L’ECONOMIA RALLENTA IN TUTTO IL MONDO, TRANNE CHE A BRUXELLES

L’economia globale sta vivendo un momento di grande incertezza: la locomotiva americana sembra sul punto di rallentare, come d’altra parte è già chiaro che stia accadendo a quella cinese, vittima di un vistoso calo delle esportazioni. Di conseguenza il commercio internazionale si contrae e i mercati finanziari -che avevano già peccato fin troppo di ottimismo negli anni passati e di nuovo nella prima parte del 2019- nelle ultime settimane hanno ritracciato parte di quella corsa, insieme alla discesa di buona parte dei prezzi di derrate e materie prime che stanno generando un nuovo timore di una deflazione incontrollata. Ciò nonostante la Commissione Europea alza la posta degli scontri in atto, con l’Italia come con la Gran Bretagna, senza minimamente tenere conto della necessità di correre ai ripari.

 

TRUMP ALIMENTA I TIMORI DI UNA NUOVA RECESSIONE

Anche Trump sta addirittura aprendo altri fronti di conflitto, prima con l’Iran e adesso anche con il Messico. Non che non abbia le sue ragioni! Ma indubbiamente se si sommano tutte le tensioni internazionali che l’America sta generando, gli analisti temono che esse provochino una frenata per l’economia globale e, di conseguenza, per i profitti delle grandi imprese. (nel grafico l’andamento recente della borsa americana)



L’HARD BREXIT

Come se non bastasse la geopolitica planetaria, la Commissione Europea (a pochi mesi dalla sua sostituzione) si appresta a combattere contemporaneamente più di una battaglia: contro la Gran Bretagna, che -dopo l’uscita della May ha rinnovato la propria volontà di negoziare duramente la propria uscita, contro l’Italia, rea di aver visto confermato il consenso elettorale ai due partiti di governo (sebbene ribaltandone i rapporti di forza) e persino contro taluni paesi dell’Europa dell’est, rei di aver desiderato di alzare la testa e incrinare i precedenti rapporti di forza con la Germania.

I MINIBOT

Si sta poi per consumare l’ennesimo strappo nei rapporti con la Commissione attuale (quella che dovrebbe a breve essere sostituita): Venerdì pomeriggio sono state poste infatti le premesse per una piccola rivoluzione nell’economia italiana: la Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità una mozione della Lega, che impegna il governo a pagare i debiti della Pubblica Amministrazione, anche ricorrendo all’emissione di “titoli di stato di piccolo taglio”. una proposta che da tempo viene portata avanti da due economisti della Lega, Claudio Borghi e Alberto Bagnai.

In realtà tale mozione impegna lo Stato a ripagare i debiti contratti con le imprese. Secondo un’indagine del Sole24Ore, i debiti della Pubblica Amministrazione verso le imprese ammontano a 70 miliardi (stimati per difetto). Occorre ricordare come il solo Comune di Roma 1,5 miliardi di debiti verso le imprese. Lo Stato e le imprese hanno entrambi bisogno di liquidità. Il primo per pagare i debiti al secondo, il secondo per pagare le tasse al primo. Se lo stato concederà alle imprese di compensare le tasse dovute con i propri crediti verso la pubblica amministrazione, in Italia circolerà una liquidità aggiuntiva di 70 miliardi di euro! Ma il problema è contabile: il debito dello Stato verso le imprese per le regole europee non viene considerato parte del totale. Viene semplicemente “dimenticato” nella contabilità europea e questo è stato un forte incentivo a incrementarlo, contribuendo a mettere in ginocchio il mondo produttivo.

GLI INDICI

In maggio, l’indice Istat di fiducia delle imprese è salito da 98,8 a 100,2. A livello settoriale, la fiducia è aumentata in modo generalizzato: per il manifatturiero un aumento da 100,8 a 102,0, più marcato per i produttori di beni intermedi; per i servizi un lieve incremento da 99,1 a 99,3; per il commercio un incremento da 101,3 a 102,6; per le costruzioni un aumento da 141,2 a 144,3; per le famiglie la fiducia infine migliora da,110,6 a 111,8.


Il valore medio dell’indice composito di fiducia delle imprese nel 2019T2 risale da 98,7 a 99,5. Anche l’andamento del Pil nel primo trimestre è stato più forte di quanto gli indici di fiducia avrebbero suggerito, e nel trimestre corrente l’andamento congiunturale sarà penalizzato dall’inversione di alcuni fattori transitori che hanno agito positivamente nel periodo precedente. Quindi, un’accelerazione della crescita del PIL sembra più probabile nel terzo trimestre che nel secondo, sempre che a livello internazionale non venga fuori il finimondo.

DUNQUE BASTEREBBE ASSAI POCO PER TROVARE UN’INTESA

Come fa notare il Ministro dell’economia Giovanni Tria, sinché il contesto generale è stato positivo l’Italia ha fatto progressi significativi sotto questo governo (che compie un anno esatto): il 2018 si è chiuso con una riduzione del disavanzo delle amministrazioni pubbliche, attestatosi al 2,1 per cento del PIL, in discesa dal 2,4 per cento del 2017; il saldo primario è salito all′1,6 per cento del PIL, dall′1,4 per cento dell’anno precedente; i pagamenti per interessi, espressi in rapporto al PIL, sono diminuiti di un decimo di punto, raggiungendo il 3,7 per cento.

In questo contesto dunque il conflitto tra Italia e Europa appare basato su futili motivi. Basterebbe che il governo europeo facesse oggi quello che stanno apprestandosi a fare tutti gli altri governi del pianeta in momenti come questo: consentisse una politica fiscale anche solo moderatamente espansiva, dal momento che l’industria dell’auto è sotto attacco da tutte le parti e i mercati di sbocco delle esportazioni europee si chiudono (un settore industriale che conta più per la Germania che per l’Italia. Il nostro governo potrebbe in cambio impegnarsi a riqualificare la spesa pubblica, deregolare e sbloccare i cantieri e efficientare la pubblica amministrazione.

Ma evidentemente l’intenzione dell’attuale Commissione Europea è quella di combattere degli avversari politici, piuttosto che di lavorare per il benessere dell’Unione. La proposta di una “flat tax” al 15% sembra infatti un falso problema se essa viene promulgata senza creare ulteriore deficit (ad esempio eliminando buona parte delle deduzioni fiscali). I suoi benefici sarebbero evidenti per “stimolare” tanto i profitti delle imprese quanto gli investimenti, ma evidentemente va a toccare degli interessi consolidati. Va probabilmente a scomodare talune èlites che contano parecchio, tanto sulla carta stampata quanto a livello di pressioni nei confronti del Parlamento.


MA LO SCONTRO PUÒ CONTINUARE ALL’INFINITO?

Come si può vedere dal grafico qui riportato lo scontro con la Commissione non è stato privo di danneggiamenti all’economia nazionale: lo spread è cresciuto e le quotazioni dei nostri titoli di stato ne hanno risentito.

Ma la tensione in corso può continuare? Se il contesto generale dovesse restare grigio presto la Banca Centrale Europea dovrebbe tornare a intervenire. Il deficit francese d’altronde non si può pensare che migliorerà così tanto da non costituire uno scomodo precedente per punire quello italiano senza farlo anche con i nostri cugini d’oltralpe. E questo creerà problemi alla leadership tedesca ma sarà un fattore-chiave per definire il raggio d’azione della mitragliata di Bruxelles.

Nemmeno la politica del pugno duro con la Gran Bretagna ha sortito molti risultati: oggi i nuovi leader mostrano i denti più di quanto facesse Theresa May e la Commissione dovrà presto farsi carico della responsabilità politica di un prezzo più elevato da mettere sul tavolo del negoziato per evitare di perdere del tutto l’importo arretrato che Bruxelles ancora esige da Londra.

La torre d’avorio del governo europeo non può insomma far finta che il resto del mondo non conta per lei. E le nuvole che si addensano all’orizzonte non le consentiranno molto più di qualche sgridata ai paesi “irredentisti”, se non vuole davvero scavarsi la fossa e abdicare il governo dell’Unione a favore di questi ultimi. Cosa che in definitiva fa ben sperare per l’economia italiana. Sempre che il governo in carica resti in piedi…

Stefano di Tommaso




MAL D’EUROPA

E Una serie di annunci importanti stanno arrivando tra le aziende italiane, guarda caso subito dopo oppure a ridosso delle votazioni per il parlamento europeo. Mi riferisco al momento al secondo fallimento di Mercatone Uno e all’annuncio della fusione di Fiat con Renault (che in realtà è una cessione a termine) . Ma ci potrei scommettere che molti altri ne arriveranno a breve, fra i quali mi aspetto che prenda piede l’avvio ufficiale delle trattative per la fusione tra UniCredit e Commerzbank come pure l’ennesima ristrutturazione di Alitalia. Il fil rouge che li collega è in ciascun caso il licenziamento -più o meno forzoso- di parte del personale dipendente, a causa dell’esigenza delle imprese di ristrutturare il business e cercare maggior efficienza.

 

PRIMA ARRIVANO LE FUSIONI AZIENDALI

Proviamo a scendere nei dettagli: sino a ieri la famiglia Agnelli-Elkahn che controlla la Fiat-Chrisler non aveva mai confermato l’ipotesi di avvicinamento ad altri gruppi, in particolare francesi (era in predicato anche la Peugeot-Citroen) anche perché lo capiscono anche i bambini che -se il valore aziendale che FCA esprime sta quasi esclusivamente nella componente americana del gruppo- è chiaro che chiunque si avvicinerà lo farà per prendersi quest’ultima, pagando il fio allo stesso tempo di ridimensionare gli stabilimenti che stanno nel resto del mondo e in particolare quelli storici italiani. A maggior ragione se a farlo sono i francesi, noti campanilisti, i quali hanno probabilmente anche loro degli esuberi in patria.

Ai sindacati italiani non resterà che fare un po’ di baccano, mostrare “ugualmente” che s’indignano e s’impegnano (citando la canzone “Don Raffaè” scritta da Mauro Pagani per Fabrizio De Andrè) per poi gettare la spugna, dal momento che è altrettanto noto che l’alternativa alle ristrutturazioni d’azienda è la loro chiusura. Un’alternativa non praticabile per i sindacalisti.

POI ARRIVANO I TAGLI

Perché però tutto ciò arriva soltanto dopo le votazioni? Perché certi temi scottanti come quello dei licenziamenti in campagna elettorale era forse meglio per tutti lasciarli indietro, soprattutto per coloro che ancora tifano a tutta voce per l’attuale modello di Europa unita, che avevano perso sì già una volta le elezioni (e questa è la seconda) ma che possono vantare ancora il controllo da parte dei loro militanti di quasi tutte le istituzioni italiane e gli enti pubblici (ministeri compresi), nonché il controllo di buona parte degli organi di informazione e sinanco del Quirinale, istituzione che giocherebbe la parte del leone in caso di crisi di governo. Il ribaltone delle due votazioni recenti perciò non ha fino ad oggi modificato più di tanto l’assetto di potere reale nel Bel Paese.

UN’EUROPA SPACCATA IN DUE

E a livello europeo le cose non vanno troppo diversamente: la Germania ha visto i partiti dell’attuale compagine governativa (quella che esprime i membri della Commissione Europea) prendersi una sonora sberla mentre addirittura in Francia (sua storica alleata) dopo settimane di protesta dei “gilet gialli” il partito di governo è andato sotto e il fronte anti-globalista per eccellenza (quello della LePen) ha trionfato. Stessa storia per la Gran Bretagna, dove il partito che più ha desiderato l’uscita dall’Europa unita, quello di Boris Johnson ha stravinto ancora, lasciando al lumicino le residue speranze di un nuovo referendum per la Brexit. Ha stravinto anche Orban in Ungheria che ha detto da tempo a tutti -senza mezzi termini- cosa ne pensava di quest’Unione Europea.


Ciò nonostante le elezioni che si sono appena svolte non cambieranno di molto il governo della nuova Europa, dal momento che i partiti che ne esprimevano la maggioranza hanno ottenuto una lieve prevalenza su quelli che ne prefiguravano un orientamento di forte cambiamento. M questo non fa che complicare le cose, dal momento che un’Europa che non cambia risulterà forse peggiore di una ingovernabile.

MA IL RESTO DEL MONDO CORRE

Del resto a livello globale si vede chiaramente un mondo a due velocità: quella dei Paesi che sono riusciti ad esprimere più elasticità nelle riforme fiscali e per il lavoro (come Stati Uniti e Asia) e che crescono a un ritmo più consistente di quelli che non lo hanno fatto, esprimono una lieve inflazione dei prezzi e mostrano tassi di interesse regali lievemente positivi. L’Europa esprime invece una divisa comune in declino costante (è chiaro a tutti che stiamo andando verso la parità contro Dollaro) con tassi d’interesse (non solo reali) negativi e un rischio concreto di deflazione monetaria, che avrebbe l’effetto di irrigidire ulteriormente la struttura industriale scoraggiandone gli investimenti in innovazione e efficientamento.


LA DIGITALIZZAZIONE NON CI AIUTA

La crescente digitalizzazione poi rischia di sferrare il colpo di grazia all’industria tradizionale, favorendo i “vendor” dei prodotti tecnologici che oggi si vendono di più anche se essi si trovano all’altro capo del mondo, a scapito di quelli locali. D’altra parte l’Europa attuale investe poco sui giovani e sulle loro Start-up (in particolare l’Italia) e li lascia fuggire altrove, favorendo indirettamente l’invecchiamento della popolazione stanziale e dovendosi confrontare con l’insostenibilità della previdenza sociale. La risposta immigrazionista a questo problema poi lascia tutti con la bocca amara, perché chi arriva dall’Africa è assai poco attrezzato a sostenere il confronto tecnologico con l’elevata preparazione delle giovani generazioni asiatiche o anglosassoni. In una parola i giovani africani saranno (forse) una risorsa soltanto nel lungo termine!

I CAPITALI FUGGONO DAGLI SCONTRI POLITICI

Qualcuno si chiederà cosa c’entra quanto scritto sin’ora con il risultato delle elezioni europee ma la risposta è presto data: l’Unione Europea deve riuscire a cambiare e la sua vecchia classe dirigente se n’è invece guardata bene, tornando piuttosto a imporre temi di austerity e normative sempre più soffocanti. Così la nuova classe dirigente, che purtroppo rischia di essere troppo simile alla vecchia, temo continuerà acuendo lo scontro con gli Stati periferici (come il nostro) che sono i meno interessati a proseguire sulla vecchia strada e che guarda caso oggi esprimono più di altri il cambiamento negli orientamenti elettorali. Si preannuncia perciò una guerra di trincea destinata a durare a lungo, e che l’intero vecchio continente rischia di pagare caro, perdendo tempo prezioso nella corsa verso il rinnovamento.

I mercati finanziari annusano tutto questo e di conseguenza frenano sull’Europa, fuggendo verso altre destinazioni geografiche per allocare le loro ricchezze o verso i beni rifugio. Così anche le borse valori continentali (che esprimono soprattutto industria e banche, e ben poche aziende tecnologiche) arrancano di conseguenza. È vero che le industrie tradizionali possono risultare ottimi investimenti anticiclici in prossimità di un‘inversione del ciclo economico globale. Ma difficilmente esse arricchiranno chi ci investe: al massimo conserveranno il valore.

E IL GOVERNO RESTA UN’INCOGNITA

In Italia -teoricamente- il governo salta fuori rafforzato dai risultati delle consultazioni. E con l’elettorato che ha gli fornito una chiara indicazione di ciò che gradisce e di ciò che ha apprezzato meno. Ma di fatto il cambio dei rapporti di forza tra i due partiti di governo potrebbe determinare nuove frizioni nel Consiglio dei Ministri e la possibilità di una crisi politica resta concreta. Dunque nessuno è tranquillo e nessun imprenditore è davvero felice. A meno che l’accordo per proseguire sulla strada delle riforme partorisca nuove interessanti iniziative di stimolo all’economia e che queste ultime non vengano soffocate sul nascere dalla classe dirigente europea. Ma i “conservatori” restano in lieve maggioranza ed è difficile sperare in un loro ripensamento.

Staremo a vedere, col fiato sospeso!

Stefano di Tommaso




DECRESCITA FELICE E ALTRI PARADIGMI

Con il rinvio a data da destinarsi dell’accordo commerciale globale tra America e Cina sono ripresi sussurri e grida relativi alla improbabilità che la crescita economica globale possa proseguire almeno fino al 2020. Più volte in passato le cornacchie avevano stridulamente e falsamente gridato l’arrivo della recessione, probabilmente con la sola speranza di essere stati i primi ad affermarlo, senza tenere nel debito conto tutti i numerosi fattori in gioco che, sino ad oggi, hanno continuato a portare l’economia del pianeta in tutt’altra direzione che non quella della crisi. Ma dopo l’ennesimo fallimento degli accordi commerciali sino-americani e con la prospettiva di un ulteriore freno al commercio internazionale, oggi è ancora così?

 

Per rispondere a questa domanda proviamo a interpretare a nostro modo qualche dato recente. È chiaro a tutti che nessun andamento economico prosegue in eterno. Così come è chiaro che l’attuale ciclo “macro” prosegue nella sua fase di sviluppo (quasi) indisturbato da molti anni e che -mano mano- diviene sempre più probabile che esso arrivi a invertire la sua direzione.

Eccoci perciò di nuovo a chiederci “quanto durerà” prendendo spunto dall’interpretazione delle statistiche che stanno emergendo in questi giorni nonché dalle considerazioni appena fatte sulle prospettive del negoziato commerciale del secolo: quello tra America e Cina.

LA FASE ESPANSIVA E’ GIÀ FINITA ?


La locomotiva americana prosegue la sua corsa indisturbata. Le mega-corporation d’oltre Atlantico continuano a raccogliere grandi messi di profitti e ad utilizzarli per distribuire ricchezza tanto agli azionisti (con lo strumento dei “buy-back” oltre che con i dividendi) quanto ai salariati (incrementandogli la paga). Ma qualcuno inizia a insinuare che si tratta oramai del canto del cigno.

Come si può vedere dal grafico qui riportato l’organizzazione dei Paesi più industrializzati (l’OECD che noi chiamiamo OCSE) mostra un andamento discendente dei principali indicatori economici, i quali hanno normalmente hanno la funzione del canarino nella miniera.

Se poi guardiamo alla crescita del commercio internazionale il quadro è ancora più deludente:


Come si può vedere dal grafico la rotta si è invertita a inizio anno e, sebbene si potrebbe scommettere sul suo repentino rimbalzo la tendenza generale potrebbe essersi ugualmente invertita.

Le esportazioni della Corea del Sud, notoriamente a forte prevalenza tecnologica, sono scese del 25% in Febbraio rispetto ad un anno addietro. Persino la Cina, al netto dell’inflazione, punta quest’anno ad un magro +4% di crescita economica. Se si tiene conto della forte componente demografica che la caratterizza, è al minimo da molti molti anni.

Il ciclo del credito è oramai chiaramente al ribasso e oggi dopo 10 anni di ripresa, il debito cumulato delle imprese americane è quasi triplicato: da 2,5 a 6,5 trilioni di dollari.

LA MANIFATTURA EUROPEA E’ LA PIÙ COLPITA

Ovviamente dalla situazione attuale chi ci rimette di più è la vecchia Europa. L’andamento manufatturiero globale dalla fine del 2018 è decrescente e lo è soprattutto quello delle fabbricazioni correlate all’industria di trasporti, oggi in piena crisi da rinnovamento strutturale e soprattutto pesantemente collassata in Germania, il Paese che sino a pochi mesi fa costituiva il traino principale della crescita europea.

Ma il quadro sin’ora descritto, che potrebbe sembrare decisamente negativo, va stemperato dai mutamenti sempre più pervasivi che riguardano le abitudini di spesa e le tendenze di consumo delle nuove generazioni, le cui transazioni online sono in aumento e fanno decisamente fatica ad essere percepite dalle statistiche prevalenti.

Se prendiamo ad esempio l’andamento delle vendite al dettaglio:


Dobbiamo anche tenere conto della crescita più che proporzionale del commercio elettronico:


nonché dell’invasione dell’economia del baratto online, dove la sharing economy oramai detta la legge prevalente e di conseguenza il valore di buona parte delle transazioni che la riguardano viene tralasciato dai meccanismi di rilevazione.

LA CRESCITA “DIGITALE” NON È PIENAMENTE RILEVATA DALLE STATISTICHE

Come dire che una parte del nuovo “benessere” non transita da negoziazioni fisiche e monetarie e non viene per questo motivo rilevato. Così come non viene rilevata in molti casi dai panieri statistici dell’inflazione la crescita dei prezzi di molti beni e servizi che passano soltanto online o dei valori espressi dai mercati finanziari.

Il mondo industriale insomma, mentre accresce (sempre meno) la sua dimensione cosiddetta “reale” e tende parallelamente a cambiare pelle per instradarsi verso nuove dimensioni, sempre più smaterializzate e sempre più difficili da sottoporre a tassazione, ma ciò non dimeno anch’esse sono “reali” e generatrici di ricchezza.

È chiaro che sè questa tendenza risultasse in ultima analisi prevalente rispetto alla riduzione della crescita economica citata più sopra, ecco allora che le statistiche attuali ci mostrerebbero un’economia in decrescita più o meno felice o comunque falsamente in contrazione. Probabilmente c’è una via di mezzo tra la crescita che non si vede e la riduzione della crescita che si vede. Ed è altrettanto probabile che l’assestamento dell’attuale ciclo positivo non dispiaccia troppo a nessuno. Se non fosse per quell’eccesso di debito finanziario che caratterizza i connotati della “nuova economia” digitale. Debito che fa paura quasi a tutti ma che -se esiste- è perché qualcuno ha scelto di sottoscriverlo.

Dunque quello della finanziarizzazione dell’economia è un timore motivato oppure un semplice disagio, come la sensazione che si prova a bordo quando l’aeroplano prende quota?

Forse anche di questo stanno parlando Americani e Cinesi mentre noi europei ci consumiamo a commentare qualche statistica logora e forse inadeguata alla nuova era. Il punto però nessuno lo conosce meglio di chi ha provocato i negoziati in corso: quell’America sempre più digitale e al tempo stesso sempre meno manufatturiera che guida le fila dell’innovazione tecnologica e investe pesantemente nelle imprese del futuro più remoto. La contrazione dei vecchi indici la spaventa assai poco. Il livello raggiunto dal cambio del Dollaro già un po’ di più…

Stefano di Tommaso




TRA AMERICA E CINA CI RIMETTE L’EUROPA?

L’ultima sortita dei negoziati Cina-America sulle tariffe doganali ha improvvisamente incupito i mercati finanziari sollevando ancora una volta la prospettiva di un freno al commercio internazionale e, di conseguenza, alla crescita economica globale. Ma quanto è realistica quella prospettiva? Le considerazioni che seguono sono anzi di segno opposto dal punto di vista economico: la crescita globale è forse meno a rischio di quel che sembra e, più semplicemente, le due superpotenze economiche che vengono lambite dall’Oceano Pacifico stanno probabilmente trovando un nuovo paradigma di dialogo tra loro, che può ugualmente portarli ad un’intesa nel tempo e, parimenti, favorire indirettamente anche gli altri Paesi sullo scacchiere del commercio internazionale. E’ dal punto di vista politico però che l’Europa conta sempre meno.

 

L’EUROPA NON SI FERMA

Vediamo innanzitutto cosa succede alle esportazioni Europee, perché questa è e resta il primo produttore di impianti e tecnologie che vengono installati nei Paesi Emergenti. I rinnovati timori per la crescita economica globale stanno sicuramente facendo un qualche danno, perché tendono a far slittare in avanti l’agenda degli investimenti produttivi. Non per niente ci sono molti dubbi sulle prospettive dei principali esportatori europei. Ma al tempo stesso l’Europa procede nel rinnovare tanto le sue aziende quanto le sue catene commerciali, e la lenta e tardiva ripresa economica (rispetto ad America e Asia) non sembra arrestarsi.

TRA AMERICA E CINA NESSUNO HA FRETTA

I negoziati tra America e Cina è poi relativamente improbabile che finiranno molto bene e molto presto, perché ci sono grandi distanze da colmare e sono in gioco i rispettivi orgogli nazionali. America e Cina esprimono due concezioni dell’economia, della società civile e del ruolo dello Stato in essa che non potrebbero essere più diverse.

Trump poi ha dimostrato di non avere affatto fretta di concluderli adesso, dal momento che la sua campagna elettorale inizia davvero soltanto a fine 2019 per concludersi a ottobre 2020. Gli preme giusto non deprimere l’economia nè la borsa, che devono riuscire a risparmiare le forze per continuare il trend ascendente fino appunto a quelle date. E’ per questo motivo che risulta relativamente improbabile che un nuovo accordo veda la luce già al prossimo G20 di Giugno in Giappone. Casomai al G7 di fine Agosto, a Biarritz (Francia).

Xi Jinping dal canto suo ha capito benissimo che non può fare troppo in fretta agli americani le concessioni che questi chiedono in termini di legalità, rispetto dei diritti dell’impegno e ingerenza dello Stato sui mercati finanziari e perciò è quasi contento anche lui di fare melina ancora per qualche mese, onde lasciar elaborare il lutto ai suoi connazionali circa l’impossibilità di continuare a fregarsene dei diritti dell’ingegno americani.

LA FEDERAL RESERVE PUO’ DIVENIRE IL CAPRO ESPIATORIO

Il richiamo fatto da Trump alla Federal Reserve bank of America (la FED) dovrebbe poi essere servito da monito. Se l’America è cresciuta fino ad oggi del 5% l’anno, con l’inflazione che è restata sotto al 2%, allora forse la cosa da evitare è che il dollaro si apprezzi troppo e danneggi la competitività delle esportazioni americane. Dunque i tassi d’interesse americani non possono restare a lungo così elevati se il resto del mondo va in un’altra direzione. E soprattutto sappiamo che -come già succedeva a inizio anno- dopo questi risultati della politica fiscale (che sono stati un successo del Governo nonostante i rialzi dei tassi della FED) se adesso qualcosa andrà storto, tutti guarderanno alla banca centrale americana come primo responsabile.

E in effetti la Cina sta riuscendo ad evitare il peggio (cioè il crollo dell’export) attraverso la svalutazione della sua moneta, che però può rendere troppo costose le esportazioni europee in Cina se l’Euro non viene svalutato altrettanto. Sicuramente la vera battaglia tra gli esportatori è infatti sui cambi, più che sulle tariffe doganali, ma anche sull‘inflazione che la svalutazione del cambio valute può alimentare indiscriminatamente. Fino ad oggi tuttavia un po’ d‘inflazione s’è vista praticamente solo in Asia, nonostante la crescita economica globale vada avanti da parecchio tempo.

IL COSTO DELL’ENERGIA POTREBBE RIMANERE STABILE

È anche probabile che il Dollaro forte scongiuri quasi del tutto l’inflazione in America, evitando di surriscaldare l’economia e i salari. Ma è anche probabile che la rinnovata tensione commerciale tenga a bada il prezzo del petrolio, nonostante le politiche di contenimento della sua estrazione. Certo, saranno prezzi non così a bada per chi non potrà spendere dollari per acquistare il petrolio, dal momento che esso è universalmente denominato in dollari, i quali potrebbero continuare a rivalutarsi.

D’altra parte la domanda di petrolio nel mondo non accenna a scendere, nonostante gli sforzi per la difesa dell’ambiente vadano in quella direzione. Quindi se c’è anche domanda il suo prezzo non scenderà nemmeno. E se si mantiene elevata la domanda allora possiamo anche affermare che l’economia globale non è evidentemente in crisi.

 

UNO SCENARIO DA “BAMBOLA DAI RICCIOLI D’ORO” NON E’ COSI’ IMPROBABILE

Quello che perciò può venirne fuori è uno scenario globale piuttosto rassicurante, nel quale l’America farà di tutto per sostenere la crescita dei consumi interni e degli investimenti strategici, l’Europa quel che potrà per non perdere quote di export e l’Asia tutto ciò che sarà in grado di mettere in campo per controllare l’approvigionamento di materie prime mentre continuerà a stimolare i consumi interni nonostante la progressiva svalutazione delle divise valutarie. Cosa che non dispiacerebbe a nessuno se vi riuscisse nonostante le svalutazioni, perché per farcela non potrà che continuare a muovere la leva degli investimenti a rotta di collo.

Dunque la cappa che le mosse dei presidenti americano e cinese stanno cercando in questi giorni di mettere all’economia globale tutto sommato può arrivare a dipingere uno scenario economico di grande stabilità. Gli americani usano un’espressione per indicarlo: “da bambola con i riccioli d’oro” (a causa del motto dell’arcinota protagonista dei giochi per bimbi denominata“Goldolocks” la quale per qualsiasi argomento preferisce la via di mezzo).

E I MERCATI FINANZIARI RESTANO SU

E questa presunta stabilità prospettica non può che far bene ai mercati finanziari, i cui strateghi sono spesso un passo avanti a tutti gli altri osservatori e che stavolta continuano a scommettere sulla prosecuzione del ciclo economico positivo. Se avranno ragione è oggi impossibile a dirsi, ma la cosa carina è che ci credono. E quindi gli investitori non fuggono dalle borse, i capitalisti di ventura non abbandonano le innovazioni e risparmiatori anzi comprano dosi sempre maggiori di titoli a reddito fisso e a tassi decrescenti. E se i tassi d’interesse fanno di conseguenza un passo indietro questo vuol dire che dell’inflazione non si trova traccia, almeno tra le valute più forti.

C’E’ SPAZIO PER UNA NUOVA YALTA?

Possiamo perciò dormire sonni tranquilli? Assolutamente no: sulle cause dell’incertezza sono altresì tutti d’accordo, perché tanto a livello di contrasti geopolitici quanto per le crescenti tensioni sociali il mondo anzi accresce le sue turbolenze e nessuno può garantire che non ne deriverà istabilità. È poi cosa tutt’altro che scontata che Trump venga rieletto e che l’Europa non esca profondamente lacerata dalle prossime elezioni. Il medio oriente resta una polveriera e un eventuale attacco ai porti iraniani potrebbe rimettere in discussion anche la stabilità economica.

Ma per il momento l’economia globale sembra invece andare piuttosto bene e il confronto commerciale tra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese tutto sommato potrebbe proseguire anche in termini costruttivi ed evolvere sino a giungere a trasformarsi in una sorta di nuova Yalta.

Dalle attuali guerre (oggi soltanto commerciali) potrebbe anche sortire un disegno intelligente di nuovo ordine mondiale, magari meno segreto e forse più lungimirante di quello che ha subdolamente governato il mondo fino a ieri.

Ma di certo a quel tavolo (dove una volta sedevano i russi accanto agli americani e oggi i cinesi) mancheranno gli europei. A parte il fatto che di personalità come Churchill -che potevano confrontarsi a testa alta con Roosevelt e Stalin- non se ne vedono piu da tempo, ma poi resta sempre valida quella battuta di Henry Kissinger ai tempi della guerra fredda: “se devo chiamare l’Europa, a chi telefono ?”

Stefano di Tommaso