QUALE ITALIA DOPO DRAGHI?

All’occhio di un attento lettore non saranno sfuggite le battute conclusive di un bradisismo che oramai va avanti da oltre due anni: la fine dell’epoca degli stimoli monetari. L’annuncio di Mario Draghi che da Gennaio la Banca Centrale Europea non acquisterà più titoli di Stato è stato soltanto l’epilogo di una lunga vicenda iniziata dieci anni fa quando alla Federal Reserve (detta anche: FED, la banca centrale americana) individuarono -negli acquisti di titoli pubblici sul mercato aperto- un antidoto efficace a contrastare il crollo della velocità di circolazione della moneta e gli effetti recessivi della deflazione.

 

La manovra, all’epoca denominata per astruse ragioni tecniche “facilitazione quantitativa” (in Inglese “Quantitative Easing” detto anche: QE) ha avuto un indubitabile successo nel far riprendere vigore ai mercati finanziari subito dopo la crisi e ne ha generato il più potente rialzo della storia. Ma soprattutto ha permesso di abbassare fortemente i tassi d’interesse pagati dai titoli di stato e dunque di innalzare la sostenibilità del debito pubblico. La FED lo ha smantellato dal 2016 e dallo stesso periodo sta procedendo a rialzare gradualmente i tassi di interesse a breve termine, riuscendo contemporaneamente a mantenere bassi quelli a lungo termine (che rappresentano il grosso del costo del debito americano).

IL QE EUROPEO E’ ARRIVATO (VOLUTAMENTE) IN RITARDO

In Europa non si è fatto subito alla stessa maniera ma si è passati da una lunga pausa di riflessione, che ha generato un’emorragia di capitali dalla periferia verso i Paesi centrali dell’Unione e, parallelamente, un importante decadimento per le economie più deboli (si veda il grafico sottostante).

Si proceduto poi con una sorta di finanziamento temporaneo alle banche commerciali per acquistare titoli di stato a tasso agevolato (la LTRO ovvero “Long Term Refinancing Operation”, con le quali molte di esse hanno risanato i conti economici, lucrando sul differenziale tra i tassi pagati per l’LTRO e quelli percepiti sui titoli pubblici acquisiti) fino poi ad inaugurare il vero e proprio Q.E. Europeo, tutt’ora in corso, che si concluderà con la fine del 2018. In funzione di esso la Banca Centrale Europea ha acquistato sino ad oggi titoli di stato italiani per circa 350 miliardi di euro e questo ha impedito manovre speculative contro il nostro debito pubblico.

LA NASCITA DELLO SPREAD

Queste manovre hanno favorito sì la discesa dei tassi d’interesse ma, senza la prospettiva di un’unica nazione europea -e dunque senza solidarietà tra i debiti pubblici dei diversi paesi- si è lasciato che si generasse una forte divergenza (spread) tra i tassi pagati dai Paesi centrali dell’Unione (arrivati sotto lo zero) e quelli pagati dagli altri, come l’Italia, diminuendo per questi ultimi i vantaggi della manovra. Nel grafico un raffronto tra i debiti pubblici europei:



LA FINE DEL QE E I RISCHI DI FUGA DEI CAPITALI DALL’ITALIA

Oggi che i tassi nel resto del mondo tornano a crescere e gli stimoli monetari sono terminati, l’Euro non può permettersi di proseguirli da solo incrementando il differenziale dei propri tassi con quelli del Dollaro e alimentando di conseguenza la propria svalutazione (al momento peraltro ancora in corso). E così i tedeschi plaudono all’annuncio della fine del Q.E. (e alla susseguente fine dei tassi bassi) ma tutti si chiedono chi comprerà i titoli di stato italiani dal 2019. Lo stesso mandato di Mario Draghi (visto dai più come uomo poco incline allo strapotere germanico) si conclude a Ottobre del prossimo anno.

Nel frattempo in Italia si è anche insediata una nuova coalizione governativa sicuramente più refrattaria ai diktat di austerità dell’Unione Europea, cosa che teoricamente alimenta il rischio che l’Italia debba fronteggiare una nuova importante fuga dei capitali.

A Maggio infatti se ne è vista una decisa avvisaglia: il caos del mancato governo sollevato dal presidente Mattarella ha fatto sì che i flussi finanziari in uscita abbiano toccato il record di 40 miliardi di euro, portando a 465 miliardi il saldo del debito derivante dal meccanismo di bilanciamento monetario denominato “ TARGET 2” (in pratica quanto l’Italia dovrebbe ai paesi creditori dell’Unione in caso di fuoriuscita dall’Euro). Nel grafico che segue si vede un confronto tra il principale debitore (l’Italia) e il principale creditore (la Germania):

Ovviamente nel caso di ulteriori forti fughe di capitali dal Bel Paese questo divario non sarebbe sostenibile all’infinito, soprattutto se in parallelo c’è uno scontro politico in atto e poi tenendo conto del peso del sistema bancario nazionale, che raggiunge i 4mila miliardi di euro. L’Italia insomma non è la Grecia e il salvataggio, per quanto possa apparire per noi doloroso, non sarebbe nei fatti nemmeno possibile.

Dunque si è creata un’urgenza irrinunciabile di trovare in fretta soluzioni all’orizzonte degli eventi monetari del 2019 proprio nel momento che il nuovo governo intende fare la voce grossa con Bruxelles. Ma per completare con oggettività il quadro generale tuttavia bisogna prima prendere atto di cosa succede in Gran Bretagna dopo la “famigerata” Brexit.

LA BREXIT È ANDATA BENISSIMO

Ebbene: non solo la Sterlina negli ultimi mesi si è straordinariamente rafforzata ma la disoccupazione britannica nel primo trimestre del 2018 registra il minimo storico del 3% (non si vedeva dal 1991) e la corsa a sostituire la partnership con l’Unione Europea ha ampliato la collaborazione di Londra con l’Asia e l’estremo oriente è divenuto ied è divenuta il terminale della maxi-infrastruttura lanciata dalla Cina denominata “Nuova Via della Seta”, che vale 12 volte il Piano Marshall, coinvolge 65 paesi e I due terzi dell’economia globale. Il calo delle tasse dopo l’annuncio ha d’altra parte rilanciato gli investimenti interni nei porti, nella manifattura e nella digitalizzazione, rafforzando i legami con i paesi del Commonwealth quelli con gli Stati Uniti dell’era trumpiana, arrivando a rilanciare (per assurdo) il ruolo di Londra quale principale piazza finanziaria europea.

Esattamente l’opposto di quanto avviene nell’Unione, dove l’Euro è in caduta libera, la crescita economica è rallentata vistosamente nel primo scorcio del 2018 e le tensioni con Washington sono sempre maggiori. Ora si spera che la debolezza della moneta unica possa rilanciare le esportazioni del vecchio continente ma comunque i mercati finanziari sentono puzza d’incertezza nell’Unione e preferiscono rivolgere le loro attenzioni altrove. L’Italia insomma potrebbe anche pensare di uscire dall’Euro incoraggiata dall’esito positivo di chi l’ha preceduta, così come potrebbe trovare il modo di negoziare con i partner forti dell’Unione accordi più vantaggiosi per il rilancio della propria economia e il rimpatrio dei capitali, visto che lo spauracchio si è fatto concreto.

CHI COMPRERÀ I TITOLI PUBBLICI?

D’altra parte senza prendere alcuna iniziativa non si vede come potrà trovare il modo di sostenere in autonomia le sue finanze pubbliche per far sottoscrivere 201 miliardi di titoli di stato da emettere nel 2019, in crescita dai 165 del 2017 (si veda il grafico):

(nel grafico nell’anno 2019 si vedono ancora acquisti da parte della BCE per una ventina di miliardi a causa del fatto che essa prevede ugualmente di continuare a reinvestire i bond in scadenza)

Se le esportazioni continueranno (o addirittura si rafforzeranno) il nostro Paese può sperare di contrastare la fuga dei capitali con l’incremento della bilancia dei pagamenti correnti. Le previsioni infatti da questo punto di vista appaiono positive:

Il quadro perciò non è necessariamente così grigio per l’economia italiana, prevista in crescita quest’anno di almeno l’1,4%, se al tempo stesso in cui il rischio di una fuga di capitali si dovesse fare più forte il Paese dovesse parallelamente riuscire a mobilitare nuove iniziative imprenditoriali e un efficientamento della pubblica amministrazione così come promettono i nuovi leaders.

La fine dell’ombrello monetario europeo insomma è destinato a provocare un chiarimento nei rapporti con l’Unione (o si intensificano o si riducono). E non è detto che ciò non possa costituire un fatto in qualche modo positivo…

Stefano di Tommaso




IN BORSA PER $100 MILIARDI XIAOMI, L’APPLE CINESE

La prova del fatto che esiste questa iper-Cina è la fantasmagorica quotazione in borsa della cosiddetta “nuova Apple”, Xiaomi: la start-up tecnologica più celebre dell’ex-Celeste Impero. Partita nel 2010 e già da tempo divenuta “Unicorno” (come si dice nel gergo dei capitalisti di ventura quando una nuova società supera il valore di un miliardo di dollari), gli esperti che ne hanno curato lo sbarco sul listino della borsa dì Hong Kong ne hanno decretato il successo attribuendole una capitalizzazione della bellezza di 100 miliardi di dollari (si, avete letto bene) dopo che le aspettative per il bilancio di quest’anno la rivelano in perdita per oltre un miliardo di dollari, sebbene sia giunta in soli 7 anni a un fatturato di 18 miliardi.

FIGLIA DELLA NUOVA CINA : CAPITALISTA E SUPER-TECNOLOGICA

Dalle nostre parti sarebbe forse bastato che arrivasse a perdere soltanto un milione perché le bande gialle di precipitassero a sirene spiegate ai suoi cancelli ad arrestarne il titolare con l’accusa di bancarotta, magari nelle more di riscuotere qualche credito verso lo Stato e di esserne scagionato! Ma nella Cina sud-orientale dalle grandi metropoli del futuro, la cui società civile esprime questo nuovo paradigma iper-pluto-digitale no, non è bastato che Xiaomi arrivasse a perdere un miliardo per impedirne la quotazione in borsa delle sue azioni, facendone ricchi i soci della prima ora, e permettendole di raccogliere sul mercato oltre una decina di miliardi di dollari di nuove risorse, che saranno tutti reinvestiti per crescere e (forse un giorno) prosperare.

Super tecnologica, avanzatissima non soltanto per le monorotaie che sfrecciano alla velocità del suono sopra le sue nuove città, futuristica persino nei sistemi di pagamento con i telefoni cellulari e strapiena di quei dollari che i fondi di investimento di “venture capital” della Silicon Valley d’oltre-oceano le hanno messo in tasca per sviluppare nuove tecnologie e nuove imprese, in quella Cina del futuro divenuto realtà può oggi esistere ed esprimere forte valore la più estrema di tutte le aziende che hanno scelto di provare a percorrere nuove strade, persino quando esse incrociano quelle di colossi globali come Apple o Samsung con prodotti più competitivi.

Agli investitori che si chiedono se Xiaomi valga davvero 100 miliardi di dollari, il mercato finanziario sembra aver risposto subito: al momento dell’annuncio le azioni delle più dirette concorrenti di Xiaomi come ZTE e Lenovo sono crollate! Ad accompagnarla sul mercato finanziario come sponsors si annoverano peraltro i più grandi nomi della finanza mondiale come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, Deutsche Bank, JP Morgan Chase e altre 6 banche cinesi.

ALL’INSEGNA DELLA FANTASIA E DELL’UMILTA’

Nota anche con il marchio MI che contraddistingue i suoi prodotti di ottima qualità, venduti in tutto il mondo a prezzi stracciati, Xiaomi è un’espressione cinese che sta a indicare l’umiltà del miglio (il cibo dei poveri di una volta) e che, nelle intenzioni di Lei Jun, il visionario fondatore che ha tratto la sua ispirazione imprenditoriale leggendo una biografia di Steve Jobs (il più noto tra i fondatori di Apple) avrebbe dovuto indicare lo spirito con il quale le nuove generazioni asiatiche avrebbero potuto inseguire il loro riscatto industriale. Quel che è successo poi è stato l’esatto opposto!

In Occidente fino ad oggi per le start-up di successo è prevalso un “modello di business” completamente diverso da quello di Xiaomi: estremamente focalizzate su una particolare tecnologia, con una proprietà molto diffusa e con un percorso evolutivo facilmente prevedibile e rassicurante.

Mentre la campionessa cinese di creazione di valore dopo Alibaba (che però si è quotata nel 2014, in un contesto di mercato molto più favorevole) sembra essere proprio tutto il contrario: controllata da un gruppo ristretto di azionisti, dalle iniziative deliberatamente imprevedibili e tentacolare nei suoi numerosissimi e diversissimi prodotti che uniscono design, tecnologia e fantasia, Xiaomi è riuscita a definire un nuovo modello di business che (al momento) non ha avuto bisogno di mostrare profitti e focalizzazione per risultare vincente.

Certo, in Occidente la mano pubblica eroga ben pochi sussidi alle nuove imprese che vogliono inseguire le loro fantasie, mentre nella Cina statalista di qualche anno fa, che doveva a tutti costi esprimere investimenti e piena occupazione per inseguire il primato della crescita economica e del progresso digitale, trovare le risorse iniziali per provarci è stato forse più facile.

E così quando si è trattato di incrementare le dimensioni aziendali Lei Jun ha preferito crearsi una rete di fornitori strategici terziarizzati, piuttosto che provare a investire direttamente nelle strutture, affinché anch’essi potessero godere del medesimo supporto statale e risparmiarsi i mal di testa della crescita interna.

DAI PRODOTTI AI SERVIZI ALL’ECOSISTEMA “MIUI”

Xiaomi oltre che aver prodotto negli ultimi sette anni oltre 190 milioni di telefoni cellulari, si è messa a fare proprio di tutto: dai computer portatili alle biciclette, agli aspirapolveri-robot che puliscono la casa, alle vaporiere per il riso, alle lampade intelligenti, ai giocattoli, fino ad erogare servizi finanziari. E il prossimo passo consiste nel fornire a tutti questi strumenti un‘interconnessione intelligente per tenerli sotto controllo e fare dell’insieme dei propri prodotti a marchio un “ecosistema” simile a quelli sviluppati dalle altre grandi aziende del settore tecnologico, come Apple, Sony, Samsung eccetera.

Anzi: è proprio dai servizi a valore aggiunto che la sua fedelissima base di clientela (giovane, motivata e rampante) è disposta a pagare a Xiaomi.

È dai suoi 9 milioni milioni di “fans” che partecipano in continuazione ai “forum MIUI” (MIUI è il nome del sistema operativo proprietario di Xiaomi, sebbene sia comunque basato su Android) contribuendo a fornire idee e soluzioni che arrivano per la maggior parte a Xiaomi i ricavi da servizi che rappresentano i maggiori margini di guadagno, i quali invece scarseggiano nella produzione di cellulari (sono stimati intorno ad un mero 1%) e degli altri oggetti da questa venduti, sui quali ha dichiarato che non marginerà mai più del 5%.

Come dire che Xiomi ha venduto fino ad oggi centinaia di milioni di prodotti senza guadagnarci affatto per poi arrivare a conquistare una fetta di mercato cui è stata capace di vendere servizi a valore aggiunto su internet. Una strategia paragonabile più a quella di Google che di Apple, sebbene possa essere percepita ancora più estrema e pericolosa (quando il boom delle tecnologie digitali dovesse mostrare segni di stanchezza).

IL PROPRIO VENTURE CAPITAL TECNOLOGICO 

Xiaomi cavalca tuttavia con molta intelligenza l’onda favorevole di entusiasmo sulla quale essa poggia le sue fortune: sino ad oggi non solo ha venduto centinaia di milioni di prodotti ma soprattutto ha “esternalizzato” il suo ufficio Ricerca & Sviluppo “incubando” al proprio interno la nascita di 29 nuove aziende dotate di idee di prodotto brillanti e in qualche modo interconnesse alle proprie e, soprattutto, “sponsorizzando” altre 55 start-up le quali, evidentemente ancora più meritevoli di attenzioni e capitali, sono state finanziate da Xiaomi ma sono rimaste indipendenti!

Al di là dell’ottimo intento socio-economico la società ha fatto bene i suoi conti, ottenendo dall’iniziativa un flusso impetuoso di idee di prodotto che le ha permesso di contenere i costi interni e di cavalcare il suo successo.

Ma anche in questo l’ancora quarantenne Lei Jun -le cui fortune personali sono oggi valutate quasi 13 miliardi di dollari- ha voluto seguire il modello di Steve Jobs: non copiare la Apple bensì il suo fondatore, innovando continuamente e infrangendo ogni vecchia abitudine (ma anche procurandosi le risorse per farlo) !

Stefano di Tommaso




IL BASTONE DELLA FEDERAL RESERVE COLPISCE ANCHE L’ITALIA

In un mondo che si polarizza a favore delle maggiori piazze finanziarie internazionali la manovra di rialzo dei tassi da parte della banca centrale americana rischia di gettare alle ortiche la ripresa che ancora doveva portare i suoi frutti nel resto del mondo, rischiando di fare danni anche ai Paesi più ricchi.

 

Sui mercati finanziari, accanto all’elenco dei Paesi cosiddetti “più industrializzati” (per inciso spesso assimilati ai fondatori dell’ O.C.S.E. : l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, tra i quali oltre a U.S.A. Canada, Giappone e U.K. vi sono altri membri dell’Unione Europea) esiste una definizione -quella dei “Paesi Emergenti”- il cui significato pratico continua a cambiare nel tempo, conseguentemente al modificarsi dello scenario globale.

In passato (fino agli anni ‘80) rientravano in questa categoria i numerosissimi cosiddetti “Paesi In Via Di Sviluppo” : tutti quelli che non avevano ancora abbracciato il modello americano di ’industrializzazione e di società dei consumi, o che si avviavano a farlo e che tipicamente erano fermi all’estrazione e -in qualche caso- alla prima lavorazione delle materie prime, se non addirittura alla sola agricoltura.

Poi iniziarono a circolare delle ulteriori suddivisioni per circoscrivere la galassia delle economie a limitato livello di industrializzazione, con altre definizioni quali i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) per indicare quelle economie che non partivano affatto da zero e che, per abbondanza di risorse naturali o per crescita demografica, avevano più mezzi e sembravano correre più degli altri, sino ad arrivare ai P.I.I.G.S. (acronimo che suona come maialini) per indicare i membri più deboli dell’Unione Europea : Portogallo Irlanda, ITALIA, Grecia e Spagna.

NIENTE PIÙ DISTINZIONI TRA LE ECONOMIE PIÙ DEBOLI

Da qualche anno (e più precisamente dall’epoca della grande crisi finanziaria del 2008-2009), con l’avvento dei Quantitative Easings (facilitazioni monetarie consistenti negli acquisti di titoli per immettere liquidità e abbassare i tassi di interesse) da parte delle banche centrali delle principali economie globali, la distinzione sembra tornata ad essere quasi solo una: da una parte i pochi Paesi che sembrano disporre di monete forti (e che per questo hanno potuto permettersi di lanciare il Q.E.) e dall’altra tutte le altre economie, molte delle quali, in un primo momento, hanno peraltro beneficiato dell’incremento della liquidità globale, avviandosi a crescere in maniera sincronizzata con il primo gruppo.

Il mondo ha vissuto così un periodo di crescita economica diffusa, di ripresa cospicua degli investimenti e, anche a causa del concomitante ribasso del prezzo del denaro e dell’energia, nonché di una quasi inspiegabile assenza dell’inflazione (che ancora oggi permane, con poche eccezioni, nonostante il prezzo di petrolio e gas siano risalti non poco e i tassi siano in risalita anch’essi).

LA FINE DELLA “GOLDILOCKS ECONOMY”

Così negli ultimi due anni le borse hanno preso atto dell’eccezionale liquidità in circolazione e sono cresciute conseguentemente, anche perché i profitti delle grandi multinazionali quotate a Wall Street hanno iniziato a decollare, grazie alla ripresa del commercio internazionale. Le altre borse sono anch’esse cresciute, principalmente a motivo della ricerca di diversificazione dei grandi investitori, che hanno sempre privilegiato tuttavia Wall Street.

Qualcuno ha paragonato lo scenario globale che ne derivava al mondo incantato della bambola “Riccioli d’Oro” (Goldilocks), le cui preferenze si situano sempre nel mezzo (né troppo e né poco) in qualsiasi direzione e misurazione, arrivando a chiamarlo “Glodilocks’ Economy”. Tale scenario tuttavia non è durato a lungo, non ha quindi permesso al mondo intero di ridurre il grado di indebitamento complessivo (asceso alle stelle con l’ultima crisi finanziaria globale) e da esso sembra ex-post aver tratto rinnovato vigore soltanto l’egemonia americana sul resto del mondo. Vediamo il perché.

Il breve excursus sino qui tracciato ci porta al 2018, il cui primo scorcio sembra segnato invece dall’avvio di un processo quasi inverso rispetto all’ultimo descritto, e ove l’evento che sembra aver determinato tutto il resto appare l’inversione dell’orientamento delle banche centrali, a partire dalla Federal Reserve Bank of America (FED), che ha iniziato per prima gli “stimoli monetari” e adesso, già da un anno e mezzo, ha avviato invece una politica di graduale rialzo dei tassi di interesse e di rivendita dei titoli che ha in pancia.

Le aspettative di riduzione della liquidità disponibile hanno spinto gli investitori a ritirarsi dai “Paesi Emergenti” (ivi compresi praticamente tutti quelli che non hanno un grande centro finanziario internazionale), e a concentrare la loro liquidità sulle divise valutarie “rifugio”, a partire da Dollaro e Franco Svizzero, ivi compreso l’Euro germanocentrico e persino la Sterlina post-Brexit! Nei Paesi più affluenti i titoli di Stato sono stati acquistati a mani basse quali beni-rifugio non soltanto dagli investitori che rimpatriavano i loro capitali, bensì soprattutto da quelli esteri in fuga dai loro Paesi.


Il mix letale di rafforzamento del Dollaro e del rialzo dei tassi americani con le politiche dell’era-Trump (riduzione delle tasse e investimenti infrastrutturali) sta mettendo in seria difficoltà le divise valutarie più deboli, dalle cui economie i capitali fuggono come possono, e le banche centrali periferiche, che chiedono pertanto -inascoltate- alla FED di rallentare la stretta monetaria che -nei fatti- si amplifica su quei Paesi, risucchiando risorse a favore di quelli più ricchi.

GRIGIE PROSPETTIVE PER L’ITALIA

Insomma il rogo delle divise valutarie del resto del mondo lascia la FED quasi indifferente e costringe le economie più deboli (come l’Italia) ad un incremento del costo del denaro che ha effetti recessivi sull’economia, deprime le borse locali e rischia addirittura di riaccendere l’inflazione.


Come si può vedere, dopo la quinta settimana consecutiva in cui l’indice MIB è sceso, in cui lo spread con la Germania continua a crescere e il costo dell’assicurazione sul rischio-Italia è schizzato alle stelle, l’inaugurazione del nuovo esecutivo parte con un forte handicap!

I RISCHI PER L’ITALIA DERIVANTI DAL RIALZO DEI TASSI AMERICANI

E qui veniamo al punto che ci riguarda a proposito del rialzo dei tassi, dal momento che stavolta nel novero degli Emergenti (o dovremmo dire “ex-emergenti”?) cioè delle economie più deboli ci sono anche Paesi come l’Italia, affetta endemicamente dalla fuga dei capitali e alle prese col più grosso debito pubblico del Continente. Da noi la ripresa è arrivata solo da un paio di anni e ha riguardato principalmente le imprese esportatrici, le stesse che oggi vedono ridursi i loro spazi di competitività a causa della forza dell’Euro rispetto a numerose divise minori.

I governi che hanno preceduto quello attuale sono riusciti anzi ad incrementare il debito pubblico negli anni di ripresa e oggi il Bel Paese, chino su quel maggior debito, rischia una crisi di credibilità anche a causa dell’incertezza legata al ricambio degli orientamenti politici. Sino a ieri l’Italia ha inoltre subìto la forza della moneta unica senza potervi porre rimedio, rischiando così di veder interrompere sul nascere la ripresa economica interna e il flusso di investimenti che può assicurare quella futura.

Il “mainstream” dell’informazione prevalente ci racconta invece che è l’arrivo del nuovo esecutivo ad aver generato i timori del resto del mondo e la fuga dei capitali dall’Italia, omettendo di segnalare il rogo generalizzato che rischia di affliggere l’intera categoria delle “economie più deboli” con le loro valute e i loro titoli di debito e omettendo di segnalare la principale causa di ciò: una FED (la banca centrale americana) che sembra proseguire diritta nelmrrialzo dei tassi sulla strada impostata da Obama e dalla Yellen, sebbene oggi il contesto sia assai diverso !

È la stessa Algebris di Davide Serra (il quale in passato ha sponsorizzato non poco il governo Renzi) a lanciare l’allarme con un articolo che parla chiarissimo ed un grafico che è ancora più chiaro:


Il rischio è che se le banche centrali proseguiranno su questa strada non solo ci rimetteranno le divise dei paesi più deboli, le quotazioni dei loro titoli pubblici, nonché la disponibilità di finanziamenti delle loro imprese, ma che addirittura l’intero mercato finanziario possa alla fine ripiegarsi su sè stesso, di fronte ad un eccesso di cautela degli investitori e alla recessione economica che ne può conseguire (peraltro assai probabile data l’estrema maturità dell’attuale ciclo espansivo).

QUESTA VOLTA È DIVERSO

Tutti sanno che, nonostante i proclami elettorali, il nuovo governo del nostro Paese rischia relativamente poco di compiere gravi scorrettezze nell’ambito dell’Unione Europea. L’Italia invece rischia moltissimo un contagio “esogeno” che può far ammalare gravemente la sua economia e che ancora una volta può venire dall’America, così come è successo nel 2008.

Ma c’è il rischio che una nuova crisi globale trovi questa volta il mondo intero assai impreparato a contrastarla.

Questa volta il mondo dovrebbe fare i conti con un maggior debito globale che non nel 2008 e con una conseguente limitata capacità di tornare a praticare misure espansive di politica fiscale, con una scarsa possibilità di abbassare i tassi d’interesse senza farli diventare negativi, e in qualche caso con la necessità invece di alzarli per sostenere le valute più deboli (come sta avvenendo ad esempio in Sud America) e infine non da ultima con la difficoltà di tornare pesantemente a praticare lo stimolo monetario dal momento che si è visto che uno dei nuovi mali di questo secolo: la crescita della disparità tra le classi sociali, è stato amplificato dall’avvento del Quantitative Easing. Esiste perciò oggi una forte pressione politica affinché affinché non lo si ripeta.


Il maggior costo del debito potrebbe impattare poi in maniera letale sulla capacità del nostro budget di Stato di riuscire a sostenere la spesa per interessi del debito pubblico, come riporta un noto studio della McKinsey al riguardo:


Il nostro Paese sembra dunque ingabbiato in una congiuntura economica internazionale che rischia di far deragliare i suoi conti pubblici, e ciò avviene proprio nel momento in cui una nuova compagine politica si appresta a lanciare stimoli per la ripresa.

LA CRESCITA DEGLI INVESTIMENTI INFRASTRUTTURALI

Forse ci rimane uno spiraglio di ottimismo nella direzione di un forte efficientamento della spesa pubblica, (in Paesi come l’Italia dovrebbe essere addirittura al primo posto) ma a condizione che gli effetti recessivi di tale manovra potessero essere contrastati con politiche fiscali a sostegno degli investimenti e delle sempre più necessarie spese infrastrutturali (che a casa nostra sarebbero quasi esclusivamente opere pubbliche) mentre risulterebbero di grande aiuto al contrasto di una possibile recessione la riduzione delle tensioni internazionali e il ritorno a livelli più bassi del prezzo delle materie prime energetiche.

Di seguito un paio di immagini che indicano la tendenza globale a incrementare fortemente gli investimenti nelle infrastrutture, cui l’Italia dovrebbe cercare di tenere almeno il passo.

 

Stefano di Tommaso




COSA SUCCEDE AL SISTEMA BANCARIO ITALIANO?

Il discorso di insediamento del nuovo presidente del consiglio dei ministri non è piaciuto ai mercati finanziari. Lo spread tra i titoli decennali tedeschi e quelli italiani si è avvicinato a quota 240 punti e la borsa ne ha sofferto, ma soprattutto sono finite sugli scudi le banche italiane, detentrici di una buona quota dei titoli del debito pubblico in circolazione.

Stavamo subendo ancora L’onda lunga del panico creato dallo stop del presidente della repubblica ad un nuovo governo giudicato troppo in contrasto con i diktat dell’Unione Europea, che aveva mosso le agenzie di rating sui timori che la situazione generale potesse evolvere negativamente sulle orme di quanto successo in Grecia in precedenza.


IL DISCORSO DI CONTE

 

Ma fino all’altro ieri si poteva biasimare quasi solo Mattarella per aver instillato quei timori, alimentando il circolo vizioso della svendita dei titoli di stato da parte degli investitori esteri che alimenta lo spread e fa calare le quotazioni delle banche italiane le quali a loro volta diventano le prime venditrici nette di titoli onde evitare di essere considerate a rischio. Ieri pomeriggio invece, dopo l’autocelebrazione del nuovo Governo in Parlamento, ecco riemergere sui mercati finanziari forti dubbi sulla possibilità che la maggior spesa pubblica ipotizzata da Conte nel suo discorso possa davvero instaurare un processo di crescita economica tale da controbilanciare il maggior deficit che ne può discendere.

Purtroppo il discorso di Conte non ha tenuto in debita considerazione le esigenze di chiarezza dei mercati finanziari, di precisazione degli orizzonti temporali e delle concrete previsioni che possono discendere dalle manovre un po’ vagamente annunciate. Un errore di inesperienza che però rischia di costare caro al sistema-paese. Se da una parte c’è la volontà di non subire i ricatti dei mercati finanziari, dall’altra non si possono commettere simili ingenuità: se Conte invece che presidente del Consiglio dei Ministri fosse divenuto presidente di una società quotata, con quell’allocuzione forse i suoi azionisti ne avrebbero già chiesto le dimissioni !

Uno studio di Morgan Stanley in proposito mette in triste evidenza i possibili danni al nostro Paese in caso di innalzamento dei tassi di interesse (ad oggi tenuti artificialmente bassi grazie al Quantitative Easing della Banca Centrale Europea):


IL SISTEMA BANCARIO NAZIONALE È A RISCHIO

Chi tuttavia sino ad oggi ne ha pagato di più le conseguenze sono state le banche italiane. Principalmente perché l’ammontare dei titoli di stato detenuti spesso supera il loro patrimonio netto, ma anche per altri motivi, dal momento che le perdite in conto capitale su quei titoli potrebbero spingerle a rimandare il completamento della pulizia di bilancio sui “crediti non performing” che ancora contano per circa il 10% del totale in portafoglio (pulizia che comporta -ogni volta che la si fa- la registrazione di una perdita in conto capitale).




ALLA RICERCA DELL’EFFICIENZA

Il fenomeno è divenuto nel suo complesso così vistoso che c’è da chiedersi se, a sua volta, non determinerà altri effetti a catena, e accade proprio nel momento in cui le prime 14 banche italiane stavano iniziando a sperimentare la possibilità di affidare la sicurezza delle proprie transazioni alla tecnologia del Blockchain, il cui principale vantaggio risiede nel “non dipendere da un unico soggetto centrale” (leggi: le banche centrali). Quasi una prova tecnica di negoziazione dei famigerati Minibot! Ufficialmente le sperimentazioni spaziano dalla digital identity, alla gestione dei bandi di gara, alle piattaforme di donazioni e ai pagamenti internazionali.

Del resto più in generale il fintech (la tecnologia digitale applicata agli intermediari finanziari) sta erodendo quote di mercato agli operatori tradizionali, e spinge il mondo bancario ad autoimporsi una vera e propria rivoluzione, alla ricerca di una maggior efficienza nei costi e di nuove frontiere dove ottenere quei margini che altrove vengono erosi. Ma la strada è molto lunga e al momento è stata appena imboccata, e riguarda l’intero comparto europeo, quasi senza esclusioni.


Bank of America-Merrill Lynch, con un report intitolato “Bye bye Euro? Downgrading the banks”, taglia i target price sulle quattro principali banche italiane, mentre Mediobanca, resta l’unica con giudizio buy. Banco Bpm è stato ridotto da neutral a underperform con prezzo obiettivo da 3,5 a 2,2 euro, Intesa Sanpaolo da buy a neutral (da 3,6 a 3 euro),Ubi Banca da neutral a underperform (da 4,5 a 2,9 euro), Unicreditda buy a neutral (da 21 a 16 euro).

Tutto questo sebbene il medesimo studio faccia notare quanto negli ultimi sette anni sia cresciuta la loro capitalizzazione e anche la loro efficienza operativa.

Probabilmente questo percorso virtuoso andava imboccato con largo anticipo, invece di pensarci adesso che rischia di essere troppo tardi. Ma se il Governo del paese non rispolvera presto quel sanissimo quanto desueto concetto di “concertazione” tra le parti economiche e sociali, allora è possibile che il grilletto della nuova recessione verrà tirato proprio dal sistema bancario!

 

Stefano di Tommaso