FACEBOOK È SOTTO SCHIAFFO

Mi sono risvegliato da un brutto sogno: accendo la TV e vedo che FB ha perduto in poche ore il 24% della sua capitalizzazione di borsa, cioè circa 140 miliardi di dollari! Allora mi sono chiesto: “cosa succede”? E la risposta l’ho trovata, ma è molto triste.

Innanzitutto FB è sempre stato un titolo performante in borsa: negli anni ha abituato tutti gli analisti finanziari che coprono il titolo a battere sistematicamente le loro stime. A partire dai ricavi, cresciuti significativamente anche al 30 giugno scorso:


Per non parlare del numero di utenti attivi (tanto mensili quanto giornalieri):


Era anche questo il motivo per cui le azioni di FB erano cresciute del 35% dallo scorso 25 Aprile (oltre al fatto che il mercato continua a scommettere sull’intero comparto dei FAANG: Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google). Ma questa volta l’EBITDA non è stato così soddisfacente :

Per non parlare del Flusso di Cassa :


COSA È SUCCESSO DUNQUE?

Come mai un’azienda che cresce nonostante abbia raggiunto lo strabiliante numero di 1,5 mld di persone iscritte in tutto il mondo “peggiora” improvvisamente i suoi risultati? (in realtà soltanto un po’ meno brillanti di quanto previsto). Beh, innanzitutto bisogna tener conto della saturazione del mercato: un’azienda che è riuscita ad avere tra i suoi iscritti praticamente ogni utente adulto utilizzatore abituale in America ed Europa, ci mette più tempo per sviluppare la propria penetrazione in altri mercati, dove esistono peraltro fieri concorrenti (come la Cina di Tencent, il Giappone di Line o la Federazione Russa di Odnaklassiki oggi VKontact)!

La risposta sta però soprattutto nel volume di spese per investimenti che, a seguito dei diktat delle Autorità Pubbliche (e dei “media” invidiosi) relativi a vigilare sul pericolo delle “fake news” (“false” notizie, cioè non supportate dal “consenso” degli altri media) e dell’uso improprio dei dati personali, Facebook è stata costretta ad effettuare a un ritmo sempre crescente, per poter dimostrare la sua buona fede nei sistemi che sono in grado dì individuare “contributi” non ortodossi da parte dei propri utenti:


Lo stesso vale per le spese del personale dipendente, cresciuto del 47% in un anno quasi solo per lo stesso motivo: verificare e monitorare i “post” dubbi della propria clientela! Un esercito di nuovi sceriffi assunti perché costretta a dimostrare di essere in grado di controllare quello che gli utenti dicono! Come direbbe qualche noto politico italiano: praticamente il costo del bavaglio a Internet!

Infine ci sono stati i recenti scandali, dove è apparso che Facebook vendeva i dettagli dei profili dei propri utenti agli utenti della propria pubblicità (vende solo quella) che sicuramente hanno allontanato molti inserzionisti, in particolare in America, che è per FB il mercato più maturo.

MAI MANCARE DI RISPETTO AL “POTERE”

Il che dimostra che -chiunque tu sia- quando sottrai risorse pubblicitarie al quinto potere: il “mainstream” di tv e giornali (vero peraltro solo in parte, visto che il 91% dei ricavi provengono da inserzioni pubblicitarie rivolte agli utenti dei dispositivi “mobili” cioè i telefonini) e soprattutto lasci che la gente scriva ciò che vuole invece di quello che il mainstream vorrebbe che dicesse, poi non ti stupire se i “media” che lo compongono arrivano ad infangarti a dovere! Faccia-libro è chiaramente un “media” alternativo e per questo motivo è sotto schiaffo. E la grande finanza non ne è la vittima, bensì il carnefice.

Stefano di Tommaso




CAPITALI E TECNOLOGIA RIVOLUZIONANO L’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA

Tutti si chiedono cosa succederà all’industria dei veicoli da trasporto (e dei loro componenti), innanzitutto perché essa ha vissuto sino ad oggi un certo numero di anni di grande bonanza e adesso mostra qualche segnale di stanchezza nelle vendite e nei prezzi praticati (è da tempo esclusivamente un mercato di sostituzione), ma anche e soprattutto perché ci aspetta che in esso prendano contemporaneamente piede tre diverse rivoluzioni tecnologiche e di mercato che lo influenzeranno moltissimo:

 

TRE DIVERSE RIVOLUZIONI TECNOLOGICHE SONO IN ARRIVO

– la motorizzazione dei veicoli : (sempre più ibrida-elettrica o mossa da nuove tipologie di combustibile (esempio: idrogeno) e sempre meno diesel, anche in funzione delle esigenze ecologiche e di miglior comfort prestazionale (vibrazioni, rumore, accelerazione, frenata, sospensioni, tenuta di strada…)

– la tecnologia di guida dei veicoli: anche grazie alla digitalizzazione e allo sviluppo delle tecnologie ad essa collegate, ci si aspetta che i veicoli in circolazione saranno animati da grandi intelligenze artificiali, sempre più capaci di farli muovere in sicurezza e autonomamente, sfidando la crescente complessità di ogni contesto (dai centri città ai tunnel alla pioggia o neve),

– La condivisione della proprietà dei veicoli: dal momento che è stimato che ogni veicolo venduto venga utilizzato in media pochi minuti al giorno e che la congestione urbana del traffico spinge inevitabilmente a ridurne il numero in circolazione. Un’esigenza che rimodellerà anche il design dei veicoli, le loro caratteristiche di parcheggiabilità, durabilità e autonomia, data la necessità che ne consegue di poter restare in esercizio per il maggior numero di ore al giorno.

È chiaro che si tratta di tre potentissime ventate di novità che ci si aspetta potranno a breve termine cambiare radicalmente i connotati dell’intera filiera produttiva, ma è ancora più evidente che nessun operatore potrà in futuro fare a meno di importanti collaborazioni con quelli attivi in settori industriali completamente diversi dall’industria tradizionale vdell’auto:

I SETTORI INTERESSATI AL CAMBIAMENTO DELL’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA

– dalla fabbricazione di motori elettrici e dei sistemi di “power train” (gestione della trazione) sempre più efficienti,

– all’industria dei sensori di ogni genere,

– al settore informatico e dell’intelligenza artificiale

– a quello della conservazione dell’energia (batterie e sistemi alternativi, quali le fuel cells),

– fino all’industria dei nuovi materiali, dalla siderurgia al carbonio, al grafene, al vetro e ai nuovi materiali compositi plastici,

– o a quella del design e dell’arredo interno (ivi compresa la pelletteria e gli accessori)

– per finire con l’ergonomia e gli apparati elettro-medicali utili per la prevenzione degli infortuni.

NULLA SARÀ PIÙ COME PRIMA

Se però tutto questo è vero, è altresì realistico pensare che ben poco del panorama industriale nel settore “automotive” prossimo venturo resterà simile a quello attuale!

Con ogni probabilità dunque il “venture capital” e le “fusioni e acquisizioni” (anche e soprattutto trasversali a diversi settori economici) rimodelleranno e ridefiniranno completamente i confini dell’industria dell’auto, i moltiplicatori di valore di ciascun segmento, fino a decretare il successo o la disfatta di vecchi e nuovi gruppi industriali che riusciranno meglio di altri a cavalcare le ondate di rinnovamento sopra descritte.

Il probabile calo delle vendite degli “altri” veicoli e l’avvento di nuove normative che tenderanno a risultare più restrittive nei confronti dei veicoli inquinanti termineranno il lavoro della ridefinizione dell’industria automobilistica. Ovviamente in un tale contesto chi si ferma è perduto!

IL TRIONFO DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Ma se c’è un comparto che più probabilmente la farà da padrone è quello dell’intelligenza artificiale, sia nell’attirare i maggiori capitali e i migliori cervelli scientifici dati i moltiplicatori di valore che il mercato finanziario gli riserva, che nella pervasività delle innovazioni che esso determina, anche al di fuori dell’industria della mobilità.


Negli ultimi anni la robotica in generale e l’intelligenza artificiale in particolare hanno attratto le maggiori risorse dei capitali di ventura e la Silicon Valley è oggi tutta un fiorire di start-up tecnologiche focalizzate sulla guida autonoma dei veicoli e su tutto l’indotto che tale industria ha generato. Se va avanti di questo passo il cuore dell’industria dell’auto non potrà che spostarsi in California! Il Giornale della Finanza l’anno passato ha già pubblicato 3 articoli sui cambiamenti in arrivo nell’industria automobilistica : a proposito dell’ auto intelligente , a proposito della sua supply chain, e riguardo al fenomeno del car sharing .

Oggi sono però cresciute, con i capitali dei grandi investitori, grandi compagnie completamente dedite alla tecnologia della guida autonoma come ad esempio ZOOX, che ha recentemente raccolto 500 milioni di dollari per continuare a sviluppare un sistema completo di auto elettrica a guida autonoma (di fatto totalmente alternativa a case come Tesla), valutata implicitamente quasi 3 miliardi di dollari nell’operazione di aumento di capitale. Zoox ha assunto 500 risorse super-specializzate per sviluppare un proprio “robo-taxi” in grado di fare tutto da solo e afferma di esserci sostanzialmente già riuscita!

CAPITALIZZAZIONI DA SOGNO

Le più grandi società della Silicon Valley in concorrenza con Zoox sono peraltro dei colossi come Waymo, la società lanciata da Google nel settore della guida autonoma basata sull’intelligenza artificiale con la collaborazione di Fiat Chrysler e molte altre (BMW, HONDA, INTEL e DELPHI. In una recente intervista al capo analista di UBS Eric Sheridan Business Insider riporta che la sua valutazione come società una volta scorporata da Alphabet (la holding di Google) potrebbe toccare I 135 miliardi di dollari! Per fare un paragone la Ford Motor Co. capitalizza in borsa “soltanto” una quarantina di miliardi di dollari!

La General Motors ha invece acquistato CRUISE alla fine del 2017, valutandola 1 miliardo di dollari. Recentemente (fine maggio 2018) Softbank ha investito nella società 2,25 miliardi di dollari con un aumento di capitale che dovrebbe portarla a controllarne il 20% circa, valutandola implicitamente 11,25 miliardi di dollari.

Ci sono in realtà in questo momento oltre 50 società e filiali di altre aziende che hanno dei veicoli a guida autonoma in circolazione per le strade della California, tutte suscettibili di riuscire a vincere, nelle varie sfaccettature, la corsa all’auto intelligente! Ma soprattutto molte di queste hanno in corso il sorpasso della valutazione della loro casa-madre, quando non sono nate in modo del tutto spontaneo.

LA RIGENERAZIONE DEL SETTORE

Dal momento che le prime a investire in queste start-up sono state proprio le case automobilistiche tradizionali, non è difficile ipotizzare una salutare “rigenerazione” di quell’industria, anche perché sino a ieri a causa dell’oligopolio di fatto che ne preservava margini e quote di mercato, il settore dell’auto era rimasto a fabbricare -affinandole- sostanzialmente le stesse autovetture degli anni ‘90. Forse gli azionisti di controllo dei protagonisti della nuova generazione di costruttori di autoveicoli rimarranno quasi gli stessi, ma le risorse umane, le modalità di lavoro e gli stabilimenti produttivi non potranno che cambiare radicalmente nei prossimi mesi e anni, perché la rivoluzione del settore è in pieno corso!

Stefano di Tommaso




IL DESTINO DI FCA

Non c’è dubbio che le sorti di Fiat Chrysler Automobiles sian0 state inscindibilmente legate per 14 intensi anni a Sergio Marchionne (oggi sostituito per motivi di salute), il manager che prima ha fatto riacquistare la Fiat agli attuali azionisti di controllo (Exor) da General Motors cui essi l’avevano praticamente venduta a rate, poi l’ha salvata e infine l’ha rilanciata, anche attraverso l’acquisizione della Chrysler e lo scorporo di alcune controllate, tra le quali la Ferrari e la Case New Holland.

 

Dal 2004 infatti i ricavi del gruppo (ivi considerando anche Ferrari e CNH, tecnicamente fuori dal perimetro ma controllate dagli stessi azionisti di riferimento e di cui Marchionne era divenuto capo supremo) sono passati da 47 a 141 miliardi di euro del 2017, con un risultato netto passato da -1,4 a +4,4 miliardi di euro e una capitalizzazione ascesa da 5,5 a più di 60 miliardi di euro mentre il debito netto si è ridotto di oltre 10 miliardi di euro arrivando a zero.

Nonostante però Marchionne avesse già attentamente pianificato la sua successione, è chiaro che nel percorso che lo ha portato a tali successi egli ha mostrato doti eccezionali e tutti oggi si chiedono se chi prenderà il suo posto riuscirà a mostrare altrettanta capacità, anche perché il valore espresso dal gruppo nel suo complesso in Borsa teneva conto di un ambiziosissimo piano di crescita pubblicato lo scorso primo giugno, dove Marchionne scommetteva sul decollo della redditività del gruppo.

IL PIANO DI MARCHIONNE RIUSCIRÀ A MANLEY?

Sulla scia del piano pubblicato da Marchionne la Morgan Stanley si era spinta a individuare “sette passi che potevano potenzialmente raddoppiare il valore del titolo“:

  • Lo spin-off o vendita di Magneti Marelli: più 1 euro per azione FCA,
  • Lo spin-off di Maserati e Alfa Romeo: più 3 euro per azione FCA,
  • Il raggiungimento del rating investment grade (tripla B o piu): più 1 euro per azione FCA,
  • L’ottimizzazione del ramo finanziario: più 2 euro per azione FCA,
  • L’uscita dal business a marchio Fiat in Europa e America Latina: più 3 euro per azione FCA,
  • La nuova struttura di reporting su Jeep e Ram : più 4-6 euro per azione FCA,
  • La plusvalenza sulla partecipazione Waymo con cui FCA collabora per la tecnologia della guida autonoma dei veicoli: più 2 euro per azione FCA.

Il totale del potenziale di creazione del valore su quel piano ammontava dunque a un range tra 16 e 18 euro in più, con una valutazione che all’epoca era arrivata a 20 euro per azione e oggi è scesa a poco più di 16 euro (poco più di 6 volte gli utili) senza contare le possibili ulteriori plusvalenze in Ferrari e CNH. Addirittura gli utili della FCA sarebbero cresciuti più che corrispondentemente, da 6,6 miliardi di euro previsti per quest’anno (2018) ai 16 del 2022 (dal 6% all’11% dei ricavi), lasciando ampio spazio a ulteriori potenziali rialzi anche perché erano stati annunciati 9 miliardi di investimenti nel settore delle auto elettriche che si stima rappresenteranno per il medesimo 2022 oltre il 60% del mercato.

LA VALUTAZIONE DEL GRUPPO

Se si guarda perciò all’utile previsto per l’anno prossimo infatti il valore di capitalizzazione espresso come moltiplicatore degli utili netti scende a 4,4 volte, per non parlare del rapporto tra il medesimo valore di capitalizzazione e il fatturato: meno di 1/4 di quest’ultimo! FCA era inoltre di recente stata oggetto di “attenzioni” da parte della sue-coreana Hyundai, che aveva dichiarato a tutti, in occasione della pubblicazione del piano industriale, di attendere un momento più favorevole per lanciare un’Offerta di Pubblico Acquisto. Ma tale momento potrebbe essere arrivato, visto che il titolo ha perso in modo decisamente sospetto il 20% del suo valore (da 20 a 16 euro) dallo scorso primo Giugno ad oggi e che lunedì, alla riapertura dei mercati, potrebbe esserci un’ondata di ulteriori vendite “cautelative”.

E’ infine altrettanto vero che tutto quel potenziale di rivalutazione non era espresso solo da un uomo, anzi il suo successore sarà proprio il maggior presunto contributore ai risultati prospettati: quel Manley che guida la divisione che cresce di più: quella dei SUV e delle Jeep e che in caso di OPA (che adesso potrebbe arrivare tempestivamente) il prezzo subirebbe un indubbio salto in avanti.

Dunque non ci sono poi così tante ragioni per vendere il titolo sulla scia di un ricambio manageriale inatteso, se non quella -incontrovertibile-dell’incertezza.

Stefano di Tommaso




CRIPTOVALUTE

Una rivoluzione silenziosa sta sovvertendo l’ordine costituito dalle autorità monetarie: attraverso la rete i privati hanno iniziato a stampare moneta.  La più famosa di tutte le nuove monete (dette “criptovalute” perché la gestione decentralizzata delle transazioni ne permette l’assoluta riservatezza) si chiama Bitcoin e usa una tecnologia peer-to-peer (punto a punto) che esclude la presenza delle Banche Centrali  e non prevede controlli da parte di Autorità monetarie. Ciò ha provocato una brusca reazione da parte di queste ultime, che in buona parte del mondo sono recentemente intervenute per opporvisi, quando ne hanno osservato la diffusione dilagante. Ma il mondo va sempre avanti e le cose stanno per cambiare.

 

La creazione di criptovalute viene effettuata collettivamente dalla rete: essa non necessita di alcuna autorità centrale perché la blockchain (la tecnologia che permette di certificarne la validità delle transazioni) è “open-source” vale a dire che la proprietà intellettuale della sua progettazione è pubblica. Di conseguenza nessuno la possiede o controlla il Bitcoin e nessuno può influenzarne il funzionamento. Ogni nodo partecipa attraverso le proprie transazioni al conio e quindi alla creazione della base monetaria che avviene secondo regole matematiche ed è automatizzata. Non c’è tracciabilità delle transazioni e soprattutto non c’è la necessità -né è compatibile con il meccanismo- l’esistenza di un autorità monetaria.

Le legislazioni di vari Paesi, anche allo scopo di tassare le plusvalenze realizzate, ancorché non monetizzate sulle oscillazioni del valore delle criptovalute, le assimilano fiscalmente a quelle sui titoli denominati in valuta straniera.
I governanti, oggi tutti assorbiti nel sistema della “mediocrazia”,  sono molto più attenti all’aspetto fiscale sul quale sono chiamati costantemente a rendicontare ai propri elettori, e nel caso dell’Europa, anche ai propri colleghi dell’Unione, piuttosto che non alla regolamentazione di un fenomeno che molto probabilmente nei prossimi anni determinerà, e che in qualche modo già sta determinando, la più importante rivoluzione digitale nella determinazione della base monetaria.

Alcuni cenni storici: da Bretton Woods allo svincolo delle valute dalle riserve auree delle nazioni

La conferenza di Bretton Woods, che si tenne dal 1º al 22 luglio 1944 nell’omonima località nei pressi di Carroll (New Hampshire) per stabilire le regole delle relazioni commerciali e finanziarie internazionali tra i principali paesi industrializzati del mondo occidentale, aveva generato una una serie di accordi per definire un sistema di regole e procedure atte a controllare la politica monetaria internazionale, che aveva stravolto il sistema previgente, denominato “Gold Standard”.
Con gli accordi di Bretto Woods si era passati dalla stampa della moneta legata alle riserve auree di ciascuna nazione, a un ordine monetario flessibile, concordato tra le singole nazioni e gli Stati Uniti d’America. Questi ultimi, quale economia ègemone nel mondo, assicuravano la stabilità monetaria riservandosi di fatto di regolare i rapporti monetari tra stati nazionali indipendenti attraverso il Dollaro Americano, il quale a sua volta manteneva la convertibilità in oro.
In pratica il sistema divenne così un “Gold Exchange Standard”, basato sulla definizione di rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al Dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro ma senza che di fatto vi fosse da parte delle altre nazioni un controllo della quantità di Dollari stampati.

Negli anni ‘60 tuttavia il mondo visse un boom economico senza precedenti e, con la guerra del Vietnam ed il programma di welfare chiamato Grande Società, gli USA fecero aumentare di molto la loro spesa pubblica finanziandola con la stampa eccessiva di nuovi Dollari, mettendo in crisi il sistema. Il timore per il crescente indebitamento degli USA aumentava le richieste di conversione dei Dollari nell’oro detenuto dalla Federal Reserve Bank of America.
Ciò spinse il presidente statunitense Richard Nixon, il 15 agosto 1971, ad annunciare, a Camp David, la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Le riserve statunitensi si stavano pericolosamente assottigliando: il Tesoro degli USA aveva già erogato oltre 12.000 tonnellate di oro.

Nella gestione del Fondo Monetario Internazionale erano già operativi i Diritti Speciali di Prelievo con un valore puramente convenzionale di un diritto speciale di prelievo per un dollaro.  Nel dicembre del 1971, il gruppo dei Dieci firmò lo Smithsonian Agreement, che mise fine agli accordi di Bretton Woods, svalutando il dollaro e dando inizio alla libera fluttuazione dei cambi. Nel febbraio del 1973 ogni legame tra oro e dollaro e tra quest’ultimo e le altre valute nazionali venne definitivamente reciso, così che il Gold Exchange Standars fu sostituito dal sistema attuale di cambi flessibili e dalla sparizione del riferimento ad un valore tangibile (quale l’oro detenuto) della base monetaria emessa da ciascuna nazione.
Per quello che riguarda l’Europa, infine, l’Euro divenne la moneta degli stati dell’Unione europea dal 1 gennaio 2002. Inizialmente i paesi aderenti furono dodici, passati poi a diciassette nel corso di un lungo processo, i cui passi iniziali furono rappresentati dal Trattato di Maastricht del 1992 e dalla nascita della Banca Centrale Europea, a cui le banche centrali delegarono la funzione monetaria.

L’egemonia delle Banche Centrali

La breve cronistoria qui rappresentata (in modo così sintetico da non avere nessuna pretesa di rigore espositivo) ha semplicemente la funzione di esprimere ciò che era assolutamente lapalissiano, ossia che, storicamente e fino ad oggi, la funzione monetaria è sempre stata regolata direttamente dagli Stati Sovrani prima, e dalla Banche Centrali poi. Queste ultime nel tempo si sono si sono sottratte al controllo dei rispettivi Stati sovrani in nome della necessità di rigorosa autonomia, e si sono attribuite addirittura funzioni parzialmente diverse tra loro: per esempio la Banca Centrale Europea, per la particolare circostanza determinata dal fatto che a fronte una moneta unica non vi sia un governo unico e quindi un sistema-paese economico sottostante, ha come fine esclusivo quello della stabilità monetaria, a differenza delle altre principali banche centrali, che hanno quale prima funzione quella di sostenere l’economia del paese e negli USA addirittura di monitorare la disoccupazione.

Qualunque sia il fine, nonostante questa particolare condizione di “orfano” della Banca Centrale Europea, le determinazioni della base monetaria, fino alla nascita delle criptovalute, sono scelte consapevoli, giuste o sbagliate che siano, guidate da una precisa volontà, dall’accordo tra i Paesi membri dell’euro-zona e da scelte di politica economica. Le banche centrali, sulla base di regole e accordi, che lentamente potevano mutare nel tempo, erano fino a ieri le uniche a potere stampare moneta perchè erano le uniche a poter avere la credibilità per farlo.

Sta di fatto che il sistema delle monete diverse dal Dollaro, quelle cioè dove lo Stato non riesce a determinare quanta moneta debba essere stampata per pagare i debito pubblico (come può avvenire negli Stati Uniti d’America), è stato percepito dagli operatori, ma anche dagli Stati stessi, come un’ingiusta imposizione e un vincolo alla crescita. I modelli economici tradizionali non possono infatti disgiungere nel loro funzionamento gli aspetti legati alla quantità di moneta iniettata nel sistema e quelli legati alla quantità di debito.

Joseph Stiglitz, premio Nobel e già vice presidente della banca Mondiale osserva:

“Vediamo gli errori concettuali alla base del progetto dell’euro (…). quando si crea un’area monetaria unificata si vanno ad eliminare due meccanismi di aggiustamento delle diversità dei sistemi economici sottostanti: i tassi di cambio e i tassi di interesse. Degli shock sono perciò inevitabili e, in assenza di meccanismi di aggiustamento, si va incontro a lunghi periodi di disoccupazione. I 50 stati federati degli Usa hanno un bilancio unitario a livello federale e due terzi della spesa pubblica negli Stati Uniti sono a livello federale. Quando uno stato come la California ha un problema, può contare ad esempio sull’assicurazione pubblica contro la disoccupazione, che è finanziata da fondi federali. Se una banca in California è in crisi, viene attivato un fondo di emergenza anch’esso dotato di risorse federali. Un’altra differenza di fondo tra gli stati che compongo gli Usa e quelli dell’Unione Europea è che nessuno negli Stati Uniti si preoccuperebbe per lo spopolamento del Sud Dakota a seguito di una crisi occupazionale, anzi, l’emigrazione è vista come un meccanismo fisiologico.”
“Ma in Europa un’emigrazione come quella che ha caratterizzato la componente più giovane e istruita della popolazione del sud Europa dove la disoccupazione giovanile è a livelli elevatissimi ha effetti negativi di impoverimento di quei paesi, con tensioni sociali e frantumazione delle famiglie. Sono costi sociali che non sono calcolati dal Pil. Tutto ciò era stato in qualche modo previsto nel momento in cui si è deciso di introdurre l’euro (…)”
“Quali altri errori sono stati compiuti con l’introduzione dell’Euro? Innanzi tutto l’idea che le cose si sarebbero risolte se i paesi avessero mantenuto un basso rapporto tra deficit o debito pubblico e Pil.  È l’idea che sta dietro al Fiscal compact. Ma non c’è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai criteri di convergenza adottati in Europa.
L’aver introdotto un Fiscal compact che impone vincoli ferrei al disavanzo e al debito non risolverà i problemi, né aiuterà a prevenire la prossima crisi.
Un altro elemento che non è stato valutato appieno è che quando un Paese si indebita in euro, piuttosto che in una moneta emessa dal paese stesso che contrae il debito, si creano automaticamente le condizioni per una crisi del debito sovrano. Il rapporto debito/Pil negli Stati Uniti è analogo a quello europeo ma gli Usa non avranno mai una crisi del debito sovrano come quella che ha investito l’Europa. Perché? Perché l’America si indebita in dollari, e quei dollari verranno sempre rimborsati perché il governo degli Stati Uniti può stampare altri propri dollari.
La crisi che ha colpito i debiti sovrani di numerosi paesi europei negli ultimi anni è simile a quanto ho visto molte volte quando ero capo economista della Banca Mondiale: paesi come l’Argentina o l’Indonesia hanno vissuto profonde crisi causate proprio dal fatto che si erano indebitati in valute che non potevano controllare. Quando questo avviene c’è sempre il rischio di una crisi del debito, e in Europa le condizioni per questo tipo di crisi sono state create con l’introduzione dell’euro”.

Difficile arrestare il progresso delle Criptovalute

Ben si capisce quale sia la portata innovativa del fenomeno delle Criptovalute, probabilmente destinate a diventare nel tempo un’ordinario strumento di pagamento una volta rimossi i divieti e i sospetti che sino ad oggi ne hanno frenato lo sviluppo. E non è difficile immaginare che, in futuro, esse possano addirittura diventare moneta di indebitamento degli Stati Sovrani. D’altronde la volatilità del prezzo delle criptovalute sia di fatto molto più bassa delle svalutazioni che subiscono alcune monete del Sud America e dell’Africa. È difficile valutare quale sarà la portata innovativa di un fenomeno che, di fatto, consente a chiunque, o quasi di generare dei nuovi Token, e quale potrebbe essere l’effetto dell’introduzione di una blockchain da parte di  un Paese, che di fatto, si troverebbe a generare un Token, ossia una moneta elettronica da affiancare alla moneta tradizionale, forse attraendo una serie di investimenti che, per esempio avrebbero l’effetto degenere di sfuggire a ogni forma di tracciabilità.

Bitcoin, era nata come strumento per l’acquisto dei videogiochi, e la genialità del suo impianto, non era sufficiente a lasciare presumere una diffusione di tal genere come strumento valutario. Emulando e cercando di migliorare alcuni difetti congeniti di Bitcoin, sono nate e si sono sviluppate, numerose altre criptovalute, denominate generalmente “altcoin”, cioè, appunto “coin alternativi”. La più diffusa, al momento in cui scrivo è certamente Ethereum, che nasce proprio per consentire le transazioni.

Le “Initial Coin Offer” e i pericoli ad esse legati

Una ICO è una Initial Coin Offer. Ovvero un’offerta iniziale di una nuova moneta, un’ICO implica la distribuzione di coin o token tra le parti interessate. Nell’ambito delle criptovalute i token sono le monete vere e proprie, quelle fisiche che si possono tenere nel proprio portafoglio e che  permettono l’acquisto di beni o servizi.  Il Token si basa sul lancio iniziale di una ICO (Initial Coin Offering), vale a dire un’offerta pubblica di sottoscrizione, con la quale chi lo emette reperisce risorse finanziarie in modo alternativo al crowdfunding coniando appunto il proprio gettone. In sostanza l’azienda che ha un’idea di business può creare un certo numero di gettoni denominati “token” che vende sul mercato ad un determinato prezzo prescelto. La dinamica di domanda e offerta dei token determinerà successivamente delle variazioni di prezzo degli stessi.

È opportuno sottolineare che le ICO sono generalmente non regolamentate, oltre che difficilmente regolamentabili da un singolo stato, in un sistema totalmente globalizzato, e, quindi, espongono coloro che acquistano i relativi token ad un rischio significativo legato alle sorti di chi le emette, ma trattandosi per lo più di start up, vi è anche la possibilità di generare plusvalenze importanti.
Al token creato tramite le varie piattaforme viene assegnato un valore fisso per il periodo delle ICO. Viene fissato il numero massimo di token, chiamato in gergo total supply. In seguito, la domanda di token determinerà oscillazioni di valore e la società potrà procedere ad ulteriori emissioni.
Le aziende usano le ICO perché hanno direttamente accesso al capitale da investire senza dover dare interessi ad un privato, dover pagare fees ad un portale di crowdfunding e avere un bacino d’utenza enorme per i loro investimenti, ma soprattutto, l’azienda che ha creato il Token, incassa un controvalore in criptovaluta, che di fatto, sfugge in massima parte alla legislazione sulla sollecitazione del pubblico risparmio.

La gente incomincia ad usare token, altcoin, e bitcoin, come strumenti di pagamento, anche senza che avvenga alcuna conversione, da una critovaluta all’altra, come se si trattasse di dollari, euro, sterline o yen. È evidente, che in un economia, con questo grado di fluidità le banche centrali diventano solo uno dei potenziali fornitori di prodotto monetari sostitutivi della moneta privata. Nel 2015 colpì moltissimo un un candidato presidente del Stati Uniti d’America, poi ritirato, Paul Rand, che annunciò nel 2015 che accettava contributi alla sua campagna presidenziale in bitcoin.
Oggi, sempre di più le aziende si stanno attrezzando per accettare un maggior numero di criptovalute in pagamento, ma è molto interessante capire, che cosa succederà, quando dovessero essere gli Stati stessi a proporre il lancio di COIN. È evidente che si tratterà di una vera e propria rivoluzione del sistema di determinazione delle basi monetarie, che non saranno più regolati dai meccanismi della macroeconomia. L’impresa ALFA e lo stato BETA; potranno presentare ciascuno la propria Blockchain.

C’è da immaginare che comunque saranno nel tempo stabiliti dei meccanismi di tutela che, probabilmente cercheranno, in qualche misura di ridurre il rischio per il piccolo risparmiatore, ma difficilmente, almeno con la tecnologia attuale, questa regolamentazione potrà risolvere il rischio connesso a un sistema valutario che nasce proprio per essere al di fuori del sistema della regolazione dell’emissione e della circolarizzazione della moneta tradizionale.

La reazione delle Banche Centrali

Non è un caso che proprio il citato Joseph Stiglitz, in occasione del World Economic Forum di Davos del 2018, abbia dichiarato alla Bloomberg Television che il Bitcoin non svolge alcuna funzione, tranne permettere di aggirare le leggi e abbia auspicato che la criptovaluta sia messa fuori legge. In effetti, dal 30 gennaio sono entrate in vigore le nuove norme della Corea del Sud. Seul obbliga le banche locali a vietare operazioni provenienti da conti anonimi per il trading in criptovalute, con l’obiettivo di poter rendere tracciabili e trasparenti le transazioni e mettere un freno al riciclaggio e alle attività criminali, oltre che alla speculazione e all’evasione fiscale.

Come spiegato dal vice presidente della Financial Services Commission coreana, Kim Yong-beom, Seul impone il divieto di trading per i residenti all’estero che non hanno conti correnti bancari in Corea e per i minori di 19 anni. Pechino, invece, ha deciso di boccare i siti web che consentono di fare trading e di raccogliere fondi mediante criptovalute. sul fronte asiatico, anche l’India sarebbe pronta a mettere al bando il Bitcoin e tutte le altre criptomonete, così come annunciato dal ministro delle Finanze Arun Jaitley. “Il governo (indiano) considera le criptovalute illegali e prenderà tutte le misure per vietare l’uso di queste per il finanziamento di attività illecite o come strumento di pagamento”, ha detto Arun Jaitley, il primo febbraio, nel suo discorso sulle previsioni di Bilancio 2018.

Difficile dargli torto, ma è altresì impossibile non notare il conflitto di interessi che si cela dietro la condanna della libertà valutaria! E’ probabile che proprio per questo motivo alla fine la rete globale possa sceglierne solo una, indipendente da tutti ma anche sufficientemente affidabile per custodire in sicurezza i risparmi della gente comune.

Ma Wall Street potrebbe cavalcare la tigre

Intanto però, a Wall Street invece si va nella direzione di ottenere il via libera della Sec alla quotazione del primo Etf a livello mondiale (l’ETF è un fondo dì investimento quotato in borsa) che investe in Bitcoin. È previsto un responso dalla SEC (la CONSOB americana) per il prossimo 10 Agosto. Se sarà positivo l’America avrà di fatto legalizzato l’investimento in Bitcoin (accettando implicitamente l’esistenza delle criptovalute). Se ciò avverrà, allora è possibile che i portafogli degli operatori torneranno a denominare in Bitcoin parte delle loro disponibilità per effetto della sua implicita accettazione, e soprattutto che i pagamenti in tale divisa torneranno ad essere considerati “normali” sulla piazza finanziaria più importante della terra. A quel punto la “guerra alle criptovalute” mossa dalle banche centrali di mezzo mondo sarebbe già stata perduta.

Alessandro Arrighi