CRIPTOVALUTE

Una rivoluzione silenziosa sta sovvertendo l’ordine costituito dalle autorità monetarie: attraverso la rete i privati hanno iniziato a stampare moneta.  La più famosa di tutte le nuove monete (dette “criptovalute” perché la gestione decentralizzata delle transazioni ne permette l’assoluta riservatezza) si chiama Bitcoin e usa una tecnologia peer-to-peer (punto a punto) che esclude la presenza delle Banche Centrali  e non prevede controlli da parte di Autorità monetarie. Ciò ha provocato una brusca reazione da parte di queste ultime, che in buona parte del mondo sono recentemente intervenute per opporvisi, quando ne hanno osservato la diffusione dilagante. Ma il mondo va sempre avanti e le cose stanno per cambiare.

 

La creazione di criptovalute viene effettuata collettivamente dalla rete: essa non necessita di alcuna autorità centrale perché la blockchain (la tecnologia che permette di certificarne la validità delle transazioni) è “open-source” vale a dire che la proprietà intellettuale della sua progettazione è pubblica. Di conseguenza nessuno la possiede o controlla il Bitcoin e nessuno può influenzarne il funzionamento. Ogni nodo partecipa attraverso le proprie transazioni al conio e quindi alla creazione della base monetaria che avviene secondo regole matematiche ed è automatizzata. Non c’è tracciabilità delle transazioni e soprattutto non c’è la necessità -né è compatibile con il meccanismo- l’esistenza di un autorità monetaria.

Le legislazioni di vari Paesi, anche allo scopo di tassare le plusvalenze realizzate, ancorché non monetizzate sulle oscillazioni del valore delle criptovalute, le assimilano fiscalmente a quelle sui titoli denominati in valuta straniera.
I governanti, oggi tutti assorbiti nel sistema della “mediocrazia”,  sono molto più attenti all’aspetto fiscale sul quale sono chiamati costantemente a rendicontare ai propri elettori, e nel caso dell’Europa, anche ai propri colleghi dell’Unione, piuttosto che non alla regolamentazione di un fenomeno che molto probabilmente nei prossimi anni determinerà, e che in qualche modo già sta determinando, la più importante rivoluzione digitale nella determinazione della base monetaria.

Alcuni cenni storici: da Bretton Woods allo svincolo delle valute dalle riserve auree delle nazioni

La conferenza di Bretton Woods, che si tenne dal 1º al 22 luglio 1944 nell’omonima località nei pressi di Carroll (New Hampshire) per stabilire le regole delle relazioni commerciali e finanziarie internazionali tra i principali paesi industrializzati del mondo occidentale, aveva generato una una serie di accordi per definire un sistema di regole e procedure atte a controllare la politica monetaria internazionale, che aveva stravolto il sistema previgente, denominato “Gold Standard”.
Con gli accordi di Bretto Woods si era passati dalla stampa della moneta legata alle riserve auree di ciascuna nazione, a un ordine monetario flessibile, concordato tra le singole nazioni e gli Stati Uniti d’America. Questi ultimi, quale economia ègemone nel mondo, assicuravano la stabilità monetaria riservandosi di fatto di regolare i rapporti monetari tra stati nazionali indipendenti attraverso il Dollaro Americano, il quale a sua volta manteneva la convertibilità in oro.
In pratica il sistema divenne così un “Gold Exchange Standard”, basato sulla definizione di rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al Dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro ma senza che di fatto vi fosse da parte delle altre nazioni un controllo della quantità di Dollari stampati.

Negli anni ‘60 tuttavia il mondo visse un boom economico senza precedenti e, con la guerra del Vietnam ed il programma di welfare chiamato Grande Società, gli USA fecero aumentare di molto la loro spesa pubblica finanziandola con la stampa eccessiva di nuovi Dollari, mettendo in crisi il sistema. Il timore per il crescente indebitamento degli USA aumentava le richieste di conversione dei Dollari nell’oro detenuto dalla Federal Reserve Bank of America.
Ciò spinse il presidente statunitense Richard Nixon, il 15 agosto 1971, ad annunciare, a Camp David, la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Le riserve statunitensi si stavano pericolosamente assottigliando: il Tesoro degli USA aveva già erogato oltre 12.000 tonnellate di oro.

Nella gestione del Fondo Monetario Internazionale erano già operativi i Diritti Speciali di Prelievo con un valore puramente convenzionale di un diritto speciale di prelievo per un dollaro.  Nel dicembre del 1971, il gruppo dei Dieci firmò lo Smithsonian Agreement, che mise fine agli accordi di Bretton Woods, svalutando il dollaro e dando inizio alla libera fluttuazione dei cambi. Nel febbraio del 1973 ogni legame tra oro e dollaro e tra quest’ultimo e le altre valute nazionali venne definitivamente reciso, così che il Gold Exchange Standars fu sostituito dal sistema attuale di cambi flessibili e dalla sparizione del riferimento ad un valore tangibile (quale l’oro detenuto) della base monetaria emessa da ciascuna nazione.
Per quello che riguarda l’Europa, infine, l’Euro divenne la moneta degli stati dell’Unione europea dal 1 gennaio 2002. Inizialmente i paesi aderenti furono dodici, passati poi a diciassette nel corso di un lungo processo, i cui passi iniziali furono rappresentati dal Trattato di Maastricht del 1992 e dalla nascita della Banca Centrale Europea, a cui le banche centrali delegarono la funzione monetaria.

L’egemonia delle Banche Centrali

La breve cronistoria qui rappresentata (in modo così sintetico da non avere nessuna pretesa di rigore espositivo) ha semplicemente la funzione di esprimere ciò che era assolutamente lapalissiano, ossia che, storicamente e fino ad oggi, la funzione monetaria è sempre stata regolata direttamente dagli Stati Sovrani prima, e dalla Banche Centrali poi. Queste ultime nel tempo si sono si sono sottratte al controllo dei rispettivi Stati sovrani in nome della necessità di rigorosa autonomia, e si sono attribuite addirittura funzioni parzialmente diverse tra loro: per esempio la Banca Centrale Europea, per la particolare circostanza determinata dal fatto che a fronte una moneta unica non vi sia un governo unico e quindi un sistema-paese economico sottostante, ha come fine esclusivo quello della stabilità monetaria, a differenza delle altre principali banche centrali, che hanno quale prima funzione quella di sostenere l’economia del paese e negli USA addirittura di monitorare la disoccupazione.

Qualunque sia il fine, nonostante questa particolare condizione di “orfano” della Banca Centrale Europea, le determinazioni della base monetaria, fino alla nascita delle criptovalute, sono scelte consapevoli, giuste o sbagliate che siano, guidate da una precisa volontà, dall’accordo tra i Paesi membri dell’euro-zona e da scelte di politica economica. Le banche centrali, sulla base di regole e accordi, che lentamente potevano mutare nel tempo, erano fino a ieri le uniche a potere stampare moneta perchè erano le uniche a poter avere la credibilità per farlo.

Sta di fatto che il sistema delle monete diverse dal Dollaro, quelle cioè dove lo Stato non riesce a determinare quanta moneta debba essere stampata per pagare i debito pubblico (come può avvenire negli Stati Uniti d’America), è stato percepito dagli operatori, ma anche dagli Stati stessi, come un’ingiusta imposizione e un vincolo alla crescita. I modelli economici tradizionali non possono infatti disgiungere nel loro funzionamento gli aspetti legati alla quantità di moneta iniettata nel sistema e quelli legati alla quantità di debito.

Joseph Stiglitz, premio Nobel e già vice presidente della banca Mondiale osserva:

“Vediamo gli errori concettuali alla base del progetto dell’euro (…). quando si crea un’area monetaria unificata si vanno ad eliminare due meccanismi di aggiustamento delle diversità dei sistemi economici sottostanti: i tassi di cambio e i tassi di interesse. Degli shock sono perciò inevitabili e, in assenza di meccanismi di aggiustamento, si va incontro a lunghi periodi di disoccupazione. I 50 stati federati degli Usa hanno un bilancio unitario a livello federale e due terzi della spesa pubblica negli Stati Uniti sono a livello federale. Quando uno stato come la California ha un problema, può contare ad esempio sull’assicurazione pubblica contro la disoccupazione, che è finanziata da fondi federali. Se una banca in California è in crisi, viene attivato un fondo di emergenza anch’esso dotato di risorse federali. Un’altra differenza di fondo tra gli stati che compongo gli Usa e quelli dell’Unione Europea è che nessuno negli Stati Uniti si preoccuperebbe per lo spopolamento del Sud Dakota a seguito di una crisi occupazionale, anzi, l’emigrazione è vista come un meccanismo fisiologico.”
“Ma in Europa un’emigrazione come quella che ha caratterizzato la componente più giovane e istruita della popolazione del sud Europa dove la disoccupazione giovanile è a livelli elevatissimi ha effetti negativi di impoverimento di quei paesi, con tensioni sociali e frantumazione delle famiglie. Sono costi sociali che non sono calcolati dal Pil. Tutto ciò era stato in qualche modo previsto nel momento in cui si è deciso di introdurre l’euro (…)”
“Quali altri errori sono stati compiuti con l’introduzione dell’Euro? Innanzi tutto l’idea che le cose si sarebbero risolte se i paesi avessero mantenuto un basso rapporto tra deficit o debito pubblico e Pil.  È l’idea che sta dietro al Fiscal compact. Ma non c’è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai criteri di convergenza adottati in Europa.
L’aver introdotto un Fiscal compact che impone vincoli ferrei al disavanzo e al debito non risolverà i problemi, né aiuterà a prevenire la prossima crisi.
Un altro elemento che non è stato valutato appieno è che quando un Paese si indebita in euro, piuttosto che in una moneta emessa dal paese stesso che contrae il debito, si creano automaticamente le condizioni per una crisi del debito sovrano. Il rapporto debito/Pil negli Stati Uniti è analogo a quello europeo ma gli Usa non avranno mai una crisi del debito sovrano come quella che ha investito l’Europa. Perché? Perché l’America si indebita in dollari, e quei dollari verranno sempre rimborsati perché il governo degli Stati Uniti può stampare altri propri dollari.
La crisi che ha colpito i debiti sovrani di numerosi paesi europei negli ultimi anni è simile a quanto ho visto molte volte quando ero capo economista della Banca Mondiale: paesi come l’Argentina o l’Indonesia hanno vissuto profonde crisi causate proprio dal fatto che si erano indebitati in valute che non potevano controllare. Quando questo avviene c’è sempre il rischio di una crisi del debito, e in Europa le condizioni per questo tipo di crisi sono state create con l’introduzione dell’euro”.

Difficile arrestare il progresso delle Criptovalute

Ben si capisce quale sia la portata innovativa del fenomeno delle Criptovalute, probabilmente destinate a diventare nel tempo un’ordinario strumento di pagamento una volta rimossi i divieti e i sospetti che sino ad oggi ne hanno frenato lo sviluppo. E non è difficile immaginare che, in futuro, esse possano addirittura diventare moneta di indebitamento degli Stati Sovrani. D’altronde la volatilità del prezzo delle criptovalute sia di fatto molto più bassa delle svalutazioni che subiscono alcune monete del Sud America e dell’Africa. È difficile valutare quale sarà la portata innovativa di un fenomeno che, di fatto, consente a chiunque, o quasi di generare dei nuovi Token, e quale potrebbe essere l’effetto dell’introduzione di una blockchain da parte di  un Paese, che di fatto, si troverebbe a generare un Token, ossia una moneta elettronica da affiancare alla moneta tradizionale, forse attraendo una serie di investimenti che, per esempio avrebbero l’effetto degenere di sfuggire a ogni forma di tracciabilità.

Bitcoin, era nata come strumento per l’acquisto dei videogiochi, e la genialità del suo impianto, non era sufficiente a lasciare presumere una diffusione di tal genere come strumento valutario. Emulando e cercando di migliorare alcuni difetti congeniti di Bitcoin, sono nate e si sono sviluppate, numerose altre criptovalute, denominate generalmente “altcoin”, cioè, appunto “coin alternativi”. La più diffusa, al momento in cui scrivo è certamente Ethereum, che nasce proprio per consentire le transazioni.

Le “Initial Coin Offer” e i pericoli ad esse legati

Una ICO è una Initial Coin Offer. Ovvero un’offerta iniziale di una nuova moneta, un’ICO implica la distribuzione di coin o token tra le parti interessate. Nell’ambito delle criptovalute i token sono le monete vere e proprie, quelle fisiche che si possono tenere nel proprio portafoglio e che  permettono l’acquisto di beni o servizi.  Il Token si basa sul lancio iniziale di una ICO (Initial Coin Offering), vale a dire un’offerta pubblica di sottoscrizione, con la quale chi lo emette reperisce risorse finanziarie in modo alternativo al crowdfunding coniando appunto il proprio gettone. In sostanza l’azienda che ha un’idea di business può creare un certo numero di gettoni denominati “token” che vende sul mercato ad un determinato prezzo prescelto. La dinamica di domanda e offerta dei token determinerà successivamente delle variazioni di prezzo degli stessi.

È opportuno sottolineare che le ICO sono generalmente non regolamentate, oltre che difficilmente regolamentabili da un singolo stato, in un sistema totalmente globalizzato, e, quindi, espongono coloro che acquistano i relativi token ad un rischio significativo legato alle sorti di chi le emette, ma trattandosi per lo più di start up, vi è anche la possibilità di generare plusvalenze importanti.
Al token creato tramite le varie piattaforme viene assegnato un valore fisso per il periodo delle ICO. Viene fissato il numero massimo di token, chiamato in gergo total supply. In seguito, la domanda di token determinerà oscillazioni di valore e la società potrà procedere ad ulteriori emissioni.
Le aziende usano le ICO perché hanno direttamente accesso al capitale da investire senza dover dare interessi ad un privato, dover pagare fees ad un portale di crowdfunding e avere un bacino d’utenza enorme per i loro investimenti, ma soprattutto, l’azienda che ha creato il Token, incassa un controvalore in criptovaluta, che di fatto, sfugge in massima parte alla legislazione sulla sollecitazione del pubblico risparmio.

La gente incomincia ad usare token, altcoin, e bitcoin, come strumenti di pagamento, anche senza che avvenga alcuna conversione, da una critovaluta all’altra, come se si trattasse di dollari, euro, sterline o yen. È evidente, che in un economia, con questo grado di fluidità le banche centrali diventano solo uno dei potenziali fornitori di prodotto monetari sostitutivi della moneta privata. Nel 2015 colpì moltissimo un un candidato presidente del Stati Uniti d’America, poi ritirato, Paul Rand, che annunciò nel 2015 che accettava contributi alla sua campagna presidenziale in bitcoin.
Oggi, sempre di più le aziende si stanno attrezzando per accettare un maggior numero di criptovalute in pagamento, ma è molto interessante capire, che cosa succederà, quando dovessero essere gli Stati stessi a proporre il lancio di COIN. È evidente che si tratterà di una vera e propria rivoluzione del sistema di determinazione delle basi monetarie, che non saranno più regolati dai meccanismi della macroeconomia. L’impresa ALFA e lo stato BETA; potranno presentare ciascuno la propria Blockchain.

C’è da immaginare che comunque saranno nel tempo stabiliti dei meccanismi di tutela che, probabilmente cercheranno, in qualche misura di ridurre il rischio per il piccolo risparmiatore, ma difficilmente, almeno con la tecnologia attuale, questa regolamentazione potrà risolvere il rischio connesso a un sistema valutario che nasce proprio per essere al di fuori del sistema della regolazione dell’emissione e della circolarizzazione della moneta tradizionale.

La reazione delle Banche Centrali

Non è un caso che proprio il citato Joseph Stiglitz, in occasione del World Economic Forum di Davos del 2018, abbia dichiarato alla Bloomberg Television che il Bitcoin non svolge alcuna funzione, tranne permettere di aggirare le leggi e abbia auspicato che la criptovaluta sia messa fuori legge. In effetti, dal 30 gennaio sono entrate in vigore le nuove norme della Corea del Sud. Seul obbliga le banche locali a vietare operazioni provenienti da conti anonimi per il trading in criptovalute, con l’obiettivo di poter rendere tracciabili e trasparenti le transazioni e mettere un freno al riciclaggio e alle attività criminali, oltre che alla speculazione e all’evasione fiscale.

Come spiegato dal vice presidente della Financial Services Commission coreana, Kim Yong-beom, Seul impone il divieto di trading per i residenti all’estero che non hanno conti correnti bancari in Corea e per i minori di 19 anni. Pechino, invece, ha deciso di boccare i siti web che consentono di fare trading e di raccogliere fondi mediante criptovalute. sul fronte asiatico, anche l’India sarebbe pronta a mettere al bando il Bitcoin e tutte le altre criptomonete, così come annunciato dal ministro delle Finanze Arun Jaitley. “Il governo (indiano) considera le criptovalute illegali e prenderà tutte le misure per vietare l’uso di queste per il finanziamento di attività illecite o come strumento di pagamento”, ha detto Arun Jaitley, il primo febbraio, nel suo discorso sulle previsioni di Bilancio 2018.

Difficile dargli torto, ma è altresì impossibile non notare il conflitto di interessi che si cela dietro la condanna della libertà valutaria! E’ probabile che proprio per questo motivo alla fine la rete globale possa sceglierne solo una, indipendente da tutti ma anche sufficientemente affidabile per custodire in sicurezza i risparmi della gente comune.

Ma Wall Street potrebbe cavalcare la tigre

Intanto però, a Wall Street invece si va nella direzione di ottenere il via libera della Sec alla quotazione del primo Etf a livello mondiale (l’ETF è un fondo dì investimento quotato in borsa) che investe in Bitcoin. È previsto un responso dalla SEC (la CONSOB americana) per il prossimo 10 Agosto. Se sarà positivo l’America avrà di fatto legalizzato l’investimento in Bitcoin (accettando implicitamente l’esistenza delle criptovalute). Se ciò avverrà, allora è possibile che i portafogli degli operatori torneranno a denominare in Bitcoin parte delle loro disponibilità per effetto della sua implicita accettazione, e soprattutto che i pagamenti in tale divisa torneranno ad essere considerati “normali” sulla piazza finanziaria più importante della terra. A quel punto la “guerra alle criptovalute” mossa dalle banche centrali di mezzo mondo sarebbe già stata perduta.

Alessandro Arrighi




HELSINKI 16 LUGLIO 2018: UN GIORNO COME UN ALTRO

Cosa ci vada a fare Trump da Putin non è chiaro a nessuno. La maggior parte degli analisti politici avrebbe preferito che i due non si incontrassero affatto, che le sanzioni americane continuassero per sempre e che la “nuova guerra fredda” instauratasi dopo l’ultima crisi in Siria potesse andare avanti per sempre.

L’America ha sempre supportato la guerra intestina in Ucraina e non ha mai accettato l’annessione della Crimea alla Federazione Russa (in precedenza rimasta sotto l’Ucraina dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica) nonostante il referendum popolare che lo ha decretato sia stato una specie di plebiscito per Putin.

E invece no: Trump non solo ha deciso che l’incontro si farà, ma anche che si terrà a porte chiuse. Una mezz’ora a parlare da soli lui e Putin, senza alcun collaboratore, e un probabile disgelo nelle relazioni in vista che farà bene alle borse.

Di temi da affrontare sul tavolo tra America e Russia ce ne sarebbero a bizzeffe : dalla situazione esplosiva in Medio-Oriente (Iran compreso) alla guerra commerciale con la Cina, fino al prezzo di gas e petrolio, dei quali oramai gli Stati Uniti d’America vogliono diventare i principali esportatori (sempre che il loro prezzo non scenda troppo, dati gli elevati costi di estrazione e di trasporto). Ma è improbabile che verranno affrontati in questa sede. Vediamone il perché:

L’incontro non s’ha da fare

Non è infatti difficile ipotizzare che -dialogando- si possano trovare velocemente degli accordi di reciproca soddisfazione basati su una concessione ciascuno da parte di ognuno dei rivali, individuando delle strategie intelligenti sui tanti fronti che vedono oggi apparentemente in forte opposizione le due superpotenze.

Eppure secondo il “mainstream” (che odiosa parola!) l’incontro non s’ha da fare. Troppi i pericoli secondo la stampa prevalente che l’abilissimo Putin strappi qualche concessione di troppo a un Presidente che sui “media” si vuole far passare come mentalmente annebbiato per la sua ipocondria! Ma ne siamo sicuri? A me, a giudicare dai fatti, sembra di vedere l’esatto opposto. Certo i deputati democratici se le sono inventate tutte per cercare di far deragliare l’incontro, ma senza riuscire a spiegarne troppo il perché. D’altronde la storia dell’interferenza russa nelle elezioni politiche americane è vecchia di due anni e dopo mille processi e testimonianze nessuna prova seria è stata mai trovata in proposito.

Il coraggio di Trump

Certo Trump ha avuto sino ad oggi il coraggio di cento leoni, non soltanto a candidarsi, ma anche a resistere alle innumerevoli minacce che gli sono giunte da ogni parte, fino addirittura a non esitare ad applaudire l’esito positivo del referendum sulla Brexit e a salutare con entusiasmo il cambio della guardia al governo italiano. Tutte le volte è stato pesantemente avversato, ma sino ad oggi i fatti gli hanno dato altresì piena ragione, con l’economia americana che, pur essendo giunta alla supposta fase termine di un lungo ciclo economico di espansione, sembra non essere mai stata così in salute dopo la riduzione delle tasse, fortemente voluta da Trump e lungamente osteggiata dai suoi oppositori con l’argomentazione che avrebbe creato un deficit insostenibile per il bilancio americano.

Anche sulle guerre commerciali Trump ha sino ad oggi portato a casa un risultato di tutto rispetto per la sua “America First”, infliggendo alla Cina una dura stangata e invitandola a trattare su basi meno risolute, sebbene si tratti di un gioco duro e difficile, perché alla lunga le guerre fanno sempre morti e feriti, anche quando sono soltanto “commerciali”. Ma Trump ha fino ad oggi mostrato di avere le doti di grande giocatore di poker e di sapere sopportare la tensione meglio di tanti suoi predecessori.

Troppo presto per segnare un risultato

E così Trump ha scelto di sedersi al tavolo con Putin, considerato anch’egli un abilissimo giocatore di poker, una specie di James Bond dell’est, con un’agenda piena di argomenti che richiederanno una vita per essere dipanati, ma con l’idea fissa in testa di evitare di lasciare la Russia tra le braccia della Cina, da decenni il vero rivale dell’America, ma sempre molto defilato sino ad oggi. La credibilità del suo presidente e la forza militare ancora oggi imponente della Federazione Russa potrebbero nel lungo termine risultare preziose per Trump che sa bene che degli alleati europei non ci si può proprio fidare. Ma non oggi.

Oggi Trump deve ancora consolidare il suo potere, la sua linea politica che dà fastidio a molti grandi papaveri della finanza, la sua leadership incerta al Congresso degli Stati Uniti, dove tra poco si svolgeranno le elezioni di medio termine. Trump deve trovare munizioni per uscire vincente da quella prova, altrimenti il resto del suo mandato presidenziale sarà tutto in salita, e la sua rielezione fortemente in dubbio. Putin lo sa e, dal momento che nel sedersi al tavolo conTrump ha già portato a casa una vittoria politica interna, non credo che vorrà chiedergli la luna.

Ma se le cose si metteranno bene allora sarà diverso: una collaborazione tra i due potrebbe risultare alla lunga costruttiva per Trump e per la stessa America. E il dialogo -si sa- è il primo mattone di quella costruzione. E le borse probabilmente brinderanno al rinnovato dialogo, nonostante i malumori che esso potrà generare.

Stefano di Tommaso




CHI HA GUADAGNATO E CHI HA PERSO DALLE GUERRE COMMERCIALI?

Difficile aggiungere validi commenti alle tonnellate d’inchiostro che sulla stampa di tutto il mondo si sprecano sui pericoli del protezionismo. Meglio cercare di guardare i fatti che qui vengono riportati con l’andamento degli indici delle borse:

•Globale (indice MSCI WORLD in Dollari) 


•Americana (SP500)


•Europee (Stoxxs Europe 600)

 


•Giapponese (Nikkei)

 



•Hong Kong (Hang Seng)

 



•Cinese (SSEC)


Stupiscono due fatti al di là di ogni considerazione: le principali borse del mondo, che alla fine del 2017 sembravano aver toccato le stelle con un dito, nella prima metà del 2018 non sono quasi affatto discese a livelli più bassi, nemmeno nei Paesi Emergenti (tra l’altro misurate in Dollari che si sono evidentemente apprezzati contro molte valute locali!).

Contrariamente a quanto leggiamo tutti i giorni i risultati che emergono dai grafici che seguono non potrebbero essere più chiari: l’America è quella che ci guadagna di più (nonostante il super-Dollaro) e l’Asia (Giappone escluso) è quella che ci perde. Difficile pensare che gli investitori non abbiano alzato le antenne per cercare di capire prima degli altri cosa sta succedendo. E se non sono fuggiti a gambe levate non vi viene qualche dubbio? Siete sempre dell’idea che Trump sia un pazzo che sta mettendo a ferro e fuoco il mondo?

Le ultime proiezioni indicano che quest’anno il prodotto interno lordo americano crescerà di quasi il 3%, poco meno del doppio di quanto dovremmo fare in Italia e significativamente di più di quanto farà la Germania. Se poi cerchiamo di capire qual’è la vera crescita economica cinese dobbiamo alzare le mani, perché gli osservatori internazionali concordano nel ritenere che le statistiche (comunque in discesa sul limitare del 6%) siano in realtà tutte falsate e che il vero passo è poco superiore alla metà di quel numero.

Purtroppo il bombardamento quotidiano cui siamo sottoposti, di commenti di parte e notizie parziali, ci fa talvolta perdere il senso della realtà, convincendoci che la “deriva populista” cui sembra condannato l’Occidente (a partire dalla Brexit) sta distruggendo le basi della società civile cui ci eravamo abituati. Purtroppo è quasi vero l’opposto: i partiti che stanno guadagnando terreno sono votati da un crescente malcontento popolare che le èlites che fino a oggi hanno governato il mondo (e che controllano buona parte della diffusione dell’informazione) non accettano di riconoscere.

Nessuno scrive che l’Europa e la Cina fino all’anno scorso applicavano unilateralmente dazi nei confronti dei prodotti americani e che l’America di Trump aveva più volte chiesto di rimuoverli. Allora Trump è passato ai fatti. E il risultato è che i capitali corrono a sottoscrivere titoli del Tesoro americano e il Dollaro sale, anche perchè le multinazionali riportano a casa la liquidità che prima lasciavano oltre oceano, mentre salari e consumi degli USA crescono a un ritmo superiore a quelli di tutto il resto del mondo.

Stefano di Tommaso




ANCORA TORO A WALL STREET?

Le relazioni commerciali internazionali sembrano in fiamme. Non c’è giornale che non ne parli e non c’è politico al mondo che non ne risulti preoccupato. Donald Trump venerdì scorso sembra aver imboccato una strada apparentemente senza ritorno dichiarando ulteriori dazi e tariffe contro le importazioni dalla Cina per 34 miliardi di dollari (con la conseguente contromisura presa immediatamente da quest’ultima).

 

A questo punto i mercati finanziari sono tutti sotto osservazione, con cali anche vistosi. Tutti salvo quello americano. I mercati borsistici dei Paesi Emergenti sono sotto mediamente del 20% dall’inizio del 2018, ma a queste perdite si devono sommare quelle delle divise valutarie in cui sono espressi i rendimenti delle borse dei Paesi Emergenti. Una vera e propria Caporetto per gli investitori non basati sui dollari, che certamente potrebbe finire per contagiare anche l’America, ma occorre notare che al momento quest’ultima ne è rimasta indenne. E almeno fino alle elezioni di medio termine (Novembre) c’è una certa possibilità che l’attuale tendenza rimanga invariata. Come è possibile?

LA SCOMMESSA DI TRUMP

Trump ha fatto capire che le sue iniziative doganali nascono dal fatto che sino a ieri l’America lasciava entrare i prodotti di chiunque e che era ora di smetterla con atteggiamenti non “simmetrici” da parte degli altri Paesi. Questo potrebbe significare che, di fronte a un passo indietro di cinesi, canadesi, messicani ed europei, anche Trump potrebbe togliere i dazi, ma non possiamo non prendere atto che per i suoi fini l’attuale politica commerciale ha funzionato alla grande! Non soltanto l’occupazione continua a crescere negli USA ma anche e soprattutto i profitti delle imprese stanno volando: ci si attende che i dati del secondo trimestre rivelino una loro crescita oltre il 20% sullo stesso periodo dell’anno precedente.

IL RICATTO CINESE DEL TECHNOLOGY TRANSFER

Nonostante la martellante campagna stampa contro Trump e i suoi dazi, l’opinione pubblica interna al paese tende a dargli ragione. Senza considerare che nei confronti di Paesi Emergenti come la Cina o il Messico esistono anche altri rilevanti problemi sollevati per la prima volta solo da Trump: ad esempio l’imposizione del “Technology Transfer” a tutte le imprese che vanno a investire in Cina senza che ci sia poi una valida tutela delle opere d‘ingegno significa dare la possibilità pratica alle imprese cinesi di copiare i prodotti americani ed europei (per i quali sono stati investiti quattrini in ricerca e sviluppo) per riproporli a basso costo fabbricati illegalmente.

Per non parlare del Messico dove la scarsa sicurezza sociale e sul lavoro spinge tutte le multinazionali ad impiantare siti industriali per poi esportare i manufatti colà prodotti negli USA. E’ chiaro che questo toglie posti di lavoro (o migliori salari) agli operai americani, già assediati dai disperati che varcano illegalmente i confini per cercare direttamente lavoro negli USA facendo loro concorrenza sui salari perché accettano paghe molto basse.

Difficile persino per noi Europei dare torto a Trump su questi ultimi temi. Anche perché per il momento l’America sta attirando capitali da tutto il resto del mondo con il risultato che l’economia americana continua a tirare e le imprese americane a fare -appunto- lauti profitti.

GLI U.S.A. SONO DIVENTATI IL PRIMO ATTORE NELLE ENERGIE

Ciò che poi è passato proprio in sordina è stata l’accelerazione della produzione americana di petrolio e gas, che ha tratto ottimo profitto dall’ascesa dei loro prezzi. Oggi gli USA ne sono diventati più che mai il più importante produttore e non se ne parla molto perché al tempo stesso essi sono anche il loro primo consumatore. Ma questo ancora una volta significa che l’economia americana tira più del previsto, nonostante le statistiche e nonostante le campagne stampa avverse all’attuale Presidente.

Certo le guerre commerciali sono comunque delle guerre e, al di là di un loro utilizzo strettamente tattico, esse non possono mancare di esigere -come tutte le guerre- un tributo di “sangue” anche alle imprese e ai lavoratori americani. E questo è un terreno molto scivoloso per il primo Presidente che ha dichiarato guerra a praticamente tutte le altre nazioni del mondo, perché se dalla sua scelta di rinegoziare gli accordi commerciali su base bilaterale (invece che attraverso gli organismi sovranazionali) non otterrà presto dei risultati sarà allora la sua posizione politica a cominciare a logorarsi. Quello che se ne può dedurre è che probabilmente Trump lo sappia benissimo e che dunque oggi spinge più che mai sull’acceleratore del confronto-scontro sia perché è riuscito a infliggere del dolore alle controparti europee e cinesi le quali adesso stanno finalmente valutando se continuare a rispondere tono su tono alle provocazioni o scendere a compromessi, ma anche perché Trump è il primo che ha altrettanta fretta di fare marcia indietro.

LE GUERRE COMMERCIALI NON POSSONO DURARE ALL’INFINITO

I grandi operatori sui mercati finanziari (quasi tutti americani) lo hanno sempre saputo e sino ad oggi non si sono preoccupati molto delle guerre commerciali, ma se dovranno constatare che l’escalation prosegue e se il gioco dovesse tirare in lungo dovranno prendere atto che questo rischierebbe di produrre forti danni all’economia globale. Se a rischio ci saranno i profitti futuri delle imprese multinazionali americane allora le borse valori potrebbero iniziare a flettere nonostante le numerose buone notizie e contribuire esse stesse a trascinare al ribasso anche la crescita economica globale. Ma Trump non resterà a guardare che questo accada, anche se per farlo onorevolmente egli dovrà mettere a segno delle vittorie almeno parziali, sulla base delle quali egli giocherà la sua chance di fare il buon gesto nei confronti di tutti gli altri “avversari”.

CHI GUADAGNA A WALL STREET: “TECNOLOGICI” E “SMALL CAP”

In ogni caso c’è tuttavia una certa probabilità che la crescita economica americana resti forte per la restante parte del 2018 e che essa riguarderà ancora una volta i titoli tecnologici e le “small cap” (i titoli a bassa capitalizzazione) che sino ad oggi hanno reagito meglio alla riduzione delle tasse. Con buona pace di tutti coloro (tra cui il sottoscritto) che gridano allo scandalo delle iper-valutazioni e mettono in guardia sulla relativa illiquidità dei titoli a bassa capitalizzazione.

La conclusione di questo ragionamento è che se quanto sopra è corretto allora parallelamente alla prosecuzione della tendenza della prima parte dell’anno (Wall Street su
e Europa giù) anche tanta volatilità è ancora una volta attesa per i mesi a venire, mentre scarsa attenzione sarà riservata ai parametri economici fondamentali delle imprese, almeno sintantochè i profitti delle imprese (principalmente quelle tecnologiche) continueranno copiosi.

 

RIALZO FINO A NOVEMBRE?

Dunque potrebbe esserci ancora una volta un rialzo di Borsa (nella sola Wall Street) a breve termine (lo stesso termine entro il quale Trump deve riuscire a invertire la rotta che lo ha portato alle guerre commerciali) e invece una certa probabilità di ribasso delle borse nel medio Termine (cioè dall’autunno in poi), soprattutto se la sua manovra sui dazi non avrà avuto rapido successo.

Ciò vale anche per le quotazioni delle materie prime: nonostante il Dollaro forte (che però non durerà in eterno): il rialzo dei loro prezzi potrà generare la sensazione che una nuova ondata inflazionistica sia alle porte. In quel caso la stretta che la FED (la banca centrale americana) si troverebbe contretta a muovere potrebbe risultare come la classica buccia di banana sulla quale veder scivolare le prospettive di crescita dell’intera economia globale! E con l’ammontare in circolazione di debiti pubblici da sfamare a tassi bassi nessuno pensa che ce lo possiamo permettere! Ma tutte queste sono preoccupazioni marco-economiche che non impattano sull’andamento delle borse, anzi: di solito con l’inflazione che risale (segno di riscaldamento della crescita economica) anche le azioni vanno su.

Dunque, nonostante i rischi legati agli effetti negativi per i Paesi Emergenti (tra i quali tocca oramai annoverare anche il nostro) della risalita dei tassi d’interesse americani, se lo scenario non muta chi ci rimetterà potrebbero essere i Paesi a più bassa crescita economica e i non-produttori di materie prime come gli Europei, mentre chi ci guadagnerà potrebbero essere -oltre a quello americano- i mercati finanziari che più hanno perduto terreno fino ad oggi, come quello cinese.

Ovviamente non ci sono certezze al riguardo e quelle appena esposte sono solo ipotesi. Ma se ci chiedevamo quanto potrebbe durare il prossimo rialzo la risposta sembra abbastanza esauriente: non così poco!

Stefano di Tommaso