BANCHE ITALIANE : AGGREGAZIONI IN VISTA

Molti osservatori concordano nell’affermare che sta per succedere qualcosa ai principali istituti di credito nazionali. Vuoi per il noto problema dell’instabilità politica, endemica nel nostro Paese, vuoi per quello della sostenibilità del debito pubblico italiano e per il conseguente rischio per le banche, grandi detentrici di titoli di Stato, vuoi ancora per le prospettive di limitatissima crescita economica dell’Italia (che aumentano i rischi sui crediti concessi alla clientela) e senza dimenticare infine la diffidenza oramai diffusa sulla reale misura delle sofferenze sui crediti, fatto stà che le valutazioni espresse in Borsa per le principali banche quotate sono ridotte al lumicino.

 

LE CONSEGUENZE DELLE SCARSE VALUTAZIONI

Molte banche oramai capitalizzano in Borsa una frazione del loro patrimonio netto (si veda tabella qui riportata alla voce P/BV) cosa che le rende oggetto di possibili appetiti da parte degli investitori speculativi internazionali, anche perché a questi prezzi possono risultare un buon affare. Tuttavia le stesse fanno anche paura a chi volesse provare a speculare sui loro prezzi bassi, e questo rende più probabile un diverso scenario: quello delle aggregazioni.



PIÙ PROBABILI LE AGGREGAZIONI CHE LE CESSIONI

Nel migliore dei casi si parla perciò di razionalizzazioni attraverso possibili aggregazioni tra di esse, come ad esempio per: Monte Paschi, Banco BPM, UBI Banca e Popolare Emilia Romagna. Per non citare alcune tra le peggiori della classe in quanto a performances, come Popolare di Bari e Carige, fino a ieri tra l’altro inutilmente a caccia di un acquirente (per Carige la notizia dell’abbandono delle trattative da parte del fondo BlackRock è fresca di stampa).

Il secondo motivo per il quale appaiono decisamente probabili delle aggregazioni (almeno tra le maggiori banche del Paese) è paradossalmente proprio l’esiguità delle valutazioni che esse esprimono, fattore che rende poco conveniente per gli azionisti attuali la vendita tout-court delle partecipazioni detenute. Addirittura per una di esse (UniCredit) lo stesso problema (bassa capitalizzazione rispetto ai mezzi propri) potrebbe spingerla ad effettuare una grossa acquisizione oltr’alpe (si parla di Commerzbank o di Société Gènerale), per ridurre il peso del rischio-paese sulle valutazioni del titolo quotato.

DIVIDENDI GENEROSI…

Forse è anche per contrastare le striminzite capitalizzazioni di borsa che le principali banche italiane (Intesa e UniCredit) risultano oggi tra le più generose del mondo in termini di dividendi erogati. Di seguito il primo grafico riporta la percentuale di profitti che il mercato di attende vengano distribuiti sotto forma di dividendi, il secondo grafico reta invece il rendimento in percentuale delle azioni quotate in base ai dividendi attesi.


… E PROFITTI IN DISCESA

Tuttavia le prospettive di profitto non aiutano granché il sostegno delle quotazioni bancarie: secondo un’analisi molto recente di Mediobanca che riguarda le prime 9 banche italiane (ISP, UNICREDIT, BANCOBPM, MPS, BPER, UBI, CREVAL, POPSONDRIO, CREDEM) i loro risultati netti di bilancio del primo trimestre 2019 ammonterebbero in totale a 2,6 miliardi di euro contro i 3,2 dello stesso periodo del 2018 (quasi il 19% in meno). Un calo significativo e non occasionale dovuto alla discesa progressiva dell’attività “core” delle banche commerciali: quella dei prestiti alle imprese che porta con sè la discesa delle commissioni di servizio, sebbene le sofferenze sui crediti sembrino oggi risultare finalmente in calo.

È anche per questi motivi che quel che potrebbe sembrare (e in effetti forse lo è) un’ottima occasione per acquisire azioni interessanti a prezzi estremamente scontati viene guardata invece con sospetto dagl’investitori internazionali: le prospettive del sistema bancario italiano dipendono moltissimo da quelle economiche complessive del Paese. E su quelle italiane è sempre stato difficile poter scommettere, soprattutto negli ultimi anni.

Da un altro punto di vista perciò il livello di valutazioni delle banche italiane può essere considerato un buon termometro del gradimento dei nostro Paese nei confronti della comunità finanziaria internazionale. Se le loro quotazioni saliranno (come personalmente ritengo) questo probabilmente vorrà dire che quel gradimento sarà migliorato.

Stefano di Tommaso




LE POSSIBILI MANOVRE DI UNICREDIT PER ACCRESCERE LA PROPRIA CAPITALIZZAZIONE

La cessione repentina del 17% di Fineco Bank (la metà del 35% ancora detenuto) da parte di Unicredit non è passata inosservata. Tutti se ne sono chiesti la ragione. Certamente la valutazione riconosciuta a Fineco (pari a 17 volte i dividendi) ha contribuito a convincere il vertice del gruppo, ma la verità è che Fineco rappresentava per UniCredit la finestra sul mondo digitale e il mercato ha reagito negativamente alla notizia, nonostante UniCredit avesse appena chiuso il primo trimestre 2019 con un utile netto di 1,4 miliardi di euro (+25%), battendo le stime degli analisti che lo davano a 1,28 miliardi.

 

Nel commentare i dati del primo trimestre Pierre Mustier aveva dichiarato: “per la seconda volta di seguito, è il migliore trimestre dell’ultimo decennio, siamo sulla strada giusta per raggiungere gli obiettivi di Transform 2019, che sono tutti confermati, entro la fine di quest’anno”.

Certo bisogna tenere conto del fatto che quel profitto è stato condizionato da alcune poste non ricorrenti, quali cessioni immobiliari (per 258 milioni di euro) e il rilascio degli accantonamenti previsti per la liquidazione delle sanzioni americane (altri 320 milioni). Al netto di tali voci, l’utile rettificato si mostra in crescita soltanto dell’1,5% a 1,1 miliardi di euro. Ma sembrava un bel passo avanti sulla strada di una miglior capitalizzazione (oggi appena 25 miliardi di euro) che il mercato fa fatica a riconoscere al titolo.

UNA CAPITALIZZAZIONE DI BORSA POCO INVIDIABILE

Con un patrimonio netto di 56 miliardi di euro infatti la banca esprime un valore di mercato poco invidiabile: al di sotto del 50% dei mezzi propri!


È vero che il problema riguarda tutte le banche italiane, ma -come si può leggere dalla tabella- la capitalizzazione dell’altra grande, IntesaSanpaolo, arriva già al 70% dei mezzi propri.

Comunque sia con la vendita di metà della sua residua partecipazione in Fineco, UniCredit ha incamerato cassa fresca per un miliardo di euro e una plusvalenza (che va a migliorare i suoi “ratios” patrimoniali) di un ulteriore mezzo miliardo. Sono cifre che potrebbero raddoppiare presto, con la oramai probabile futura cessione dell’altro 18% e che sembrano proprio preludere al classico “mettere fieno in cascina” per il momento in cui si presentasse qualche opportunità di acquisizione prossima ventura.

 

LE ALTRE POSSIBILI DISMISSIONI PER MIGLIORARE I “RATIOS”

Mustier ha dichiarato che quella cessione è solo il primo passo verso una serie di dismissioni di attività non strategiche, quali ad esempio l’accelerazione della vendita di NPE nel 2019. Si parla infatti della possibile cessione dell’importante pacchetto di azioni di Mediobanca in mano a Mustier e della partecipazione nella Yapi Kredi Bank, che è quotata alla borsa di Istanbul e di cui il gruppo milanese ha il 40% . Un’altra che ovviamente non sembra risultare particolarmente strategica. Infine c’è il tema dei BTP nazionali, acquisiti forse in eccessiva quantità in tempi di forte instabilità politica italiana.

Con il ribasso dei tassi d’interesse sono stati un ottimo affare per la banca, senza dubbio, ma da qualche mese pesano un po’ troppo sulla rischiosità dell’istituto, da molti giudicata al limite. Ed è per questo che il CEO della banca si è impegnato a liquidarne presto almeno una parte. Come si può vedere dal grafico che segue: intorno a fine anno il titolo aveva performato meglio del settore, poi sceso più bruscamente.


Con un coefficiente patrimoniale “Common Equity Tier 1 (di seguito: CET1)” già buono (pari al 12,25%) si stima che UniCredit possa ottenere un miglioramento del proprio CET1 pari a 25 punti base dalla cessione di Fineco, cioè arrivare al 12,5%. Un valore elevato ma non ancora ottimale, cosa che spinge a pensare che la politica di dismissioni continuerà a lungo. Per fare un paragone con il concorrente più prossimo: IntesaSanPaolo ha superato il 13%.

Ma perché oggi Mustier dichiara di voler fare cassa dovunque può e perché ha tanta fretta di recuperare una valutazione più elevata del titolo Unicredit?

Non che il compito dell’amministratore delegato sia stato fino ad oggi così semplice nel tagliare costi e liberarsi dei pesi (e dei crediti in sofferenza) del passato, ma nel prossimo futuro la sua sfida si fa certamente ancora più complessa perché, una volta fatta pulizia, ora bisogna riuscire a far riprendere all’istituto la strada della crescita, anche per assicurarsi di riuscire a mantenere la propria autonomia e non diventare preda di qualcun altro. Ed è difficile farlo soltanto in Italia o solo con la crescita organica.

Oggi l’attività della banca è concentrata per il 90% su otto Paesi tra cui l’Italia che, con 58,7 miliardi di masse intermediate, rappresenta il 52% del totale complessivo. Seguono: la Spagna con 14 miliardi, la Germania con 11,1, l’Austria con 6,3, il Giappone con 5,9, l’Ungheria con 1,96, la Romania con 1,94 e la Bulgaria con 1,6. È chiaro che se invece il peso del nostro Paese scendesse sotto il 50% il rating complessivo di Unicredit potrebbe averne vantaggio, come pure il suo costo della raccolta.

Un’espansione oltr’alpe insomma (come il famigerato acquisto di Commerzbank o la fusione con Société Générale) non potrebbe che dare un aiuto ad accrescere la valutazione complessiva dell’istituto. Ma con la regolamentazione europea attuale la partita delle acquisizioni non può che essere giocata migliorando ulteriormente gl’indici patrimoniali e ampliando le attuali risorse di capitale.

Meglio dunque cominciare subito. Si ma solo dopo le elezioni europee evidentemente, perché anche per l’azionista pubblico tedesco non sarebbe facile far digerire agli elettori l’operazione di cedere Commerzbank e farne gestire gli esuberi del personale organico a una banca italiana e a un manager francese !

Stefano di Tommaso




VENDITE AUTO NELLA BUFERA. E I CONCESSIONARI SI AGGREGANO

I veicoli immatricolati in Italia nel primo quadrimestre 2019 ammontano a 712.196 unità, il 4,6% in meno rispetto ai volumi dello stesso periodo del 2018, mentre la quota di mercato delle auto italiane nuove vendute nel nostro territorio è più o meno di un quarto del totale. Il mercato delle vendite di auto nuove, dopo le flessioni di gennaio (-7,5%), febbraio (-2,4) e marzo (-9,6%), ad aprile 2019 ha registrato una mini-ripresa “tecnica” (+1,5%) quasi solo grazie ad un giorno lavorativo in più (20 giorni ad aprile 2019 contro i 19 di aprile 2018) totalizzando nel quadrimestre un -4,6% rispetto allo stesso periodo del 2018.

 

Nel quadrimestre forte appare la contrazione delle autovetture diesel (-25%) mentre quelle a benzina sono viceversa in aumento quasi della stessa misura (+24%). Raddoppiano le auto elettriche rispetto ai primi 4 mesi del 2018: sfiorano le 2400 unità, anche grazie all’eco-bonus (dopo la pubblicazione, l’8 Aprile, ne sono state vendute 1200 in venti giorni) ma in totale rappresentano meno dell’1% del mercato (dunque il sistema bonus-malus -a conti fatti- pende fortemente a sfavore).

CRESCONO LE AUTO ELETTRICHE, CROLLANO DIESEL E A METANO


Crescono del 33% nel quadrimestre le vendite di auto ibride (quelle plug-in beneficiano parimenti dell’eco-bonus). In crescita anche le superutilitarie (anche perché la nuova normativa privilegia le auto con prezzo di listino inferiore a €50mila ed emissioni inferiori ai 70mg) e le S.U.V. (una tendenza oramai consolidata) mentre sono parimenti in calo le berline e più in generale viene penalizzato l’alto di gamma (-31%). Appena positive le vetture sportive e quelle di super-lusso. Nello stesso periodo crescono leggermente le vendite di auto nuove a GPL (+5%) ma crollano quelle a metano (-41%).

CRESCITA DELLE VETTURE USATE


Il medesimo andamento si registra per le vetture usate: nel primo quadrimestre del 2019, i trasferimenti di proprietà sono stati 1.480.849 (esattamente il doppio rispetto alle vendite di auto nuove), ma ammontano al 4,1% in meno rispetto allo stesso periodo del 2018, un calo poco inferiore a quello delle vendite di auto nuove, nonostante la decisa riduzione (anche per fattori stagionali) delle vendite di auto a km zero.

SCENDONO NOLEGGIO E FLOTTE AZIENDALI, CRESCONO I PRIVATI

Andando a separare le vendite di auto secondo il regime di proprietà, cala parecchio il noleggio (-6,8% nel quadrimestre) ma, a ben vedere, cresce decisamente nel solo mese di Aprile (+23%), evidenziando la sua caratteristica fortemente pro-ciclica di questa forma di proprietà. In generale comunque il noleggio a lungo termine sembra destinato a una riduzione nel 2019. Scendono inoltre decisamente le vendite alle flotte aziendali (-7,25% nel primo trimestre, a causa del venir meno degli incentivi per il superammortamento), mentre crescono di misura (meno del 3% quelle a privati), e i leasing auto.

In generale le previsioni per l’anno in corso sono dunque negative: qualcuno stima che le auto nuove che saranno state vendute a fine 2019 ammonteranno a meno di 1,8 milioni, contro le 1,9 milioni vendute nel 2018 (-5%) ma è questa soltanto una vaga ipotesi, che non tiene conto dell’attesa di possibile miglior ripresa economica per la seconda parte del 2019, che potrebbe dunque riflettersi anche sul mercato dell’auto.

BOOM DELL’USATO ONLINE

Si stima inoltre in crescita la quota di mercato delle auto usate (dovuta alla progressiva saturazione del mercato), sebbene il maggior numero di unità vendute non corrisponda che a circa la metà degli importi in termini di valore rispetto alle auto nuove.

Ma l’argomento più interessante è quello delle vendite online: sembrerebbe che il 40% degli 800.000 veicoli posti in vendita online in ogni istante venga piazzato a privati nel giro dei successivi 30 giorni. I maggiori operatori del mercato sono senza dubbio AutoScout24 e Facile.It e rischiano di erodere una fetta sempre maggiore di un mercato, quello dell’usato, che ha sempre rappresentato una miglior fonte di guadagno per i concessionari auto rispetto alle vendite del nuovo.

Il 27% delle persone in Italia sarebbe interessato all’acquisito dell’auto online e ci si aspetta che questa percentuale cresca sulla sua di quanto sta accadendo in UK e US. Le ragioni che spingono i consumatori ad optare per questa scelta sono: migliori promozioni (per il 51% degli intervistati) , una più facile comparazione di prezzo (37% ) e un risparmio di tempo (28%).

I DISTRIBUTORI SI AGGREGANO, MA IN EUROPA SONO PIÙ AVANTI

Quanto ai distributori di auto, è sempre più chiaro che, mentre in Italia continuano ad operare le piccole realtà, nel resto d’Europa sono soprattutto i grandi gruppi a crescere di fatturato. Il mercato dell’auto infatti risente meno di altri dell’esplosione delle vendite online, sia per un problema concreto di assistenza e manutenzione, che per i servizi accessori che accompagnano quasi sempre le vendite.


Le statistiche disponibili per i concessionari in Europa sono tuttavia molto limitate per il 2018 e, per farsi un’idea del mercato, bisogna risalire al 2017, anno in cui la Svizzera Emil Frey ha registrato il più alto livello di fatturato (oltre 11 miliardi di euro, mezzo milione di vicoli consegnati e quasi 700 punti vendita). Seguono a distanza Penske Europe (quasi 8 miliardi) e tre pesi massimi britannici: Pendragon (5,5 miliardi), Lookers (poco meno) e Inchcape Europe (quasi 5 miliardi). Tra le italiane spiccava (sempre nel 2017) la Autotorino, che però nel 2018 ha già totalizzato una forte crescita, contando anche il fatturato della neo-acquisizione di Autostar, a circa 1,2 miliardi di euro. Seguono Intergea e Porsche Holding (appartenente al gruppo VW). Molti di questi grandi gruppi distributivi sono però oggi indipendenti dalle case di produzione automobilistica, che in precedenza sembravano voler presidiare più direttamente il loro mercato di sbocco.

CRESCE LA QUOTA DI MERCATO DEI GRANDI MULTIMARCA


Dappertutto però si assiste a un andamento opposto delle vendite a seconda delle strutture distributive: crescono quelle dei grandi gruppi multimarca, calano più che proporzionalmente quelle dei piccoli e dei monomarca. In Italia poi nel 2017 i primi 50 dealer fatturavano in media meno di 300 milioni di euro, un ordine di grandezza dunque nemmeno paragonabile a quello dei primi gruppi europei appena citati. Nel grafico qui sopra si nota comunque per quei medesimi top 50 una quota di mercato comunque crescente.

BOOM DEI SOFTWARE PER VENDITE E ASSISTENZA AUTOMOBILISTICA


Chi può farne i migliori guadagni sono le case produttrici di software per la gestione delle vendite auto, per i configuratori, per i comparatori di prezzo e prestazioni, per gestirne la fiscalità, la manutenzione e la soddisfazione come utilizzatori. Una vera e propria messe di nuovi prodotti informatici è destinata a riversarsi sul tema secondo la società di analisi e previsioni Garner Insight.

Stefano di Tommaso




LA LOCOMOTIVA AMERICANA ORA CORRE A TUTTO VAPORE

Non bastava il crollo quasi miracoloso della disoccupazione nella tanto vituperata America trumpiana a tenere banco nel dibattito tra analisti, economisti e politicanti su quali siano le cause di tanta bonanza. Adesso sta continuando anche a crescere il numero di persone che rientrano nel mercato del lavoro (incoraggiate evidentemente dalle buone prospettive) e addirittura cresce la produttività delle ore lavorate. Il tutto in un clima di grandi (e al momento infondati) timori per la presunta fine del lunghissimo ciclo economico di ripresa (10 anni) che l’America ha vissuto sino ad oggi dopo la purosa recessione del 2008.

 

E’ LA TERZA VOLTA CHE LA RECESSIONE NON SI MANIFESTA

Quei timori stanno ancora una volta provandosi infatti destituiti di ogni fondamento, così come era già avvenuto nel 2016 quando è sorta la nuova leadership politica e così come è avvenuto alla fine del 2018, quando l’America stava rischiando di nuovo di cadere in recessione a causa delle ostinate politiche di rialzo dei tassi da parte della banca centrale americana e rischiano ancora una volta di rivelarsi anche quest’anno per ciò che sono probabilmente sempre stati: un eccesso di scetticismo circa le politiche economiche neo-monetariste e conservatrici dell’era trumpiana.

DA COSA DIPENDE IL SUCCESSO ECONOMICO AMERICANO?

Difficile affermare qualcosa di diverso dal taglio delle tasse nell’interpretare le cause della meravigliosa dinamica degli investimenti che si moltiplicano nel nuovo continente da quasi tre anni a questa parte. Difficile ipotizzare cause diverse dall’incentivo fiscale a dichiarare oggi maggiori redditi. Anche perché la poderosa crescita dei profitti aziendali da un paio d’anni a questa parte ha portato Wall Street a nuovi massimi storici -pur riducendo il prezzo implicito delle azioni quotate (cioè il moltiplicatore dei profitti)- e ciò accade nonostante che i tassi d’interesse abbiano ripreso a scendere (se infatti i rendimenti dei titoli a reddito fisso sono più bassi, allora l’attualizzazione dei profitti futuri va scontata a un tasso minore e dunque il valore attuale netto delle aziende cresce). E i tassi nominali continuano a restare bassi anche perché nessuno teme davvero nuove fiammate inflazionistiche.

LE CORNACCHIE GRACCHIANO

Sono peraltro quasi tre anni che sentiamo parlare di scandali mai comprovati dai fatti alla Casa Bianca, di presunti (e mai verificati) coinvolgimenti russi nell’elezione dell’attuale Presidente, ma soprattutto sono quasi tre anni che vari soloni e sedicenti “guru” della finanza continuano a predire imminenti quanto clamorosi crolli di borsa. E ciò non accade mai. Ma se andiamo a vedere chi sono quelle cornacchie di sventura e come sono schierati politicamente quegli accusatori che non sono mai riusciti a conprovare le loro invettive, guarda caso essi sono tutti oppositori politici di Donald Trump, tutti legati alla grande finanza e ai cosiddetti “poteri forti” che governano buona parte delle istituzioni finanziarie e dei media che ci disinformano. Gente che non vede l’ora di mandare a casa l’ “intruso” alla Casa Bianca che ha scombussolato i loro piani privati e inconfessabili.

Certo, così come anche un orologio rotto segna l’ora giusta un paio di volte al giorno, anche loro prima o poi canteranno vittoria quando inevitabilmente il ciclo economico positivo finirà per invertirsi. Ma se questo dovesse avvenire tra molti mesi o addirittura tra qualche anno sarà sempre più difficile dare ragione alle loro tesi: evidentemente le attuali politiche economiche della Casa Bianca sono riuscite ad ottenere il loro effetto di rilanciare alla grande la crescita economica degli Stati Uniti.

LA DISOCCUPAZIONE SCENDE ANCORA

Vediamo perciò innanzitutto i dati sulla disoccupazione: le imprese americane negli ultimi 100 mesi hanno creato in media 200mila nuovi posti di lavoro al mese abbassando ad Aprile 2019 il tasso di disoccupazione fino al 3,6% quando era ancora al 5,1% all’epoca dell’elezione di Trump (dato di ottobre 2016). Nel grafico che segue la previsione non era stata ancora aggiornata alle ultime rivelazioni:


E LE RETRIBUZIONI CRESCONO

Anche per il livello delle retribuzioni la dinamica resta fortemente positiva, con un incremento nell’ordine del 2,5% nei 40 mesi che sono succeduti alla discesa del tasso di disoccupazione al di sotto del 5%, come si può vedere dal grafico riportato:


MA SOPRATTUTTO LA PRODUTTIVITÀ TORNA A SALIRE

La vera novità delle ultime ore peraltro riguarda dati molti positivi a proposito dell’efficienza dell’ora lavorata (produttività). Le cose anche da questo punto di vista sembrano andare di bene in meglio negli Stati Uniti d’America, per fortuna, vista la decisa rigidità dell’offerta di lavoro a causa della quasi piena occupazione. Se infatti non ci fossero stati incrementi di produttività l’aumento in corso dei salari reali sarebbe avvenuto a scapito dei profitti aziendali.


MENTRE LA DIGITALIZZAZIONE AVANZA

Infine una nota sul principale indicatore dell’avanzamento economico di una nazione: il prodotto interno lordo (cioè IL P.I.L. ovvero la somma di tutti i redditi lordi di una nazione). È una misura che viene criticata da quasi novant’anni a proposito della difficoltà che essa trova nel riflettere “ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta” (come diceva il senatore Robert Kennedy in un famoso discorso del 1968),

Oggi questa misura dell’economia è di nuovo sotto attacco a causa della sua incapacità di riportare quella parte di servizi che vengono barattati online o forniti (spesso gratis o per pagamenti effettuati su siti internazionali) per via digitale, nonché quelli che vengono condivisi da più utenti (sharing economy) in cambio di informazioni o altri servizi ovvero di pubblicità.

Oggi con il diffondersi dell’economia digitale il problema della rilevazione di questa parte delle transazioni commerciali inizia a diventare macroscopico, cosi come la creazione di valore effettuata attraverso il successo digitale di iniziative spesso assolutamente gratuite non viene riflessa dalla misurazione del P.I.L. L’esempio piu ovvio è quello dell’enorme successo in rete -e in termini di valore creato- di Facebook e Google, ovvero delle mappe digitali che vengono utilizzate per le applicazioni di navigazione satellitare che oramai qualsiasi telefonino può offrire senza costi.

QUANTA PARTE DEL REDDITO AMERICANO NON VIENE RILEVATA?

Quanta parte delle transazioni digitali (che creano a livello patrimonial-finanziario valori stratosferici) sfugge alla misura del Prodotto Interno Lordo? Non ci sono risposte facili, se non quelle (tutt’altro che attendibili ed esaustive) che provano a misurare il valore teorico di ciascuno di questi servizi che, pur non pagati, generano comunque un corrispettivo figurativo a causa delle entrate pubblicitarie che essi procurano ai loro gestori. Si stima per esempio che la partecipazione a Facebook equivale -per ogni utente- a circa 50 dollari al mese, mentre le mappe digitali superano quell’importo arrivando ad un equivalente di 67 dollari. Purtroppo però non possiamo considerare queste misure nè attendibili e nemmeno esaustive, ma possiamo ben renderci conto che iniziano a sfuggire alle contabilità nazionali (e al fisco locale) quote crescenti delle nuove attività economiche.

Inutile ricordare che il paese al mondo più avanti da questo punto di vista sono proprio gli Stati Uniti d’America. Inutile altresì ricordare che evidentemente la loro crescita economica appare perciò maggiormente sottostimata rispetto a quella delle altre potenze economiche mondiali.

COSA NE CONSEGUE ?
Cosa possiamo dedurre dalla constatazione dell’enorme successo che sta ottenendo l’America di Trump? Che le nuove teorie che accompagnano questa nuova leadership politica evidentemente stanno funzionando, così come possiamo facilmente dedurne che il loro successo è destinato a propagarsi alle economie a loro piu vicine, ai loro migliori partner commerciali e ai mercati finanziari meglio lambiti dalla liquidità che viene generata dai profitti delle loro imprese.

Possiamo dedurne anche che evidentemente se questo modello economico sta funzionando, la fine del ciclo economico espansivo non è ancora arrivata, e che di conseguenza le quotazioni stellari cui sono giunti i mercati finanziari di azioni e obbligazioni non sono destinate a contrarsi nella misura in cui i profitti aziendali continueranno a galoppare. Ma possiamo anche dedurne che, se questi ultimi veleggiano alla grande, anche la divisa valutaria in cui sono espresse le loro quotazioni (il dollaro americano) continuerà a restare sopravvalutato, a causa della legge della domanda e dell’offerta.

Purtroppo sono tutte illazioni a fronte delle quali nessuno può esprimere certezze o anche soltanto teorie fondate. Ma proprio come chiunque altri su queste colonne può valere la pena di proporre questi ragionamenti, proprio per il fatto che le considerazioni sino a qui esposte sono in molti casi contrarie a quelle del cosiddetto “mainstream”…

Stefano di Tommaso