IL FATTORE DI DISTURBO DELLA MANOVRA ECONOMICA

La tesi della maggioranza politica eletta pochi mesi fa in Parlamento è chiarissima: se le molti anni (dalla nomina di Monti) e fino a ieri l’aver aderito in toto alle indicazioni della Commissione Europea ha fatto dell’Italia il fanalino di coda dell’Unione, allora è evidente che bisogna andar in direzione ostinata e contraria: se con le tasse e l’austerità non siamo riusciti a ridurre il nominatore del rapporto “debito pubblico/prodotto interno lordo” (anzi il debito è solo aumentato) allora proviamo fare largo a misure espansive (sebbene le risorse per le medesime siano scarsissime) per riuscire ad incrementare il denominatore (il prodotto interno lordo). Ma c’è un elemento che il governo non aveva previsto…

 

Il saldo di bilancio primario dei conti pubblici italiani, con l’eccezione del 2009 (l’arrivo della crisi globale), è stato in attivo per oltre 20 anni. Ciò significa che i governi hanno tassato gli italiani più di quanto hanno speso per consumi e investimenti. Ciò nonostante la spesa per interessi ha fatto crescere il debito.

LA FORMULA DELL’EQUILIBRIO

È formula nota agli studiosi di economia quella che esprime l’avanzo primario dei conti pubblici italiani come il rapporto (B come “balance”) tra il debito e il prodotto interno lordo (PIL) ragguagliato alla crescita marginale dell’economia al lordo dell’inflazione:

Nella nota di aggiornamento al DEF il rapporto Debito/Pil (D) nel 2018 è 130.9%. Il tasso di crescita nominale del PIL nel 2019 è previsto al 3,1% (di cui 1,5% dovuta all’inflazione e 1,6% alla crescita del prodotto). Quindi B=130,9*0,031/(1+0,031)=3,93%. Il 3,93% è molto maggiore del deficit fissato al 2,4%. Se anche la crescita reale del PIL dovesse scendere fino all’1% (considerata troppo bassa anche dalla “troika” delle istituzioni internazionali BCE, FMI e Commissione UE) e l’inflazione andasse all’1,6%, B sarebbe uguale a 2,7%, comunque ancora superiore al 2,4% e sufficiente a far scendere il Debito.

 

COSTI CERTI E RITORNI INCERTI, COLPA DELL’INESPERIENZA

Ovviamente, come è già successo con Donald Trump in America, la manovra espansiva può lasciare molti dubbi a causa del suo costo certo e del suo ritorno incerto. Il dibattito su dove agire per stimolare la crescita inoltre è causa di infinite discussioni e critiche. Ma -di massima- l’alternativa a tale scelta sembra pura fantasia.

Ci sono a dire il vero due importanti questioni che animano -correttamente- le critiche alla manovra: la prima è che non è stata annunciata e illustrata in modo intelligente, ma piuttosto è stata recepita da tutti i commentatori come uno schiaffo all’attuale classe dirigente della Commissione Europea. Il ministro Giovanni Tria in questo si è visto sorpassato in curva dai due vicepresidenti del consiglio, che ne hanno fatto una bandiera politica, probabilmente sbagliando. La seconda è la stima dell’inflazione prospettica, nonché quella della crescita attesa. Se le stime degli effetti della manovra risulteranno pesantemente errate, allora indubbiamente il debito pubblico italiano crescerà. Come peraltro è sempre successo fino ad oggi all’Italia dei governi precedenti e a quasi tutti gli altri stati membri dell’Unione.  Ma a differenza di molti altri stati europei gli italiani sono grandi risparmiatori:

 

IL RUOLO DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA

Possiamo perciò concludere che questi dubbi giustificano da soli gli allarmi circa l’insostenibilità del nostro debito pubblico? Probabilmente no. Per fare un esempio pratico, il Giappone convive da decenni con un debito pubblico pari a e volte e mezzo il prodotto interno lordo e, dopo anni di stagnazione, è arrivato Shinzo Abe con le sue politiche fiscali fortemente espansive riuscendo a far invertire rotta all’economia. Se vogliamo giocare a cercare le differenze, quella unica vera e sostanziale è l’autonomia monetaria del Giappone, che a noi manca. Se la Banca Centrale Europea adotterà una politica monetaria restrittiva indubbiamente avremo un problema in più nel rifinanziamento dei bond pubblici in scadenza e la mancanza di liquidità disponibile per gli operatori economici potrebbe compromettere seriamente le prospettive di crescita del Bel Paese.

La vera questione delle questioni sembra dunque risiedere nelle prospettive di permanenza dell’Italia nell’Unione (politica e monetaria) Europea. Secondo la JP MORGAN il verso rischio dell’Italexit è nullo e pertanto gli allarmi delle Agenzie di Rating sono fasulli e la salita dei rendimenti dei titoli italiani è un buon affare per chi ci investe adesso. Sarei pronto anch’io a scommetterci, anche perché sono in arrivo le elezioni europee e il clima politico può cambiare parecchio, ma c’è un altro fattore che scompiglia le possibili previsioni: il profondo cambiamento delle prospettive dei mercati finanziari a livello internazionale.

IL FATTORE ESOGENO: I MERCATI FINANZIARI INTERNAZIONALI

I mercati sono indubbiamente divenuti più nervosi negli ultimi giorni, e gli effetti di sono visti platealmente: Le borse valori sono scese parecchio e i titoli a reddito fisso incorporano rendimenti superiori, per la prima volta anche a quelli tipici dell’investimento azionario (che si situano storicamente sotto al 3%). La curva dei rendimenti americana si è del tutto appiattita e sono per questo motivo partite le speculazioni sul momento in cui la Federal Reserve americana riuscirà a innescare l’ennesima recessione a causa dell’atteggiamento troppo duro nei confronti dei tassi di interesse (oggetto del mio articolo:  “SE I TASSI AMERICANI MINACCIANO I MERCATI FINANZIARI)

È chiaro che se la tendenza attuale dovesse proseguire la manovra economica italiana rimarrebbe spiazzata dal deflusso di capitali verso l’area dollaro e verso una minore propensione al rischio da parte degli investitori. Ci vuole dunque un po’ di “fattore C” nella ricetta della coalizione giallo-verde. E per adesso non se ne è visto…

Stefano di Tommaso




LA MANOVRA ITALIANA, LE POSSIBILI REAZIONI EUROPEE E LO SCENARIO GLOBALE

Al di là di ogni polemica politica, partitica o finanziaria, al di là di ogni commento sulle posizioni assunte da questo o quell’intellettuale sulla qualità o sulla sostanza della manovra preconizzata dal nuovo governo giallo-verde italiano (ha 4 mesi di anzianità), persino al di là di ogni considerazione sul deficit che essa genera, non posso non affermare il mio grande interesse, sull’attenzione che essa ha generato nell’opinione pubblica -interna e internazionale- per vari motivi.

 

UNO SCOSSONE POSITIVO

Erano anni che l’opinione pubblica italiana non tornava a dibattere di cose serie, quali gli stimoli alla crescita economica, gli investimenti infrastrutturali, la competitività delle aliquote fiscali per le imprese, gli incentivi all’occupazione e la congruità delle normative imposte dagli euro-burocrati ai singoli Stati membri: finalmente si è acceso un dibattito che diverge sostanzialmente dalla demagogia di quelli che lo hanno preceduto e che fa sperare che si avvii un dialogo -anche a livello europeo- sulle ricadute di medio termine delle politiche fiscali e monetarie che oggi vengono ipotizzate. Non accadeva da anni e nessuno osava mettere in discussione una serie di “follie” che Bruxelles propagandava a vantaggio dei soliti noti (Germania e Francia).

Erano anni insomma che non ci si chiedeva quali manovre potranno sortire il migliore effetto sulla crescita economica del Paese posto che è finalmente chiaro a tutti che è soltanto quest’ultima che potrebbe salvare l’Italia dal baratro dell’insostenibilità del proprio debito pubblico. A prescindere dunque dal deficit di bilancio (che in qualche modo nel frattempo va certamente finanziato) la vera domanda che conta è tornata centrale: il rapporto tra debito e prodotto interno lordo (PIL) scende o sale? E perché scenda è finalmente chiaro a tutti che è il PIL che deve crescere, visto che il debito non scende da solo.

LA VERA NOVITÀ: STOP AL FISCAL COMPACT

Il nuovo governo sembra aver avviato un confronto con il Pese e con il resto del mondo sulle priorità del quadro programmatico e sulla qualità della spesa del denaro pubblico, dando precedenza a queste scelte piuttosto che al contenimento “a priori” del deficit, senza badare a cambiare l’indirizzo della spesa pubblica e la reale validità delle politiche economiche del passato (errate quasi per definizione, visti gli scarsi risultati). La vera novità sta dunque nell’intenzione di lasciare indietro il Fiscal compact e l’obbligo di tendere al pareggio di bilancio dando uno scossone alla filosofia di austerità fino ad oggi prevalente nella Commissione Europea, auspicandone chiaramente una diversa e più orientata a politiche fiscali espansive in vista delle prossime elezioni europee.

La scommessa della maggioranza che ci governa è perciò quella “trumpiana” che ha portato l’America ai risultati che vediamo: abbassare le tasse e aumentare la qualità della spesa pubblica (soprattutto investimenti in infrastrutture e occupazione) per generare crescita economica e far tornare la fiducia negli operatori economici. E visto che per perseguirla bisognava avere il coraggio di fare deficit e scontrarsi con la Commissione Europea, questo governo ha prestato il fianco a critiche e perplessità di ogni genere, qualcuna nemmeno a torto.

LE CRITICHE MOSSE AL GOVERNO

Le critiche mosse al momento della pubblicazione del DEF da più parti sono consistite infatti principalmente nell’incapacità di comunicare per tempo e correttamente la portata e la credibilità dell’iniziativa (anche questa comprovata dai fatti: i mercati hanno reagito male) nonché l’oggettività del miglioramento della qualità della spesa. Altri ancora hanno correttamente notato che questa manovra prevede inoltre troppi pochi tagli alla spesa pubblica improduttiva e ai carrozzoni di Stato, riconcorrendo una crescita che non è matematicamente certo potrà generarsi.

In effetti occorre notare che il “mainstream” ha alimentato l’idea errata che il DEF fosse stato pensato in tutt’altro modo dai ministri tecnici del governo e poi “ribaltato” all’ultimo momento dai due leader politici che ricoprono il ruolo di vice-premier: niente di più ingiusto. È stata casomai la misura del deficit che ne derivava che ha visto disalinneati i primi dai secondi (per soli 7 miliardi di euro contro i quasi mille di spesa).

UN PRECISO CALCOLO POLITICO

I vicepremier hanno sì inteso dare una spallata vera e propria all’accordo europeo che va sotto il nome di fiscal compact, ma per un preciso calcolo politico: la stessa vittoria giallo-verde è stata originata dal rigetto della maggioranza degl’Italiani verso le direttive comunitarie e i politici corrotti che le hanno irragionevolmente applicate, colpevoli di aver ottenuto benefici nel fare invadere il territorio da migranti più o meno clandestini disposti a tutto e di aver scavato con eccesso di spesa clientelare e tassazione la fossa nella quale è caduto il Paese.

Inoltre Salvini e Di Maio hanno capito che la loro pressione sulle istituzioni europee le spinge alla disfatta: se chiuderanno gli occhi verso il mancato ossequio al “fiscal compact” perderanno credibilità e lasceranno che molti altri paesi, Francia e Spagna in testa, facciano lo stesso (anzi lo stanno già facendo). Se faranno il contrario come potranno giustificare il resto d’Europa? E come potranno sperare di essere confermate al governo europeo tra pochi mesi fronte all’impopolarità di cui si macchierebbero? La risposta corretta potrebbe consistere in una serie di misure atte a finanziare a livello europeo gli investimenti infrastrutturali più importanti, magari con l’ausilio della Banca Centrale Europea (BCE) che potrebbe inoltre prolungare l’ombrello del Quantitative Easing (QE) oltre la fine dell’anno corrente, quantomeno fino a dopo le elezioni europee. Ma se così non accadesse e alle prossime elezioni non cambiasse nulla (cosa improbabile di per sè) Di Maio e Salvini godrebbero allora di un ampio appoggio popolare nel decidere l’uscita dell’Italia dalla “gabbia” europea, e forse non ne avrebbero nemmeno tutti i torti.

LA MINACCIA DELLO SPREAD

La minaccia dello Spread è perciò questa volta molto meno pesante di quanto lo è stata con Berlusconi (che non disponeva di una maggioranza assoluta) e di quanto è accaduto in Grecia, la cui economia è dieci volte più piccola dell’Italia. L’esito della crisi greca è inoltre poco d’esempio: dopo che la “Troika” (costituita dai rappresentanti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale.) è intervenuta, le condizioni materiali del popolo non sono migliorate, le principali infrastrutture sono finite nelle mani di tedeschi e francesi e il debito pubblico si è accresciuto fino al 170% del PIL (dal 140% dei tempi della crisi). La manovra sarebbe difficilmente replicabile senza che l’Italia, con una forte maggioranza popolare, decidesse prima di uscire dall’Euro.

LA PAROLA AI MERCATI

Ecco dunque che la parola torna ai mercati (cioè alle manovre della grande finanza), perché difficilmente il dibattito europeo avrà esiti consistenti prima delle elezioni. Riusciranno i mercati a piegare il Bel Paese e ne avrebbero davvero un beneficio? È possibile, anzi è probabile, che la risposta a entrambe le questioni sia negativa, principalmente a causa del fatto che i mercati sono già agitati per altri motivi: i tassi internazionali salgono (forse in misura eccessiva) e al tempo stesso il Dollaro si rafforza troppo sulle alte valute, anche perché i tassi americani continuano ad espandersi nei confronti di quelli europei (nel grafico qui sopra riportato lo spread Treasury-Bund a 10 anni). Una crisi italiana potrebbe innescarne una globale e un Euro troppo debole non piacerebbe agli Stati Uniti ma nemmeno a Russi e Cinesi.

Se dunque la BCE proseguisse nelle sue facilitazioni monetarie e con questo contribuisse ad ampliare il divario tra i tassi europei e quelli americani essa probabilmente farebbe un gran favore persino all’America, fornendole una scusa sensata per forzare una limatura del l’atteggiamento da falco della Federal Reserve. Il rischio ovviamente sarebbe quello di possibili fiammate d’inflazione a livello globale, che tuttavia sono relativamente improbabili stante l’aspettativa generale di una moderata crescita della domanda aggregata per consumi (con l’eccezione americana che però potrebbe aver già toccato il suo picco).

C’È SPAZIO PER L’OTTIMISMO


Se il petrolio non sfonderà i 100 dollari al barile (anche questo è al momento non ipotizzabile) e il biglietto verde non si avvicinerà alla parità con l’Euro ecco che la situazione rimarrebbe sotto controllo e anzi la prospettata frenata economica europea potrebbe trasformarsi in una ripresa positiva del ciclo. Ma se così non fosse anche le borse traballerebbero molto più di quanto stanno facendo oggi, perché la fine degli stimoli monetari globali, se può risultare appropriata in un’America la cui economia corre al 4% annuo e ha quasi raggiunto la piena occupazione, rischia invece di risultare assolutamente prematura in Europa o assolutamente controindicata in India e Cina.

Dunque c’è spazio per un po’ di ottimismo, per molta diplomazia e per tanta pazienza: nei prossimi mesi potrebbe non succedere assolutamente nulla e ciò, di per se, per i mercati sarebbe già un’ottima notizia…

Stefano di Tommaso




STOP ALLE VENDITE AUTO: UN SEGNALE IMPORTANTE CHE NON VA IGNORATO

Che a Settembre avremmo avuto le prime avvisaglie del rallentamento economico del Paese era chiaro quasi a tutti, ma che tale rallentamento potesse configurarsi in un crollo di consumi dei beni durevoli (quelli a metà strada tra spese voluttuarie e investimenti) forse non lo immaginava nessuno. Eppure a un giorno dalla fine del mese di Settembre le statistiche fanno piovere gelide notizie quantomeno per il settore dei beni durevoli che risulta ancora forse il più importante per l’industria nazionale: quello dell’auto.

 

IL TONFO DI FCA

Inutile dilungarci in dati e dettagli dal momento che tutti i media ne parlano in queste ore: le vendite complessive di autoveicoli sono discese di un quarto rispetto a Settembre di un anno fa . Ma ciò che fa più paura è il tonfo di Fiat Chrysler: il 40% in meno, evidentemente collegato alla forte quota di offerta con motorizzazioni Diesel e inoltre riferibile a un ulteriore importante fenomeno : le vendite ai privati si sono ristrette di più di quelle a imprese e società di noleggio.

STOP ALLE AUTO TRADIZIONALI

Il fenomeno dunque sembra essere di costume prima ancora che congiunturale: il Paese ha visto ridursi drasticamente i consumi privati e le vendite di auto “nazionali” (che sono probabilmente anche quelle con il minor contenuto di innovazione tecnologica). Guarda caso crescono le vendite di auto ibride, elettriche e “SUV” (cioè “sport utility vehicle”) come la nuova Alfa Romeo Stelvio.

 

L’INDOTTO AUTOMOBILISTICO

Inutile ricordare che l’industria automobilistica occupa in Italia circa 160mila persone (ivi compreso l’indotto della medesima che conta per più della metà del totale) e genera esportazioni per circa 20 miliardi di euro. Il collasso del mercato interno non aiuta il settore a investire sul proprio futuro e ad incrementare l’occupazione.

DECRETO EMISSIONI O TIMORI CONGIUNTURALI ?

Molti hanno attribuito la colpa di ciò all’incertezza ormativa che riguarda le emissioni dannose dei veicoli, che sicuramente ha contribuito a comprimere le vendite di auto Diesel. Ma quanto dipende dalla situazione di incertezza politica e dal “battage” dei “media” (gli organi di informazione) contro l’attuale maggioranza di governo e le sue politiche ?

I “guru” si sperticano ad affermare che non c’entra nulla ma io giurerei il contrario (e probabilmente insieme a me la maggioranza silenziosa del Paese) : il Paese è profondamente spaccato in due tronconi e tutti i santi giorni gli euroburocrati, i mercati finanziari e gli organi di informazione buttano benzina sul rogo che si è acceso. E la gente nel dubbio cosa fa? Risparmia! Ovviamente, mette fieno in cascina per possibili momenti peggiori.

I CONSUMI DUREVOLI SONO I PRIMI AD ESSERE RINVIATI

Aspettiamoci perciò se questo è vero di vedere ridotti consumi anche di molti altri beni durevoli, dall’arredo agli elettrodomestici. La spesa per consumi (complessiva) era cresciuta nel 2017 del +1,6% (più della crescita del Prodotto Interno Lordo, pari a +1,5%). Quest’anno vedremo, ma quasi sicuramente la transizione verso un’Italia diversa sarà difficile, tanto dal punto di vista dei rapporti con l’Unione Europea (forse anche a ragione) quanto nella correzione di tutti i numerosissimi squilibri interni dovuti alla cultura clientelare e assistenziale che si è stratificata nell’ultimo decennio.

L’INCERTEZZA ARRIVA DALL’ESTERO

Questo non significa che possiamo avere fiducia: se il quadro politico sembra avere un solido consenso popolare e sarà orientato a proseguire nelle politiche di stimolo alla crescita economica è ragionevole pensare che la speculazione contro i nostri titoli di stato non durerà all’infinito. Ma per il momento il segnale fornitoci dalla frenata dei consumi per i beni durevoli (i primi ad essere rinviati quando ci sono timori) è forte e chiaro: l’Italia non è l’America di Trump e la sua fragile economia rischia una brusca frenata se non si interviene in tempo e se la guerriglia degli organi di informazione prosegue imperterrita!

 

 

Stefano di Tommaso




ATTESE DELUSE !

Il mese di Settembre era iniziato sotto i peggiori auspici per i mercati finanziari ma nella seconda metà del mese le cose sembravano andare un filino meglio di ciò che si poteva temere. In particolare per la Repubblica Italiana, dopo lo shock della messa sotto osservazione da parte di Fitch, la prima delle Agenzie di Rating internazionali ad avere la revisione in scadenza, era iniziato a trasparire un moderato ottimismo, germogliato sulla linea della prudenza mostrata al mondo dal ministro dell’economia Giovanni Tria e a causa di una congiuntura internazionale favorevole. Ma era apparso chiaro a tutti che la positività dei mercati sullo spread, sull’appetibilità dei Buoni del Tesoro Poliennali e sulla borsa italiana (che contempla una forte presenza di banche, grandi detentrici di titoli di stato) era fortemente legata al deficit che sarebbe stato deciso nel Documento di Economia e Finanza, dunque nella data di Giovedì 27 Settembre, prevista per la sua pubblicazione.

BASTAVA IL 2%

I pronostici davano una decisa probabilità che quel deficit si sarebbe attestato al 2% del Prodotto Interno Lordo, o addirittura al di sotto di tale cifra, ma ciò derivava dall’aspettativa che avrebbe prevalso la linea del professor Giovanni Tria, che si era speso non poco nelle settimane precedenti a rassicurare i mercati. Bastava poco per dare loro soddisfazione e guadagnare tempo nel difficile rapporto dell’Italia con la finanza internazionale. Veniamo da anni molto peggiori, come si può vedere dal grafico qui allegato:

E invece la sorpresa generale, a mercati chiusi giovedì sera, nell’apprendere che quel numero (il 2% accettato dal consenso generale) era stato rivisto al rialzo (2,4%), è stata perciò grande! E per svariate ragioni:

I MOTIVI DELLA DELUSIONE DEI MERCATI

intanto se i nostri ministri dovevano proprio seguire la linea dell’incremento indiscriminato della spesa pubblica e dunque arrivare a scontentare i mercati finanziari al fine di prendere misure espansive di politica fiscale, potevano anche incrementarne la misura e cercare di ottenere in cambio un ulteriore obiettivo: quello di fare di più per far ripartire l’economia,
ma poi la situazione era così chiara circa la necessità di contrastare le incombenti difficoltà relative alla prossima revisione del rating da parte delle altre due Agenzie (Moody’s e Standard&Poor’s) come pure al futuro collocamento di titoli di stato a soggetti diversi dalla Banca Centrale Europea (che ha chiaramente lasciato intendere che con la fine del “Quantitative Easing” si avvia a non comperare più nuovi titoli italiani) che sarebbe bastato rimanere entro la soglia del 2% per fare tutti felici e contenti: il debito pubblico nazionale sarebbe cresciuto ancora ma in una misura considerata “accettabile” dal consenso generale.
La Banca Centrale Europea (BCE) è stata quasi l’unico acquirente dei titoli di stato negli ultimi due anni, come si può ben osservare dal grafico qui allegato:

Adesso se bisognerà emettere titoli di stato aggiuntivi rispetto a quelli in scadenza (il Ministro dell’Economia giura invece che la crescita programmata dalla manovra garantirà una discesa del debito dell’1% all’anno) nessuno sa come fare a collocarli senza che i tassi italiani tornino a crescere (in decisa controtendenza rispetto al resto d’Europa la cui banca centrale non prevedeva di lasciarli salire ancora per circa un anno) e che dunque il Paese rischi di avvitarsi nella spirale di maggiori tassi=maggiore spesa pubblica=minore sostenibilità del debito esistente.

IL DEBITO COSTA DI PIÙ

Ora per pareggiare il maggior costo del debito (già certo vista la brusca reazione dei mercati dello scorso Venerdì 28) nemmeno l’opzione di incrementare le tasse sembra oggi non percorribile se non addirittura in netto contrasto con tutte le misure previste del DEF, ma l’equazione in qualche modo dovrà quadrare, dunque il difficile equilibrio che sembrava accettare un deficit del 2% più per volontà politica internazionale che non per logica oggi sembra perduto. (Si veda il grafico qui allegato che riporta il calo dei corsi del Btp, che significa un incremento del,suo rendimento implicito):

Eppure bastava veramente poco, o forse basterà ancora veramente poco, per trovare a livello comunitario un punto di equilibrio rispetto alla linea politica del governo, e magari il falò delle risorse finanziarie che sono bruciate venerdì dopo l’annuncio verrà visto nelle prossime settimane come un fuoco di paglia, al quale seguiranno forse interventi dei vigili del fuoco, che potrebbero -controvoglia- essere proprio gli altri membri dell’Unione, pur di salvare quel che resta dell’Unione Europea. Che è anche Unione Monetaria. Venerdì infatti anche l’Euro è disceso così come tutte le borse europee (si veda il grafico allegato:)

I MERCATI NON ERANO COMUNQUE FAVOREVOLI

 


Ma se anche la tornata di fine settimana dei mercati fosse da considerare il prodotto di una serie di concause e si rivelasse alfine un fuoco di paglia, qualche bruciatura rimarrà comunque indelebile all’immagine di credibilità e autonomia che il ministro Tria stava cercando di costruirsi.

E se questo governo deve durare fino al 2023 sarà bene che la “chirurgia plastica” di qualche intervento dall’alto si mobiliti d’urgenza perché quello che Salvini e Di Maio hanno annunciato di voler fare era un’operazione di delicata affermazione della credibilità delle manovre espansive di politica fiscale, che andava ampiamente illustrata prima di tutto e, possibilmente, dopo aver passato il primo vaglio delle agenzie di rating.

Ora invece, per quanto Giovanni Tria possa illustrare il calcolo degli effetti espansivi sul Prodotto Interno Lordo della manovra (stimati nell’1,6% l’anno prossimo e nell’1,7% nel 2020), gli effetti positivi dei 15 miliardi di investimenti pubblici previsti ogni anno e la neutralità sui conti pubblici dell’operazione di rimozione della legge Fornero sulle pensioni, molti (strumentalmente oppure no) avanzeranno legittimi dubbi al riguardo. E nel frattempo rischiamo di beccarci qualche “downgrade” (abbassamento) del rating nazionale, con tutti i problemi che esso potrà creare.

LE ANALOGIE CON L’AMMINISTRAZIONE TRUMP

Donald Trump ha fatto in America un’operazione simile a quella che vogliono portare avanti i nostri nuovi governanti (fatta di stimoli all’economia di natura fiscale e sociale), che nonostante ricevesse le critiche di buona parte dell’intellighenzia e del “mainstream” (i media) che gli investitori hanno plaudito e che i mercati hanno gradito, ma l’Italia non è l’America e i predecessori degli attuali nostri ministri non hanno brillato per credibilità! Tanto più che i timori per l’eccesso di debito pubblico italiano sono comunque fondati perché senza l’ombrellone europeo i tassi dei nostri titoli di stato sarebbero più elevati.

I nostri ministri avrebbero dovuto curare molto di più la comunicazione con il resto del mondo.

IL BLUFF DELLA SPECULAZIONE “POLITICIZZATA”

Ciò detto bisogna anche spezzare una lancia contro la speculazione. All’estero tutti i commentatori indipendenti hanno notato che la reazione dei mercati è apparsa assolutamente eccessiva e fors’anche strumentale a chi vorrebbe ridurre il consenso dell’attuale maggioranza al governo. E così pure le parole del Presidente Mattarella non sono apparse esattamente scevre da ogni posizione politica, anzi!

Esiste tra l’altro una regola tra gli investitori: “Until support for the euro crumbles, here’s a rule of thumb for longer-term investors: If any eurozone bonds yield much more than Germany’s, buy them” riportata ieri dal Wall Street Journal, che quindi invita gli investitori a “scoprire il bluff” degli speculatori a matrice politica, perché la vera misura indicata dallo spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi non è il rischio di default del nostro Paese, bensì quello di uscita dall’Euro. E sintantoché non sarà all’orizzonte una tale ipotesi, l’Unione Europea non può permettersi di far saltare il tavolo.


Anche Fidelity Investments scrive la stessa cosa. Se di rischio dobbiamo parlare, afferma, è quello di uscita dall’Unione, che però non è all’ordine del giorno, nemmeno nell’opinione pubblica, come mostra il grafico qui riportato:


L’USCITA DALL’EURO NON È IN VISTA

Con una certa probabilità dunque l’allarme sui mercati rientrerà presto, ma la vera questione è se fa bene il governo italiano a spingere sull’accelerazione della crescita invece che sulla leva del debito. E la risposta è probabilmente si. La leva da utilizzare oggi non può essere quella del rigore, che si è visto aver fatto solo danni, ma quella della crescita economica, senza la quale la mole del debito non sarà mai sostenibile. Ma ciò vale non soltanto per l’Italia, bensì per l’intera Europa, che sa che deve continuare a lungo con la sua politica di tassi bassi, e cerca scuse come questa per darne la colpa a qualcuno.

E’ il medesimo motivo per cui non è irragionevole supporre che le quotazioni delle banche nostrane, oggi fortemente penalizzate dai titoli pubblici in portafoglio, in realtà non torneranno a brillare ancora per un lungo periodo, seppure un rimbalzo potrebbero vederlo presto. Tassi bassi e “mercati sedati” dal mix probabile di politiche monetarie restrittive e politiche fiscali espansive è possibile che non gioveranno ai conti futuri degli intermediari finanziari.

Stefano di Tommaso