ATTESE DELUSE !

Il mese di Settembre era iniziato sotto i peggiori auspici per i mercati finanziari ma nella seconda metà del mese le cose sembravano andare un filino meglio di ciò che si poteva temere. In particolare per la Repubblica Italiana, dopo lo shock della messa sotto osservazione da parte di Fitch, la prima delle Agenzie di Rating internazionali ad avere la revisione in scadenza, era iniziato a trasparire un moderato ottimismo, germogliato sulla linea della prudenza mostrata al mondo dal ministro dell’economia Giovanni Tria e a causa di una congiuntura internazionale favorevole. Ma era apparso chiaro a tutti che la positività dei mercati sullo spread, sull’appetibilità dei Buoni del Tesoro Poliennali e sulla borsa italiana (che contempla una forte presenza di banche, grandi detentrici di titoli di stato) era fortemente legata al deficit che sarebbe stato deciso nel Documento di Economia e Finanza, dunque nella data di Giovedì 27 Settembre, prevista per la sua pubblicazione.

BASTAVA IL 2%

I pronostici davano una decisa probabilità che quel deficit si sarebbe attestato al 2% del Prodotto Interno Lordo, o addirittura al di sotto di tale cifra, ma ciò derivava dall’aspettativa che avrebbe prevalso la linea del professor Giovanni Tria, che si era speso non poco nelle settimane precedenti a rassicurare i mercati. Bastava poco per dare loro soddisfazione e guadagnare tempo nel difficile rapporto dell’Italia con la finanza internazionale. Veniamo da anni molto peggiori, come si può vedere dal grafico qui allegato:

E invece la sorpresa generale, a mercati chiusi giovedì sera, nell’apprendere che quel numero (il 2% accettato dal consenso generale) era stato rivisto al rialzo (2,4%), è stata perciò grande! E per svariate ragioni:

I MOTIVI DELLA DELUSIONE DEI MERCATI

intanto se i nostri ministri dovevano proprio seguire la linea dell’incremento indiscriminato della spesa pubblica e dunque arrivare a scontentare i mercati finanziari al fine di prendere misure espansive di politica fiscale, potevano anche incrementarne la misura e cercare di ottenere in cambio un ulteriore obiettivo: quello di fare di più per far ripartire l’economia,
ma poi la situazione era così chiara circa la necessità di contrastare le incombenti difficoltà relative alla prossima revisione del rating da parte delle altre due Agenzie (Moody’s e Standard&Poor’s) come pure al futuro collocamento di titoli di stato a soggetti diversi dalla Banca Centrale Europea (che ha chiaramente lasciato intendere che con la fine del “Quantitative Easing” si avvia a non comperare più nuovi titoli italiani) che sarebbe bastato rimanere entro la soglia del 2% per fare tutti felici e contenti: il debito pubblico nazionale sarebbe cresciuto ancora ma in una misura considerata “accettabile” dal consenso generale.
La Banca Centrale Europea (BCE) è stata quasi l’unico acquirente dei titoli di stato negli ultimi due anni, come si può ben osservare dal grafico qui allegato:

Adesso se bisognerà emettere titoli di stato aggiuntivi rispetto a quelli in scadenza (il Ministro dell’Economia giura invece che la crescita programmata dalla manovra garantirà una discesa del debito dell’1% all’anno) nessuno sa come fare a collocarli senza che i tassi italiani tornino a crescere (in decisa controtendenza rispetto al resto d’Europa la cui banca centrale non prevedeva di lasciarli salire ancora per circa un anno) e che dunque il Paese rischi di avvitarsi nella spirale di maggiori tassi=maggiore spesa pubblica=minore sostenibilità del debito esistente.

IL DEBITO COSTA DI PIÙ

Ora per pareggiare il maggior costo del debito (già certo vista la brusca reazione dei mercati dello scorso Venerdì 28) nemmeno l’opzione di incrementare le tasse sembra oggi non percorribile se non addirittura in netto contrasto con tutte le misure previste del DEF, ma l’equazione in qualche modo dovrà quadrare, dunque il difficile equilibrio che sembrava accettare un deficit del 2% più per volontà politica internazionale che non per logica oggi sembra perduto. (Si veda il grafico qui allegato che riporta il calo dei corsi del Btp, che significa un incremento del,suo rendimento implicito):

Eppure bastava veramente poco, o forse basterà ancora veramente poco, per trovare a livello comunitario un punto di equilibrio rispetto alla linea politica del governo, e magari il falò delle risorse finanziarie che sono bruciate venerdì dopo l’annuncio verrà visto nelle prossime settimane come un fuoco di paglia, al quale seguiranno forse interventi dei vigili del fuoco, che potrebbero -controvoglia- essere proprio gli altri membri dell’Unione, pur di salvare quel che resta dell’Unione Europea. Che è anche Unione Monetaria. Venerdì infatti anche l’Euro è disceso così come tutte le borse europee (si veda il grafico allegato:)

I MERCATI NON ERANO COMUNQUE FAVOREVOLI

 


Ma se anche la tornata di fine settimana dei mercati fosse da considerare il prodotto di una serie di concause e si rivelasse alfine un fuoco di paglia, qualche bruciatura rimarrà comunque indelebile all’immagine di credibilità e autonomia che il ministro Tria stava cercando di costruirsi.

E se questo governo deve durare fino al 2023 sarà bene che la “chirurgia plastica” di qualche intervento dall’alto si mobiliti d’urgenza perché quello che Salvini e Di Maio hanno annunciato di voler fare era un’operazione di delicata affermazione della credibilità delle manovre espansive di politica fiscale, che andava ampiamente illustrata prima di tutto e, possibilmente, dopo aver passato il primo vaglio delle agenzie di rating.

Ora invece, per quanto Giovanni Tria possa illustrare il calcolo degli effetti espansivi sul Prodotto Interno Lordo della manovra (stimati nell’1,6% l’anno prossimo e nell’1,7% nel 2020), gli effetti positivi dei 15 miliardi di investimenti pubblici previsti ogni anno e la neutralità sui conti pubblici dell’operazione di rimozione della legge Fornero sulle pensioni, molti (strumentalmente oppure no) avanzeranno legittimi dubbi al riguardo. E nel frattempo rischiamo di beccarci qualche “downgrade” (abbassamento) del rating nazionale, con tutti i problemi che esso potrà creare.

LE ANALOGIE CON L’AMMINISTRAZIONE TRUMP

Donald Trump ha fatto in America un’operazione simile a quella che vogliono portare avanti i nostri nuovi governanti (fatta di stimoli all’economia di natura fiscale e sociale), che nonostante ricevesse le critiche di buona parte dell’intellighenzia e del “mainstream” (i media) che gli investitori hanno plaudito e che i mercati hanno gradito, ma l’Italia non è l’America e i predecessori degli attuali nostri ministri non hanno brillato per credibilità! Tanto più che i timori per l’eccesso di debito pubblico italiano sono comunque fondati perché senza l’ombrellone europeo i tassi dei nostri titoli di stato sarebbero più elevati.

I nostri ministri avrebbero dovuto curare molto di più la comunicazione con il resto del mondo.

IL BLUFF DELLA SPECULAZIONE “POLITICIZZATA”

Ciò detto bisogna anche spezzare una lancia contro la speculazione. All’estero tutti i commentatori indipendenti hanno notato che la reazione dei mercati è apparsa assolutamente eccessiva e fors’anche strumentale a chi vorrebbe ridurre il consenso dell’attuale maggioranza al governo. E così pure le parole del Presidente Mattarella non sono apparse esattamente scevre da ogni posizione politica, anzi!

Esiste tra l’altro una regola tra gli investitori: “Until support for the euro crumbles, here’s a rule of thumb for longer-term investors: If any eurozone bonds yield much more than Germany’s, buy them” riportata ieri dal Wall Street Journal, che quindi invita gli investitori a “scoprire il bluff” degli speculatori a matrice politica, perché la vera misura indicata dallo spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi non è il rischio di default del nostro Paese, bensì quello di uscita dall’Euro. E sintantoché non sarà all’orizzonte una tale ipotesi, l’Unione Europea non può permettersi di far saltare il tavolo.


Anche Fidelity Investments scrive la stessa cosa. Se di rischio dobbiamo parlare, afferma, è quello di uscita dall’Unione, che però non è all’ordine del giorno, nemmeno nell’opinione pubblica, come mostra il grafico qui riportato:


L’USCITA DALL’EURO NON È IN VISTA

Con una certa probabilità dunque l’allarme sui mercati rientrerà presto, ma la vera questione è se fa bene il governo italiano a spingere sull’accelerazione della crescita invece che sulla leva del debito. E la risposta è probabilmente si. La leva da utilizzare oggi non può essere quella del rigore, che si è visto aver fatto solo danni, ma quella della crescita economica, senza la quale la mole del debito non sarà mai sostenibile. Ma ciò vale non soltanto per l’Italia, bensì per l’intera Europa, che sa che deve continuare a lungo con la sua politica di tassi bassi, e cerca scuse come questa per darne la colpa a qualcuno.

E’ il medesimo motivo per cui non è irragionevole supporre che le quotazioni delle banche nostrane, oggi fortemente penalizzate dai titoli pubblici in portafoglio, in realtà non torneranno a brillare ancora per un lungo periodo, seppure un rimbalzo potrebbero vederlo presto. Tassi bassi e “mercati sedati” dal mix probabile di politiche monetarie restrittive e politiche fiscali espansive è possibile che non gioveranno ai conti futuri degli intermediari finanziari.

Stefano di Tommaso




QUANTO VALE IL BRAND VERSACE?

Il gruppo Michael Kors si aggiudica l’asta indetta da Goldmann Sachs per la cessione della Versace superando al fotofinish un nutrito gruppo di pretendenti -sono girate indiscrezioni su Tiffany, Kering (Gucci etc) Carlyle, Coach Tapestry e altri- e subito il suo titolo in borsa è scivolato di circa il 9% (dopo essersi apprezzato però di oltre il 40% nell’ultimo anno). Eppure gli analisti che coprono la Michael Kors continuano a vedere un target price (la stima di valore che le sue azioni possono raggiungere) più alto del 15-20% (a circa 78 dollari, dagli attuali 67) e soprattutto un’ottima capacità di digerire bocconi grossi e ambitissimi come la Jimmy Choo, acquisita un anno fa per un miliardo e duecento milioni di dollari.

 

CENTO VOLTE GLI UTILI

Il gruppo guidato da Donatella Versace sembra aver chiuso il 2017 con un fatturato superiore agli 800 milioni di dollari, in crescita del 18% sull’anno precedente e per circa la metà realizzati in Asia, con e un utile di meno di 20 milioni di dollari, poco più del 2% del fatturato. Valutarla oltre 100 volte gli utili (2,1 miliardi di dollari al lordo della posizione finanziaria netta) significa ovviamente attribuire buona parte del prezzo agli asset che essa contiene -principalmente il marchio della Medusa- visto che la redditività della maison fondata da Gianni Versace è stata buona ma limitata.

I MULTIPLI DEL BRAND

Ma quanto vale il marchio Versace? Un criterio universalmente riconosciuto posiziona a circa 2,5 volte il valore del marchio rispetto al fatturato dei più grandi brand del lusso ed evidentemente tale valore medio “fitta” perfettamente con quanto è successo anche stavolta. Ma ovviamente si tratta di più del doppio delle “normali” valutazioni relative ai brand vincenti del largo consumo, quindi bisogna che il mercato riconosca una indubbia capacità di giustificare nel tempo il forte plusvalore pagato.

La Michael Kors (che con l’occasione ha annunciato di aver cambiato nome in Capri Group) porta a casa un gruppo che fattura 800 milioni con 200 negozi monomarca nel mondo e dichiara di voler innalzarne il numero a 300 portando il fatturato a più che raddoppiare: 2 miliardi. Ci riuscirà?

I NUMERI DELL’ACQUIRENTE

Con un fatturato atteso per l’anno in corso di oltre 5 miliardi di dollari e una generazione di cassa di quasi un miliardo (prima dell’acquisizione di Versace, il cui giro d’affari quest’anno potrebbe da solo aggiungere al gruppo quasi un altro miliardo di dollari) il suo presidente Johnny Idol potrebbe anche farcela, grazie agli investimenti previsti e alle sinergie negli accessori, nella distribuzione e nella comunicazione.

Al momento il gruppo Capri capitalizza in borsa circa 10 miliardi di dollari, cioè due volte circa il fatturato consolidato e fa utili per circa 600 milioni di dollari, dunque vale circa 17 volte gli utili, esattamente in linea con la capitalizzazione media delle società quotate a Wall Street. Ma soprattutto è atteso generare cassa per circa un miliardo di dollari e dunque non ha paura di investire ancora pesantemente nel proprio sviluppo, soprattutto con un altro importante marchio per le mani, icona del lusso e dello stile italiano nel mondo. (Qui sotto: l’andamento del titolo Michael Kors negli ultimi 24 mesi)

QUALCHE PARAGONE ILLUSTRE…

Per fare un paragone illustre: il gruppo Armani, che fattura circa 3 miliardi di dollari, fa utili netti per oltre 320 milioni (circa il doppio in percentuale rispetto a Capri Group). Certo il suo marchio non vale meno di 5 miliardi ma se volessimo applicare gli stessi multipli di Versace arriverebbe a 7,5 miliardi di dollari e a quella cifra sarebbe ancora sottovalutato rispetto agli utili.

Tra i precedenti italiani nel mondo del fashion c’è stato quello di Loro Piana, il cui marchio fu valutato addirittura quasi quattro volte il fatturato al momento della cessione, nel 2013 (3,2 miliardi di dollari) con un fatturato appena superiore a quello odierno di Versace, sebbene la maison di tessuti e abbigliamento avesse una redditività completamente diversa (20% delle vendite) e dunque la società venne valutata soprattutto sulla base degli utili (19 volte).

Se perciò da un lato l’acquisizione di una società che fa meno utili di quanto ne vengano generati dall’acquirente è stata giustamente considerata “dilutiva” dagli analisti di borsa (e perciò “punita” al suo annuncio), dall’altra parte bisogna ammettere che la valutazione del marchio dalla medusa dorata applicata dall’acquirente non è stata poi così folle, se consideriamo che i numeri appena citati si riferiscono all’anno passato e che le prospettive di raddoppio del fatturato a marchio Versace non sono così peregrine se correttamente accostata alle sinergie apportate dal nuovo proprietario.

CHI HA RAGIONE?

Dunque hanno altrettanta ragione gli analisti di borsa (che guardano al breve termine) quanto gli strateghi del fashion (che puntano al medio-lungo termine). La grande “presa” del marchio Versace in Asia poi è ulteriore fattore di interesse per chi guarda alla crescita globale del proprio business, dal momento che in questo momento demografia e consumi si stanno sviluppando soprattutto a Oriente.

Stefano di Tommaso




LA POSSIBILE RIVINCITA DELLA BORSA ITALIANA

È solo di un paio di settimane fa la messa sotto osservazione del rating italiano da parte di Fitch, la prima delle agenzie di Rating internazionali ad avere in scadenza la revisione periodica del merito di credito della Repubblica Italiana, e ci sembra di parlare di una precedente era geologica. E risale a poco più di un mese fa il crollo del ponte di Genova e il codazzo infinito di polemiche sulla responsabilità prima e sulle ricostruzioni poi (non solo di quello già caduto).

Allora le (serie) argomentazioni della maggioranza al governo circa la necessità di avviare una stagione di rilancio degli investimenti infrastrutturali e, con essi, anche dell’economia italiana, fecero rabbrividire gli euro-burocrati (già preoccupati per le belligeranti promesse di reddito di cittadinanza e flat tax) sulla tenuta dei conti pubblici. Il risultato di quei giorni fu il rilancio dello spread (tra i rendimenti dei BTP italianai e quelli dei Bund tedeschi) a livelli visti soltanto all’epoca dell’ultimo governo Berlusconi. Anche le stime sulla crescita del nostro P.I.L. sono state riviste al ribasso e oggi ci si aspetta di chiudere l’anno con una crescita dell’1,2%.

Ancora oggi, all’alba della pubblicazione del Documento di Economia e Finanza (DEF) attesa entro il prossimo 27 Settembre, lo spread italiano resta a livelli elevati, ma la situazione sembra -quasi d’un tratto- non fare più paura a nessuno, anzi! È la Germania, non l’Italia, a subìre gli strali dell’amministrazione Trump per il suo comportamento in materia di pressioni sull’Europa e di commercio internazionale, e forse nemmeno del tutto a torto. Mentre è notizia fresca la crisi sistemica delle principali banche tedesche, a sostegno delle quali Angela Merkel avrebbe stanziato altri 100 miliardi di euro.

L’attuale coalizione al governo del Bel Paese, da molti già data per spacciata alla ripresa della pausa estiva, potrebbe invece inanellare una serie di insperati successi già entro le prossime due-tre settimane, complice il rasserenato clima internazionale relativamente a dazi e dogane che giova di sicuro anche alle imprese esportatrici cisalpine. Non solo: il nuovo vertice della Cassa Depositi e Prestiti impersonato dall’amministratore delegato Palermo è al lavoro su un vorticoso piano industriale da presentare entro fine Ottobre che dicono potrà prevedere quasi un centinaio di miliardi di investimenti.

E se, come sembra, le prossime settimane faranno segnare agli indici di borsa una seppur effimera ripresa, anche i timori sul debito italiano e sulla lentezza della crescita dell’economia italiana potrebbero finire per essere spazzati via. Inutile dire che un tale scenario non farebbe che un gran bene alle poco fortunate vicende della borsa italiana, principalmente vittima negli ultimi mesi di un’ingiustificata fuga di capitali dalle banche italiane e dai nostri titoli di stato.

Il giornale Milano Finanza fa notare che da fine Marzo ad oggi è al 6,6% il divario di performance tra il Ftse Mib di Milano e l’indice generale Eurostoxxs 600 (al +2,7%) che peraltro comprende anche Milano (-3,9%); dunque le altre azioni europee hanno fatto anche meglio. Il medesimo indice europeo ha a sua volta accumulato un divario di performance con Wall Street (indice SP500) dell’8,6%, dal momento che nello stesso periodo quest’ultima è cresciuta dell’11,3%. Perciò Milano è rimasta indietro di oltre il 15% rispetto a New York in meno di 6 mesi. La fuga dall’Italia ha colpito soprattutto le banche nazionali, con il Ftse Banks Italia, sceso nel medesimo periodo del 13,6% contro il 3,9% complessivo di Milano.

Ma questo è anche il motivo per il quale si è creata l’opportunità di un arbitraggio sul azioni italiane, vittima sino a ieri di timori sulla salute economica dell’intero Paese e che oggi potrebbero beneficiare della migliorata congiuntura. Le attese degli analisti (e l’attuale misura dello Spread, oggi intorno a 230 centesimi di punti percentuali) sono infatti incentrate su un deficit dei conti pubblici programmato dal ministro Tria per il DEF del 2019 pari al 2,3%. Secondo un rapporto di UBS ogni frazione di punto migliorativa rispetto a quel numero potrebbe innescare una pari discesa dello Spread e la forte ripresa dell’ottimismo sui titoli italiani, i quali potrebbero beneficiare anche del rinnovato ottimismo a livello internazionale. Addirittura secondo Pictet la borsa italiana potrebbe recuperare il suo “gap” con il resto d’Europa già solo se il DEF dovesse parlare del 2%.

Ovviamente parliamo di fine Settembre-inizio di Ottobre, nel momento di massima intensità della campagna elettorale americana. Su quello che succederà poi non vi sono meno che meno certezze. In particolare con la settimana del 6 Novembre (giorno delle votazioni di medio termine) potrebbe terminare l’idillio di Wall Street con il presidente Trump e, di conseguenza, anche le altre borse valori potrebbero risentirne. Non solo, ma anche la revisione del rating sulla Repubblica Italiana è atteso per fine Ottobre da parte di Stanndard&Poor il 26 e Moody’s entro la settimana successiva.

In quei giorni tutto sarà possibile..!

Stefano di Tommaso




CORSI E RICORSI DELLE BORSE

Sono almeno due anni che ascoltiamo litaníe di analisti e profeti della finanza annunciare imminenti crolli delle borse. Le ragioni del loro argomentare nel tempo sono state di volta in volta le più varie: il “tapering” (la fine del Q.E. e l’annuncio della cessazione degli altri stimoli monetari) la Brexit, la crisi della Grecia, l’elezione di Trump, la polveriera del Medio Oriente, le elezioni italiane, l’eccesso di debiti globali, la Corea, le guerre commerciali americane, la risalita dei tassi d’interesse e gli uragani. Tutte smentite dai fatti. Ma è giustificato il nuovo ottimismo?

 

NIENTE CROLLI

Io stesso in questi anni mi sono talvolta lasciato prendere la mano da inviti alla prudenza, motivi di preoccupazione, disallineamento degli andamenti economici e timori di crolli dopo eccessi di crescita degli indici di borsa. Ma poi è sempre arrivata una ragione per il contrordine. Niente crolli: c’è ancora troppa liquidità in circolazione dicono ogni volta gli irriducibili.

Certamente esistono diverse verità in contemporanea: se è vero che i listini delle borse (soprattutto quelle americane) sono cresciuti del 50% è altrettanto vero che spesso è accaduto in relazione all’ascesa dei profitti aziendali e che, di conseguenza, ciò non è successo dappertutto (ad esempio non in Italia) e non si sono ugualmente rivalutate tutte le categorie di titoli quotati: è continuata la corsa dei “tecnologici”, soprattutto sui mercati anglosassoni e sono discesi tutti gli altri, in particolare quelli delle borse periferiche. Dunque i listini di borsa assomigliano alla “media del pollo” di trilussiana memoria, e così pure gli indici globali risentono della forte componente positiva americana. Andando a discernere meglio non è andato tutto all’insù.

IL GIOCO DELLE ASPETTATIVE

Ma la triste verità è pur sempre un’altra: non esiste alcuna vera correlazione diretta tra le “notizie” relative a economia reale e geopolitica e gli andamenti dei mercati finanziari, i quali seguono queste insieme a mille altre logiche contemporaneamente e dunque si orientano in funzione della percezione collettiva della prevalenza dell’una o dell’altra, mentre alla fine è il fattore psicologico che comanda: se le aspettative degli investitori sono buone i mercati crescono “nonostante” ogni elemento oggettivo negativo e viceversa!

CINA E MERCATI EMERGENTI: DI NUOVO OTTIMISMO

Così scopriamo che, se è vero che i dazi doganali preoccupano per il possibile ostacolo che possono opporre alla crescita economica globale, è altrettanto vero che i mercati stanno prendendo atto del fatto che la questione non è poi così grave se finisce che le aspettative positive di nuovi negoziati con la Cina arrivano sopravanzare i timori di ulteriori misure restrittive. E se è vero che i mercati emergenti sono stati in prevalenza abbandonati dai grandi capitali che hanno preferito approdare in porti più sicuri in vista della fine di un lungo ciclo economico espansivo, adesso è anche altrettanto vero che le quotazioni nelle borse più periferiche sono basse e che il potenziale di crescita che esse esprimono (oltre ai fattori demografici) suggeriscono nuovo ottimismo sulle piazze finanziarie dei paesi emergenti!

Ma basta così poco per trasformare le cautele e le prese di beneficio dopo anni di crescita vorticosa in nuovo ottimismo?

PERSINO L’INDICE DELLA PAURA È AI MINIMI

Evidentemente si, se non si bada ai fatti bensì agli umori. E il bello è che il “barometro della paura”, quell’indice VIX della volatilità delle borse che sempre più spesso viene consultato dai profani, stavolta è tornato di nuovo ai minimi storici, a segnare non soltanto un rimbalzo degli umori, ma addirittura anche una certa rilassatezza di chi si sta abituando a cambiarla sempre più spesso.

Emerge allora un ricordo di molti anni fa quando avevo ascoltato alle “grida” di Piazza Affari una citazione del mitico Giannino, un procuratore di borsa negli anni ‘70 che continuava a ripetere : “quando spengono la luce non ti avvisano prima!” Ecco, forse anche stavolta alla fine andrà così: le peggiori crisi sono giunte quasi sempre inaspettate, quando la guardia collettiva era stata abbassata e la divergenza tra fatti ed opinioni era giunta a livelli estremi.

BALLIAMO SULLORLO DEL PRECIPIZIO?

È andata così nel 2008 e rischia di andare allo stesso modo la prossima volta. Ma forse non già nel 2018: ci sono ancora troppi fattori in gioco che premono in direzione dell’ottimismo sfrenato e troppi interessi a evitare che “qualcuno spenga la luce”. (qui sopra l’andamento dell’indice Dow Jones della borsa americana).

La verità però è che man mano che ci si approssima al crinale della montagna, a ballare e far baldoria si rischia di più di cadere a capofitto nel baratro.

Stefano di Tommaso