CONSOLIDAMENTO

Nel corso della settimana che si concluderà oggi il principale indice della borsa americana, lo SP500, è cresciuto di quasi il 4%. Una performance di tutto rispetto che non si vedeva dallo scorso Settembre, principalmente basato sulle buone notizie provenienti dai due fronti caldi per gli investitori anglosassoni: la politica dei tassi di interesse e l’andamento delle negoziazioni commerciali con il grande rivale d’America: la Cina. La settimana è peraltro stata positiva in generale per borse e cambi valute di tutto il mondo per lo stesso motivo.

 

A destra sono riportati i principali indici della borsa americana, mentre la borsa italiana ha anch’essa visto un primo scorcio di settimana al rialzo, ma soltanto dell’1%, come si può leggere dall’andamento dell’indice sotto riportato:

 

 

 

IL 2018, ANNO DEL “PARADOSSO”

Un’importante banca svizzera (Pictet) ha scritto che il 2018 può venire definito dalla parola “paradosso”: dal momento che a un‘ incredibile ascesa dei profitti industriali in tutto il mondo e alla riduzione della tassazione degli stessi che si è materializzata nel corso dell’anno si sono accompagnati frequenti rovesci sui mercati finanziari, i cui indici hanno chiuso l’anno quasi tutti in territorio negativo.

Le azioni americane hanno chiuso l’anno 2018 a -4,4%, quelle europee a meno 10,3%, quelle giapponesi a -10,4% e quelle cinesi addirittura a -22,7%.

Le ragioni di quei rovesci vanno innanzitutto cercate nell’accresciuta volatilità dei mercati, ma anche quest’ultima più che una causa può costituire un sintomo: i rialzi dei tassi di interesse, le tensioni geopolitiche internazionali e la prosecuzione apparentemente irrinunciabile della crescita del debito globale hanno fatto la loro parte nello spaventare gli investitori e i risparmiatori, provocando loro un’accentuata disaffezione per i mercati finanziari e, soprattutto, un‘ appiattimento delle aspettative per il 2019.

SCENARIO PIATTO

Nel corso dell’anno 2019 è infatti opinione comune che la crescita dei profitti aziendali non proseguirà con la medesima intensità, l’economia globale rallenterà la sua crescita e i consumi delle famiglie stagneranno, mentre la zampa delle banche centrali si ritiene che vorrà monitorare molto da vicino l’andamento dei mercati, non tanto per evitare che tornino a crescere in modo vigoroso quanto per il pericolo che a tali rimbalzo possano seguire momenti rovinosi.

Questa specie di “tunnel” imposto dalle banche centrali ai mercati finanziari tanto verso l’alto quanto verso il basso, ovviamente non eccita gli entusiasmi di nessuno, ma d’altra parte ha contribuito a rasserenare gli animi.

LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI (DA PRO-CICLICI A ANTI-CICLICI)

Dopo una fine d’anno che potremmo definire quasi “rovinosa”, esso ha stimolato una seria riflessione: forse dopo i capitomboli delle scorse settimane i mercati sono finalmente approdati a rive più tranquille, ed è forse tornato il tempo di fare delle scelte, tanto in funzione di un’importante rotazione dei portafogli(in buona parte già avvenuta nello scorso Dicembre: si veda nel grafico qui sotto quali settori ne hanno beneficiato) e in parte per correggere qualche eccesso di ribasso che non si giustifica se non con l‘irrazionalità…

In altre parole sembrerebbe essere tornati in uno scenario da “bambola dai riccioli d’oro” (Goldilocks): non troppo buono e nemmeno troppo pericoloso, che non può che favorire una generale ripresa di fiato degli operatori finanziari.

 

 

QUANTO DURERÀ LA TREGUA ?

Una domanda allora si impone su tutte: quanto durerà la “tregua” ? Ovviamente non lo sa nessuno, ma i mercati si muovono sulla base delle notizie e degli eventi e, in previsione, sono relativamente pochi i sommovimenti che è ragionevole prevedere per l’anno in corso: la geopolitica non fa più paura (lo abbiamo già visto nel mio precedente articolo : “Sussurri e Grida”), anzi potrebbe essere foriera di buone notizie.

I prezzi del petrolio e delle altre materie prime è ragionevole supporre che resteranno infatti relativamente calmi, il ciclo economico positivo sarà pure in esaurimento, ma quantomeno molto lentamente, gli investitori si sono già tutti riposizionati su assetti molto più prudenziali e, apparentemente, il ciclo del credito è già fortemente in regressione, ragione per cui nessuno prevede alcuna esplosione incontrollata dei debiti e, di conseguenza, alcuna crisi di fiducia dei mercati, l’occupazione è ancora in lieve crescita e così non è probabile un crollo dei consumi.

Uno scenario da puro consolidamento insomma, nel quale i gelidi venti freddi della disillusione riducono la volatilità dei mercati e potrebbero aiutare a vederli ricomporre i pezzi, in attesa delle prossime vicende.

 

Stefano di Tommaso




SARÀ UNA CRISI DEL CREDITO A INNESCARE LA NUOVA RECESSIONE ?

La congiuntura economica internazionale non ha soltanto portato tensioni alle borse di tutto il mondo, ma ha anche innescato una situazione altamente pericolosa sul fronte della restrizione della disponibilità di credito le cui conseguenze non tarderanno a farsi sentire. In Italia già nel 2018 l’erogazione dei prestiti al settore privato ha registrato una frenata, con un calo di oltre 40 miliardi di euro (sul totale di 1322 mld) sottratti alle erogazioni rivolte alle imprese, nonostante la sostanziale tenuta dei prestiti erogati alle famiglie.

 

Ma se fino a ieri ciò è dipeso principalmente da una relativa fuga dei capitali dai nostri confini, quasi a prescindere perciò dalle macro-tendenze che stanno agitando in queste ore le acque dei mercati finanziari, una nuova crisi globale del credito potrebbe essere in procinto di svilupparsi soltanto adesso, e sarebbe destinata ad aggravare la già difficile situazione italiana e quella ancor più complessa dell’euro-zona.

LE RAGIONI DEI TIMORI

Le ragioni dei timori in tal senso sono numerose, a partire dalla necessità globale di continuare a finanziare i crescenti debiti governativi di Asia, America ed Europa (dunque con il pericolo di un effetto di “spiazzamento” per il finanziamento delle imprese private). Al tempo stesso le banche centrali di America e Europa hanno deciso, ciascuna per le proprie motivazioni, di ridurre la liquidità disponibile da esse in precedenza immessa sui mercati. Dunque è decisamente probabile che alle imprese private arriverà minor credito già solo per questo motivo.

Bisogna poi considerare che il principale sostegno ai mercati finanziari globali è l’aspettativa di stabilità dei prezzi dei relativi titoli, in assenza della quale i risparmiatori non possono che cercare la prima via di fuga disponibile, finendo con lo spostare le loro risorse dai mercati finanziari ai beni dell’economia reale. Quando ciò avviene normalmente le quotazioni dei titoli si riducono e, a causa della maggior domanda di beni reali, possono aumentare anche i prezzi dei beni, dunque l’inflazione. Lo si è visto con gli immobili e può succedere anche con i metalli preziosi.

I RISCATTI DA FONDI E GESTIONI POSSONO FARE LA DIFFERENZA

Sino a tutto il 2018 è successo quasi il contrario: la fuga dai mercati azionari (iniziata appunto più di un anno fa) ha determinato la crescita dei prezzi dei titoli di stato e di quelli obbligazionari, con la conseguenza del calo dei rendimenti di questi ultimi (il rendimento del BTP italiano è sceso di quasi un terzo negli ultimi mesi). Ma ciò che può cambiare sostanzialmente lo scenario è invece il cospicuo deflusso di denaro dagli organismi di investimento collettivo (gestioni e fondi di investimento) alle tasche dei privati cittadini che ne chiedono il riscatto, cosa che appunto può finire col sospingere al rialzo le aspettative di inflazione, azzerando i rendimenti reali dei titoli a reddito fisso e rischiando di rinforzare il deflusso di liquidità dai mercati finanziari.

Inoltre il carattere transitorio della liquidità parcheggiata oggi dai risparmiatori sui conti del sistema bancario, di per sè non contrasta a sufficienza il rischio di ulteriore riduzione dell’offerta di credito da parte di un sistema bancario tendenzialmente molto sorvegliato e poco capitalizzato, per di più oggi sempre più esposto al rischio di minusvalenze sui mercati mobiliari. Mentre la crescita economica ancora in pieno vigore fa salire la domanda insoddisfatta di credito e, se non cresce anche l’offerta, sale di conseguenza il costo del denaro. La tendenza alla riduzione complessiva dell’erogazione di prestiti ai privati era peraltro già in essere negli anni precedenti nell’area Euro, come si può vedere qui sotto nel grafico:


La mia tesi è dunque che i fattori sin’ora delineati (qui sotto ricapitolati) potrebbero innescare un’ulteriore riduzione del credito disponibile, cosa che non aiuterebbe a combattere il rischio di ricaduta nella recessione.

I FATTORI DI RISCHIO:

  • Lo spiazzamento dell’offerta di credito ai privati data dalla crescente domanda di raccolta di denaro da parte del settore pubblico
  • La riduzione generalizzata della liquidità disponibile sul sistema bancario ad opera della FED (la banca centrale americana) e, dal 2019, anche di quella europea,
  • L’esigenza dei fondi di investimento di star dietro alle richieste di riscatto,
  • La possibile risalita delle aspettative di inflazione,
  • La crescita in corso dei tassi di interesse,
  • La possibile ulteriore svalutazione delle altre valute contro il Dollaro, che determina un rialzo dei tassi sulle prime a prescindere da quelli in Dollari.

I SALDI INTERBANCARI EUROPEI

Un ultimo elemento che va segnalato è il rischio che l’involuzione del merito di credito europeo e, segnatamente, dei cosiddetti P.I.G.S. (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) porti gli investitori a riconsiderare negativamente il saldo profondamente negativo dei rapporti intra-europei del sistema bancario (che va sotto il nome di Target 2) di Italia e Spagna nei confronti del resto dei paesi europei e, segnatamente, della Germania, classificandolo come ulteriore esposizione debitoria (vedi grafico):


Inutile ricordare che i citati fattori di rischio contribuiscono a ridurre un po’ in tutto il mondo l’appetito dei risparmiatori per gli investimenti in attività finanziarie.

Inoltre la stessa Banca Centrale Europea è oggi a rischio di default: il suo capitale versato infatti ammonta a meno di 8 miliardi di euro, su un totale di attivi in bilancio per oltre 414 miliardi di euro. Basterebbe dunque un’oscillazione negativa del 2% sul valore dei titoli in portafoglio (cosa tutt’altro che impossibile) per mandare a zero il suo capitale!

I DEBITI CONTRATTI PER I PROGAMMI DI BUY-BACK MINACCIANO LE QUOTATE AMERICANE

Infine in America esiste un ulteriore fattore di rischio per il mercato del credito, assai meno contemplato a casa nostra: quello di insolvenza dei debiti contratti dalle imprese per i programmi di buy-back delle azioni quotate, spesso a tassi elevati e, con il senno di poi, generatori di importanti perdite in conto capitale. Se ne veda il vertiginoso incremento del 2018 nel grafico che segue:


Ora, poiché la precedente crisi di fiducia dei mercati finanziari (quella del 2008) ha generato la più importante recessione dall’inizio del ‘900 ad oggi, non è irragionevole pensare che un‘aggravamento di quella in corso possa accelerare l’arrivo della prossima recessione. La lotta politica in corso all’interno dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America non contribuisce certo a rasserenare le aspettative!

I RIMBALZI DELLE BORSE

Per tutti questi motivi le periodiche schiarite viste nei giorni scorsi sui mercati borsistici potrebbero risultare fuochi di paglia data anche l’accresciuta volatilità, poiché le menzionate importanti questioni di fondo restano potenziali portatrici di ulteriori crisi di fiducia. E se ciò fosse, le borse tornerebbero al ribasso.

Bisognerà dunque attendere un consolidamento del quadro congiunturale di (auspicabile) ripresa dei mercati borsistici per riuscire dichiarare non più attuali le preoccupazioni sopra citate. In effetti il villaggio finanziario globale galleggia ancora su una montagna di liquidità e, con i principali indici sotto del 20% almeno rispetto ai massimi, esistono oggi interessanti opportunità di individuare del valore nei titoli che promettono le cedole più elevate. Ma il quadro congiunturale dell’economia reale dovrebbe risultare così positivo da riuscire a fornire nuovo entusiasmo ai risparmiatori, cosa tuttavia piuttosto improbabile mentre il ciclo del credito volge in negativo.

Stefano di Tommaso




È IL 2019 L’ANNO PER QUOTARE IN BORSA LE STARTUP TECNOLOGICHE

30Molte Start-Up tecnologiche sono andate in borsa in America nel 2018 (sono state 52 su un totale di 191 imprese che sono approdate a Wall Street) ma il numero di quelle che oggi si stanno preparando allo stesso passo per il 2019 sembra essere addirittura superiore…

 

Il grafico qui accanto riporta il numero totale di imprese che si sono quotate in America per ciascun anno recente.

Tra di loro anche alcuni nomi famosi al grande pubblico, come Spotify,Dropbox, Smartsheet, Sonos o SurveyMonkey, ma in generale si è trattato di realtà non di primo piano, nessuna delle quali con capitalizzazione di borsa da capogiro e molte delle quali dopo pochi mesi di quotazione sono già sugli scudi, con crolli delle loro valutazioni mediamente nell’ordine del 20-30% ad oggi.

TANTI NUOVI MODELLI DI BUSINESS

Ma il 2019 potrebbe essere diverso. Molti “giganti” con modelli di business innovativi sono pronti al fatidico passo di vedere i loro titoli pubblicamente negoziati: dai colossi della cosiddetta “gig-economy” (economia dei “lavoretti”) quali il trasporto di persone o cose da parte di privati che offrono servizi di ”ride hailing” sotto l’insegna di Uber e Lyft, alle piattaforme tecnologiche di prenotazione alberghiera come Airbnb, passando per la sharing economy degli uffici di WeWork, al “data-mining” di Palantir, alle macchine tecnologiche da fitness di Peloton (considerata la Netflix del fitness),

fino alle mille applicazioni della nuova internet quali Zoom (videoconferenze) o piattaforme social come Slack o Pinterest, o altri ancora come Crowdstrike, Cloudflare, eccetera.
In passato molte Startup hanno invece preferito finanziare il loro sviluppo

col denaro “privato” (cioè non emettendo titoli quotati in borsa) del Venture Capital, anche perché è stato relativamente abbondante sino ad oggi, ma soprattutto talune situazioni paradossali come la quotazione in borsa di Snapchat (crocifissi sui titoli della stampa per mesi) hanno gettato un’ombra di terrore sulla quotazione delle Startup, tanto per chi decide di quotarsi quanto per chi deve valutare la convenienza ad investire.

IL RIPENSAMENTO

Ma oggi è in atto un ripensamento, tanto per il fatto che gli investitori hanno ben chiaro che se vorranno ancora trovare il modo di far fruttare il loro denaro con la prospettiva di borse che non cresceranno in media, dovranno concentrarsi nei prossimi anni su quelle categorie business che oggi sono allo stadio di sviluppo iniziale, piuttosto che su quelle tradizionali, quanto perché la notorietà che deriva dalla quotazione in borsa e la liquidità del titolo quotato fanno sempre più gola ai nuovi pionieri del business, i quali intravedono anche il rischio che il venture capital potrà risultare meno disponibile a rifinanziare le loro perdite in anni di recessione come quelli che sembrano prospettarsi.

IL SELL-OFF SEMBRA AVER STIMOLATO LA CORSA A QUOTARSI

Paradossalmente, il “selloff” (la svendita dei titoli quotati in borsa) dell’ultimo trimestre del 2018, invece che instillare prudenza negli imprenditori li ha invece spinti ad accelerare il loro percorso verso la quotazione, nel timore che l’inversione del ciclo economico attuale possa giungere in anticipo rispetto alle aspettative correnti, che lo traguardavano al 2020.

E poi la notorietà di grossi nomi come Uber (valutata oggi oltre 100 miliardi di dollari), Palantir (41 miliardi ), Lyft (15 miliardi ), WeWork (45 miliardi), Airbnb (31 miliardi) o Peloton (4 miliardi), dovrebbe facilitare la quotazione di molte altri titoli “tecnologici“ (che potrebbero trovare nei primi la loro pietra di paragone) a aiutarli a superare l’ostacolo della diffidenza del mercato.

LA STRATEGIA DI UN INTERO PAESE

Dietro tutto questo movimento si può tuttavia individuare chiaramente una tendenza di fondo ma anche la strategia di un intero Paese: l’America resta la maggior fucina mondiale di nuovi modelli di business, di nuove avventure e intraprese e in definitiva di creazione di nuova ricchezza. E senza renderne liquidi e arcinoti i relativi titoli azionari e mettere tutto ciò in vetrina dei listini di Wall Street, il resto del mondo potrebbe anche far finta di non saperlo!

Stefano di Tommaso




COSA SUCCEDE AI MERCATI FINANZIARI?

È sotto gli occhi di tutti lo scivolone di Natale delle borse! La scivolata a Wall Street fino a ieri (lunedì 24 Dicembre) ammonta a oltre il 25% dai massimi di Settembre. Ma addirittura stamane (25 Dicembre) la borsa di Tokio è scesa di un ulteriore del 5% (mentre le borse occidentali sono chiuse).

 

 

Poi c’è chi fa notare che il prezzo del petrolio in fondo è precipitato di quasi l’80% e dunque probabilmente la misura del ritracciamento che dobbiamo attenderci per l’indice della borsa americana è ancora più ampia di quel 25%.

La borsa italiana in confronto appare un’isola felice, con un calo di “solo” il 18% ma in realtà è scesa di oltre il 33% dai massimi dell’anno, lo scorso 7 maggio.

Ma quali sono le cause di quest’ondata di vendite sui mercati finanziari?

La prima e più banale risposta è quella che mostra le vendite indiscriminate come diretta conseguenza della rotazione dei portafogli degli investitori (da titoli azionari pro-crescita a titoli difensivi e in buona parte titoli a reddito fisso), ma c’è da tenere conto dell’andata di richieste di riscatto da fondi e gestioni che gli investitori professionali hanno dovuto fronteggiare andando a liquidare alla bell’in meglio i loro giardinetti.

Dunque c’è un aspetto congiunturale, dettato dalla politica di rialzo dei tassi della banca centrale americana (e dall’aspettativa di utili in decrescita), ma c’è anche e forse soprattutto un aspetto psicologico, dettato dalla sfiducia di investitori e risparmiatori nei confronti dei mercati finanziari, che li ha portati a disinvestire dalle borse per comperare titoli a reddito fisso, ma anche per lasciare della liquidità, che rischia di divenire più preziosa in futuro dato il programma di progressivo riassorbimento della stessa da parte delle banche centrali.

 


Ovviamente questo fa decisamente salire le quotazioni dei titoli a reddito fisso e fa ridiscendere i loro rendimenti, in totale controtendenza rispetto alla salita dei tassi a breve. Il fenomeno è notevole persino in Italia, dove due mesi fa il Buono del Tesoro decennale aveva toccato il tasso del 3,80% e che oggi offre un misero 2,74%, cioè un’intero punto percentuale in meno ovvero ancora con una riduzione di un terzo del rendimento totale. Esattamente quanto rende oggi il Treasury bond americano a 10 anni.

Il fenomeno della discesa dei tassi a lungo termine e contemporanea risalita di quelli a breve è stato molto vistoso in America e ha contribuito a gettare disagio sui mercati perché da decenni è sintomo di un’inversione di tendenza dell’economia.

Ma se fosse soltanto un tema di rialzi “sbagliati” dei tassi a breve da parte della Federal Reserve (sui quali è difficile obiettare agli strali del presidente Trump) e di conseguente scoramento dei risparmiatori, potremmo pensare che il fenomeno sia quasi del tutto passeggero. E invece no: nessuno lo ritiene tale e comunque tutto ciò non spiegherebbe il perché del crollo di petrolio e materie prime.

La ragione principale sta probabilmente nella frenata della crescita economica globale, particolarmente accentuata sui mercati asiatici, dove l’indice Nikkei della borsa di Tokio ha perso il 28% ad oggi rispetto ai massimi di fine settembre, e dove la borsa di Shanghai è arrivata addirittura a perdere il 46% da inizio anno.

Dunque alle porte del 2019 nessuno si aspetta grandi guadagni dai listini di borsa e questo è il motivo per il quale ci sono quasi solo venditori sui mercati. Qualcuno afferma che l’inflazione alla fine salirà, azzerando perciò i rendimenti reali delle obbligazioni, ma la verità è che il mercato finanziario non sconta nelle loro quotazioni alcuna nuova fiammata inflazionistica, anzi: inizia a serpeggiare il sospetto che la recessione (almeno negli U.S.A.) arriverà prima del 2020, aiutata dall’andamento negativo delle borse che riduce la ricchezza dei risparmiatori e penalizza i consumi, responsabili nel 2018 di circa il 70% della crescita economica americana.

L’Asia sta forse peggio, dell’America e le sue borse lo testimoniano, ma in tutti i Paesi Emergenti la crescita economica prosegue quantomeno a causa della demografia. I capitali però fuggono verso porti più sicuri e dunque lo stop alla crescita è possibile che arrivi anche da loro per motivi finanziari. Cosa può interrompere dunque il “loop” negativo? Probabilmente proprio il fatto che nella discesa generale dei listini inizia a intravvedersi molto valore a basso prezzo e dunque non troppo tardi mani esperte torneranno a comperare, seguite poi dal “parco buoi”. Questo non vale soltanto per gli Emergenti ma è dove le divise nazionali hanno perso maggior terreno contro Dollaro che potranno trovarsi le migliori occasioni d’investimento.

La vera domanda è: quando? Difficile rispondere senza correre il rischio di tirare a indovinare. Meglio lavorare sulla ricerca del valore nella selezione di aziende interessanti, con buone prospettive e basso indebitamento, invece che a livello aggregato, il cui l’andamento dipende anche da numerosi altri fattori…

Stefano di Tommaso