LA LOCOMOTIVA AMERICANA ORA CORRE A TUTTO VAPORE

Non bastava il crollo quasi miracoloso della disoccupazione nella tanto vituperata America trumpiana a tenere banco nel dibattito tra analisti, economisti e politicanti su quali siano le cause di tanta bonanza. Adesso sta continuando anche a crescere il numero di persone che rientrano nel mercato del lavoro (incoraggiate evidentemente dalle buone prospettive) e addirittura cresce la produttività delle ore lavorate. Il tutto in un clima di grandi (e al momento infondati) timori per la presunta fine del lunghissimo ciclo economico di ripresa (10 anni) che l’America ha vissuto sino ad oggi dopo la purosa recessione del 2008.

 

E’ LA TERZA VOLTA CHE LA RECESSIONE NON SI MANIFESTA

Quei timori stanno ancora una volta provandosi infatti destituiti di ogni fondamento, così come era già avvenuto nel 2016 quando è sorta la nuova leadership politica e così come è avvenuto alla fine del 2018, quando l’America stava rischiando di nuovo di cadere in recessione a causa delle ostinate politiche di rialzo dei tassi da parte della banca centrale americana e rischiano ancora una volta di rivelarsi anche quest’anno per ciò che sono probabilmente sempre stati: un eccesso di scetticismo circa le politiche economiche neo-monetariste e conservatrici dell’era trumpiana.

DA COSA DIPENDE IL SUCCESSO ECONOMICO AMERICANO?

Difficile affermare qualcosa di diverso dal taglio delle tasse nell’interpretare le cause della meravigliosa dinamica degli investimenti che si moltiplicano nel nuovo continente da quasi tre anni a questa parte. Difficile ipotizzare cause diverse dall’incentivo fiscale a dichiarare oggi maggiori redditi. Anche perché la poderosa crescita dei profitti aziendali da un paio d’anni a questa parte ha portato Wall Street a nuovi massimi storici -pur riducendo il prezzo implicito delle azioni quotate (cioè il moltiplicatore dei profitti)- e ciò accade nonostante che i tassi d’interesse abbiano ripreso a scendere (se infatti i rendimenti dei titoli a reddito fisso sono più bassi, allora l’attualizzazione dei profitti futuri va scontata a un tasso minore e dunque il valore attuale netto delle aziende cresce). E i tassi nominali continuano a restare bassi anche perché nessuno teme davvero nuove fiammate inflazionistiche.

LE CORNACCHIE GRACCHIANO

Sono peraltro quasi tre anni che sentiamo parlare di scandali mai comprovati dai fatti alla Casa Bianca, di presunti (e mai verificati) coinvolgimenti russi nell’elezione dell’attuale Presidente, ma soprattutto sono quasi tre anni che vari soloni e sedicenti “guru” della finanza continuano a predire imminenti quanto clamorosi crolli di borsa. E ciò non accade mai. Ma se andiamo a vedere chi sono quelle cornacchie di sventura e come sono schierati politicamente quegli accusatori che non sono mai riusciti a conprovare le loro invettive, guarda caso essi sono tutti oppositori politici di Donald Trump, tutti legati alla grande finanza e ai cosiddetti “poteri forti” che governano buona parte delle istituzioni finanziarie e dei media che ci disinformano. Gente che non vede l’ora di mandare a casa l’ “intruso” alla Casa Bianca che ha scombussolato i loro piani privati e inconfessabili.

Certo, così come anche un orologio rotto segna l’ora giusta un paio di volte al giorno, anche loro prima o poi canteranno vittoria quando inevitabilmente il ciclo economico positivo finirà per invertirsi. Ma se questo dovesse avvenire tra molti mesi o addirittura tra qualche anno sarà sempre più difficile dare ragione alle loro tesi: evidentemente le attuali politiche economiche della Casa Bianca sono riuscite ad ottenere il loro effetto di rilanciare alla grande la crescita economica degli Stati Uniti.

LA DISOCCUPAZIONE SCENDE ANCORA

Vediamo perciò innanzitutto i dati sulla disoccupazione: le imprese americane negli ultimi 100 mesi hanno creato in media 200mila nuovi posti di lavoro al mese abbassando ad Aprile 2019 il tasso di disoccupazione fino al 3,6% quando era ancora al 5,1% all’epoca dell’elezione di Trump (dato di ottobre 2016). Nel grafico che segue la previsione non era stata ancora aggiornata alle ultime rivelazioni:


E LE RETRIBUZIONI CRESCONO

Anche per il livello delle retribuzioni la dinamica resta fortemente positiva, con un incremento nell’ordine del 2,5% nei 40 mesi che sono succeduti alla discesa del tasso di disoccupazione al di sotto del 5%, come si può vedere dal grafico riportato:


MA SOPRATTUTTO LA PRODUTTIVITÀ TORNA A SALIRE

La vera novità delle ultime ore peraltro riguarda dati molti positivi a proposito dell’efficienza dell’ora lavorata (produttività). Le cose anche da questo punto di vista sembrano andare di bene in meglio negli Stati Uniti d’America, per fortuna, vista la decisa rigidità dell’offerta di lavoro a causa della quasi piena occupazione. Se infatti non ci fossero stati incrementi di produttività l’aumento in corso dei salari reali sarebbe avvenuto a scapito dei profitti aziendali.


MENTRE LA DIGITALIZZAZIONE AVANZA

Infine una nota sul principale indicatore dell’avanzamento economico di una nazione: il prodotto interno lordo (cioè IL P.I.L. ovvero la somma di tutti i redditi lordi di una nazione). È una misura che viene criticata da quasi novant’anni a proposito della difficoltà che essa trova nel riflettere “ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta” (come diceva il senatore Robert Kennedy in un famoso discorso del 1968),

Oggi questa misura dell’economia è di nuovo sotto attacco a causa della sua incapacità di riportare quella parte di servizi che vengono barattati online o forniti (spesso gratis o per pagamenti effettuati su siti internazionali) per via digitale, nonché quelli che vengono condivisi da più utenti (sharing economy) in cambio di informazioni o altri servizi ovvero di pubblicità.

Oggi con il diffondersi dell’economia digitale il problema della rilevazione di questa parte delle transazioni commerciali inizia a diventare macroscopico, cosi come la creazione di valore effettuata attraverso il successo digitale di iniziative spesso assolutamente gratuite non viene riflessa dalla misurazione del P.I.L. L’esempio piu ovvio è quello dell’enorme successo in rete -e in termini di valore creato- di Facebook e Google, ovvero delle mappe digitali che vengono utilizzate per le applicazioni di navigazione satellitare che oramai qualsiasi telefonino può offrire senza costi.

QUANTA PARTE DEL REDDITO AMERICANO NON VIENE RILEVATA?

Quanta parte delle transazioni digitali (che creano a livello patrimonial-finanziario valori stratosferici) sfugge alla misura del Prodotto Interno Lordo? Non ci sono risposte facili, se non quelle (tutt’altro che attendibili ed esaustive) che provano a misurare il valore teorico di ciascuno di questi servizi che, pur non pagati, generano comunque un corrispettivo figurativo a causa delle entrate pubblicitarie che essi procurano ai loro gestori. Si stima per esempio che la partecipazione a Facebook equivale -per ogni utente- a circa 50 dollari al mese, mentre le mappe digitali superano quell’importo arrivando ad un equivalente di 67 dollari. Purtroppo però non possiamo considerare queste misure nè attendibili e nemmeno esaustive, ma possiamo ben renderci conto che iniziano a sfuggire alle contabilità nazionali (e al fisco locale) quote crescenti delle nuove attività economiche.

Inutile ricordare che il paese al mondo più avanti da questo punto di vista sono proprio gli Stati Uniti d’America. Inutile altresì ricordare che evidentemente la loro crescita economica appare perciò maggiormente sottostimata rispetto a quella delle altre potenze economiche mondiali.

COSA NE CONSEGUE ?
Cosa possiamo dedurre dalla constatazione dell’enorme successo che sta ottenendo l’America di Trump? Che le nuove teorie che accompagnano questa nuova leadership politica evidentemente stanno funzionando, così come possiamo facilmente dedurne che il loro successo è destinato a propagarsi alle economie a loro piu vicine, ai loro migliori partner commerciali e ai mercati finanziari meglio lambiti dalla liquidità che viene generata dai profitti delle loro imprese.

Possiamo dedurne anche che evidentemente se questo modello economico sta funzionando, la fine del ciclo economico espansivo non è ancora arrivata, e che di conseguenza le quotazioni stellari cui sono giunti i mercati finanziari di azioni e obbligazioni non sono destinate a contrarsi nella misura in cui i profitti aziendali continueranno a galoppare. Ma possiamo anche dedurne che, se questi ultimi veleggiano alla grande, anche la divisa valutaria in cui sono espresse le loro quotazioni (il dollaro americano) continuerà a restare sopravvalutato, a causa della legge della domanda e dell’offerta.

Purtroppo sono tutte illazioni a fronte delle quali nessuno può esprimere certezze o anche soltanto teorie fondate. Ma proprio come chiunque altri su queste colonne può valere la pena di proporre questi ragionamenti, proprio per il fatto che le considerazioni sino a qui esposte sono in molti casi contrarie a quelle del cosiddetto “mainstream”…

Stefano di Tommaso

 




L’ITALIA FESTEGGIA L’USCITA DALLA RECESSIONE CON UNA RAFFICA DI DATI POSITIVI

Una ripresa trainata dalle esportazioni nel primo trimestre del 2019 era nell’aria, ma ora è anche conclamata. Sebbene le statistiche vengano communicate con molti dubbi e cautele in realtà la situazione congiunturale dell’Italia è migliore di quanto la stampa non voglia sbilanciarsi a riferire: la crescita del Prodotto Interno Lordo rispetto al trimestre precedente è dello 0,2%, ma quella tendenziale arriva allo 0,4% su base annua (nel primo trimestre un +0,1% di P.I.L. è già stato acquisito) e soprattutto la previsione per il trimestre in corso è di ulteriore accelerazione.

 


NON SOLO IL P.I.L. MA ANCHE L’OCCUPAZIONE

Anche l’occupazione cresce rispetto a un anno addietro in misura consistente: +114mila unità (+0,5%) arrivando al 58,9% della forza lavoro potenziale. Cioè ai massimi da Aprile 2008 e in particolare si registra un‘impennata di questo dato per i giovani fino a trent’anni e, poiché i consumi interni a Marzo 2019 risultano ancora in regresso, il combinato disposto della maggior forza lavoro e della maggior capacità di spesa del primo milione di famiglie che sono già divenute beneficiarie del reddito di cittadinanza (che equivale a quasi due milioni di cittadini) lascia presumere che anche i consumi torneranno a risalire presto.

GLI INVESTIMENTI SEGUIRANNO

Quel che ancora manca è chiaramente il contributo alla crescita che dovrebbe provenire dai maggiori investimenti produttivi e in attività fisse, le cui statistiche sono ancora al palo in virtù del clima di incertezza che l’aumento dello spread aveva determinato a cavallo del nuovo anno. Ma anche su questa variabile-chiave è lecito avere un po’ di ottimismo: nuovi investimenti torneranno a farsi vedere necessariamente se il Paese continua con la ripresa delle sue esportazioni, che oramai dipendono sempre meno dalla cedente industria dell’auto, prima “esodata” a forza dai nostri confini dal monopolio concesso dai governi precedenti al gruppo Fiat, e poi definitivamente ridimensionata con la dipartita di quest’ultima dall’Italia. Oggi le esportazioni italiane riguardano sempre più attività anti-congiunturali come l’alimentazione, le energie rinnovabili e il turismo a basso costo e ciò genera stabilità nonché l’esigenza di nuovi investimenti in attrezzature.

PRODUZIONE INDUSTRIALE E ESPORTAZIONI CORRONO

Il tutto peraltro si inserisce in un quadro europeo non soltanto più florido di quello italiano (il dato trimestrale dell’Eurozona è +0,4% mentre quello dell’Unione Europea è al +0,5%) ma -al contrario del nostro- è trainato più dai consumi che non dalle esportazioni (la Germania continua a dipendere fortemente dall’industria dei trasporti che è in crisi e la sua crescita ha una maggior componente di consumi interni).

Le buone notizie per l’Italia arrivano anche in un contesto internazionale dove l’America ha ripreso alla grande nel suo ruolo di locomotiva industriale (ha registrato una crescita nel primo trimestre 2019 del 3,2%) e l’Euro si è finalmente svalutato in maniera consistente, tanto da far sperare che nei trimestri successivi ulteriori vantaggi alle esportazioni potranno arrivare al nostro Paese dai cambi valuta.

Le cornacchie prevedono peraltro che nel secondo trimestre 2019 la produzione industriale (cresciuta nel primo trimestre di un robusto 1,1%) possa invece decrescere, trainando al ribasso le rosee prospettive appena evidenziate, ma la questione potrà essere esaminata soltanto più avanti, tra fine Maggio e Giugno, quando inizieranno a comparire i nuovi dati tendenziali. Poiché tuttavia questo dato è quello che più dipende dalle esportazioni, le buone notizie sull’economia a livello internazionale non concordano con tali pessimistiche attese.

E L’INFLAZIONE EVIDENZIA L’ATTESA DELLA RICRESCITA DEI CONSUMI

Ancora notizie positive sul fronte dell’inflazione, che quando è troppo bassa rispecchia una carenza di domanda per l’acquisto di beni e servizi: l’indice dei prezzi al consumo ad aprile registra un aumento dell’1,1% su base annua. Lo rileva l’Istat ricordando che il tasso di inflazione era all’1% a marzo. L’aumento è dovuto ai prezzi dei trasporti, ma evidenzia una maggior capacità di spesa da parte degli Italiani. La domanda ha infatti pesato soprattutto sui prezzi dei voli aerei con il 24% ad aprile in più su marzo (+11% tendenziale). Si registra anche un aumento per i prezzi dei servizi ricreativi (+1,5% su marzo 2019), dei pacchetti vacanza (+2,2% su base mensile, +6,1% su base annua) e degli alberghi (+10,2% sul mese). Tutt’altro che segnali di crisi, perciò!

L’informativa prevalente che forniscono giornali e mezzi di comunicazione dipinge un quadro congiunturale piuttosto diverso da quello qui sopra riferito, ma essa sconta il fio della campagna elettorale in corso, e non c’è quasi alcuna testata che non debba rispondere a suoi referenti politici o parti sociali. Molti dei quali sono oggi nettamente schierati contro l’attuale maggioranza parlamentare. Ognuno ne tragga dunque le proprie conclusioni…

Stefano di Tommaso




SE I PROFITTI CRESCONO E LE BORSE BRINDANO, ALLORA LA RECESSIONE È PIÙ LONTANA ?

“Mi spiace deludervi, ma le notizie sulla mia morte sono fortemente esagerate”. Anche senza citare l’arcinoto aforisma di Mark Twain, se dovessimo dare il microfono alla ripresa economica globale, sarebbe difficile immaginarla pronunciare una frase molto diversa. Se da un lato infatti si moltiplica il numero di soloni che annunciano cataclismi prossimi venturi, recessioni imminenti e crolli di borsa in arrivo, i dati economici provenienti dalle maggiori imprese multinazionali raccontano una storia molto diversa, fatta di profitti e salari che crescono ancora, mentre la disoccupazione (non soltanto americana) continua la sua discesa. Sono passati già i primi quattro mesi del 2019 e i principali indici azionari di Wall Street non accennano a regredire, toccando anzi nuovi massimi storici e trascinando al rialzo quasi tutte le altre borse.

 

La storia non si ripete mai allo stesso modo e riuscire a interpretare correttamente i nuovi paradigmi dei tempi che cambiano sta diventando sempre più difficile, un po’ per via della progressiva digitalizzazione dell’economia, per la sua crescente finanziarizzazione e per la progressiva condivisione della proprietà di quasi tutto quello che viene prodotto (che sono fenomeni difficili da incorporare nelle nuove teorie economiche) e un po’ perché sembrano scomparsi o alterati anche i normali cicli di espansione e recessione di produzione industriale e consumi.

Quelle oscillazioni dell’andamento economico che ci eravamo infatti abituati a vedere pulsare quasi regolarmente nell’ultimo secolo, oggi invece, alla luce della grande crisi del 2008-2009 e dell’espansione economica che da allora è iniziata e da allora non sembra mai terminare, sembrano sempre più difficili da interpretare: sono stati soltanto fortemente amplificati o magari sono addirittura scomparsi? Stiamo vivendo un lunghissimo ciclo economico espansivo costellato di piccole pause di parziale stagnazione che ogni volta spingono a lanciare nuovi allarmi, tutti regolarmente rientrati sino ad oggi.

I pessimisti potranno obiettare che le buone notizie non si estendono ad ogni settore dell’economia, lasciando per esempio indietro i prezzi degli immobili non commerciali, le vendite di molti beni durevoli (come le automobili e gli elettrodomestici) e le quotazioni di materie prime e derrate alimentari. Sempre secondo i pessimisti senza l’immissione di nuova liquidità da parte delle banche centrali i mercati finanziari si sarebbero già fracassati al suolo e gli investimenti si sarebbero arrestati.

Gli ottimisti dall’altra parte fanno notare che l’economia non può crescere senza che si espanda di pari passo l’offerta di moneta, che se c’è più debito in giro per il mondo è anche perché c’è più disponibilità a concederlo e che se ci sono consumi che calano ce ne sono altri che decollano, come ad esempio le spese mediche e quelle per la cura della persona. E via dicendo che il prezzo del petrolio non accenna a scendere perché evidentemente la sua domanda è robusta, che sempre più servizi digitali vengono oramai utilizzati nel mondo (anche dalle persone anziane) sebbene un notevole numero di essi venga erogatori rete in forma semi-gratuita (spesso in cambio di pubblicità) o a tariffe stracciate (ad esempio gli organi di stampa, notiziari e cinematografia)…

Quello che però non pare di poter scorgere all’orizzonte è una crisi vera e propria dei consumi oppure una riduzione degli investimenti o ancora un calo dei commerci internazionali, nonostante l‘accresciuto debito globale, la tanto sbandierata guerra delle tariffe doganali, le (supposte) tensioni geopolitiche e l’estendersi di sanzioni americane contro tutti gli avversari politici del mondo.

L’unico settore industriale che tutto sommato non sembra proprio riuscire a riprendersi a dovere è il quello dei veicoli da trasporto. Afflitto dal problema dell’inquinamento ambientale, tormentato dall’arrivo della trazione elettrica che però è ancora lontana dal rimpiazzare i motori termici, in attesa di una vera e propria capacità di guida autonoma, (probabilmente in arrivo con il progredire dell’intelligenza artificiale ma per il momento ancora non affidabile), l’industria dell’auto per molti decenni è stato il cavallo di battaglia dell’Europa continentale mentre oggi ne segna il suo declino tecnologico e commerciale, con l’avvento invece di protagonisti americani (come Tesla) e asiatici (giapponesi, coreani, cinesi e indiani).

Le vendite di automobili oramai stagnano da qualche anno ma al tempo stesso l’auto oggi si rinnova nelle forme (suv, promiscuo, urbano e micro), nella trazione (ibrida-elettrica o a idrogeno), nelle forme di possesso (car-sharing, noleggio, rinnovo programmato, pay-per-use), e nella guida (sempre più assistita dall’intelligenza artificiale) e queste nuove tendenze segnano il declino dei produttori tradizionali e l’ascesa di nuovi protagonisti.

E se tuttavia il declino del mercato dell’auto tradizionale a motore termico lascia i suoi graffi un po’ dappertutto nel panorama industriale globale, genera disoccupati e impone nuove efficienze di costo a produttori di componentistica, accessori, materiali di consumo e molti altri (ad esempio a rivenditori, distributori, operatori logistici e persino agli assicuratori) molti dei quali in passato avevano potuto assaporarne i ricchi margini, esso non è tale da riuscire trascinare al ribasso l’intera economia mondiale.

Al tempo stesso infatti sta decollando l’industria aerospaziale, stanno prendono forma nuovi servizi digitali, vedono la luce nuovi impianti tecnologici che rispettano l’ambiente e funzionano quasi senza personale che li manutiene, l’informatica continua la sua espansione, l’industria dell’intrattenimento non rallenta la sua crescita, ma soprattutto la crescita della popolazione globale (di umani e di animali domestici) sospinge la ricerca e lo sviluppo industriale dell’alimentazione e delle bevande, di integratori alimentari e di specialità di ogni genere.

Il mondo insomma va avanti in molte direzioni cercando al tempo stesso di emanciparsi dall’industria inquinante e inefficiente del recente passato, e ciò penalizza le vendite di auto private così come il consumo di carburanti di origine fossile, rinnovando il palcoscenico globale della “nuova economia” con altri e nuovi protagonisti nell‘ immancabile tristezza dei settori in declino, degli ecosistemi non sostenibili e delle aree geografiche le cui comunità imprenditoriali non riescono a rinnovarsi allo stesso ritmo.

“Niente di nuovo sotto il sole” dice la Bibbia nel libro dell’Ecclesiaste, o forse è proprio il sopraggiungere del “nuovo” ciò che più spaventa i nuovi soloni e che li spinge a presagire sventure?

Stefano di Tommaso




LE STARTUP AMERICANE FANNO CASSA

La quotazione in borsa di Uber Technologies sembra la perfetta occasione per fare qualche considerazione di fondo sulla schiera di “unicorni” (così vengono chiamate le nuove imprese dell’era digitale che superano la valutazione di un miliardo di dollari) i cui sopravvalutatissimi titoli stanno per riversarsi ancora una volta a Wall Street, sulla scia della nuova ondata di liquidità che le banche centrali continuano a immettere sui mercati.

 


Secondo una stima indipendente al momento si possono contare più di 340 di quegli “unicorni” quando ce n’erano circa un decimo in numero solo cinque anni fa (39 per l’esattezza), la maggior parte dei quali (21 per l’esattezza) oggi sono già quotati in borsa, cambiandone radicalmente i connotati.


Non che sia andata così male: se prendiamo l’andamento delle famose FAANG (Facebook Amazon Apple Netflix e Google), le loro quotazioni negli ultimi tempi hanno corso ben più dell’indice più usato per valutare l’andamento della borsa americana, come si può leggere dal grafico qui riportato:


Ma la proliferazione di queste società (gli “unicorni” sono soltanto la punta dell’iceberg di un’intera generazione di startup che hanno trovato risorse presso gli investitori privati) e delle loro favolose valutazioni è probabilmente anche il risultato della ricerca spasmodica -da parte degli investitori- di nuove più rischiose opportunità su cui investire la montagna di liquidità sulla quale essi sono seduti. Nel 2018 per la prima volta gli investimenti complessivi nelle startup tecnologiche da parte degli americani hanno superato i 100 miliardi di dollari !


Solo pochi anni fa qualcuno aveva denunciato il fenomeno del cosiddetto “savings glut”(cioè la congestione dei risparmi, che non erano mai stati così alti a causa del miglioramento delle condizioni generali di vita, dell’invecchiamento progressivo della popolazione ricca, eccetera…) facendo notare al tempo stesso che le opportunità di investimento mobiliare non si erano moltiplicate allo stesso ritmo, spingendo in tal modo al rialzo i titoli a reddito fisso (e al ribasso i loro rendimenti) e a nuove vette le quotazioni delle principali borse del pianeta. Già questo fenomeno può spiegare in buona parte la montagna di quattrini che si riversano sugli investimenti più rischiosi.

Ma come si può riuscire a distinguere tra l’oceano di nuove iniziative quelle che faranno le migliori performances, quando supereranno la fase iniziale di perdite di bilancio? La risposta più onesta è che molto spesso non si può. Quello che oggi conta di più tra le vincenti della loro categoria è piuttosto la loro capacità di attrarre risorse finanziarie per crescere dimensionalmente.

Uber da questo punto di vista, con la sua teorica valutazione di 100 miliardi di dollari è la perfetta prova di tale affermazione! Dopo dieci anni di sonore perdite economiche (ha bruciato circa 20 miliardi di dollari) il suo giro d’affari, 11,3 miliardi nel 2018, è salito del 42% rispetto al 2017, che invece aveva visto il raddoppio rispetto a 2016. Il numero di utenti mensili è balzato del 34% a 91 milioni nell’ultimo anno e sua volta era cresciuto ben di più, del 51%, nel 2017. Le risorse finanziarie di cui è stata dotata hanno infatti permesso a Uber di espandere il proprio modello di business a qualsiasi servizio dove avrebbe potuto utilizzare dei collaboratori esterni per fare consegne, di qualsiasi cosa, nonostante la quasi totalità di quei servizi sia in perdita.

Lyft, che si è quotata in Borsa pochi giorni fa a livelli ben più bassi (24 miliardi), ha semplicemente spinto meno sull’acceleratore perchè aveva meno risorse da spendere per la sua crescita. E la notizia che le operazioni di quotazione sembrano andare benone sta spingendo Pinterest, l’ennesimo social network in forte perdita, a scaldare anche lei i motori per la borsa!

È quello che recentemente gli economisti hanno battezzato come “esuberanza irrazionale”: l’eccesso di ricchezza (e di aspettative sulla crescita economica) porta a scommettere su nuovi modelli di business persino laddove non c’è alcun indicatore che possa far presumere razionalmente la prospettiva di un profitto. Ovviamente la misura di questa esuberanza è cresciuta soprattutto negli ultimi anni, insieme con la ricchezza degli investitori, come si può vedere dal grafico:


Ma il fenomeno della montagna di liquidità che -aperte le cateratte della borsa- si riversa sugli unicorni al momento della quotazione ha molti altri risvolti sociali e industriali. Innanzitutto quello sulla competitività con i loro concorrenti del passato: inutile far notare che il momento è drammatico per tutti coloro che si occupano di consegne locali “alla vecchia maniera” nelle città dove Uber o Lyft sono presenti. Nessuno di loro dispone delle risorse che hanno questi colossi per perdere ancora denaro! E’ chiaro che per tutti gli altri i margini si schiacciano e il modello di business in può più prescindere da internet e dalla pubblicità online, cosa che a sua volta riduce le entrate pubblicitarie dei giornali locali, delle televisioni regionali e delle affissioni.

Ma la cosa più buffa sono i prezzi delle case, che nelle città più interessate (San Francisco e Los Angeles) alla pioggia di denaro che si sta riversando da Wall Street sono già in passato schizzati alle stelle e ancora una volta si apprestano a crescere. Molti dei beneficiari delle gigantesche valutazioni hanno infatti dormito in un appartamento in comune con molti altri giovani fino a poco tempo fa, e adesso vogliono spostare sull’economia reale i guadagni realizzati su quella “di carta”.

Rischia di andare un po’ come per l’oro del Portogallo, arrivato nel diciassettesimo secolo assai copioso dalle colonie d’oltreoceano, è stato capace di bruciare l’economia reale nel giro di pochi anni, arrestandone il normale funzionamento. Ma per fortuna questa volta il fenomeno sociologico è ben più esteso. Da ogni parte del mondo si investe e si è investito nelle società che sono destinate a cambiare per sempre il volto industriale del mondo. E i frutti che ne derivano vanno anch’essi in tutte le direzioni.

Se poi sarà davvero una manna o viceversa risulterà essere stata una (pericolosissima) moda del momento, lo sapranno soltanto i posteri. Per ora possiamo soltanto cercare alche paragone, come ad esempio la statistica degli ultimi 55 anni qui sotto riportata, che distingue tra imprese valutate poco in relazione ai loro elevati profitti (primo istogramma), quelle dell’indice più diffuso della borsa americana (secondo) e quelle valutate molto e con bassi profitti (terzo):


È chiaro che partire dal 1963 può essere un po’ distorsivo, ma è altrettanto vero che abbiamo già visto scoppiare la bolla speculativa delle “dot.com” dei primi anni ‘90 ed è piuttosto elevato il rischio che anche stavolta la bolla delle aspettative scoppi prima che il nuovo corso si consolidi.

Stefano di Tommaso