LO SCANDALO FACEBOOK ACCENDE I RIFLETTORI SULLA VOLATILITÀ DEI TITOLI TECNOLOGICI

Nella sola giornata di borsa di lunedì i 6 più famosi tra I titoli cosiddetti “tecnologici” (FAAMGN: Facebook, Apple, Amazon, Google, Netflix e Microsoft) hanno perduto valore per complessivi quasi 12 miliardi di dollari (100 miliardi di euro).  L’occasione che ha acceso la scintilla delle vendite è stata sicuramente il ribasso sul titolo Facebook, a causa del fatto che la polemica sull’elezione di Donald Trump l’ha coinvolta per aver permesso l’accesso ai dati personali di 50 milioni di suoi utenti a una società di consulenza che lavorava per l’elezione del futuro presidente. Ma la caduta nel valore di capitalizzazione di Facebook è valsa solo 39 miliardi di dollari, mentre gli effetti complessivi sui FAAMGN sono assommati a tre volte tanto.

L’evento, per nulla inusuale sui mercati borsistici internazionali quando si parla di titoli a larghissima capitalizzazione e legati alla sfera di Internet (vedi tabella)

ha comunque scatenato una caterva di timori, considerazioni e commenti da parte degli analisti di borsa, e non a caso.

Molti segnali di allarme circondano i mercati finanziari da quando i valori di borsa sono andati alle stelle e soprattutto riguardo ai titoli tecnologici, che sono quelli cresciuti maggiormente nell’ultimo anno.  Bisogna infatti ricordare che l’intero comparto è cresciuto nell’ultimo anno del 31% e che l’indice dei titoli tecnologici (lo SP500 Information Technology Index) è arrivato a una valutazione media di quasi 19 volte gli utili attesi, il 12% della sua media di lungo periodo (15 anni).

Da tempo diversi investitori con una filosofia di approccio di tipo etico hanno iniziato a dismettere le loro partecipazioni in questo genere di azioni quotate, nel timore di qualche scandalo, mentre anche Apple sta da tempo fronteggiando perplessità legate alla tenuta della sua filiera di approvvigionamento di materiali e componenti pregiati (vedi grafico)

Rimangono inoltre irrisolti i dubbi sulla possibilità che un’ondata di nuove regolamentazioni possano limitare le aspettative di crescita del commercio elettronico e dei social media e poi in molti si interrogano circa la validità della scelta della Federal Reserve Bank of America (la banca centrale americana) di alzare ancora una volta i tassi di un altro quarto di punto (sapremo mercoledì se lo farà davvero) nonostante l’inflazione non abbia ancora dato segni preoccupanti e le borse appaiano decisamente più caute.

Ma soprattutto i dubbi degli investitori si concentrano sulla possibilità che i picchi raggiunti dalle quotazioni negli ultimi mesi possano scatenare sulle quotazioni borsistiche le medesime conseguenze che ebbe all’inizio del nuovo millennio lo scoppio della bolla speculativa dei titoli della “new economy” detta anche “bolla delle Dot Com” (vedi grafico). Dall’inizio dell’anno ad oggi I titoli del settore “public utilities” (acqua, elettricità, servizi pubblici eccetera) sono scesi del 5% mentre I titoli tecnologici sono saliti del 7% e mostrano spesso valutazioni completamente scollegate con gli usuali criteri finanziari.

Continueranno a scendere fino a creare una vera e propria valanga ? Probabilmente no: non sembrano esserci le condizioni perchè si formi una vera e propria voragine sui mercati. Ma come già altre volte abbiamo già preso atto, quest’anno la volatilità sembra essere di nuovo protagonista, e non è detto che il futuro non ci riservi nuove terribili sorprese!

Stefano di Tommaso




L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE È LA “NUOVA ELETTRICITÀ“ E LA CINA NE VUOLE IL PRIMATO

Ecco forse un buon motivo perché non scoppierà l’attuale bolla speculativa dei titoli tecnologici: l’intelligenza artificiale è la nuova frontiera delle start-up tecnologiche e qualsiasi cosa un essere umano possa fare in meno di un secondo, già oggi è facilmente replicabile dall’intelligenza artificiale.

 

È ovvio che ciò cambierà l’intero scenario industriale così come l’elettrificazione l’ha cambiata all’inizio del ventesimo secolo e dunque c’è un disperato bisogno di accaparrarsi queste tecnologie per rimanere efficienti.

Già oggi l’intero comparto industriale della robotica è in pieno fermento, a causa del fatto che l’industria non può rimanere indietro nell’efficienza dei costi di produzione, ma questo non significa ancora aver varcato la soglia dell’intelligenza artificiale : le macchine che apprendono da sole e che si organizzano per eseguire lavori complessi saranno figlie dell’ “internet delle cose”, capace di generare una notevole mole di informazioni che saranno poi processate dall’intelligenza artificiale allo scopo di poterle usare come base dati di partenza.

Sì perché lo sviluppo dell’intelligenza artificiale si basa sulla possibilità di riuscire a esaminare una gran mole di dati per dedurne una serie di comportamenti “intelligenti”, appunto. Per riconoscere I volti umani, per interloquire con loro, per prendere decisioni “razionali” i processori devono realizzare copiose “inferenze” statistiche, sulla base delle quali potranno risultare affidabili. Dunque anche la problematica della velocità del trasferimento dei dati e della loro elaborazione è cruciale per poter realizzare la base dell’intelligenza artificiale: i “sistemi esperti”. Dunque la dimensione delle informazioni disponibili è l’aspetto che permette di evolverli.

E’ noto ad esempio che nella battaglia per il primato nella guida autonoma delle autovetture è Tesla al comando, perché ha il maggior numero di mezzi in circolazione con già al loro interno i sistemi per rilevare e inviare i dati rilevati nelle varie situazioni stradali incontrate. Dunque più automezzi Tesla con sistemi più o meno parziali di guida automatica saranno in circolazione e più Tesla sarà in grado di trasformare i miliardi di informazioni raccolte in miglioramenti dei propri sistemi di guida.

Lo stesso criterio ci porta a immaginare che molto presto sarà la Cina a vincere la battaglia per il primato dell’intelligenza artificiale applicata al commercio e all’industria. La Cina ha infatti la più estesa base industriale installata al mondo e il maggior numero di utenti internet. Questo può fornirle un grosso vantaggio notevole nella corsa alla prossima rivoluzione industriale: acquisire la più ampia base dati e applicarla nello spettro più ampio possibile delle attuali tecnologie .

Le principali società tecnologiche cinesi (Baidu, J.D., Tencent e persino Alibaba) hanno già a disposizione un‘ amplissima base dati della loro clientela “retail” (che in molti casi rasenta il miliardo di individui) e stanno investendo moltissimo nell’intelligenza artificiale per poterla utilizzare in ogni direzione, esattamente come oggi sta già facendo Google. Ma il continente asiatico raccoglie quasi dieci volte la popolazione di quello americano, e con una sete di progresso nemmeno paragonabile.

 

D’altra parte se ne capisce anche la motivazione: se l’intelligenza artificiale è destinata a cancellare il 20-30% degli attuali posti di lavoro e ben pochi suoi abitanti possono oggi vivere con una rendita finanziaria, è altrettanto necessario che quei posti di lavoro di industria e commercio siano rimpiazzati con quelli nella gestione delle tecnologie. Ogni tanto la pianificazione centralizzata dell’intero apparato industriale cinese presenta anche qualche vantaggio per il Paese!

Stefano di Tommaso




CACCIA AI GESTORI DI PATRIMONI

SALE LA FEBBRE DELLE ACQUISIZIONI PER SOCIETÀ DI GESTIONE E IN PARTICOLARE PER QUELLE SPECIALIZZATE IN INVESTIMENTI ALTERNATIVI

Un certo numero di grandi gruppi finanziari ha stanziato negli ultimi tempi somme importanti per identificare e acquisire società di gestione dei patrimoni, banche specializzate nel settore “private” e compagnie assicurative del ramo “vita” in tutti i Paesi industrialmente più avanzati.

Sono oggetto di maggior interesse in particolare quelle europee e specializzate in forme di investimento alternative, nel private equity e negli investimenti immobiliari. Evidentemente quel che risulta chiaro agli attori di tali iniziative è che la crescita organica risulta troppo lenta o poco remunerativa in comparazione con la possibilità di crescere per linee esterne, cioè attraverso acquisizioni.

UNA PROSPETTIVA DI MERCATO INTERESSANTE MA IL SETTORE SI AVVIA AD ESSERE SEMPRE PIÙ CONCENTRATO IN POCHE FORTI MANI

I prossimi anni vedranno infatti un affollamento di pensionamenti dei “baby boomers” nati negli anni cinquanta e sessanta, ciascuno con il suo piccolo o grande malloppo di risparmi per la vecchiaia, mentre un sempre minor numero dei medesimi appare intenzionato a “fare da sè” nella gestione degli investimenti. Una prospettiva dunque in crescita e con margini apprezzabili, sebbene la sempre maggior concentrazione del mercato del risparmio gestito in pochi grandi “player” e la scarsità di società “obiettivo” non faccia che aumentare decisamente le valutazioni di queste ultime. È notizia fresca (Financial Times di venerdì 16/3) che anche Amundi (che l’anno scorso ha acquisito Pioneer in Italia) si sia lanciata nella corsa stanziando circa mezzo miliardo di euro, mentre sta per quotarsi in Borsa a Londra DWS, il ramo di private banking di Deutsche Bank mentre anche le americane Goldmann Sachs e Blackstone, l’australiana Challenger stanno partecipando alla corsa per acquisire tanto patrimoni in gestione quando competenze specialistiche e specificità territoriali mentre infine Elliot Management (la medesima al centro della querelle su TIM) si prepara a una mega-acquisizione della compagnia di assicurazioni “vita” americana Prosperity Life.

UNO SCENARIO COMPLESSIVO EVIDENTEMENTE RASSICURANTE MA ANCHE L’OPPORTUNITÀ DI UNA CRESCITA CONCATENATA

Evidentemente lo scenario dei mercati finanziari non appare a nessuno di questi grandi gruppi così preoccupante, la corsa alla risalita dei tassi un fenomeno non certo destabilizzante e le prospettive economiche non certamente tali da inibire valutazioni da capogiro e forti incentivi ai managers che ci lavorano. Si parla infatti di valori d’azienda compresi tra le 9 e le 11 volte il margine di intermediazione, con punte anche molto superiori. L’aspettativa implicita degli acquirenti è dunque che i mercati finanziari non vivranno a breve grandi sconvolgimenti, che i robo-advisers non devasteranno il mercato, che le commissioni di gestione non subiranno ulteriori riduzioni.

Bisogna d’altronde notare che il mercato del risparmio gestito continua la sua crescita e parallelamente prosegue la corsa alla sua concentrazione in poche grandi mani. Le acquisizioni in questione possono infatti riservare due differenti vantaggi ai loro promotori: crescere in velocità dimensionalmente, per raggiungere le opportune economie di scala in un settore – quello del risparmio gestito – sempre più globalizzato, ma anche eventualmente attivare un interessante gioco di scatole cinesi facendo si che ciascuna società o banca acquisita possa a sua volta utilizzare le risorse finanziarie in gestione per effettuare altre acquisizioni a valle, cogliendo un’opportunità di leva implicita in un settore che evidentemente rimane nonostante tutto ancora relativamente poco monitorato dalle autorità di vigilanza.

 

Stefano di Tommaso




TRE SGUARDI SULLA CINA

In questo momento di grande fermento, in particolare nel continente  asiatico, dove la crescita economica è più forte e la demografia è migliore che nel resto del mondo, la Cina è sotto i riflettori dei “media” in quanto crescente potenza mondiale. È in questo contesto che stanno maturando taluni bradisismi capaci di sovvertire gli equilibri precedentemente raggiunti in campo geopolitico, economico e finanziario. E in tutti e tre i campi qualcosa sta avvenendo, che spesso non piace ai commentatori occidentali ma che ha invece molto senso dal punto di vista strategico: in tutto il continente il potere politico sta riprendendo il sopravvento, in nome della stabilità.

 

XI JINPING AL COMANDO

Parliamo innanzitutto dei bradisismi che riguardano la politica, dei quali il più evidente di tutti appare senza dubbio l’abolizione del limite di due mandati presidenziali per l’attuale leader del partito popolare cinese, praticamente l’unico partito ammesso.

In una recente seduta del Parlamento egli ha ottenuto una vera e propria ovazione e (quasi) l’unanimitá nel richiedere che venisse rimosso il limite dei due mandati quinquennali per la stessa persona quale Presidente.

Un risultato importante, che mette il Paese al riparo dai giochi di potere che avrebbero potuto svilupparsi qualora la corsa per successione all’attuale leader fosse partita.

La stampa internazionale ha giudicato in modo molto diffuso questa notizia negativamente (magari strumentalmente all’affermazione della mancanza di democrazia in Cina) ma io vorrei avanzare in proposito qualche perplessità: rimuovere il limite dei due mandati al Presidente della Repubblica in un continente come quello asiatico non significa abdicare alla democrazia (che non c’è comunque, ma se fino ad oggi tutti hanno fatto affari con la Cina e nessuno se n’è scandalizzato un motivo ci sarà), perché esiste sempre la teorica possibilità che egli non venga rieletto.

Ma se questo Presidente ha tenuto a bada le lobby di influenza occidentale o ha fatto troppo ricco il Paese allora si che non è meglio che resti. Esattamente come sta avvenendo in Russia con Putin, che resta ben oltre i due mandati e non ci va esattamente con mano leggera, ma piace al suo popolo.

LA GUERRA COMMERCIALE CON GLI AMERICANI

Ma siamo sicuri che sia mai esistita? Una contrapposizione forte alla crescita economica cinese, giudicata allora pericolosa per la sicurezza nazionale, c’era ai tempi di Obama (e della Clinton segretario di Stato), ma adesso -se guardiamo ai fatti- è quasi il contrario. Non è passato molto tempo da quando Donald Trump ha invitato nella sua villa sul mare il Presidentissimo, e da quando di conseguenza si sono sviluppati numerosi accordi di collaborazione. È vero che Trump punta a difendere l’industria nazionale dal dumping delle fabbriche di stato e dalle politiche di cambio aggressive dei cinesi, ma questo deve ancora iniziare a costituire un vero problema nelle relazioni tra i due Paesi.

Qualcuno ha fatto notare che le importazioni a basso prezzo dalla Cina creano benessere per gli Americani, ma la verità è che il liberismo a senso unico (la Cina non lascia libera circolazione delle merci americane sul suo territorio) e soprattutto l’assenza di liberismo finanziario male si conciliano con quello mercantile. Persino l’Unione Europea qualche balzello alle importazioni americane lo ha sempre messo.

Notiamo inoltre che da qualche anno tutti i Paesi che avevano puntato sulla,delocalizzazione industriale, sulla finanza e sul commercio, stanno tornando a ripristinare l’apparato produttivo interno prima che sia troppo tardi.

In questa prospettiva l’accusa di protezionismo a Trump appare come l’ennesima occasione dei “media” occidentali per gettargli addosso del fango.

IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE FA PRESSIONI

Nemmeno sul versante finanziario l’Occidente ha dormito nel cercare di contrastare l’avanzata cinese quale prima potenza globale. Dal punto di vista economico lo sarebbe stata già dal 2012 se non fosse stato svalutato il Renminbi e, poiché la ricchezza delle nazioni si misura ancora in Dollari -per ora- essa resta al secondo posto.

Sono anni però che gli organismi sovranazionali premono perché l’erogazione del credito in Cina si riduca, adducendo problemi di stabilità del sistema finanziario che, se crollasse, creerebbe numerosi problemi anche al resto del mondo.

Ma sappiamo che il grosso dei prestiti ai privati in Cina avviene attraverso il sistema bancario-ombra, vale a dire attraverso il locale mercato dei capitali interno. Pericoloso anch’esso, certamente (a causa della scarsa capitalizzazione delle finanziarie private), ma sicuramente non finanziato con denaro di Stato se non in via molto indiretta. Dunque il fantomatico problema del sistema finanziario cinese si sposta sul denaro pubblico, quello che lo Stato potrebbe stampare in eccesso, avviando una pericolosa inflazione.

Ma la Cina batte propria moneta e dunque il disavanzo di Stato non può che scaricarsi sulla debolezza della moneta, contrastata dai controlli sui flussi di esportazione dei capitali ma che tutto sommato non dispiace a nessuno, dal momento che lascia molta competitività alle esportazioni cinesi.

Ecco perché a Trump non resta che alzare il prezzo delle merci che arrivano in America: perché ogni altra iniziativa sarebbe molto più ostile.

Stefano di Tommaso