L’INGANNEVOLE ENFASI DEGLI ORGANI DI STAMPA SULLA MANOVRA ECONOMICA ITALIANA

È dalla metà del 2018, dopo il consolidamento dell’attuale maggioranza di governo, che l’Italia è percorsa da feroci polemiche sulla validità della manovra economica che quest’ultima ha propugnato agli Italiani. Dov’è la verità? Cosa sta succedendo davvero?
Per fare luce occorre iniziare col guardare indietro di qualche mese. La polemica politica sulla validità della manovra giallo-verde era già rovente ai blocchi di partenza del nuovo governo (1. Giugno 2018) ed è divenuta poi infuocata nei lunghi mesi in cui la Commissione Europea ha fatto di tutto per contrastarla (trovandosi peraltro chiaramente su posizioni politiche opposte rispetto a quelle del nuovo governo italiano). Mesi in cui l’Italia ha visto lievitare lo spread tra i tassi di interesse sui BTP decennali e quelli sul Bund tedesco di pari durata.
LA MINI-RECESSIONE HA INFUOCATO LA POLEMICA
Lo scontro ad ogni quartiere tra governo e opposizione tuttavia è giunto alle estreme conseguenze di minacce, insulti e all’evocazione di scenari apocalittici quando l’intera Europa continentale (a partire dalla Germania) è caduta in una mini-recessione tecnica proprio nello stesso periodo in cui il governo si insediava (seconda metà del 2018), sebbene le statistiche che hanno rivelato tali numeri (per quasi tutta l’Europa) siano state rese pubbliche solamente dalla fine dell’anno. Pochi commentatori hanno fatto notare che si trattava di un “male comune”.
Oggi -dopo più di un semestre di campagna stampa denigratoria- tutti si chiedono se la manovra di governo (che in buona parte deve essere ancora resa operativa) sia davvero sbagliata e se lo spread, ritornato leggermente in basso ma pur sempre al 2,5% rispetto ai tassi dei titoli tedeschi, non sia la spia di una profonda diffidenza che i mercati nutrono per l’attuale governo. Anticipo qui immediatamente alcune conclusioni del mio articolo: lo spread non è una misura assoluta dell’appetibilità dei titoli italiani, dal momento che, se lo fosse stata davvero, nel secondo semestre del 2018 avremmo visto una fuga dai titoli di stato italiani e il loro tasso di interesse non si sarebbe addirittura ridotto di quasi un punto percentuale.
IL CORO DEL “MAINSTREAM” È CHIARAMENTE CON L’OPPOSIZIONE
A ciò va aggiunto il fatto che le tesi della vecchia classe politica italiana -che oggi si trova in minoranza in Parlamento- vengono tuttavia supportate con vigore dai principali media del nostro e degli altri paesi occidentali, nonché dalle vecchie maggioranze ancora al governo nei paesi dominanti nell’Unione Europea. È anche per questo motivo che l’opposizione -forte dell’imponente schieramento internazionale che la supporta- conta di risultare alla lunga convincente sull‘opinione pubblica circa l’incongruità della manovra e l’inadeguatezza a governare dei vincitori delle elezioni.
Pur essendo evidente che per la maggior parte delle polemiche in corso le opinioni sbandierate da quasi tutti coloro che strillano forte (opinionisti e commentatori delle grandi testate, esperti economici e centri studi di questa o quella associazione) sono tutte spesso orientate a sostenere la pura lotta di fazione a questo governo fatto di “outsiders”, e non sono certo basate su dibattiti seri e autorevoli circa la selezione delle migliori politiche economiche per il nostro Paese, vorrei qui di seguito tentare di affrontare il bandolo della matassa delle accuse alla manovra economica del governo, provando ad analizzarne il contenuto tecnico.
IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA STIMOLI ECONOMICI E VINCOLI EUROPEI
Partiamo da un dato di fatto difficilmente controvertibile: le politiche economiche vagamente neo-keynesiane cui si sarebbe ispirato per più di 4 anni (febbraio 2014-maggio 2018) il precedente duetto di governo (Renzi-Gentiloni), non soltanto non si sono rivelate molto efficaci in termini di rilancio dell’economia pur essendo state avanzate in tempi di piena espansione economica globale, ma se da un lato hanno prodotto qualche incentivo alla crescita della produzione industriale e alla riduzione della disoccupazione, dall’altro lato hanno fatto crescere a dismisura la tassazione per lasciare intatta la spesa corrente dello Stato e mantenere altresì il rispetto del forte vincolo di bilancio richiesto dalla Commissione Europea.
Anche un bambino però comprende che è molto difficile coniugare crescita economica e crescita dell’imposizione fiscale e che, al primo soffio di venticello a livello internazionale, l’unovirgola di crescita dell’Italia sparisce come neve al sole. Quel che dunque le nuove forze politiche stanno sperando di realizzare è un mix tra qualche taglio alla spesa pubblica insieme a qualche incentivo ai consumi (vedi il reddito di cittadinanza e le pensioni agli esodati della legge Fornero) e agli investimenti (vedi la Flat Tax e altre misure di contenimento della tassazione).
L’equilibrio tra le diverse esigenze senza andare in totale rotta di collisione con gli altri membri dell’Unione Europea è anch’esso difficile, come lo era quello del precedente governo, ma lo è ancor di più senza arrivare ad incrementare il deficit dei conti pubblici, che questo governo spera di ottenere con l’avvento -in primavera- di una maggioranza politica diversa in Commissione Europea. Ricordiamoci il benestare appena fornito dalla Commissione Europea alla stessa istanza promossa dalla Francia, senza un battito di ciglia, per il solo fatto che lo ritiene uno Stato “più affidabile”.
GLI USA HANNO TIRATO DRITTO E I FATTI HANNO DATO LORO RAGIONE
Negli Stati Uniti d’America, dove la banca centrale non doveva chiedere permesso ad alcun governo straniero nel finanziare il proprio deficit pubblico, la manovra di taglio delle tasse è stata portata avanti con coraggio (per il deficit dei conti pubblici che essa genera) ed è risultata tuttavia in un puro successo, rilanciando non poco la crescita economica americana e ancor più sbaragliando letteralmente la disoccupazione, mentre il timore prevalente, all’epoca come anche oggi, di una fiammata inflazionistica come risultato di una “politica fiscale” troppo espansiva, si è rivelato -a due anni di distanza- del tutto infondato.
E poiché l’unico timore che tratteneva anche la banca centrale americana (la FED) dall’accompagnare tale politica espansiva (l’inflazione appunto) è caduto, anche la politica di rialzo dei tassi americani portata avanti fino a tutto il 2018 dalla FED è stata oggi stoppata (quasi) definitivamente, riportando le quotazioni delle borse quasi ai massimi di sempre. La lotta politica prosegue spietata anche oltreoceano ma intanto l’America si riempie la pancia e toglie dalla strada i senza lavoro.
IN EUROPA TUTTO È PIÙ DIFFICILE
Certo, la guardia degli investitori resta (e deve restare) molto alta perché il mondo convive con uno spropositato livello di debito che dal punto di vista storico è un inedito e che molti temono possa riportare indietro di un secolo il calendario dell’occidente se non attentamente monitorato. Per lo stesso motivo nemmeno l’Europa del dopo elezioni comunitarie potrà allegramente disinteressarsene, ma certo il problema del vincolo di bilancio rende quasi inattuabile qualsiasi politica economica italiana che provi seriamente a favorire la crescita.
Al sottoscritto come a molti altri -pur senza parteggiare per alcuna fazione politica- non piace perciò la situazione di perenne concerto di voci contrarie alla manovra del governo e il coro di coloro che continuano a dichiarare ai giornali che la maggioranza parlamentare di quest’ultimo cadrà prestissimo. Viene il dubbio che se al governo fosse andata qualsiasi altra forza politica nuova sarebbe successo esattamente lo stesso. E l’aver rinunciato a parte della nostra sovranità nazionale senza aver completato l’integrazione europea, anzi avendo lasciato in vita il vecchio debito pubblico, resta un vero e proprio cappio al collo per chiunque volesse seriamente tentare di rilanciare l’economia nazionale.
EPPURE QUALCOSA BISOGNA PUR FARE
Ma poiché a farne le spese come al solito sono e saranno le classi e le regioni più deboli, che risultano essere anche quelle che meno possono far sentire a Roma la loro voce, ecco che la ricerca di ricette valide per riprendere la strada della crescita economica italiana diviene (anche) un’emergenza umanitaria per oltre un terzo della popolazione e la necessità di arrestare l’emorragia di cervelli e capitali di cui sono affette anche le regioni del Nord.
Un’emergenza su cui occorre arrivare a concentrare l’attenzione di tutti, forse in qualche misura paragonabile a quella dei migranti africani, che i media ci rammentano invece tutti i giorni dell’anno.
Stefano di Tommaso

Dunque ciò che è accaduto nella prima parte del 2019 è che per le borse è stato il miglior mese di Gennaio dal 1987). Nel grafico a destra l’indice MSCI WORLD (che rappresenta l’andamento medio delle borse di tutto il mondo nell’ultimo mese):
Al tempo stesso anche gli investimenti hanno segnato il passo: “Si investe per produrre, si produce per vendere. Se non sono in grado di sapere che ci sarà qualcuno pronto a comprare, io smetto di investire” ha detto al World Economic Forum Angel Gurrìa, Segretario Generale dell’OCSE. Ma questo non significa necessariamente che il mondo sia inevitabilmente avviato verso la recessione, almeno non sùbito.
Proprio a Davos, dove è noto che le previsioni ivi formulate al termine di ciascun Forum dell’ultimo decennio sono quasi sempre risultate sbagliate, al Segretario dell’OCSE ha fatto eco il Presidente Cinese Xi: “c’è troppo pessimismo”! Dello stesso avviso il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “il prodotto interno lordo italiano crescerà come previsto” ovviamente se gli investimenti avranno luogo, ha aggiunto.
Ed è forse anche per questo motivo che le elezioni europee che si terranno a primavera potrebbero risultare determinanti affinché il vecchio continente non cada in una crisi di sfiducia (con tutto quello che ne consegue a livello economico): per riuscire a mantenere la rotta sul fronte della crescita economica, la quale tra l’altro resta l’unico vero antidoto al rischio di default del debito pubblico italiano bisogna cambiare le teste che lo guidano. È infatti oramai chiaro a tutti che quella dell’austerità, promossa sin dai tempi della grande crisi dalla vecchia classe dirigente europea, è la ricetta sbagliata (nel migliore dei casi) o addirittura uno strumento di sottomissione (nel peggiore).
Molto ovviamente dipenderà dal comportamento degli investitori ma ancor più da parte dei governi e delle banche centrali, le quali come dice il nome risultano (e risulteranno anche in futuro, almeno per un po’) sempre più “centrali” nelle decisioni di investimento e nel determinarne il loro costo. Una responsabilità importante ma che esse hanno mostrato sino a questo momento di voler prendere molto sul serio!
Il mondo non ha mai percepito così tanto il bisogno di investimenti infrastrutturali tanto quanto lo sente oggi, in funzione del bisogno di godere appieno dei benefici dell’era digitale con sistemi di comunicazione evoluti, interattivi e intelligenti, della necessità di abbreviare gli spostamenti di persone e merci e al tempo stesso in funzione della necessità di rendere lo sviluppo tecnologico compatibile con le esigenze di protezione dell’ambiente (inquinamento, surriscaldamento globale, consumismo, ecc…), dunque innovando nelle modalità per farlo e non semplicemente viaggiando di più o potenziando gli apparati già esistenti.
Fino a ieri una cultura collettiva eccessivamente incline alla scarsa efficienza produttiva, al relativo controllo di qualità e durabilità delle strutture, all’eccesso di tassazione e di welfare sociale, alla tendenza alla spesa pubblica (corrente) indiscriminata, e a considerare “normale” l’instabilità finanziaria e valutaria, hanno decisamente ridotto l’appetito degli risparmiatori per avventurarsi a sottoscrivere quote di investimenti nelle public utilities, nelle grandi opere infrastrutturali, o nei servizi di pubblica utilità.
Chi più chi meno nel mondo quasi tutti i Paesi evoluti hanno accumulato un ritardo negli investimenti in grandi opere infrastrutturali, e dunque un relativo disinteresse del settore privato ad investire in tale campo.
Secondo la società di analisi statistiche Preqin l’anno 2018 ha visto gli investitori allocare nel mondo (principalmente anglosassone) ben 85 miliardi di dollari nei fondi di investimento infrastrutturali, il 13% in più che nel 2017 (75 miliardi), con la prospettiva che nel 2019 quella cifra salirà ancora significativamente, spostando a questo settore anche parte delle risorse a disposizione dei fondi di private equity e private debt. Non a caso peraltro: i tassi di interesse restano bassi è invece le occasioni di buoni affari sul fronte delle iniziative da finanziare si moltiplicano, mentre le alternative agli investimenti infrastrutturali in questo momento appaiono sempre meno interessanti.
Come dire che l’arretramento che noi abbiamo sperimentato a fine anno è stato ancor più vistoso per i tedeschi! Se teniamo conto del fatto che l’export industriale è sceso del 3,2% nello stesso periodo, capiamo che la
Germania (il gigante industriale d’Europa) è stata duramente colpita dalla congiuntura negativa e che questo fatto getta un’ombra sinistra sulle prospettive del vecchio continente, che fino all’estate godeva di un forte avanzo commerciale con il resto del mondo.
Il problema non è marginale per le esportazioni dell’industria italiana, spesso e volentieri fornitrice/terzista di quella teutonica. Il traino (stavolta negativo) è praticamente scontato. Ecco invece sino a Novembre (qui a sinistra) il dato italiano del P.I.L.

A questo punto anche la prospettiva di crescita economica americana del 2019 inizia a venire messa in discussione, perché non potrà basarsi esclusivamente su un ulteriore accelerazione dei consumi interni (anche perché è difficile ipotizzare ulteriori miglioramenti dell’occupazione dopo che l’economia interna ha già raggiunto di fatto il pieno impiego dei fattori). A evidenziare il rallentamento dei consumi c’è l’inflazione U.S.A., già scesa all’1,9% nei 12 mesi terminati a Dicembre del 2018 (per la prima volta sotto al 2% dall’Agosto 2017) .