ignorare l’ennesimo avanzo commerciale tedesco mensile (17 miliardi di euro in Aprile) mentre invoca al tempo stesso una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia.

Per comprendere la natura “politica” di queste iniziative, proviamo a guardare cosa ha fatto l’Italia tra il 2008 ed il 2019 rispetto ai rivali europei. Ecco una serie di parametri come la spesa pubblica(1), il debito pubblico(2), il credito disponibile:

  1. in Italia le entrate totali sono passate da 737 ad 823 miliardi (+86) mentre le spese sono passate da 780 ad 870 (+90). In Francia, le entrate sono aumentate di 269 miliardi e le spese di 284 (tre volte tanto); in Germania di 463 e 419 miliardi (tra le 4 e le 5 volte tanto). L’apparente miglioramento della situazione tedesca è solo un riflesso dei tassi di interesse negativi sul debito. Per evitare l’illusione monetaria, bisogna guardare la spesa pubblica primaria, quella calcolata al netto degli interessi. In Germania è cresciuta, arrivando a 466 miliardi, in Italia è aumentata di 107 miliardi mentre in Francia di 302 miliardi. Calcolata rispetto al pil, la spesa primaria è aumentata in Italia del 2,7%; in Germania del 2,8% ed in Francia del 3,7%;
  2. il confronto con i principali Paesi europei è ancora più disarmante se guardiamo la dinamica del debito pubblico dal 2009 al 2019: l’Italia lo ha aumentato di 692 miliardi, passando da 1671 miliardi agli attuali 2363 miliardi. Ma la Francia lo ha raddoppiato passando da 1370 a 2395 miliardi: fanno più 1025 miliardi. La Spagna lo ha quasi triplicato, accumulando 759 miliardi di nuovo debito: oggi è a 1199 miliardi rispetto ai 439 di partenza;
  3. ma un dato è forse il più significativo per spiegare la durezza della commissione europea a proposito del baccano scoppiato sull’ipotesi di cartolarizzare il debito dello Stato verso le imprese (cosiddetti “minibot” che riguarderebbero soltanto i 70 miliardi di debito già scaduto): in Italia il credito all’economia è crollato: gli impieghi a favore del settore privato, famiglie ed imprese, sono passati dai 1.691 miliardi del 2011 ai 1.435 miliardi di aprile scorso: sono 256 miliardi in meno. E l’intero sistema economico italiano ha risentito della riduzione della base monetaria visto l’effetto demoltiplicatore della riduzione del credito.

LE PREVISIONI SONO GRIGIE

Del resto che non solo l’Europa ma tutto il mondo rischi di dover affrontare una nuova brusca frenata della crescita economica lo dimostrano anche le notizie che filtrano dagli Stati Uniti dove però il pil crescerà a un ritmo del 2% quest’anno (invece del 3% dell’anno scorso). Da noi La Bundesbank ha tagliato le previsioni di crescita della Germania allo 0,6% nel 2019, dall’1,6% atteso a dicembre. La Banca d’Italia ha abbassato le stime sull’aumento del prodotto interno lordo italiano allo 0,3%, dal precedente 0,6%. Di seguito le più recenti previsioni a proposito del nostro Paese:


L’ESTREMO ORIENTE INVECE VA AVANTI

Mentre quindi l’Occidente si dimena con i sintomi evidenti della possibile (ma non scontata) conclusione del ciclo economico espansivo attuale, ad Oriente invece molto bolle in pentola: è dello scorso fine settimana l’importantissimo vertice economico di San Pietroburgo (completamente ignorato dai media occidentali) dove non soltanto Xi e Putin si sono stretti la mano, ma dove è praticamente nata una nuova era di contro-alleanze che mirano a contenere lo strapotere occidentale sull’economia. Senza peccare di presunzione si può forse affermare che un nuovo processo di “de-globalizzazione” è nato, con il pieno supporto della Federazione Russa e con una spaccatura senza precedenti con l’Occidente.

Quanto alla politica fiscale, mentre in Europa la questione circa la necessità di prendere al riguardo qualche iniziativa viene sollevata dal nostro Governo, che riceve in cambio insulti e minacce, in America soltanto di recente Trump ha provato a tornare ad abbracciare la questione delle opere pubbliche e degli investimenti infrastrutturali che sono necessari perché il mondo prosegua la sua crescita, ma fino ad ora senza successo.

La Cina invece, che indubbiamente dispone di un più ampio margine di manovra dal punto di vista fiscale, è andata più a fondo, sia in termini di infrastrutture, con l’enorme iniziativa “Belt&Road” sia in termini di transizione energetica (sgravi e stimoli per energie rinnovabili e auto elettriche).

È interessante notare che è di questi giorni la notizia che quella degli U.S.A. non è più l’economia più efficiente al mondo: Singapore e Hong Kong (che da più di un decennio è oramai parte della Cina) la precedono. La tabella qui riportata parla chiaro:


Da notare che l’Italia scende altrettanto tranquillamente dal 42.mo al 44.mo posto, preceduta da brillanti nazioni industriali come l’India, il Cile, Cipro e, molto più in alto, l’Estonia, il Kazakhstan e la Repubblica Ceca. Neanche a farlo apposta le aliquote fiscali di Singapore sono tra le più basse del mondo, con una media intorno al 17% !

La Cina festeggia peraltro oggi un ottimo dato sull’andamento delle esportazioni (+1,1% a Maggio, con un avanzo commerciale netto di 42 miliardi di dollari al 31/5. Niente male se consideriamo le sanzioni!

LE PROSSIME SCADENZE SONO CRUCIALI

Piuttosto silenzioso dunque il commento dei ministri finanziari del G20 riuniti in Giappone a Fukuoka per preparare il vero G20, quello di fine Giugno a Osaka, dove Trump e Xi si incontreranno di nuovo. Mentre è un fatto acquisito che tra i due continenti le posizioni non potrebbero essere più lontane, uno spiraglio di tregua si intravede perché le posizioni di Trump sono molto più vicine a quelle di Xi di quanto i media vorrebbero farci credere. Ciò che sta divenendo evidente è che più di tanto l’America non potrà spingersi, mentre il resto del mondo (Germania e U.E. in testa) evita accuratamente di prendere posizione.

Se dunque una ciambella di salvataggio dalla stagnazione secolare può arrivare quasi solo dalle economie asiatiche, meglio non esagerare con la linea dura. Le guerre costano (anche consensi) e le distensioni fanno guadagnare voti. Intesi, no?

Stefano di Tommaso