NUVOLONI NERI ALL’ORIZZONTE

Il fenomeno del Dollaro forte, che si combina con quello del caos politico europeo, non congiura a favore delle quotazioni dell’ingente massa di debito pubblico del vecchio continente, nè delle quotazioni dell’Euro. Qualcuno porrebbe ritenere che sia tutta colpa di questo o di quel fatto, ma la verità è che, mentre l’Italia affronta uno dei momenti più bui della sua storia istituzionale, là fuori dei nostri confini (e anche di quelli europei) succede anche di peggio.

 

L’Unione Europea è un soggetto strano, a cavallo tra una nazione federale (che oggi non è, ma batte moneta unica come se lo fosse) e una specie di Commonwealth che invece di essere britannico è di fatto franco-germanico. L’Unione tuttavia ha un suo parlamento e, soprattutto, una “Commissione“ (che agisce talvolta con decisione nel premiare o sanzionare qualcuno, come si trattasse di un vero e proprio potere esecutivo, cioè di un governo). Ma un po’ dappertutto i singoli Stati membri vi sono rappresentati nella ripartizione degli onori e dei poteri innanzitutto sulla base della loro popolazione (per eleggere i deputati ad esempio) e ancor più sulla base del loro peso economico, e talvolta arrivano a spartirsi le cariche che contano sulla sola base del loro peso politico .

SI VA ALLO SCONTRO O E’ ANCORA POSSIBILE UN DIALOGO?

La ventata gelida che Domenica sera è sprizzata sulle massime istituzioni della Repubblica Italiana non gioverà a stabilizzare l’Unione o a spingere per il suo completamento fino a diventare una singola nazione. Oppure si? Certo se l’Italia dovesse arrivare a votare per l’uscita dall’Unione il sistema barcollerebbe non poco, ma è uno scenario che resta ancora oggi piuttosto improbabile, mentre è ancora plausibile che dopo la scazzottata un’intesa sul governo e tra questo e i suoi “partners” europei la si trovi.

Il problema a breve termine è tuttavia quello del rating (e della sua tendenza, cioè il suo ”outlook”) e dell’appetibilità conseguente del debito pubblico italiano, contro i quali peraltro ha sempre giocato una pesantissima speculazione internazionale. Se il gioco, come sembra, si fa duro e si va allo scontro frontale tra poteri politici chi rischia di rimetterci innanzitutto è il mercato dei capitali, che potrebbe vivere una fuga di risparmi dal nostro Paese paragonabile forse solo a quella dell’Argentina. Gli effetti possono apparire drammatici e rapidissimi, mentre per porvi rimedio probabilmente ci vorrà molto tempo.

LO SCENARIO INTERNAZIONALE

Ma la situazione dell’Italia va inquadrata in un contesto internazionale già di per sé negativo e incerto, in cui i capitali stanno comunque fuggendo da buona parte dei Paesi Emergenti o comunque “non centrali” per la finanza globale, tanto per timore di rimanerne intrappolati, quanto per il rialzo dei tassi americani e di conseguenza del Dollaro, che di per sé rischia di fare molti danni alle economie di quei Paesi.

È in questo contesto internazionale (ed extraeuropeo) che vanno lette tanto la situazione politica rovente del contrasto tra cittadini dei Paesi più deboli dell’Unione e poteri europei (che non promette nulla di buono) quanto la possibilità che l’Italia subisca una forte pressione al ribasso sulle quotazioni dei propri titoli di Stato. Il fatto che il resto dell’Unione faccia quadrato e tenga i propri tassi ai minimi della storia ovviamente non aiuta l’Italia che avrebbe bisogno di rendersi più appetibile mentre ciò non fa che aumentare lo spread con i tassi tedeschi e rendere più interessante la fuga dei capitali.

Immaginare manovre che contrastano il rischio di una simile deriva dovrebbe trovarsi al primo posto tra le priorità della Banca Centrale Europea, che però ha probabilmente le mani legate da un mandato assai stretto e dalla difficoltà di agire in fretta visto che il suo Governatore rappresenta moltissimi Stati eterogenei fra loro.

L’EVENTUALE SCIVOLATA DEL RATING ITALIA POTREBBE FUNZIONARE DA DETONATORE PER I MERCATI FINANZIARI

Ma poi bisogna ricordarsi anche del possibile “effetto domino”: se la situazione europea (o anche solo Italiana) degenerasse, poiché riguarderebbe valori di migliaia di miliardi (trilioni, come dicono gli Americani) di Euro, ecco che anche gli altri mercati ne risentirebbero negativamente, contribuendo a sospingere la migrazione dei capitali verso le piazze (e le valute) più sicure o più neutrali, ma anche a creare volatilità nelle borse di tutto il mondo.

Il crepuscolo del lungo ciclo economico positivo che il mondo fino all’anno in corso ha vissuto per quasi un decennio anche in modo sincronizzato, la prospettiva di una riduzione della liquidità disponibile sui mercati e il rischio che il super-Dollaro non si arresti e faccia danni a catena tra i Paesi Emergenti (dove oramai risiede buona parte della popolazione mondiale e dove si alloca una fetta consistente del prodotto globale lordo) possono risultare fattori decisivi per riuscire a creare uno smottamento consistente sui mercati finanziari. Anche in quelli più solidi.

E questo rischio alimenta le aspettative negative che in tal modo potrebbero auto-realizzarsi, quantomeno spingendo gli operatori a minor fiducia sul futuro e dunque a ridurre gli investimenti strutturali e scientifici, che sono alla base dello sviluppo economico. Anche la voglia di trasformare gli investimenti mobiliari in liquidità “‘tattica” contribuisce a dare forza al Dollaro, creando le condizioni per una possibile tempesta valutaria.

Dio non voglia…

Stefano di Tommaso




CHE FINE HA FATTO LA CURVA DI PHILLIPS?

Per la teoria economica la curva di Phillips, dalla sua formulazione iniziale (1958) in avanti, non era mai stata messa in discussione sino a qualche mese fa. Teorie come quella sulle aspettative razionali (NAIRU) (non-accelerating inflation rate of unemployment) sono nate per cercare di spiegare la stagflazione. Oggi sembra accadere l’opposto della stagflazione: l’economia cresce ma con bassa inflazione.

 


Ma la teoria del livello naturale di disoccupazione, che distingue tra curve di Phillips di breve o di lungo periodo, nasceva dalla considerazione che con una disoccupazione effettiva al di sotto di esso, l’inflazione accelera, con una disoccupazione al di sopra di esso decelera. Tutto sta nel comprendere se esiste un tasso naturale di disoccupazione (o NAIRU), cosa oggi messa in discussione dai fatti. Sembrava a tutti una grande ovvietà il fatto che esista un meccanismo di azione e reazione degli eventi economici che crea una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e l’inflazione dei prezzi: vediamo il perché. IL CONCETTO SOTTOSTANTE Se la disoccupazione scende vuol dire che la domanda di lavoro (quella delle imprese che assumono personale) sale più dell’offerta di lavoro (quella di chi cerca un impiego). Ma se la domanda di un bene o un servizio supera l’offerta allora si creano le condizioni perché possa salire il prezzo di quel bene o quel servizio. In caso di crescita della domanda di lavoro da parte delle imprese si può dunque ritenere che la relativa retribuzione possa incrementarsi, con l’ovvio limite che quest’ultima dipende ovviamente anche da altri fattori (la disoccupazione pre-esistente, la precarietà del lavoro stesso e gli oneri sociali che si sommano al costo del lavoro). In un mondo normale la tendenza ad un incremento dei salari porterebbe ad una crescita dei consumi e, in ultima analisi, ad una risalita dei prezzi della maggior parte dei beni e servizi, come diretta conseguenza dell’incremento dei consumi. Ma quello in cui stiamo vivendo oggi evidentemente non funziona più così: con la ripresa economica che un po’ in tutto il pianeta si è manifestata negli ultimi anni la disoccupazione è scesa, i consumi sono tornati a crescere, ma lo stesso non è accaduto ai prezzi della maggior parte di beni e servizi ricompresi nel “paniere” statistico con il quale si misurava l’inflazione. LE RAGIONI DELLA MANCATA FIAMMATA INFLAZIONISTICA  Le ragioni di tale vistoso fenomeno di “decoupling” tra occupazione e inflazione sono incerte e altresì probabilmente numerose ed eterogenee: – dall’incremento del commercio elettronico che permette a chiunque, con un semplice “clic” sul telefonino, di acquistare beni e servizi provenienti dall’altra parte del mondo (e in particolare dai cosiddetti “Paesi Emergenti”, dove la manodopera costa molto meno e dove la sovracapacità produttiva è ampia),

– alla disponibilità di posti di lavoro temporanei e/o precari, che costringe il lavoratore ad accantonare parte di quanto guadagna per i momenti in cui sarà disoccupato, rimandando la spesa per consumi a tempi migliori,

– per passare poi alla riduzione della copertura sanitaria e previdenziale da parte dello Stato, che orienta il denaro guadagnato dal lavoratore verso capitoli di spesa (sanità e assicurazioni private) che in precedenza erano coperti dalla mano pubblica,

 – fino a tenere conto del crescente grado di automazione della produzione e dei servizi, che ne ha spesso calmierato il costo. Un minimo l’inflazione si è vista a causa della forte impennata dei prezzi delle materie prime, per la massiparte espressi in Dollari che di recente si sono rivalutati, e segnatamente quello del Petrolio, quasi raddoppiato in due anni, ma in un’economia globale sempre più digitalizzata questo fattore conta progressivamente di meno, tant’è che l’inflazione non è cresciuta proporzionalmente. Ma soprattutto l’inflazione non ha affatto risentito della maggior occupazione e della (relativa) ripresa dei consumi. IL CASO DEL GIAPPONE  Un po’ in tutto il mondo è dunque oramai acclarato che la disoccupazione scende ma l’inflazione non riparte, in particolar modo negli Stati Uniti d’America ma con punte quasi parossistiche come in Giappone dove la banca centrale ha immesso una montagna di liquidità acquisendo quasi il 90% dei titoli del debito pubblico nazionale, giunto a livelli record:


In altri tempi e in altri luoghi ciò avrebbe scatenato l’inflazione ma in Giappone invece l’economia è cresciuta l’anno scorso di quasi il 2% e, misurata con parametri diversi dall’inflazione e tenuto conto della specificità di quel Paese, essa tende non solo a crescere ma addirittura a surriscaldarsi. Ciononostante l’inflazione non si manifesta quasi. Si vedano i due grafici qui riportati (dove si vede un tasso di disoccupazione tornato ai livelli di vent’anni addietro):

 

E questo accade in un Paese dove la percentuale di occupati sul totale della popolazione è tra i più alti del mondo: in Giappone lavorano quasi 67 milioni di persone su un oltre 127 milioni: quasi il 53% mentre in italia siamo a poco più di 23 milioni di occupati su una popolazione di poco più di 59 milioni, pari al 39%. IL GIAPPONE E’UN POSSIBILE PRECURSORE  Il caso giapponese potrebbe aver solo anticipato la tendenza che magari si svilupperà anche negli altri paesi OCSE, con il rischio tuttavia che la mancata crescita dell’inflazione alimenti la bolla speculativa dei valori mobiliari e immobiliari (con tutti i rischi che ne conseguono) , stante anche la progressione della concentrazione della ricchezza in poche forti mani.

Probabilmente l’attuale inconsistenza dell Curva di Phillips corrisponde ad un progressivo impoverimento dei ceti più bassi della popolazione dei paesi più sviluppati, ma questo fatto, come dimostra il colossale lavoro di ricerca di Thomas Piketty è ancora difficile da dimostrare.

 

Stefano di Tommaso




LA DITTATURA DEL DEBITO

Per una volta che l’Italia sta provando a scrollarsi di dosso il vecchio (e corrotto) establishment politico che l’ha condotta all’attuale livello di demagogia e indebitamento, ecco che i mercati internazionali fanno un balzo indietro e minacciano di ricacciare il paese in una recessione profonda derivante dalla riduzione del credito disponibile, da tassi di interesse lontani da quelli medi europei e dalla fuga dei capitali e dal conseguente possibile crollo repentino degli investimenti (con la più o meno ovvia conseguenza di una forte ripresa della disoccupazione).

La minaccia è quantomai concreta, sia perché il paese è già stato in una simile situazione nel 2011 quando si è voluto far crollare con le medesime armi il governo Berlusconi, come pure perché le immagini di una Grecia messa a ferro e fuoco dai manifestanti e dove si faceva fatica a trovare uno sportello bancario o un bancomat aperto.

È una minaccia che si attuerebbe con il crollo della credibilità dei titoli di stato, oggi detenuti per un 20% circa dalla banca centrale europea e per un 35% circa da stranieri: cioè per la maggioranza da investitori non italiani.


La crisi del 2011 dimostra peraltro che quel che conta agli occhi degli operatori del mercato finanziario non sono i fatti bensì le sensazioni: se la paura si diffonde (o viene diffusa ad arte) nessuno riuscirà a contrastarla con argomentazioni razionali.

L’indicatore più concreto per soppesare il livello di paura è quello del mercato dei contratti che offrono protezione contro il timore di mancato ripagamento del debito pubblico: i CDS (ovvero i:“credit default swaps”). Purtroppo il quadro non è positivo:


Non solo si registra un‘ impennata del 43% nell’ultima settimana ma se si va a guardare di chi siamo in compagnia viene ancora più paura! L’indice mostra la necessità di pagare 140 punti base (l’1,4% del capitale di riferimento) per proteggersi dal rischio di default dell’Italia: un’enormità se paragonato alla Spagna o al Portogallo.

Eppure c’è chi vede in questa particolare situazione di mercato una bella opportunità: nelle ultime ore infatti lo spread tra I rendimenti decennali italiani e quelli tedeschi sembra essere tornato leggermente indietro e, probabilmente, a ragione:


La congiuntura del Paese infatti è su un crinale: o si inabissa (ai livelli del 2011 o anche peggio, visto che i governi che si sono succeduti a quello di Berlusconi hanno aggiunto diverse centinaia di miliardi di euro al debito preesistente) o risale, perché in qualche modo si diffonde la sensazione che l’Italia terra fede alle sue promesse.


Inutile notare che la dittatura del debito in questi frangenti non poteva essere più palese: se non metti al posto giusto le persone che dico io, a prescindere da quello che faranno le persone che dici tu, io ti faccio fallire!

Con una buona dose di realismo infatti, né le forze politiche che hanno vinto le elezioni e che si apprestano a governare, nè un presidente della repubblica messo lì dal precedente establishment, lasceranno che la minaccia si trasformi in realtà.

L’Italia è il paese dei compromessi e gli italiani vogliono che le cose cambino ma non sono degli eroi: persino il più ostinato dei leghisti si rende conto del fatto che esagerare non conviene a nessuno. E se il miracolo di un compromesso avverrà (e io lo credo) probabilmente gli attuali livelli dello spread e dei CDS sono un‘ affarone per la speculazione, perché non dureranno a lungo. L’Italia d’altronde fa bene a volere un cambiamento, vista la mala parata della situazione economica che la affligge da oramai più di un ventennio:


sebbene appaia agli occhi di un osservatore attento oramai un Paese spezzato chiaramente in due tronconi: il nord che lavora ed esporta (con punte di disoccupazione al 3% del nord-est) e, con rare eccezioni, il sud che poltrisce e riposa sui trasferimenti di Stato:


Anche nel voto la divergenza si è riflessa pesantemente: il “Movimento“ ha stravinto al sud, la Lega è emersa a nord. L’eterogeneità delle due forze politiche non potrebbe essere più grande, ma sono accomunate dalla volontà di respingere la corruttela e gli sprechi, nonché dalla voglia di esprimere un rinnovamento, che nessun euroburocrate o egemone americano potrà mai tacitare con motivazioni più o meno proditorie.


Se il miracolo del compromesso invece non dovesse materializzarsi probabilmente all’Italia converrebbe evitare di ripercorrere i passi del 2011, sia perché si è visto dove ci hanno portato, che per il fatto che tutti gli economisti si rendono conto che la situazione attuale va rovesciata in qualsiasi modo, tanto con una ristrutturazione intelligente dell’attuale massa di debito, che con la possibilità di uscita dall’euro, che si è visto il Gran Bretagna essere concreta e tutt’altro che foriera di conseguenze nefaste come il coro dei mass media avrebbe voluto far credere al mondo.

Ma quest’ultima è una prospettiva che condannerebbe a sua volta l’Unione Europea a rivedere i suoi fondamenti e probabilmente la Germania a perdere i vantaggi che la divisa unica le ha generato. E realisticamente non conviene proprio a nessuno!

Come ha dichiarato recentemente un commentatore fortemente europeista come Martin Wolf, l’Italia è troppo grande per essere salvata, ma anche troppo grande perché fallisca.

Stefano di Tommaso




LA COPERTA CORTA

Difficile giudicare un’alleanza politica rivoluzionaria come quella tra Lega e 5 Stelle se prima non si fa il punto sulla sua capacità della coalizione di forze nuove di trovare un equilibrio tra esigenze di rinnovamento (che costituiscono il motivo per il quale gli Italiani le hanno votate) e oculata gestione di un debito mostruoso, con tutti i condizionamenti esterni che quest’ultimo comporta, in particolare quelli europei e relativi alla moneta unica.

 

DUE FORZE ESTREMAMENTE ETEROGENEE

Prima di giudicare il tentativo dei due partiti di costituire una coalizione di governo bisogna considerare il fatto che da un lato esso rispetta il voto di quella metà (più o meno esatta) degli italiani che le hanno votate e rispetta anche il dettato dell’attuale legge elettorale, che prevede una democrazia parlamentare proporzionale e quindi per definizione un governo sottomesso al compromesso tra forze tra loro assai eterogenee. E i due schieramenti non potrebbero esserlo di più, perché:

•la provenienza dei voti andati ai 5Stelle è per la massima parte dai partiti di sinistra e dal sud del paese;

•i voti andati alla Lega e ai suoi alleati provengono invece dal nord e dai cosiddetti “ceti produttivi” cioè da quella miriade di lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, professionisti e coloro che più erano stufi delle troppe tasse e dell’infinita burocrazia imposta dalla prima (e anche dalla seconda) Repubblica.

L’IMPORTANZA DELLA COALIZIONE PER FARE LE RIFORME

Dall’altro lato bisogna rammentare che Lega ha stretto in sede elettorale un’alleanza politica con altre due forze politiche, più marcatamente conservatrici. Quell’alleanza oggi rappresenta un indubbio vincolo ma anche la forza nei confronti dei penta-stellati : è senza dubbio quella che ha vinto le elezioni e che in Francia (o in molti altri paesi con voto maggioritario) sarebbe andata al governo. Venerdi quell’alleanza è stata messa in discussione da Berlusconi sebbene sia evidente che non basterà una battutaccia estemporanea a buttarla giù. Ad esempio l’altro partner della triade (Fratelli d’Italia, capeggiato dalla Meloni), sta invece a guardare e non si sbilancia.

Se si tiene conto del gruppo di tre partiti cui Salvini è legato questo governo può contare su una maggioranza schiacciante in Parlamento (poco meno del 70%, dunque idonea anche a far passare importanti riforme istituzionali) e potrebbe teoricamente permettersi di rivoltare l’Italia come un calzino, sempre Europa e Divisa Unica permettendo.

LA CAUTELA DELL’EUROPA

E qui viene il punto: la verità è che l’Unione Europea non è solo preoccupata per le sorti del debito pubblico italiano (qui sotto il grafico dell‘impennata dei tassi impliciti del BTP decennale all’annuncio del nuovo governo) e per la credibilità della nuova leadership.

La coalizione Franco-Germanica che la guida con polso di ferro è anche assai poco felice di vedere l’Italia cambiare davvero e riformarsi, per motivi spesso assai poco confessabili. Chiama Lega e 5 Stelle “populisti” (e un po’ lo sono) e li considerano ipocritamente sognatori, ma lo sanno anche a Bruxelles che sull’altro 50% dei parlamentari votati (o meglio nell’altro 30% se teniamo conto anche dell’alleanza salviniana) essa non può proprio contare. Sia perché gli Italiani -se si andasse oggi a nuove elezioni- non cambierebbero granché l’orientamento espresso, nonché per il fatto che il partito di governo che più ha ossequiato i diktat europei (il PD) oggi è allo sbando, come pure il suo leader, dopo che il referendum sulle riforme costituzionali è stato bocciato.

Il governo che deve ancora insediarsi sarà perciò costretto a muoversi su un percorso irto di ostacoli e puntellato da paletti posti da praticamente chiunque, mentre molte delle riforme necessarie sono notoriamente impopolari e richiedono un orizzonte di programmazione politica lungo e lungimirante senza che le leve siano tutte in mano a chi governa perché la Banca d’Italia non batte più moneta e un terzo abbondante del debito pubblico è in mano straniera. Per parlare più chiaramente in Italia un’uscita dall’Unione Europea sarebbe letteralmente impossibile senza prima aver pianificato anche l’uscita dall’Euro (che la Gran Bretagna non aveva), cosa peraltro ancora più complessa della prima.

 


IL PESO DELL’ITALIA NELL’UNIONE

Tuttavia l’Italia conta non poco negli equilibri e nell’economia dell’Euro-Zona e l’eventuale crisi di credibilità del debito italiano si ripercuoterebbe inevitabilmente anche sui suoi principali vicini di casa. L’italia rappresenta infatti il secondo paese manifatturiero d’Europa, il quarto prodotto interno lordo e il primo debito pubblico dell’Unione. Anche Lega e 5Stelle lo sanno bene e intendono premere su Bruxelles per ottenere concessioni a tutto campo in cambio del rispetto degli accordi comunitari.

IL PROGRAMMA DI GOVERNO

Ecco perché a leggere il programma di governo che i due partiti hanno pubblicato l’altro giorno sembra che i principali destinatari di buona parte delle riforme

auspicate siano proprio quegli euro-burocrati dell’Europa franco-germanica che con le loro direttive comunitarie, spesso scritte su misura per i suoi egémoni, hanno sino ad oggi imposto una sorta di pensiero unico e che, a

dire dei futuri governanti, hanno troppo spesso favorito il mercantilismo e la grande finanza, lasciando senza risposta le istanze sociali e le esigenze di snellezza delle piccole e medie imprese.

L’accordo di governo sembra quasi una dichiarazione di guerra alle direttive comunitarie e ai loro ispiratori, con una strizzatina d’occhio alla Russia di Putin (nei confronti della quale peraltro la Merkel ha fatto ancora di più senza che nessuno in Europa se ne risentisse).

UN ORIZZONTE TEMPORALE AL MASSIMO DI UN ANNO

È possibile perciò che gli investitori staranno alla finestra senza allarmarsi troppo di tutto ciò e senza fuggire dall’Italia come hanno fatto di recente dalla Grecia e dall’Argentina? Non è probabile, visto anche l’accentuarsi dello spread dei rendimenti richiesti dal mercato ai titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi, ma la verità è che l’orizzonte di questo governo è al massimo di un anno (fino alle elezioni europee del 2019). Dopo la nuova conta dei voti si capirà se la coalizione può proseguire.

Ma soprattutto il successo dell’iniziativa dipenderà da quanto intelligentemente verrà gestita la situazione, da quanto le riforme e gli altolà alle direttive comunitarie potranno almeno riuscire a favorire la crescita economica nazionale, da quanto credibile e solida nei fatti apparirà questa coalizione di governo, dal momento che la principale preoccupazione del mercato dei capitali è quella di sapere se il debito pubblico verrà onorato.

LA TEMPISTICA PUÒ RISULTARE FAVOREVOLE

Certo, l’Europa nel suo complesso rischia di subire -con questo nuovo governo italiano- un altro duro colpo, dopo la Brexit e dopo che molti stati comunitari hanno fatto sapere a Bruxelles che con le imposizioni devono andarci più piano. Il Dollaro forte incombe insieme ad un rialzo generalizzato dei tassi di interesse e la Banca Centrale Europea dovrà forse tenerne conto se la tendenza al rafforzamento proseguirà. Ma al momento una svalutazione dell’Euro viene salutata positivamente dagli esportatori e i tassi interni restano molto bassi.

Dunque la tempistica non potrebbe essere più favorevole alle forze nuove per “provarci” a mostrare agli Italiani che qualcosa può cambiare davvero senza per questo risultare necessariamente poco credibili agli occhi del resto del mondo.

L’ITALIA NON PUÒ PERMETTERSI UNA BREXIT, A MENO CHE…

Sicuramente l’America dell’amministrazione Trump fa l’occhiolino a questa possibilità e la Germania della Merkel ha già alzato abbastanza i toni per aver voglia di proseguire indiscriminatamente. La Gran Bretagna un paio d’anni fa ha votato la Brexit perché non sembrava esserci verso di cambiare l’orientamento dell’Unione Europea. Ma se i toni di quest’ultima oggi si ammorbidissero con l’Italia, magari anche il dialogo con il Regno Unito potrebbe divenire più felice.

Tuttavia Roma non è Londra e il debito pubblico della prima non è paragonabile con quello della seconda. Dunque con i vincoli della divisa unica e con i suoi lacci e lacciuoli chi governa dovrà necessariamente riuscire a convivere ma è altrettanto vero che nel caso che l’intero mercato finanziario europeo prenda un’imbarcata simile a quella presa la scorsa settimana dai titoli italiani (tutti, non solo quelli di Stato) a causa del precipitare delle aspettative, questo costringerà l’Unione Europea a prendere una posizione per permettere alla Banca Centrale di intervenire a sostegno dei titoli Italiani.

Ecco che, se lo farà indirettamente l’Unione avrà accettato -sebbene a termine- di convivere con il governo che deve nascere. E se non lo farà allora quest’ultimo troverà un’ulteriore ragione per accusare l’Unione di non essere davvero tale.

Stefano di Tommaso