REBUS ITALIA

Nel primo trimestre dell’anno l’indice Ftse Mib è cresciuto del 18,45% contro il -16,15% dell’intero 2018. Da inizio anno i titoli di Stato italiani a 10 anni hanno subito un rialzo dei prezzi e una discesa conseguente del rendimento dell’8,13%. Ai prezzi attuali il rendimento a scadenza è del 2,51%,un punto in meno di pochi mesi fa. Insomma la borsa italiana, il cui capitale flottante (la parte di titoli quotati non legata a maggioranze di controllo o patti di sindacato, che viene comunemente scambiata) appartiene per la massima parte a investitori stranieri, sembra scommettere, alla conclusione del primo trimestre del 2019, sul buon andamento del nostro Paese, contrariamente a quanto succedeva nel 2018.

LE STATISTICHE SONO NEGATIVE
Nel frattempo i dati a fine marzo (cioè pochi giorni fa) sulla crescita dell’economia italiana non potrebbero essere più deludenti. Cito letteralmente un recente articolo a firma di Morya Longo sul Sole 24 Ore: “Che l’Italia cresca meno degli altri Paesi europei è noto a tutti… Un rapporto di The European House-Ambrosetti individua tre motivazioni strutturali: scarsa produttività, scarsa formazione, scarso livello di investimenti. La produttività italiana è cresciuta del 6,7% negli ultimi 23 anni, contro il 31,6% della Germania, il 27,8% della Francia, il 16,8% della Spagna e il 27,4% medio dell’Unione europea. Il motivo principale è dato dal fatto che in Italia è mancata la spinta della cosiddetta produttività «multifattoriale»: quella legata alla managerialità, alla digitalizzazione, alla meritocrazia, alla formazione e all’ambiente economico. Insomma: non cresce un Paese che mette le persone sbagliate nei posti sbagliati e che non ha cultura manageriale. Sul capitale umano l’Italia è ancora più indietro. Il nostro è infatti il Paese con la percentuale di laureati più bassa: solo il 17,7% della popolazione. L’Italia è anche il Paese che investe meno in istruzione, dato che in percentuale al Pil si ferma a un misero 0,3% per le sole università. Molto meno di Spagna (0,6% del Pil), Francia (0,6%) e Germania (0,8%). Anche questo è un freno evidente alla crescita: minori competenze rispetto agli altri Paesi significano infatti minore capacità di innovare. Ma anche minori competenze nella forza lavoro. Infine l’altro grande problema dell’Italia è la scarsità degli investimenti.”
MIGLIORI PROSPETTIVE
Numeri e fatti che lasciano poco spazio alle argomentazioni politiche e retoriche di entrambe le fazioni: maggioranza e opposizione, circa lo stato di salute dell’economia reale del nostro Paese. Ma com’è possibile che i mercati finanziari sottovalutino grandemente il pericolo che l’economia italiana possa avvitarsi ancor di più generando a sua volta una vera e propria crisi di fiducia nel debito pubblico nazionale? Evidentemente non basta guardare alle cifre storiche appena citate ma bisogna piuttosto interpretare i segnali prospettici per trovare una risposta all’altrimenti inspiegabile ottimismo degli investitori circa il destino economico della nostra Penisola.
In effetti il governo in questi giorni sta scaldando i motori su un certo numero di fronti caldi in fase di definizione del “DEF” (il documento di programmazione economico finanziaria): lo sblocco dei cantieri per gli investimenti infrastrutturali, la “Flat Tax” (che significa in definitiva un taglio delle tasse sul reddito), il rimborso ai risparmiatori coinvolti nei crack bancari, e un certo numero di semplificazioni burocratiche (ance se di esse è stato annunciato poco o niente). Lo spirito della manovra programmatica è quindi molto chiaro: fare tutto il possibile per far ripartire l’economia italiana nonostante i numerosi vincoli di bilancio e finanziari imposti da Bruxelles. D’altra parte il ritardo nella spesa infrastrutturale accumulato è comune a tutta l’Europa, (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato) e dipende dall’impostazione fortemente ideologica della Commissione Europea a proposito del vincolo di bilancio. Un ritardo che lascia sperare nella possibilità che nuovi importanti investimenti saranno deliberati presto dall’intera Unione per recuperare il terreno perduto.

LA FINANZA INTERNAZIONALE SCOMMETTE SULL’ITALIA
E a crederci non sono soltanto gli elettori dell’attuale compagine governativa, bensì gli investitori finanziari stranieri, che notoriamente sono molto meno teneri nei loro giudizi di convenienza.
La maggioranza di governo peraltro si avvia a un mese dalla prossima consultazione elettorale (quella per il rinnovo del Parlamento Europeo, a Maggio) con una prospettiva per lei decisamente positiva, sebbene i sondaggi prevedano una discesa delle preferenze del partito di attuale maggioranza relativa (i 5 Stelle) e una crescita delle preferenze per la Lega di Salvini, accreditato oramai stabilmente di oltre il 30% dei consensi. Il tutto con un pericolo di dissoluzione dell’attuale governo in carica che risulta nei fatti ancora piuttosto limitato, nonostante il bombardamento mediatico che indica un litigio crescente tra i due partiti al governo e le voci che circolano a proposito di Mario Draghi, governatore uscente della Banca Centrale Europea, che sarebbe stato individuato da Mattarella come candidato ideale per gestire la fase successiva all’eventuale crisi di governo e prima delle eventuali elezioni anticipate, che ragionevolmente non ci sarebbero prima dell’autunno inoltrato.
Forse è anche per questo pericolo (il Quirinale non è mai stato tenero con l’attuale governo) che la maggioranza giallo-verde risulta oggi più compatta di quello che la stampa vorrebbe farci credere. E i mercati finanziari ne prendono atto, lasciando lo spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi ai minimi dell’anno e premiando addirittura le quotazioni di Piazza Affari e dei BTP.
MA IL “MAINSTREAM” È IMPIETOSO
Uno iato più forte tra il “mainstream” di stampa e televisioni e il “sentiment” dei pragmatici investitori stranieri non potrebbe nemmeno essere immaginato! Chi ha ragione? Purtroppo nessuno può prevedere il futuro e nè i commentatori nè gli investitori possono essere sicuri delle loro contrastanti indicazioni.
Quel di cui si può tuttavia prendere atto è che la congiuntura internazionale sembra essere indirizzata sulla via del miglioramento, e in particolare la fiducia degli operatori economici tedeschi (riportata dall’indice IFO) sembra essere ripartita a Marzo, mentre Francia e Spagna sembrano continuare la loro crescita sopra la media europea e persino l’andamento del Prodotto Interno Lordo italiano è già tornato sopra lo zero nel primo trimestre 2019. Dunque qualche elemento oggettivo di speranza rimane ancorato ai numeri tendenziali.
MEGLIO LA CINA CHE L’EUROPA?
Il Governo in carica ha oggettivamente le gambe azzoppate dall’eccessivo fardello di debito ereditato e dall’approccio impietoso degli altri membri dell’Unione Europea verso un Paese che le sta provando tutte per riprendere vigore.
Forse è per questo motivo che il Governo ha abbracciato con così grande entusiasmo le proposte giunte dalla Cina per il programma di investimenti della Belt & Road Initiative (la cosiddetta “nuova via della seta”) e i conseguenti capitali in arrivo dall’ex celeste impero. I quali genereranno sicuramente un costo e una qualche dipendenza nei suoi confronti, ma gli italiani si chiedono altresì se la Cina potrà essere per il nostro Paese un partner peggiore che non la la Francia, la Germania, l’Olanda e la Finlandia.
E la risposta non è poi così scontata, come afferma in un recente articolo, tranquillamente e con distacco, l’autorevole rivista americana “Barron’s” (che riflette il punto di vista degli Americani, cioè coloro che avrebbero dovuto indignarsi di più)!
Stefano di Tommaso



E’ anche interessante notare che nell’indice C.E.S.I. (che confronta appunto un paniere dì variabili di volte in volta ritenute “chiave” per interpretare l’andamento dell’economia con le relative aspettative) l’indicatore relativo alla disoccupazione è stato rimosso negli ultimi tempi perché non è più considerata una variabile chiave per misurare le attese economiche (probabilmente da quando la
ioramento delle condizioni economiche complessive nel mondo è stato poi sancito dai bollettini delle principali torri di controllo del loro andamento, che sono gli uffici studi delle banche centrali, tutte oggi decisamente in allarme per la progressione in corso e tutte pronte a rovesciare sui mercati nuove ondate di liquidità (mentre fino a qualche mese fa pensavano di rialzare i tassi d’interesse) per timore di macchiarsi nuovamente della colpa di aver scatenato loro una nuova recessione.





Uno dei problemi più importanti connessi alla quarta rivoluzione industriale è sicuramente quello della protezione ecologica dell’ambiente in cui viviamo. Minacciato da un eccesso di consumo di produzioni industriali che a loro volta generano un eccesso di anidride carbonica, l’ambiente naturale nel quale si è sviluppata l’umanità è oggi sotto seria minaccia di distruzione e cambiamenti epocali, come lo scioglimento dei ghiacci polari e l’innalzamento dei mari, con la possibilità di una riduzione della superficie delle terre emerse e, in tal caso, una decisa probabilità di estinzione di numerose specie vegetali e animali.
Per prima cosa bisogna prendere nota del fatto che moltissimi tra loro non sono cittadini dei paesi occidentali, non sono bianchi, e ancora in minor numero sono europei o nordamericani. La prima conseguenza di ciò è che relativamente pochi di essi resteranno a vivere nei paesi dove sono nati e che quindi non parleranno una sola lingua. Se ne deduce che i loro viaggi si intensificheranno e che la multiculturalità delle nazioni sarà una conseguenza inevitabile (al di là di ogni personale opinione). L’incremento della popolazione mondiale peraltro genera anche una maggiore domanda di servizi turistici e la necessità di fare maggiore attenzione alle problematiche ambientali ed ecologiche.
UNA MIRIADE DI NUOVI MONDI (E DI NUOVE MINACCE)
Mentre infatti la popolazione dei paesi tradizionalmente più benestanti conosce un importante innalzamento dell’età media, esso per adesso è invece soltanto una pia speranza in molti paesi in via di sviluppo. Le conseguenze di ciò sono importanti perché buona parte della ricchezza finanziaria è ancora nelle mani degli anziani occidentali. Il prolungamento della durata della vita attiva è infatti accompagnato da una crescita importante delle vendite di farmaci che lo consentono, dall’esigenza di migliori infrastrutture civili e dalla necessità di una sempre maggiore spesa sociale (molti di essi oggi godono di una pensione, maturata in epoche in cui i calcoli attuariali non preconizzavano che la pensione sarebbe stata erogata fino a tarda età) e dalla necessità di reperire dall’estero il personale di servizio o di supporto quando non è disponibile nella propria nazione.
Le magre aspettative dell’industria automobilistica tradizionale inoltre si confrontano con più di un dilemma pratico: “conviene” buttarsi pesantemente nelle innovazioni tecnologiche ai colossi del settore che rischiano di non recuperare mai gli investimenti necessari (a causa della penuria di vendite), oppure conviene prima concentrare il settore in poche, fortissime mani, per poi trovare (nel tempo) una vera convenienza nell’investirci sopra pesantemente? Ma anche così facendo, chi garantirà i colossi del settore del fatto che essi non saranno minacciati da nuovi entranti sul mercato, privi dei costi e dei pesi occupazionali degli operatori “incumbent” (già esistenti)?
Si potrebbe rispondere “è il capitalismo, bello mio”, ma in questo caso è un po’ come per il settore bancario: le normative riguardanti la sicurezza, le conseguenti certificazioni e le tematiche politiche e sindacali che vi sono dietro appaiono così complesse che -di fatto- ci sono molti modi per scoraggiare l’ingresso sul mercato dei nuovi entranti, sebbene il loro arrivo non farebbe che l’interesse dei consumatori. E così fino ad oggi è successo, con il risultato però di danneggiare fortemente l’intero settore industriale, oggi incapace di trovare al suo interno nuovo dinamismo se non guardandosi addosso e cercando di tessere alleanze e matrimoni per razionalizzare i costi, chiudendo uno stabilimento dopo l’altro nel mondo (molti dei quali nei paesi emergenti), per accorciare la filiera.
È questa una deriva dove divengono assoluti protagonisti gli operatori dove i mercati di sbocco ristagnano meno e dove l’innovazione è stata perseguita con maggiore assiduità: quelli asiatici ovviamente, Cina e Giappone in testa. Ai colossi euro-americani (come Fiat-Chrysler, Daimler Benz, General Motors eccetera) non resta che cercare di “tenere botta” sui mercati domestici, anche con un più attento controllo della filiera distributiva, ma la demografia gioca chiaramente a loro sfavore: i grandi numeri sono altrove.
E’ in questo contesto che apparebbe una facile previsione il possibile matrimonio tra FCA e PSA (Peugeot Citroen) che porterebbe più forza in Europa ad un operatore che oramai non riesce più a fare grandi numeri in Africa e Medio Oriente come faceva in passato e la forte presenza americana del gruppo Chrysler-Jeep che oramai per FCA conta per oltre il 90% dei profitti. La previsione sarebbe facile se non fosse altrettanto chiaro a tutti che non basta più il limitarsi unire le forze per riuscire ad essere competitivi se il prodotto sfornato è obsoleto. Ed è proprio per questo che i due grandi ci stanno riflettendo a lungo. Forse anche troppo a lungo…