RENAULT: SALUTI & BACI

Il tranquillo e silenzioso Giovanni Elkahn questa volta il pugno l’ha sbattuto sul tavolo. Con il suo stile inconfondibile, quasi cabbalistico, di grande serenità e totale inespressività facciale, ha prima convocato telefonicamente il suo consiglio di amministrazione e poi ha scritto una letterina (di fatto al ministro francese dell’economia Bruno LeMaire): l’affare è saltato, tanti saluti e baci. E la Renault ha perso in 3 giorni l’8% in borsa, mentre FCA quasi nulla.

 

LA PRIMA USCITA PLATEALE DEL NIPOTE DELL’AVVOCATO

È la prima volta che il rampollo di una delle più potenti famiglie del gruppo Bilderberg compie un gesto plateale, probabilmente tanto astuto quanto opportuno dal punto di vista tattico. E con il suo pugno di ferro nel guanto di velluto ha fatto parlare di se tutto il mondo.

L’INGERENZA DEL GOVERNO FRANCESE

L’ingerenza del governo francese era risultata francamente inaccettabile: prima pretendendo una sorta di diritto di veto sulle decisioni strategiche e poi di spostare il quartier generale a Parigi e poi andando (sostanzialmente) a chiedere la stessa cosa all’ancor più tranquilla Nissan Auto, che da oltre un ventennio se ne stava zitta e muta ad avere (controvoglia) accettato di non avere diritti di voto in Francia mentre i francesi disponevano di pieni voti per il loro 43% in Giappone.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’ulteriore iniziativa del ministro dell’economia di ritardare ulteriormente i tempi per tenere separatamente un dialogo con i giapponesi della Nissan per negoziare ulteriori garanzie per lo stato francese. Traduzione: per imporre la propria linea e mantenere il controllo del nuovo conglomerato. A quel punto il nipote del più famoso Giovanni Agnelli (del quale ricorda inconfondibilmente i tratti) non ha avuto più dubbi.

ADESSO TUTTI DEVONO CORRERE AI RIMEDI

  • Le morali che saltano fuori da questa bizzarra vicenda (tutt’altro che conclusa, ci possiamo scommettere!) sono dunque diverse :
  • La discutibile ideologia francese a proposito delle leggi di mercato (quella di portare avanti gli interessi nazionali a tutti i costi) e il mesto corollario dello scarso rispetto mostrato platealmente per gli altri “partners” europei;
  • Il carattere riservato si, ma anche molto risoluto del rampollo dell’Avvocato;
  • La luce che si è accesa sull‘improrogabile necessità per l’industria dell’auto di procedere verso un consolidamento (più deciso di quanto si potesse pensare in precedenza).

LA FIGURACCIA DI “BRUNO LOSINDACO”

Ma soprattutto emerge la figuraccia del ministro dell’economia (che non aveva mancato proprio di recente di ricordare all’Italia il rispetto per le regole comunitarie) a proposito della scarsissima performance delle società industriali che risultano partecipate dallo stato francese. Il caso Renault è eclatante: un mese fa il titolo in borsa capitalizzava il 50% del patrimonio netto contabile. Adesso è sceso al 42% !

Stefano di Tommaso




L’ECONOMIA RALLENTA IN TUTTO IL MONDO, TRANNE CHE A BRUXELLES

L’economia globale sta vivendo un momento di grande incertezza: la locomotiva americana sembra sul punto di rallentare, come d’altra parte è già chiaro che stia accadendo a quella cinese, vittima di un vistoso calo delle esportazioni. Di conseguenza il commercio internazionale si contrae e i mercati finanziari -che avevano già peccato fin troppo di ottimismo negli anni passati e di nuovo nella prima parte del 2019- nelle ultime settimane hanno ritracciato parte di quella corsa, insieme alla discesa di buona parte dei prezzi di derrate e materie prime che stanno generando un nuovo timore di una deflazione incontrollata. Ciò nonostante la Commissione Europea alza la posta degli scontri in atto, con l’Italia come con la Gran Bretagna, senza minimamente tenere conto della necessità di correre ai ripari.

 

TRUMP ALIMENTA I TIMORI DI UNA NUOVA RECESSIONE

Anche Trump sta addirittura aprendo altri fronti di conflitto, prima con l’Iran e adesso anche con il Messico. Non che non abbia le sue ragioni! Ma indubbiamente se si sommano tutte le tensioni internazionali che l’America sta generando, gli analisti temono che esse provochino una frenata per l’economia globale e, di conseguenza, per i profitti delle grandi imprese. (nel grafico l’andamento recente della borsa americana)



L’HARD BREXIT

Come se non bastasse la geopolitica planetaria, la Commissione Europea (a pochi mesi dalla sua sostituzione) si appresta a combattere contemporaneamente più di una battaglia: contro la Gran Bretagna, che -dopo l’uscita della May ha rinnovato la propria volontà di negoziare duramente la propria uscita, contro l’Italia, rea di aver visto confermato il consenso elettorale ai due partiti di governo (sebbene ribaltandone i rapporti di forza) e persino contro taluni paesi dell’Europa dell’est, rei di aver desiderato di alzare la testa e incrinare i precedenti rapporti di forza con la Germania.

I MINIBOT

Si sta poi per consumare l’ennesimo strappo nei rapporti con la Commissione attuale (quella che dovrebbe a breve essere sostituita): Venerdì pomeriggio sono state poste infatti le premesse per una piccola rivoluzione nell’economia italiana: la Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità una mozione della Lega, che impegna il governo a pagare i debiti della Pubblica Amministrazione, anche ricorrendo all’emissione di “titoli di stato di piccolo taglio”. una proposta che da tempo viene portata avanti da due economisti della Lega, Claudio Borghi e Alberto Bagnai.

In realtà tale mozione impegna lo Stato a ripagare i debiti contratti con le imprese. Secondo un’indagine del Sole24Ore, i debiti della Pubblica Amministrazione verso le imprese ammontano a 70 miliardi (stimati per difetto). Occorre ricordare come il solo Comune di Roma 1,5 miliardi di debiti verso le imprese. Lo Stato e le imprese hanno entrambi bisogno di liquidità. Il primo per pagare i debiti al secondo, il secondo per pagare le tasse al primo. Se lo stato concederà alle imprese di compensare le tasse dovute con i propri crediti verso la pubblica amministrazione, in Italia circolerà una liquidità aggiuntiva di 70 miliardi di euro! Ma il problema è contabile: il debito dello Stato verso le imprese per le regole europee non viene considerato parte del totale. Viene semplicemente “dimenticato” nella contabilità europea e questo è stato un forte incentivo a incrementarlo, contribuendo a mettere in ginocchio il mondo produttivo.

GLI INDICI

In maggio, l’indice Istat di fiducia delle imprese è salito da 98,8 a 100,2. A livello settoriale, la fiducia è aumentata in modo generalizzato: per il manifatturiero un aumento da 100,8 a 102,0, più marcato per i produttori di beni intermedi; per i servizi un lieve incremento da 99,1 a 99,3; per il commercio un incremento da 101,3 a 102,6; per le costruzioni un aumento da 141,2 a 144,3; per le famiglie la fiducia infine migliora da,110,6 a 111,8.


Il valore medio dell’indice composito di fiducia delle imprese nel 2019T2 risale da 98,7 a 99,5. Anche l’andamento del Pil nel primo trimestre è stato più forte di quanto gli indici di fiducia avrebbero suggerito, e nel trimestre corrente l’andamento congiunturale sarà penalizzato dall’inversione di alcuni fattori transitori che hanno agito positivamente nel periodo precedente. Quindi, un’accelerazione della crescita del PIL sembra più probabile nel terzo trimestre che nel secondo, sempre che a livello internazionale non venga fuori il finimondo.

DUNQUE BASTEREBBE ASSAI POCO PER TROVARE UN’INTESA

Come fa notare il Ministro dell’economia Giovanni Tria, sinché il contesto generale è stato positivo l’Italia ha fatto progressi significativi sotto questo governo (che compie un anno esatto): il 2018 si è chiuso con una riduzione del disavanzo delle amministrazioni pubbliche, attestatosi al 2,1 per cento del PIL, in discesa dal 2,4 per cento del 2017; il saldo primario è salito all′1,6 per cento del PIL, dall′1,4 per cento dell’anno precedente; i pagamenti per interessi, espressi in rapporto al PIL, sono diminuiti di un decimo di punto, raggiungendo il 3,7 per cento.

In questo contesto dunque il conflitto tra Italia e Europa appare basato su futili motivi. Basterebbe che il governo europeo facesse oggi quello che stanno apprestandosi a fare tutti gli altri governi del pianeta in momenti come questo: consentisse una politica fiscale anche solo moderatamente espansiva, dal momento che l’industria dell’auto è sotto attacco da tutte le parti e i mercati di sbocco delle esportazioni europee si chiudono (un settore industriale che conta più per la Germania che per l’Italia. Il nostro governo potrebbe in cambio impegnarsi a riqualificare la spesa pubblica, deregolare e sbloccare i cantieri e efficientare la pubblica amministrazione.

Ma evidentemente l’intenzione dell’attuale Commissione Europea è quella di combattere degli avversari politici, piuttosto che di lavorare per il benessere dell’Unione. La proposta di una “flat tax” al 15% sembra infatti un falso problema se essa viene promulgata senza creare ulteriore deficit (ad esempio eliminando buona parte delle deduzioni fiscali). I suoi benefici sarebbero evidenti per “stimolare” tanto i profitti delle imprese quanto gli investimenti, ma evidentemente va a toccare degli interessi consolidati. Va probabilmente a scomodare talune èlites che contano parecchio, tanto sulla carta stampata quanto a livello di pressioni nei confronti del Parlamento.


MA LO SCONTRO PUÒ CONTINUARE ALL’INFINITO?

Come si può vedere dal grafico qui riportato lo scontro con la Commissione non è stato privo di danneggiamenti all’economia nazionale: lo spread è cresciuto e le quotazioni dei nostri titoli di stato ne hanno risentito.

Ma la tensione in corso può continuare? Se il contesto generale dovesse restare grigio presto la Banca Centrale Europea dovrebbe tornare a intervenire. Il deficit francese d’altronde non si può pensare che migliorerà così tanto da non costituire uno scomodo precedente per punire quello italiano senza farlo anche con i nostri cugini d’oltralpe. E questo creerà problemi alla leadership tedesca ma sarà un fattore-chiave per definire il raggio d’azione della mitragliata di Bruxelles.

Nemmeno la politica del pugno duro con la Gran Bretagna ha sortito molti risultati: oggi i nuovi leader mostrano i denti più di quanto facesse Theresa May e la Commissione dovrà presto farsi carico della responsabilità politica di un prezzo più elevato da mettere sul tavolo del negoziato per evitare di perdere del tutto l’importo arretrato che Bruxelles ancora esige da Londra.

La torre d’avorio del governo europeo non può insomma far finta che il resto del mondo non conta per lei. E le nuvole che si addensano all’orizzonte non le consentiranno molto più di qualche sgridata ai paesi “irredentisti”, se non vuole davvero scavarsi la fossa e abdicare il governo dell’Unione a favore di questi ultimi. Cosa che in definitiva fa ben sperare per l’economia italiana. Sempre che il governo in carica resti in piedi…

Stefano di Tommaso




MAL D’EUROPA

E Una serie di annunci importanti stanno arrivando tra le aziende italiane, guarda caso subito dopo oppure a ridosso delle votazioni per il parlamento europeo. Mi riferisco al momento al secondo fallimento di Mercatone Uno e all’annuncio della fusione di Fiat con Renault (che in realtà è una cessione a termine) . Ma ci potrei scommettere che molti altri ne arriveranno a breve, fra i quali mi aspetto che prenda piede l’avvio ufficiale delle trattative per la fusione tra UniCredit e Commerzbank come pure l’ennesima ristrutturazione di Alitalia. Il fil rouge che li collega è in ciascun caso il licenziamento -più o meno forzoso- di parte del personale dipendente, a causa dell’esigenza delle imprese di ristrutturare il business e cercare maggior efficienza.

 

PRIMA ARRIVANO LE FUSIONI AZIENDALI

Proviamo a scendere nei dettagli: sino a ieri la famiglia Agnelli-Elkahn che controlla la Fiat-Chrisler non aveva mai confermato l’ipotesi di avvicinamento ad altri gruppi, in particolare francesi (era in predicato anche la Peugeot-Citroen) anche perché lo capiscono anche i bambini che -se il valore aziendale che FCA esprime sta quasi esclusivamente nella componente americana del gruppo- è chiaro che chiunque si avvicinerà lo farà per prendersi quest’ultima, pagando il fio allo stesso tempo di ridimensionare gli stabilimenti che stanno nel resto del mondo e in particolare quelli storici italiani. A maggior ragione se a farlo sono i francesi, noti campanilisti, i quali hanno probabilmente anche loro degli esuberi in patria.

Ai sindacati italiani non resterà che fare un po’ di baccano, mostrare “ugualmente” che s’indignano e s’impegnano (citando la canzone “Don Raffaè” scritta da Mauro Pagani per Fabrizio De Andrè) per poi gettare la spugna, dal momento che è altrettanto noto che l’alternativa alle ristrutturazioni d’azienda è la loro chiusura. Un’alternativa non praticabile per i sindacalisti.

POI ARRIVANO I TAGLI

Perché però tutto ciò arriva soltanto dopo le votazioni? Perché certi temi scottanti come quello dei licenziamenti in campagna elettorale era forse meglio per tutti lasciarli indietro, soprattutto per coloro che ancora tifano a tutta voce per l’attuale modello di Europa unita, che avevano perso sì già una volta le elezioni (e questa è la seconda) ma che possono vantare ancora il controllo da parte dei loro militanti di quasi tutte le istituzioni italiane e gli enti pubblici (ministeri compresi), nonché il controllo di buona parte degli organi di informazione e sinanco del Quirinale, istituzione che giocherebbe la parte del leone in caso di crisi di governo. Il ribaltone delle due votazioni recenti perciò non ha fino ad oggi modificato più di tanto l’assetto di potere reale nel Bel Paese.

UN’EUROPA SPACCATA IN DUE

E a livello europeo le cose non vanno troppo diversamente: la Germania ha visto i partiti dell’attuale compagine governativa (quella che esprime i membri della Commissione Europea) prendersi una sonora sberla mentre addirittura in Francia (sua storica alleata) dopo settimane di protesta dei “gilet gialli” il partito di governo è andato sotto e il fronte anti-globalista per eccellenza (quello della LePen) ha trionfato. Stessa storia per la Gran Bretagna, dove il partito che più ha desiderato l’uscita dall’Europa unita, quello di Boris Johnson ha stravinto ancora, lasciando al lumicino le residue speranze di un nuovo referendum per la Brexit. Ha stravinto anche Orban in Ungheria che ha detto da tempo a tutti -senza mezzi termini- cosa ne pensava di quest’Unione Europea.


Ciò nonostante le elezioni che si sono appena svolte non cambieranno di molto il governo della nuova Europa, dal momento che i partiti che ne esprimevano la maggioranza hanno ottenuto una lieve prevalenza su quelli che ne prefiguravano un orientamento di forte cambiamento. M questo non fa che complicare le cose, dal momento che un’Europa che non cambia risulterà forse peggiore di una ingovernabile.

MA IL RESTO DEL MONDO CORRE

Del resto a livello globale si vede chiaramente un mondo a due velocità: quella dei Paesi che sono riusciti ad esprimere più elasticità nelle riforme fiscali e per il lavoro (come Stati Uniti e Asia) e che crescono a un ritmo più consistente di quelli che non lo hanno fatto, esprimono una lieve inflazione dei prezzi e mostrano tassi di interesse regali lievemente positivi. L’Europa esprime invece una divisa comune in declino costante (è chiaro a tutti che stiamo andando verso la parità contro Dollaro) con tassi d’interesse (non solo reali) negativi e un rischio concreto di deflazione monetaria, che avrebbe l’effetto di irrigidire ulteriormente la struttura industriale scoraggiandone gli investimenti in innovazione e efficientamento.


LA DIGITALIZZAZIONE NON CI AIUTA

La crescente digitalizzazione poi rischia di sferrare il colpo di grazia all’industria tradizionale, favorendo i “vendor” dei prodotti tecnologici che oggi si vendono di più anche se essi si trovano all’altro capo del mondo, a scapito di quelli locali. D’altra parte l’Europa attuale investe poco sui giovani e sulle loro Start-up (in particolare l’Italia) e li lascia fuggire altrove, favorendo indirettamente l’invecchiamento della popolazione stanziale e dovendosi confrontare con l’insostenibilità della previdenza sociale. La risposta immigrazionista a questo problema poi lascia tutti con la bocca amara, perché chi arriva dall’Africa è assai poco attrezzato a sostenere il confronto tecnologico con l’elevata preparazione delle giovani generazioni asiatiche o anglosassoni. In una parola i giovani africani saranno (forse) una risorsa soltanto nel lungo termine!

I CAPITALI FUGGONO DAGLI SCONTRI POLITICI

Qualcuno si chiederà cosa c’entra quanto scritto sin’ora con il risultato delle elezioni europee ma la risposta è presto data: l’Unione Europea deve riuscire a cambiare e la sua vecchia classe dirigente se n’è invece guardata bene, tornando piuttosto a imporre temi di austerity e normative sempre più soffocanti. Così la nuova classe dirigente, che purtroppo rischia di essere troppo simile alla vecchia, temo continuerà acuendo lo scontro con gli Stati periferici (come il nostro) che sono i meno interessati a proseguire sulla vecchia strada e che guarda caso oggi esprimono più di altri il cambiamento negli orientamenti elettorali. Si preannuncia perciò una guerra di trincea destinata a durare a lungo, e che l’intero vecchio continente rischia di pagare caro, perdendo tempo prezioso nella corsa verso il rinnovamento.

I mercati finanziari annusano tutto questo e di conseguenza frenano sull’Europa, fuggendo verso altre destinazioni geografiche per allocare le loro ricchezze o verso i beni rifugio. Così anche le borse valori continentali (che esprimono soprattutto industria e banche, e ben poche aziende tecnologiche) arrancano di conseguenza. È vero che le industrie tradizionali possono risultare ottimi investimenti anticiclici in prossimità di un‘inversione del ciclo economico globale. Ma difficilmente esse arricchiranno chi ci investe: al massimo conserveranno il valore.

E IL GOVERNO RESTA UN’INCOGNITA

In Italia -teoricamente- il governo salta fuori rafforzato dai risultati delle consultazioni. E con l’elettorato che ha gli fornito una chiara indicazione di ciò che gradisce e di ciò che ha apprezzato meno. Ma di fatto il cambio dei rapporti di forza tra i due partiti di governo potrebbe determinare nuove frizioni nel Consiglio dei Ministri e la possibilità di una crisi politica resta concreta. Dunque nessuno è tranquillo e nessun imprenditore è davvero felice. A meno che l’accordo per proseguire sulla strada delle riforme partorisca nuove interessanti iniziative di stimolo all’economia e che queste ultime non vengano soffocate sul nascere dalla classe dirigente europea. Ma i “conservatori” restano in lieve maggioranza ed è difficile sperare in un loro ripensamento.

Staremo a vedere, col fiato sospeso!

Stefano di Tommaso




DECRESCITA FELICE E ALTRI PARADIGMI

Con il rinvio a data da destinarsi dell’accordo commerciale globale tra America e Cina sono ripresi sussurri e grida relativi alla improbabilità che la crescita economica globale possa proseguire almeno fino al 2020. Più volte in passato le cornacchie avevano stridulamente e falsamente gridato l’arrivo della recessione, probabilmente con la sola speranza di essere stati i primi ad affermarlo, senza tenere nel debito conto tutti i numerosi fattori in gioco che, sino ad oggi, hanno continuato a portare l’economia del pianeta in tutt’altra direzione che non quella della crisi. Ma dopo l’ennesimo fallimento degli accordi commerciali sino-americani e con la prospettiva di un ulteriore freno al commercio internazionale, oggi è ancora così?

 

Per rispondere a questa domanda proviamo a interpretare a nostro modo qualche dato recente. È chiaro a tutti che nessun andamento economico prosegue in eterno. Così come è chiaro che l’attuale ciclo “macro” prosegue nella sua fase di sviluppo (quasi) indisturbato da molti anni e che -mano mano- diviene sempre più probabile che esso arrivi a invertire la sua direzione.

Eccoci perciò di nuovo a chiederci “quanto durerà” prendendo spunto dall’interpretazione delle statistiche che stanno emergendo in questi giorni nonché dalle considerazioni appena fatte sulle prospettive del negoziato commerciale del secolo: quello tra America e Cina.

LA FASE ESPANSIVA E’ GIÀ FINITA ?


La locomotiva americana prosegue la sua corsa indisturbata. Le mega-corporation d’oltre Atlantico continuano a raccogliere grandi messi di profitti e ad utilizzarli per distribuire ricchezza tanto agli azionisti (con lo strumento dei “buy-back” oltre che con i dividendi) quanto ai salariati (incrementandogli la paga). Ma qualcuno inizia a insinuare che si tratta oramai del canto del cigno.

Come si può vedere dal grafico qui riportato l’organizzazione dei Paesi più industrializzati (l’OECD che noi chiamiamo OCSE) mostra un andamento discendente dei principali indicatori economici, i quali hanno normalmente hanno la funzione del canarino nella miniera.

Se poi guardiamo alla crescita del commercio internazionale il quadro è ancora più deludente:


Come si può vedere dal grafico la rotta si è invertita a inizio anno e, sebbene si potrebbe scommettere sul suo repentino rimbalzo la tendenza generale potrebbe essersi ugualmente invertita.

Le esportazioni della Corea del Sud, notoriamente a forte prevalenza tecnologica, sono scese del 25% in Febbraio rispetto ad un anno addietro. Persino la Cina, al netto dell’inflazione, punta quest’anno ad un magro +4% di crescita economica. Se si tiene conto della forte componente demografica che la caratterizza, è al minimo da molti molti anni.

Il ciclo del credito è oramai chiaramente al ribasso e oggi dopo 10 anni di ripresa, il debito cumulato delle imprese americane è quasi triplicato: da 2,5 a 6,5 trilioni di dollari.

LA MANIFATTURA EUROPEA E’ LA PIÙ COLPITA

Ovviamente dalla situazione attuale chi ci rimette di più è la vecchia Europa. L’andamento manufatturiero globale dalla fine del 2018 è decrescente e lo è soprattutto quello delle fabbricazioni correlate all’industria di trasporti, oggi in piena crisi da rinnovamento strutturale e soprattutto pesantemente collassata in Germania, il Paese che sino a pochi mesi fa costituiva il traino principale della crescita europea.

Ma il quadro sin’ora descritto, che potrebbe sembrare decisamente negativo, va stemperato dai mutamenti sempre più pervasivi che riguardano le abitudini di spesa e le tendenze di consumo delle nuove generazioni, le cui transazioni online sono in aumento e fanno decisamente fatica ad essere percepite dalle statistiche prevalenti.

Se prendiamo ad esempio l’andamento delle vendite al dettaglio:


Dobbiamo anche tenere conto della crescita più che proporzionale del commercio elettronico:


nonché dell’invasione dell’economia del baratto online, dove la sharing economy oramai detta la legge prevalente e di conseguenza il valore di buona parte delle transazioni che la riguardano viene tralasciato dai meccanismi di rilevazione.

LA CRESCITA “DIGITALE” NON È PIENAMENTE RILEVATA DALLE STATISTICHE

Come dire che una parte del nuovo “benessere” non transita da negoziazioni fisiche e monetarie e non viene per questo motivo rilevato. Così come non viene rilevata in molti casi dai panieri statistici dell’inflazione la crescita dei prezzi di molti beni e servizi che passano soltanto online o dei valori espressi dai mercati finanziari.

Il mondo industriale insomma, mentre accresce (sempre meno) la sua dimensione cosiddetta “reale” e tende parallelamente a cambiare pelle per instradarsi verso nuove dimensioni, sempre più smaterializzate e sempre più difficili da sottoporre a tassazione, ma ciò non dimeno anch’esse sono “reali” e generatrici di ricchezza.

È chiaro che sè questa tendenza risultasse in ultima analisi prevalente rispetto alla riduzione della crescita economica citata più sopra, ecco allora che le statistiche attuali ci mostrerebbero un’economia in decrescita più o meno felice o comunque falsamente in contrazione. Probabilmente c’è una via di mezzo tra la crescita che non si vede e la riduzione della crescita che si vede. Ed è altrettanto probabile che l’assestamento dell’attuale ciclo positivo non dispiaccia troppo a nessuno. Se non fosse per quell’eccesso di debito finanziario che caratterizza i connotati della “nuova economia” digitale. Debito che fa paura quasi a tutti ma che -se esiste- è perché qualcuno ha scelto di sottoscriverlo.

Dunque quello della finanziarizzazione dell’economia è un timore motivato oppure un semplice disagio, come la sensazione che si prova a bordo quando l’aeroplano prende quota?

Forse anche di questo stanno parlando Americani e Cinesi mentre noi europei ci consumiamo a commentare qualche statistica logora e forse inadeguata alla nuova era. Il punto però nessuno lo conosce meglio di chi ha provocato i negoziati in corso: quell’America sempre più digitale e al tempo stesso sempre meno manufatturiera che guida le fila dell’innovazione tecnologica e investe pesantemente nelle imprese del futuro più remoto. La contrazione dei vecchi indici la spaventa assai poco. Il livello raggiunto dal cambio del Dollaro già un po’ di più…

Stefano di Tommaso