SINDROME CINESE? NON CI CREDO

Nelle ultime settimane i mercati finanziari appaiono sempre più difficili da decifrare, anche a causa del fatto che il comportamento dei loro operatori, a sua volta, deve cercare di confrontarsi con l’economia reale e quindi con le aspettative circa i profitti aziendali, gli investimenti, i prodotti interni lordi delle nazioni e la sostenibilità dei loro debiti. Ovviamente nessuno è in grado di fornire certezze riguardo a questi andamenti e, di conseguenza, nemmeno a proposito dei mercati finanziari, ma per molte ragioni in questo momento gli analisti guardano a oriente, da dove temono possa scoccare la scintilla di un possibile crollo delle quotazioni.

 

Il primo fattore di difficoltà nel valutare le prospettive dei mercati finanziari sta nel loro sempre maggiore disallineamento con l’andamento del reddito e della capacità di spesa dell’uomo della strada, in leggera evoluzione si, soprattutto nei paesi più ricchi, ma lontano anni luce dalle dinamiche super-evolutive dei mercati finanziari negli ultimi dieci anni.

In secondo luogo la crescente digitalizzazione dell’economia ha avuto il suo forte impatto anche sui mercati finanziari, mostrando quotazioni completamente diverse per i titoli azionari che riflettono l’avvento delle nuove tecnologie e, talvolta, sinanco eccessive. Sono proprio quelle valutazioni strabilianti che hanno spesso ingannato gli operatori facendoli ripetutamente gridare allarmi, negli ultimi due o tre anni, per il timore di crolli rovinosi delle loro quotazioni e, per estensione, anche degli interi listini borsistici.

Un terzo interessante fattore di difficoltà nel delineare le prospettive dei mercati finanziari, è il crescente peso delle economie asiatiche nei confronti del totale globale, anche perché queste ultime hanno mostrato negli ultimi anni segni di forte vivacità (non solo demografica ma anche tecnologica e industriale), ma anche di elevatissimo rischio dato l’estremo loro indebitamento e le fragili democrazie che caratterizzano le loro principali autorità istituzionali.


Per questi motivi oggi sono diffusi timori che la scintilla che potrebbe far implodere la gigantesca bolla speculativa sulla quale galleggiano i mercati finanziari (drogati da molti anni di creazione artificiale di liquidità) possa provenire proprio da oriente dove, se escludiamo il Giappone (molto più vicino ai parametri occidentali), le altre principali nazioni sono al tempo stesso paesi emergenti e superpotenze economiche. Tuttavia, sebbene gli argomenti a favore dell’estrema instabilità dei mercati finanziari orientali sia ben fondata, la narrativa al riguardo non è poi così a senso unico. Ci sono infatti molte altre considerazioni che posson indurre a pensare il contrario: vediamo le une e le altre.

LE BORSE ASIATICHE POTREBBERO ESSERE UN PROBLEMA

La prima considerazione da mettere sul tavolo è che buona parte dei debiti contratti da stati e privati in Asia è denominata in dollari: una divisa che mostra fin eccessivi segni di forza e i cui tassi di interesse sono visti in crescita costante. Pertanto i detentori di crediti in dollari fronteggiano la spiacevole alternativa di vedere ridotto il valore del credito se l’interesse percepito è a tasso fisso oppure vedere ridotto il merito di credito di chi deve pagare più interessi di prima (se i tassi adottati erano variabili) e perdipiù con un dollaro in costante rivalutazione (cosa che riduce comunque il merito di credito delle nazioni).


La principale nazione asiatica infatti, la Cina, sta adottando -peraltro con apparente successo- una politica di costante svalutazione della propria divisa di conto (il Renminbi) per contrastare la perdita di competitività indotta dalle tariffe doganali imposte dall’America alle importazioni. Ovviamente sua la svalutazione non può andare avanti in eterno perché l’inflazione dei prezzi che in tal modo viene importata in Cina dall’estero porterebbe al collasso il mercato cinese del credito e dei titoli a reddito fisso nel lungo termine. Non solo, ma di fatto la costante svalutazione può indurre ulteriori fughe di capitali dalla Cina, e dunque la possibilità di una crisi di liquidità del sistema finanziario che, pur duro a morire e fortemente autocratico, non può vantare l’immortalità. Qui sotto il vistoso ribasso dell’indice della borsa di Shenzen, la capitale manifatturiera della Cina:


Anche lo sviluppo del prodotto interno lordo è in decisa restrizione in Cina, anno dopo anno e, sebbene i tassi di crescita vantati siano probabilmente drogati dal sistema statistico interno che è controllato dallo stato autoritario, sono pur sempre a livelli che noi occidentali possiamo soltanto sognare (si veda il grafico qui sotto):


LE BUONE NOTIZIE SONO PARECCHIE

L’Economia cinese tuttavia non cresce soltanto a causa dei forti investimenti pubblici e degli stimoli monetari interni, ma nemmeno solo a causa della positiva dinamica demografica: persino a livello di consumi pro-capita interni c’è infatti un deciso incremento, che oggi viene quasi tutto destinato alla casa, ai serivizi tecnologici, all’istruzione, alla formazione professionale, e alle cure sanitarie. Ai ritmi di crescita che si vedono resta dunque ancora da sviluppare un grande potenziale riguardo ai consumi in spese voluttuarie, viaggi, articoli di lusso e accessori.


Dunque esiste non soltanto una spinta complessiva alla crescita degli investimenti e della produttività complessiva, ma anche una decisa dinamica dei consumi e dell’istruzione che non può non favorire nel tempo lo sviluppo tecnologico e far sperare in un ulteriore miglioramento anche della qualità della vita.

Anche a proposito delle esportazioni, la Cina continua a correre nonostante tutto:

  • a partire dal fatto che persino in America, nonostante dazi e restrizioni, ancora nel mese di Agosto l’export cinese è aumentato, a testimonianza del fatto che la competitività dei prodotti cinesi, anche per effetto delle svalutazioni del Reminbi, resta elevata,
  • per proseguire poi con l’iniziativa infrastrutturale “one belt one road” che aiuterà a trasportare il traffico merci cinese in tutta l’Asia fino alle porte dell’Europa,
  • cui fanno seguito i fantastici risultati dei nuovi colossi del commercio, delle telecomunicazioni e dei pagamenti elettronici, come Alibaba, Tencent e Baidu che hanno appena cominciato a muovere i primi passi e promettono di espandersi in Occidente,
  • per concludere con l’infinita serie di investimenti nello sviluppo tecnologico che sono in corso: dall’inseguimento della leadership americana nell’intelligenza artificiale alle energie rinnovabili, passando per l’adozione precoce delle telecomunicazioni di quinta generazione (in Cina siamo arrivati al miliardo di smartphones) e per la più grande rete al mondo di treni superveloci.


Esiste dunque più di una ragione oltre quella demografica per cui l’economia cinese continuerà a correre ancora per molti anni a venire (forse anche più di quanto prospettato sino ad oggi).

ALLORA PERCHÉ I MERCATI SI SPAVENTANO?

C’è un vivace contrasto tra numerosi fattori fondamentali dell’economia cinese come quelli citati (tutti di tendenza positiva poliennale) e la dinamica decisamente negativa dei mercati finanziari (di più breve periodo) che si controbilanciano tra loro, ma la differenza di orizzonti temporali fa pensare che alla lunga la Cina supererà le attuali difficoltà finanziarie.

Non soltanto in Asia poi le banche centrali stanno mettendo a fuoco i loro programmi di stimolo monetario non appena la prossima recessione farà capolino e tutte stanno pensando al finanziamento diretto degli investimenti infrastrutturali e tecnologici, allo scopo di orientare le risorse più direttamente nell’economia reale.

Ma questo è esattamente ciò che in Cina sta già avvenendo da un pezzo, a causa della maggior semplicità di collaborazione tra le diverse istituzioni di uno stato decisamente monocratico. Ed è soltanto uno dei motivi per cui gli investimenti in Venture Capital si sono così tanto sviluppati in Cina negli ultimi anni, al punto da equiparare già nel 2016 quelli degli Stati Uniti d’America (si veda il grafico qui sotto):

Dunque i mercati finanziari vedono fantasmi quando temono che il sistema cinese possa implodere? No: come si è già notato in precedenza, la borsa di Shenzen ha davvero perduto il 30% nell’ultimo anno, mentre quella di Shangai soltanto il 18%. Esattamente la misura di cui è viceversa cresciuta quella di New York il 18% (dunque il divario tra le due nell’ultimo anno è ammontato al 36%):


Le ragioni della cautela perciò sono reali e sono anche numerose, compreso il fatto che la Cina sta volutamente marciando a passi forzati verso il cosiddetto “deleveraging” (riduzione del livello di indebitamento) che non è mai un’operazione indolore, poiché esso riduce il moltiplicatore monetario del credito e dunque -a parità di tutto il resto- la liquidità disponibile.

INTERESSI POLITICI DIETRO ALLA DEBOLEZZA DELLA FINANZA CINESE, MA IN PROSPETTIVA C’È UN’ULTERIORE ESPANSIONE DELLE ESPORTAZIONI

Ma il governo cinese ha fino ad oggi avuto il suo interesse politico a vedere svalutato (o addirittura ha pilotato al ribasso) il cambio con il dollaro, perché questo ha permesso alle imprese cinesi di restare competitive con i prezzi praticati in dollari e dunque di mantenere elevati i volumi delle esportazioni nonostante la politica di dazi applicata dall’amministrazione Trump per tentare di riequilibrare la bilancia commerciale.

IL “PACIFIC RIM”

Ma la Cina ha il colpo in canna per ciò che forse più conterà nei prossimi anni,soprattutto qualora l’Occidente fosse colpito da una nuova recessione: la leadership dei mercati asiatici. Il bacino asiatico del pacifico, un tempo teatro della vittoria delle esportazioni giapponesi ed americane, oggi è infatti diventato una delle aree geografiche più ricche del pianeta e quindi, insieme all’India e alla Cina stessa, può rappresentare per quest’ultima un mercato potenziale di sbocco molto più importante della stessa America, soprattutto per ciò che riguarda il potenziale di crescita.

Sino ad oggi gli investimenti cinesi nella regione sono stati piuttosto limitati, tanto per questioni politiche che per problemi di priorità, come si può vedere dal grafico che segue:


Ma tutto fa pensare che il prossimo futuro vedrà un ribaltamento delle posizioni, con l’Unione Europea in decisa ritirata e gli Stati Uniti impegnati a rimpatriare i propri capitali, dunque con un deciso avanzamento della Cina che rimane inevitabilmente alla ricerca di ulteriori valvole di sfogo per la propria produzione.

Queste e molte altre considerazioni fanno ritenere a molti escono che la parabola dell’industria cinese non ha perciò ancora raggiunto il suo apogeo, né rischia di affogare in un mare di debiti come altri vorrebbero far credere. La sindrome cinese insomma è tutt’al più un raffreddore di stagione, non un rischio per l’umanità.

Stefano di Tommaso




IL COMMERCIO INTERNAZIONALE E’ A RISCHIO? LE STATISTICHE NON FORNISCONO CERTEZZE

E’ notizia odierna il fatto che la Cina ha accumulato un avanzo commerciale record nei confronti degli Stati Uniti d’America che ha raggiunto in Agosto i 31 miliardi di dollari, dopo i 28 miliardi di Luglio e i 29 miliardi di Giugno, dunque in ulteriore crescita rispetto al totale già elevatissimo del 2017. Dunque le tariffe volute da Trump alle importazioni cinesi al momento sembrerebbero risultare del tutto inefficaci a contrastare il divario accumulato.

 

Probabilmente la svalutazione del Renminbi nei confronti del Dollaro ha consentito alle esportazioni cinesi di compensare l’aggravio di costo risultante dalle tariffe doganali finendo per essere ugualmente competitive:

Per citare un altro dato numerico (e dunque non controvertibile, l’export cinese verso le 28 nazioni dell’Unione Europea (il maggior partner commerciale cinese) sono cresciute in Agosto dell’11% toccando il record di 37 miliardi di Dollari, contro importazioni cresciute del 15% a un totale di 25 miliardi di Dollari, segnando dunque un importante avanzo commerciale e un ulteriore avanzamento del commercio globale.

Questo nonostante che una serie di statistiche recentemente pubblicate indicherebbero che il commercio mondiale sta subendo una qualche riduzione a causa delle tariffe che l’America ha innalzato nei confronti dei partner commerciali con i quali si era sviluppato un disequilibrio. Per esempio i volumi di commercio mondiale sono per la prima volta in contrazione dopo qualche anno e storicamente lo sono stati in pendenza di un possibile rallentamento dell’economia globale (come si può vedere dal grafico qui riportato):

Anche l’andamento discendente della domanda di noli dei containers (qui sotto riportato al 31 Agosto scorso) indica un andamento discendente, sebbene anche in questo le cause della discesa possono essere varie e non sembrano originare dalle tariffe doganali:

Nonostante dunque non esistano certezze circa il rallentamento del commercio internazionale, tuttavia l’eventuale conferma della tendenza alla riduzione del medesimo può avere delle conseguenze importanti in termini di crescita economica globale e, soprattutto, può danneggiare l’export italiano che, secondo le ultime statistiche, viaggia invece a gonfie vele:


Le statistiche disponibili non mostrano ancora perciò che il nostro Paese risulti in qualche modo danneggiato dalla guerra tariffaria. Le stime di crescita economica in Europa restano ancora al di sopra del 2% per fine 2018, nonostante i maggiori centri di ricerca economica abbiano ridotto le previsioni che erano in precedenza più alte di mezzo punto.

Anche per il nostro Paese le stime di crescita per l’anno in corso sono state ridotte a poco più dell’1%, ma i presunti danni al commercio internazionale che deriverebbero dalle più alte tariffe doganali americane sono sostanzialmente ancora tutti da dimostrare, anzi! Se si guarda alle statistiche la quota di mercato globale colta dal nostro paese è in crescita, seppure di una frazione di punto percentuale:

Chi ha ragione dunque: il “mainstream” dei vari media che tipicamente avversa la presidenza Trump, pronto a dichiarare che le tariffe doganali americane hanno creato danni incredibili alla crescita economica globale, oppure i numeri e le statistiche, che al momento mostrano l’opposto?

Difficile al momento individuare la verità, ma un dubbio resta: se il “coro di cornacchie” continua a dichiarare una verità (al momento) contestabile, non sarà per caso tutta una montatura, ordita per scopi propagandistici? Ai posteri (o più semplicemente alle prossime statistiche) l’ardua sentenza…

Stefano di Tommaso




SETTEMBRE, TEMPO DI MIGRARE

“Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natia rimanga né cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d’avellano. E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! Ora lungh’esso il litoral cammina La greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquio, calpestio, dolci romori. Ah perché non son io co’ miei pastori?”
(Gabriele D’Annunzio)

 

Il mese di settembre per i mercati finanziari non è mai stato facile o tranquillo, né ricco. E chiunque abbia già vissuto qualche decina di altre stagioni osservando i listini può scommetterci forte: nemmeno questo Settembre promette bene, come peraltro si è già abbondantemente visto tanto sulle piazze principali, come a Wall Street e al Nasdaq, ma anche in quelle secondarie come la nostra Milano.

Soprattutto sono le emozioni dell’ottovolante quelle che oggi spaventano più gli investitori, perché se da un lato i mercati hanno mostrato chiaramente di non essere ancora arrivati a toccare i massimi, dall’altro lato sempre più professionisti dei mercati finanziari ora hanno la pancia piena, le idee confuse e poca voglia di mettere a rischio le performance già realizzate fino a questo momento (vedi grafico):

Continuando con l’analogia dei pastori che si apprestano alla transumanza, essi “hanno bevuto profondamente” alle fonti della ricchezza e ora più che mai sentono essere arrivati vicini al momento della svolta, del “Sell-off”, sebbene neanche questa volta c’è qualcuno in grado di affermare che le borse abbiano toccato il massimo, tanto per la clamorosa crescita dei profitti (che rilancia in alto la sfida dei multipli di borsa), quanto per la sempre maggiore polarizzazione dei listini intorno ai titoli che promettono clamorose crescite per il futuro, lasciando invece a bocca asciutta le altre Blue Chips dei bei tempi che furono.

Dunque i mercati non sono stupidi, nè sembrano arrivati al capolinea. Operano importanti “distinguo” e cercano ulteriori spazi operativi, e impongono ai gestori una cospicua rotazione dei portafogli. Ma è altrettanto vero che il trenino degli alti e bassi di un giorno o di una settimana al massimo, dopo la pausa ferragostana è oramai già ripartito da un pezzo e promette per l’autunno molte evoluzioni e altrettanti brividi, a partire dalla clamorosa svendita settembrina dei titoli tecnologici, per poi passare ai rischi che comportano i mercati emergenti fino alle sorprese che possono riservarci il comparto energetico e quello obbligazionario anche a causa del crescente indebitamento globale (vedi grafico qui sopra).

Di motivazioni per temere importanti svarioni ce ne sono infatti a bizzeffe: dalla statistica che vede l’impennata settembrina dell’indice VIX (quello della volatilità di Wall Street) al possibile rilancio autunnale dell’inflazione e comunque al quasi scontato aumento dei tassi d’interesse, fino ai dubbi sulla tenuta dei bond italiani. Al momento hanno preso respiro, ma in qualche mese di tempo le tensioni potrebbero riemergere con rinnovato vigore, e questo non incentiva capitali e investimenti. Il treno della ripresa insomma da noi farà un minor numero di fermate, e probabilmente senza molto preavviso.

Ma la vera questione è un’altra, molto più banale di argute considerazioni geo-politiche e macro-economiche alla base della psicologia dei mercati: D’Annunzio concludeva il suo “Settembre”: “ora lungh’esso il litoral cammina La greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquio, calpestio, dolci romori. Ah perché non son io co’ miei pastori?”

Traduzione: i pastori (gli investitori) abbandonano le montagne e tornano alle terre natíe (le maggiori piazze finanziarie), per godere ancora un po’ il calore di Settembre (i grassi profitti realizzati), ebbri di ricordi e felici della calma apparente dell’ultimo sole d’estate. Perché poi è in arrivo l’ennesimo autunno caldo, con le solite questioni inflazionistiche, politiche, sociali e istituzionali che non ci faranno dormire sonni tranquilli…

Si spiega forse così la discesa in corso delle quotazioni dei titoli tecnologici (quelli che sino a ieri si erano rivalutati maggiormente) e anche il deciso trapasso dalle obbligazioni ad alto reddito e lunga scadenza a quelle di più breve durata e più sicure, fino al potente risucchio dei capitali dai paesi emergenti verso Wall Street e Londra, con conseguente rivalutazione di Dollari e Sterline, tendenza che a occhio e croce continuerà.

E se qualcuno lo mette in dubbio bisogna solo fargli presente che è un percorso appena iniziato: i possibili venti di guerra possono solo rafforzarla…

Stefano di Tommaso




L’ITALIA ALLA PROVA DEL RATING

Il prodotto interno lordo (PIL) nazionale nel 2018 aumenterà “soltanto” dell’1,3%, ma soprattutto saranno i consumi a mostrare la crescita più lenta: +1%, la più bassa dal 2014. In soldoni scenderanno di 5 miliardi di Euro rispetto a quanto previsto, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, dove la ripresa è più solida. A fine 2017 infatti i consumi segnavano aal’incirca +11% in Germania, +9% in Francia, +5% in Gran Bretagna rispetto al 2007, mentre in Italia erano sotto di quasi il 3% (€26 miliardi). E questo in assenza degli ancora possibili rincari dell’IVA (previsti dalle clausole di salvaguardia) che abbatterebbero in modo molto più deciso le prospettive per gli anni futuri incrementando il divario con il resto del continente.

 

L’INDAGINE DEL C.E.R. PER CONFESERCENTI

Il grido d’allarme proviene da Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti, per la quale il centro di ricerche CER ha pubblicato un’indagine macroeconomica impietosa. Senza una ripresa del mercato interno -prosegue la De Luise- le piccole e medie imprese italiane resteranno al palo, oberate da una tassazione media al 60% dei redditi e da un eccesso di burocrazia che pesa 22 inutili miliardi l’anno. Poi c’è la diminuzione del credito alle imprese, che solo l’anno scorso si è ristretto di 12 miliardi, mentre i tassi che salgono (a casa nostra piu che altrove per effetto del rialzo dello spread, arrivato a ridosso del +3% rispetto ai titoli tedeschi) contribuiscono ad annegare la competitività nazionale.

 

SERVIREBBE UN FORTE STIMOLO PER L’ECONOMIA

Dunque servirebbe un forte stimolo all’economia italiana, una riduzione della spesa improduttiva e un incentivo agli investimenti, ma per farlo lì per lì ci vogliono risorse pubbliche e invece le pressioni della Commissione Europea sul nuovo governo vanno esattamente nella direzione opposta: ridurre il deficit anziché incrementarlo (l’anno scorso quello di Gentiloni si era limitato allo 0,9% sul PIL). La negoziazione in corso tra il ministro Tria e il commissario europeo Moscovici (guarda caso un altro francese) verte perciò su un deficit dell’1,5% (circa 10 miliardi in più di spesa rispetto allo 0,9%) ma che è lontano dal 3% indicato come tetto massimo dal Patto di Stabilità sul bilancio europeo.

 


Ma per evitare lo scatto delle clausole di salvaguardia legate all’aumento dell’Iva sono necessari 12,4 miliardi, uno sforzo che vale 0,7 punti percentuali di deficit. I provvedimenti cardine del contratto di governo dovranno essere coperti con tagli alla spesa o con aumenti di entrata che, evidentemente, avrebbero un effetto depressivo sull’economia italiana.

Il ricatto morale è evidente: la Francia è rientrata sotto il tetto del 3% di disavanzo pubblico sul PIL soltanto l’anno scorso, ma il vero problema dell’Italia sono indubbiamente le prospettive: se l’economia non cresce il problema si avvita su sè stesso e il debito pubblico risulta insostenibile (come si può vedere dalle tabelle e grafici qui sotto riportati) e la Commissione Europea ne approfitta per mettere in difficoltà un governo che da altri punti di vista (immigrazione, BCE, eccetera) non ha perso occasione per fare polemiche.

IL CONFRONTO CON IL RESTO D’EUROPA

1) La storia recente dei deficit pubblici

2) Le previsioni delle principali voci macro-economiche per il 2018

 


3) La crescita del PIL in Europa nel 2017(primo grafico) e negli ultimi 10 anni(secondo)

 

 

IL RICATTO DEL RATING

Il vero punto di caduta però ancora una volta potrebbero determinarlo le Agenzie di Rating (quelle società “indipendenti” che valutano il merito di credito della nazione). Pochi giorni fa la prima di queste, in scadenza di revisione del nostro punteggio, la Fitch, non ha tagliato il suo giudizio sul debito sovrano dell’Italia (l’Italia merita ancora un punteggio BBB) sebbene abbia rivisto l’outlook (la prospettiva) facendo sapere che d’ora in poi le azioni del governo saranno sotto stretta osservazione.

Ora si dovranno attendere i pareri di S&P’s e Moody’s. Ed è chiaro che la differenza la farà il Documento programmatico di Economia e Finanza (DEF), in febbrile lavorazione in questi giorni. Se sarà innovativo, pragmatico, costruttivo e prudente forseagmatico, costruttivo e prudente forse riuscirà a convincerle della bontà dei programmi del nuovo esecutivo. Ma molti vedono nel potere discrezionale delle agenzie di rating la “pistola puntata” dei poteri forti nei confronti di un esecutivo che ne denuncia le nefandezze. Dunque certi risultati potrebbero giungere “a prescindere” dall’effettiva capacità di chi governa il Paese.

Fitch, che ipotizza nuove elezioni politiche nel corso del 2019, vede una tendenza dell’Italia a concedersi ulteriori politiche di spesa “che renderà il già elevato debito più esposto rispetto a potenziali shock” arrivando a prefigurare l’uscita del nostro Paese dall’Unione Europea . Fitch stima perciò nel 2018 un deficit che arriva all’1,8% del Pil (più alto di 0,3 punti rispetto alle stime) e al 2,2% del Pil nel 2019.

L’APPETIBILITÀ DEI TITOLI DI STATO

Dunque il vero sorvegliato speciale è il rapporto del deficit di bilancio con il prodotto interno lordo. L’aspettativa di vedere in crescita di quest’ultimo e, di conseguenza, la qualità della spesa pubblica (se essa sarà rivolta ad investimenti produttivi, per esempio a stimolare quelli infrastrutturali piuttosto che a mero assistenzialismo, cioè vecchia maniera) è essenziale per giudicare la sostenibilità del debito pubblico italiano, cioè l’appetibilità delle nuove emissioni di titoli di stato.

 

E LA BORSA NE RISENTE

Dopo che in primavera è stato pubblicato il programma di governo, tra i detentori di Bot e Btp è aumentato il peso delle banche italiane (da 345 a 373 miliardi nel mese di maggio) e delle istituzioni finanziare italiane (da 422 a 445 miliardi), mentre è diminuita l’esposizione di investitori esteri (da 722 a 699 miliardi) e di altri residenti italiani (da 95 a 80 miliardi). È chiaro tuttavia che se la tendenza dovesse proseguire sarebbero i rating di queste ultime a rischio. E poiché molte di esse sono quotate in borsa, non è un caso che le loro quotazioni scendano e, con esse, l’intero listino.

 

Una buona occasione per comperare titoli mediamente sottovalutati a causa della disaffezione verso il listino di Milano, oppure un primo segnale d’attenzione per ciò che può succedere a breve all’Italia se un’altra bufera finanziaria si abbatterà sulla credibilità del nostro fragile bilancio pubblico.

 

Stefano di Tommaso