TRA AMERICA E CINA CI RIMETTE L’EUROPA?

L’ultima sortita dei negoziati Cina-America sulle tariffe doganali ha improvvisamente incupito i mercati finanziari sollevando ancora una volta la prospettiva di un freno al commercio internazionale e, di conseguenza, alla crescita economica globale. Ma quanto è realistica quella prospettiva? Le considerazioni che seguono sono anzi di segno opposto dal punto di vista economico: la crescita globale è forse meno a rischio di quel che sembra e, più semplicemente, le due superpotenze economiche che vengono lambite dall’Oceano Pacifico stanno probabilmente trovando un nuovo paradigma di dialogo tra loro, che può ugualmente portarli ad un’intesa nel tempo e, parimenti, favorire indirettamente anche gli altri Paesi sullo scacchiere del commercio internazionale. E’ dal punto di vista politico però che l’Europa conta sempre meno.

 

L’EUROPA NON SI FERMA

Vediamo innanzitutto cosa succede alle esportazioni Europee, perché questa è e resta il primo produttore di impianti e tecnologie che vengono installati nei Paesi Emergenti. I rinnovati timori per la crescita economica globale stanno sicuramente facendo un qualche danno, perché tendono a far slittare in avanti l’agenda degli investimenti produttivi. Non per niente ci sono molti dubbi sulle prospettive dei principali esportatori europei. Ma al tempo stesso l’Europa procede nel rinnovare tanto le sue aziende quanto le sue catene commerciali, e la lenta e tardiva ripresa economica (rispetto ad America e Asia) non sembra arrestarsi.

TRA AMERICA E CINA NESSUNO HA FRETTA

I negoziati tra America e Cina è poi relativamente improbabile che finiranno molto bene e molto presto, perché ci sono grandi distanze da colmare e sono in gioco i rispettivi orgogli nazionali. America e Cina esprimono due concezioni dell’economia, della società civile e del ruolo dello Stato in essa che non potrebbero essere più diverse.

Trump poi ha dimostrato di non avere affatto fretta di concluderli adesso, dal momento che la sua campagna elettorale inizia davvero soltanto a fine 2019 per concludersi a ottobre 2020. Gli preme giusto non deprimere l’economia nè la borsa, che devono riuscire a risparmiare le forze per continuare il trend ascendente fino appunto a quelle date. E’ per questo motivo che risulta relativamente improbabile che un nuovo accordo veda la luce già al prossimo G20 di Giugno in Giappone. Casomai al G7 di fine Agosto, a Biarritz (Francia).

Xi Jinping dal canto suo ha capito benissimo che non può fare troppo in fretta agli americani le concessioni che questi chiedono in termini di legalità, rispetto dei diritti dell’impegno e ingerenza dello Stato sui mercati finanziari e perciò è quasi contento anche lui di fare melina ancora per qualche mese, onde lasciar elaborare il lutto ai suoi connazionali circa l’impossibilità di continuare a fregarsene dei diritti dell’ingegno americani.

LA FEDERAL RESERVE PUO’ DIVENIRE IL CAPRO ESPIATORIO

Il richiamo fatto da Trump alla Federal Reserve bank of America (la FED) dovrebbe poi essere servito da monito. Se l’America è cresciuta fino ad oggi del 5% l’anno, con l’inflazione che è restata sotto al 2%, allora forse la cosa da evitare è che il dollaro si apprezzi troppo e danneggi la competitività delle esportazioni americane. Dunque i tassi d’interesse americani non possono restare a lungo così elevati se il resto del mondo va in un’altra direzione. E soprattutto sappiamo che -come già succedeva a inizio anno- dopo questi risultati della politica fiscale (che sono stati un successo del Governo nonostante i rialzi dei tassi della FED) se adesso qualcosa andrà storto, tutti guarderanno alla banca centrale americana come primo responsabile.

E in effetti la Cina sta riuscendo ad evitare il peggio (cioè il crollo dell’export) attraverso la svalutazione della sua moneta, che però può rendere troppo costose le esportazioni europee in Cina se l’Euro non viene svalutato altrettanto. Sicuramente la vera battaglia tra gli esportatori è infatti sui cambi, più che sulle tariffe doganali, ma anche sull‘inflazione che la svalutazione del cambio valute può alimentare indiscriminatamente. Fino ad oggi tuttavia un po’ d‘inflazione s’è vista praticamente solo in Asia, nonostante la crescita economica globale vada avanti da parecchio tempo.

IL COSTO DELL’ENERGIA POTREBBE RIMANERE STABILE

È anche probabile che il Dollaro forte scongiuri quasi del tutto l’inflazione in America, evitando di surriscaldare l’economia e i salari. Ma è anche probabile che la rinnovata tensione commerciale tenga a bada il prezzo del petrolio, nonostante le politiche di contenimento della sua estrazione. Certo, saranno prezzi non così a bada per chi non potrà spendere dollari per acquistare il petrolio, dal momento che esso è universalmente denominato in dollari, i quali potrebbero continuare a rivalutarsi.

D’altra parte la domanda di petrolio nel mondo non accenna a scendere, nonostante gli sforzi per la difesa dell’ambiente vadano in quella direzione. Quindi se c’è anche domanda il suo prezzo non scenderà nemmeno. E se si mantiene elevata la domanda allora possiamo anche affermare che l’economia globale non è evidentemente in crisi.

 

UNO SCENARIO DA “BAMBOLA DAI RICCIOLI D’ORO” NON E’ COSI’ IMPROBABILE

Quello che perciò può venirne fuori è uno scenario globale piuttosto rassicurante, nel quale l’America farà di tutto per sostenere la crescita dei consumi interni e degli investimenti strategici, l’Europa quel che potrà per non perdere quote di export e l’Asia tutto ciò che sarà in grado di mettere in campo per controllare l’approvigionamento di materie prime mentre continuerà a stimolare i consumi interni nonostante la progressiva svalutazione delle divise valutarie. Cosa che non dispiacerebbe a nessuno se vi riuscisse nonostante le svalutazioni, perché per farcela non potrà che continuare a muovere la leva degli investimenti a rotta di collo.

Dunque la cappa che le mosse dei presidenti americano e cinese stanno cercando in questi giorni di mettere all’economia globale tutto sommato può arrivare a dipingere uno scenario economico di grande stabilità. Gli americani usano un’espressione per indicarlo: “da bambola con i riccioli d’oro” (a causa del motto dell’arcinota protagonista dei giochi per bimbi denominata“Goldolocks” la quale per qualsiasi argomento preferisce la via di mezzo).

E I MERCATI FINANZIARI RESTANO SU

E questa presunta stabilità prospettica non può che far bene ai mercati finanziari, i cui strateghi sono spesso un passo avanti a tutti gli altri osservatori e che stavolta continuano a scommettere sulla prosecuzione del ciclo economico positivo. Se avranno ragione è oggi impossibile a dirsi, ma la cosa carina è che ci credono. E quindi gli investitori non fuggono dalle borse, i capitalisti di ventura non abbandonano le innovazioni e risparmiatori anzi comprano dosi sempre maggiori di titoli a reddito fisso e a tassi decrescenti. E se i tassi d’interesse fanno di conseguenza un passo indietro questo vuol dire che dell’inflazione non si trova traccia, almeno tra le valute più forti.

C’E’ SPAZIO PER UNA NUOVA YALTA?

Possiamo perciò dormire sonni tranquilli? Assolutamente no: sulle cause dell’incertezza sono altresì tutti d’accordo, perché tanto a livello di contrasti geopolitici quanto per le crescenti tensioni sociali il mondo anzi accresce le sue turbolenze e nessuno può garantire che non ne deriverà istabilità. È poi cosa tutt’altro che scontata che Trump venga rieletto e che l’Europa non esca profondamente lacerata dalle prossime elezioni. Il medio oriente resta una polveriera e un eventuale attacco ai porti iraniani potrebbe rimettere in discussion anche la stabilità economica.

Ma per il momento l’economia globale sembra invece andare piuttosto bene e il confronto commerciale tra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese tutto sommato potrebbe proseguire anche in termini costruttivi ed evolvere sino a giungere a trasformarsi in una sorta di nuova Yalta.

Dalle attuali guerre (oggi soltanto commerciali) potrebbe anche sortire un disegno intelligente di nuovo ordine mondiale, magari meno segreto e forse più lungimirante di quello che ha subdolamente governato il mondo fino a ieri.

Ma di certo a quel tavolo (dove una volta sedevano i russi accanto agli americani e oggi i cinesi) mancheranno gli europei. A parte il fatto che di personalità come Churchill -che potevano confrontarsi a testa alta con Roosevelt e Stalin- non se ne vedono piu da tempo, ma poi resta sempre valida quella battuta di Henry Kissinger ai tempi della guerra fredda: “se devo chiamare l’Europa, a chi telefono ?”

Stefano di Tommaso




BANCHE ITALIANE : AGGREGAZIONI IN VISTA

Molti osservatori concordano nell’affermare che sta per succedere qualcosa ai principali istituti di credito nazionali. Vuoi per il noto problema dell’instabilità politica, endemica nel nostro Paese, vuoi per quello della sostenibilità del debito pubblico italiano e per il conseguente rischio per le banche, grandi detentrici di titoli di Stato, vuoi ancora per le prospettive di limitatissima crescita economica dell’Italia (che aumentano i rischi sui crediti concessi alla clientela) e senza dimenticare infine la diffidenza oramai diffusa sulla reale misura delle sofferenze sui crediti, fatto stà che le valutazioni espresse in Borsa per le principali banche quotate sono ridotte al lumicino.

 

LE CONSEGUENZE DELLE SCARSE VALUTAZIONI

Molte banche oramai capitalizzano in Borsa una frazione del loro patrimonio netto (si veda tabella qui riportata alla voce P/BV) cosa che le rende oggetto di possibili appetiti da parte degli investitori speculativi internazionali, anche perché a questi prezzi possono risultare un buon affare. Tuttavia le stesse fanno anche paura a chi volesse provare a speculare sui loro prezzi bassi, e questo rende più probabile un diverso scenario: quello delle aggregazioni.



PIÙ PROBABILI LE AGGREGAZIONI CHE LE CESSIONI

Nel migliore dei casi si parla perciò di razionalizzazioni attraverso possibili aggregazioni tra di esse, come ad esempio per: Monte Paschi, Banco BPM, UBI Banca e Popolare Emilia Romagna. Per non citare alcune tra le peggiori della classe in quanto a performances, come Popolare di Bari e Carige, fino a ieri tra l’altro inutilmente a caccia di un acquirente (per Carige la notizia dell’abbandono delle trattative da parte del fondo BlackRock è fresca di stampa).

Il secondo motivo per il quale appaiono decisamente probabili delle aggregazioni (almeno tra le maggiori banche del Paese) è paradossalmente proprio l’esiguità delle valutazioni che esse esprimono, fattore che rende poco conveniente per gli azionisti attuali la vendita tout-court delle partecipazioni detenute. Addirittura per una di esse (UniCredit) lo stesso problema (bassa capitalizzazione rispetto ai mezzi propri) potrebbe spingerla ad effettuare una grossa acquisizione oltr’alpe (si parla di Commerzbank o di Société Gènerale), per ridurre il peso del rischio-paese sulle valutazioni del titolo quotato.

DIVIDENDI GENEROSI…

Forse è anche per contrastare le striminzite capitalizzazioni di borsa che le principali banche italiane (Intesa e UniCredit) risultano oggi tra le più generose del mondo in termini di dividendi erogati. Di seguito il primo grafico riporta la percentuale di profitti che il mercato di attende vengano distribuiti sotto forma di dividendi, il secondo grafico reta invece il rendimento in percentuale delle azioni quotate in base ai dividendi attesi.


… E PROFITTI IN DISCESA

Tuttavia le prospettive di profitto non aiutano granché il sostegno delle quotazioni bancarie: secondo un’analisi molto recente di Mediobanca che riguarda le prime 9 banche italiane (ISP, UNICREDIT, BANCOBPM, MPS, BPER, UBI, CREVAL, POPSONDRIO, CREDEM) i loro risultati netti di bilancio del primo trimestre 2019 ammonterebbero in totale a 2,6 miliardi di euro contro i 3,2 dello stesso periodo del 2018 (quasi il 19% in meno). Un calo significativo e non occasionale dovuto alla discesa progressiva dell’attività “core” delle banche commerciali: quella dei prestiti alle imprese che porta con sè la discesa delle commissioni di servizio, sebbene le sofferenze sui crediti sembrino oggi risultare finalmente in calo.

È anche per questi motivi che quel che potrebbe sembrare (e in effetti forse lo è) un’ottima occasione per acquisire azioni interessanti a prezzi estremamente scontati viene guardata invece con sospetto dagl’investitori internazionali: le prospettive del sistema bancario italiano dipendono moltissimo da quelle economiche complessive del Paese. E su quelle italiane è sempre stato difficile poter scommettere, soprattutto negli ultimi anni.

Da un altro punto di vista perciò il livello di valutazioni delle banche italiane può essere considerato un buon termometro del gradimento dei nostro Paese nei confronti della comunità finanziaria internazionale. Se le loro quotazioni saliranno (come personalmente ritengo) questo probabilmente vorrà dire che quel gradimento sarà migliorato.

Stefano di Tommaso




LE POSSIBILI MANOVRE DI UNICREDIT PER ACCRESCERE LA PROPRIA CAPITALIZZAZIONE

La cessione repentina del 17% di Fineco Bank (la metà del 35% ancora detenuto) da parte di Unicredit non è passata inosservata. Tutti se ne sono chiesti la ragione. Certamente la valutazione riconosciuta a Fineco (pari a 17 volte i dividendi) ha contribuito a convincere il vertice del gruppo, ma la verità è che Fineco rappresentava per UniCredit la finestra sul mondo digitale e il mercato ha reagito negativamente alla notizia, nonostante UniCredit avesse appena chiuso il primo trimestre 2019 con un utile netto di 1,4 miliardi di euro (+25%), battendo le stime degli analisti che lo davano a 1,28 miliardi.

 

Nel commentare i dati del primo trimestre Pierre Mustier aveva dichiarato: “per la seconda volta di seguito, è il migliore trimestre dell’ultimo decennio, siamo sulla strada giusta per raggiungere gli obiettivi di Transform 2019, che sono tutti confermati, entro la fine di quest’anno”.

Certo bisogna tenere conto del fatto che quel profitto è stato condizionato da alcune poste non ricorrenti, quali cessioni immobiliari (per 258 milioni di euro) e il rilascio degli accantonamenti previsti per la liquidazione delle sanzioni americane (altri 320 milioni). Al netto di tali voci, l’utile rettificato si mostra in crescita soltanto dell’1,5% a 1,1 miliardi di euro. Ma sembrava un bel passo avanti sulla strada di una miglior capitalizzazione (oggi appena 25 miliardi di euro) che il mercato fa fatica a riconoscere al titolo.

UNA CAPITALIZZAZIONE DI BORSA POCO INVIDIABILE

Con un patrimonio netto di 56 miliardi di euro infatti la banca esprime un valore di mercato poco invidiabile: al di sotto del 50% dei mezzi propri!


È vero che il problema riguarda tutte le banche italiane, ma -come si può leggere dalla tabella- la capitalizzazione dell’altra grande, IntesaSanpaolo, arriva già al 70% dei mezzi propri.

Comunque sia con la vendita di metà della sua residua partecipazione in Fineco, UniCredit ha incamerato cassa fresca per un miliardo di euro e una plusvalenza (che va a migliorare i suoi “ratios” patrimoniali) di un ulteriore mezzo miliardo. Sono cifre che potrebbero raddoppiare presto, con la oramai probabile futura cessione dell’altro 18% e che sembrano proprio preludere al classico “mettere fieno in cascina” per il momento in cui si presentasse qualche opportunità di acquisizione prossima ventura.

 

LE ALTRE POSSIBILI DISMISSIONI PER MIGLIORARE I “RATIOS”

Mustier ha dichiarato che quella cessione è solo il primo passo verso una serie di dismissioni di attività non strategiche, quali ad esempio l’accelerazione della vendita di NPE nel 2019. Si parla infatti della possibile cessione dell’importante pacchetto di azioni di Mediobanca in mano a Mustier e della partecipazione nella Yapi Kredi Bank, che è quotata alla borsa di Istanbul e di cui il gruppo milanese ha il 40% . Un’altra che ovviamente non sembra risultare particolarmente strategica. Infine c’è il tema dei BTP nazionali, acquisiti forse in eccessiva quantità in tempi di forte instabilità politica italiana.

Con il ribasso dei tassi d’interesse sono stati un ottimo affare per la banca, senza dubbio, ma da qualche mese pesano un po’ troppo sulla rischiosità dell’istituto, da molti giudicata al limite. Ed è per questo che il CEO della banca si è impegnato a liquidarne presto almeno una parte. Come si può vedere dal grafico che segue: intorno a fine anno il titolo aveva performato meglio del settore, poi sceso più bruscamente.


Con un coefficiente patrimoniale “Common Equity Tier 1 (di seguito: CET1)” già buono (pari al 12,25%) si stima che UniCredit possa ottenere un miglioramento del proprio CET1 pari a 25 punti base dalla cessione di Fineco, cioè arrivare al 12,5%. Un valore elevato ma non ancora ottimale, cosa che spinge a pensare che la politica di dismissioni continuerà a lungo. Per fare un paragone con il concorrente più prossimo: IntesaSanPaolo ha superato il 13%.

Ma perché oggi Mustier dichiara di voler fare cassa dovunque può e perché ha tanta fretta di recuperare una valutazione più elevata del titolo Unicredit?

Non che il compito dell’amministratore delegato sia stato fino ad oggi così semplice nel tagliare costi e liberarsi dei pesi (e dei crediti in sofferenza) del passato, ma nel prossimo futuro la sua sfida si fa certamente ancora più complessa perché, una volta fatta pulizia, ora bisogna riuscire a far riprendere all’istituto la strada della crescita, anche per assicurarsi di riuscire a mantenere la propria autonomia e non diventare preda di qualcun altro. Ed è difficile farlo soltanto in Italia o solo con la crescita organica.

Oggi l’attività della banca è concentrata per il 90% su otto Paesi tra cui l’Italia che, con 58,7 miliardi di masse intermediate, rappresenta il 52% del totale complessivo. Seguono: la Spagna con 14 miliardi, la Germania con 11,1, l’Austria con 6,3, il Giappone con 5,9, l’Ungheria con 1,96, la Romania con 1,94 e la Bulgaria con 1,6. È chiaro che se invece il peso del nostro Paese scendesse sotto il 50% il rating complessivo di Unicredit potrebbe averne vantaggio, come pure il suo costo della raccolta.

Un’espansione oltr’alpe insomma (come il famigerato acquisto di Commerzbank o la fusione con Société Générale) non potrebbe che dare un aiuto ad accrescere la valutazione complessiva dell’istituto. Ma con la regolamentazione europea attuale la partita delle acquisizioni non può che essere giocata migliorando ulteriormente gl’indici patrimoniali e ampliando le attuali risorse di capitale.

Meglio dunque cominciare subito. Si ma solo dopo le elezioni europee evidentemente, perché anche per l’azionista pubblico tedesco non sarebbe facile far digerire agli elettori l’operazione di cedere Commerzbank e farne gestire gli esuberi del personale organico a una banca italiana e a un manager francese !

Stefano di Tommaso




VENDITE AUTO NELLA BUFERA. E I CONCESSIONARI SI AGGREGANO

I veicoli immatricolati in Italia nel primo quadrimestre 2019 ammontano a 712.196 unità, il 4,6% in meno rispetto ai volumi dello stesso periodo del 2018, mentre la quota di mercato delle auto italiane nuove vendute nel nostro territorio è più o meno di un quarto del totale. Il mercato delle vendite di auto nuove, dopo le flessioni di gennaio (-7,5%), febbraio (-2,4) e marzo (-9,6%), ad aprile 2019 ha registrato una mini-ripresa “tecnica” (+1,5%) quasi solo grazie ad un giorno lavorativo in più (20 giorni ad aprile 2019 contro i 19 di aprile 2018) totalizzando nel quadrimestre un -4,6% rispetto allo stesso periodo del 2018.

 

Nel quadrimestre forte appare la contrazione delle autovetture diesel (-25%) mentre quelle a benzina sono viceversa in aumento quasi della stessa misura (+24%). Raddoppiano le auto elettriche rispetto ai primi 4 mesi del 2018: sfiorano le 2400 unità, anche grazie all’eco-bonus (dopo la pubblicazione, l’8 Aprile, ne sono state vendute 1200 in venti giorni) ma in totale rappresentano meno dell’1% del mercato (dunque il sistema bonus-malus -a conti fatti- pende fortemente a sfavore).

CRESCONO LE AUTO ELETTRICHE, CROLLANO DIESEL E A METANO


Crescono del 33% nel quadrimestre le vendite di auto ibride (quelle plug-in beneficiano parimenti dell’eco-bonus). In crescita anche le superutilitarie (anche perché la nuova normativa privilegia le auto con prezzo di listino inferiore a €50mila ed emissioni inferiori ai 70mg) e le S.U.V. (una tendenza oramai consolidata) mentre sono parimenti in calo le berline e più in generale viene penalizzato l’alto di gamma (-31%). Appena positive le vetture sportive e quelle di super-lusso. Nello stesso periodo crescono leggermente le vendite di auto nuove a GPL (+5%) ma crollano quelle a metano (-41%).

CRESCITA DELLE VETTURE USATE


Il medesimo andamento si registra per le vetture usate: nel primo quadrimestre del 2019, i trasferimenti di proprietà sono stati 1.480.849 (esattamente il doppio rispetto alle vendite di auto nuove), ma ammontano al 4,1% in meno rispetto allo stesso periodo del 2018, un calo poco inferiore a quello delle vendite di auto nuove, nonostante la decisa riduzione (anche per fattori stagionali) delle vendite di auto a km zero.

SCENDONO NOLEGGIO E FLOTTE AZIENDALI, CRESCONO I PRIVATI

Andando a separare le vendite di auto secondo il regime di proprietà, cala parecchio il noleggio (-6,8% nel quadrimestre) ma, a ben vedere, cresce decisamente nel solo mese di Aprile (+23%), evidenziando la sua caratteristica fortemente pro-ciclica di questa forma di proprietà. In generale comunque il noleggio a lungo termine sembra destinato a una riduzione nel 2019. Scendono inoltre decisamente le vendite alle flotte aziendali (-7,25% nel primo trimestre, a causa del venir meno degli incentivi per il superammortamento), mentre crescono di misura (meno del 3% quelle a privati), e i leasing auto.

In generale le previsioni per l’anno in corso sono dunque negative: qualcuno stima che le auto nuove che saranno state vendute a fine 2019 ammonteranno a meno di 1,8 milioni, contro le 1,9 milioni vendute nel 2018 (-5%) ma è questa soltanto una vaga ipotesi, che non tiene conto dell’attesa di possibile miglior ripresa economica per la seconda parte del 2019, che potrebbe dunque riflettersi anche sul mercato dell’auto.

BOOM DELL’USATO ONLINE

Si stima inoltre in crescita la quota di mercato delle auto usate (dovuta alla progressiva saturazione del mercato), sebbene il maggior numero di unità vendute non corrisponda che a circa la metà degli importi in termini di valore rispetto alle auto nuove.

Ma l’argomento più interessante è quello delle vendite online: sembrerebbe che il 40% degli 800.000 veicoli posti in vendita online in ogni istante venga piazzato a privati nel giro dei successivi 30 giorni. I maggiori operatori del mercato sono senza dubbio AutoScout24 e Facile.It e rischiano di erodere una fetta sempre maggiore di un mercato, quello dell’usato, che ha sempre rappresentato una miglior fonte di guadagno per i concessionari auto rispetto alle vendite del nuovo.

Il 27% delle persone in Italia sarebbe interessato all’acquisito dell’auto online e ci si aspetta che questa percentuale cresca sulla sua di quanto sta accadendo in UK e US. Le ragioni che spingono i consumatori ad optare per questa scelta sono: migliori promozioni (per il 51% degli intervistati) , una più facile comparazione di prezzo (37% ) e un risparmio di tempo (28%).

I DISTRIBUTORI SI AGGREGANO, MA IN EUROPA SONO PIÙ AVANTI

Quanto ai distributori di auto, è sempre più chiaro che, mentre in Italia continuano ad operare le piccole realtà, nel resto d’Europa sono soprattutto i grandi gruppi a crescere di fatturato. Il mercato dell’auto infatti risente meno di altri dell’esplosione delle vendite online, sia per un problema concreto di assistenza e manutenzione, che per i servizi accessori che accompagnano quasi sempre le vendite.


Le statistiche disponibili per i concessionari in Europa sono tuttavia molto limitate per il 2018 e, per farsi un’idea del mercato, bisogna risalire al 2017, anno in cui la Svizzera Emil Frey ha registrato il più alto livello di fatturato (oltre 11 miliardi di euro, mezzo milione di vicoli consegnati e quasi 700 punti vendita). Seguono a distanza Penske Europe (quasi 8 miliardi) e tre pesi massimi britannici: Pendragon (5,5 miliardi), Lookers (poco meno) e Inchcape Europe (quasi 5 miliardi). Tra le italiane spiccava (sempre nel 2017) la Autotorino, che però nel 2018 ha già totalizzato una forte crescita, contando anche il fatturato della neo-acquisizione di Autostar, a circa 1,2 miliardi di euro. Seguono Intergea e Porsche Holding (appartenente al gruppo VW). Molti di questi grandi gruppi distributivi sono però oggi indipendenti dalle case di produzione automobilistica, che in precedenza sembravano voler presidiare più direttamente il loro mercato di sbocco.

CRESCE LA QUOTA DI MERCATO DEI GRANDI MULTIMARCA


Dappertutto però si assiste a un andamento opposto delle vendite a seconda delle strutture distributive: crescono quelle dei grandi gruppi multimarca, calano più che proporzionalmente quelle dei piccoli e dei monomarca. In Italia poi nel 2017 i primi 50 dealer fatturavano in media meno di 300 milioni di euro, un ordine di grandezza dunque nemmeno paragonabile a quello dei primi gruppi europei appena citati. Nel grafico qui sopra si nota comunque per quei medesimi top 50 una quota di mercato comunque crescente.

BOOM DEI SOFTWARE PER VENDITE E ASSISTENZA AUTOMOBILISTICA


Chi può farne i migliori guadagni sono le case produttrici di software per la gestione delle vendite auto, per i configuratori, per i comparatori di prezzo e prestazioni, per gestirne la fiscalità, la manutenzione e la soddisfazione come utilizzatori. Una vera e propria messe di nuovi prodotti informatici è destinata a riversarsi sul tema secondo la società di analisi e previsioni Garner Insight.

Stefano di Tommaso