QUANTO DURERÀ LA CRESCITA ECONOMICA?

Da un paio d’anni i dati statistici ci hanno abituati a rimanere ogni volta positivamente stupiti: da tempo infatti in America si paventa l’inversione del ciclo economico positivo e poi invece si finisce per prendere atto del suo rilancio. Si è detto che ciò accada grazie a Trump, al suo taglio fiscale e, adesso, a grazie alla prospettiva del lancio di grandi progetti infrastrutturali (anche se verosimilmente non prenderanno forma prima della fine dell’anno).

 

L’ALLUNGAMENTO DEL SUPER-CICLO ECONOMICO

Probabilmente le concause dell’allungamento del ciclo economico sono molto più numerose che non solo quelle politiche, ma è doveroso ricordare che era da molto tempo che il Presidente degli Stati Uniti non veniva preso così pesantemente a schiaffi dai media e viene da pensare che dunque almeno una parte delle accuse che gli vengono mosse dai grandi media (la quasi nostra unica fonte di notizie) non sia poi così fondata e imparziale. Se così fosse allora qualche merito della crescita ce l’avrebbe anche il Presidente, quantomeno in termini di iniezione di entusiasmo e ottimismo che sappiamo bene quanto possano giovare.

(Citiamo l’America a proposito delle tendenze del Prodotto Interno Lordo perché è arcinoto che quasi tutto quel che accade prima colá poi, con ritardo e moderazione, arriva anche in Europa. Ma negli ultimi anni tra le varie regioni del mondo è iniziato un certo sincronismo e pertanto il divario temporale tra quel che accade in America e quello che succede nel Vecchio Continente tende sempre più a ridursi, mentre addirittura è spesso e volentieri il Continente Asiatico quello che anticipa le nuove tendenze)

FANNO BENE LE BANCHE CENTRALI AD ALZARE I TASSI?

Ebbene in quasi tutto il mondo si inizia a prendere atto che la minaccia inflazionistica (così come era stato per quella deflazionistica prima del Quantitative Easing globale) non ha al momento consistenza e che dunque il pluriannunciato programma delle Banche Centrali di rialzo continuo dei tassi, di risucchio della liquidità immessa in passato e di nuove stringenti richieste di ulteriore capitalizzazione delle banche potrebbe essere fuori luogo e anzi estremamente dannoso.

Se così fosse, seppure non nell’immediato, l’investimento azionario tornerebbe ad essere sconsigliabile, mentre quello in titoli a reddito fisso non sarebbe più altrettanto rischioso. La prospettiva di calma piatta avvolgerebbe come una nebbia i mercati borsistici, riducendone le oscillazioni ma anche le prospettive.

Se questi ultimi non subiranno alcun tracollo però l’economia reale viceversa ci metterà molto più tempo a metabolizzare la riduzione delle prospettive di sviluppo, gli investimenti industriali proseguiranno ancora per tutto l’anno in corso così come i profitti aziendali godranno forse fino a tutta la primavera 2019 (epoca di bilanci) dell’onda lunga degli investimenti incrementali, mentre la dinamica salariale sospingerà la crescita dei consumi e -magari- i grandi investimenti infrastrutturali incrementali (se si paleseranno), potranno ulteriormente allungare il già lungo super-ciclo di crescita.

LO SVILUPPO PREVEDIBILE…

Morale: in questo scenario la ripresa economica globale potrebbe durare fino a tutto il 2019 mentre le borse, viceversa, potrebbero non crescere ma forse nemmeno subire grandi scossoni, geopolitica, petrolio e tenuta del sistema bancario permettendo.

Ma esiste un diverso scenario? Forse si, ed è quello di un sistema di banche e banchieri centrali che tenta troppo presto di “rimettere le leve al punto zero” riguardo a tassi (troppo bassi?) e (troppi) titoli in portafoglio acquistati per immettere liquidità sul mercato. Quel “troppo presto” può provocare lo scoramento degli investitori, degli imprenditori che pensavano di finanziare altri investimenti e dei manager che ipotizzano ancora oggi di finanziare i propri “buy-back” per guadagnare dalle ottime stock-option. In una parola: può provocare la recessione.

… SE I BANCHIERI CENTRALI NON FARANNO DANNI

È tuttavia inverosimile, sebbene nessuno possa davvero prevedere cosa ci riserva il prossimo futuro. Dunque buone notizie, nell’immediato, e poche chiacchiere con i banchieri centrali: questa volta per loro l’inventarsi un fantasma che non esiste rimarrà un esercizio decisamente più difficile !

Stefano di Tommaso




LA VITTORIA DI DRAGHI: L’ECONOMIA EUROPEA CRESCE AL RIPARO DALL’INFLAZIONE

A tutti i criticoni che si sperticavano nel prendersela con il Q.E. (Quantitative Easing : il programma di ampliamento della base monetaria che ha aiutato a ripristinare la liquidità in circolazione erosa dalla crisi economica) promosso dal governatore della B.C.E. (Banca Centrale Europea) Mario Draghi, ieri quest’ultimo ha risposto con i numeri: nel 2018 e nel 2019 l’inflazione media europea è attesa stabile all’1,4% mentre la crescita del Prodotto Interno Lordo (il P.I.L.) europeo è prevista al rialzo : 2,4% per il 2018 e 1,9% per il 2019.

 

Il Q.E. dunque non si tocca sino a Ottobre 2018 e probabilmente anche oltre, più esattamente sino a quando l’inflazione non avrà superato stabilimente il 2% . I “falchi” tedeschi potranno anche inventarsi delle storie, ma i fatti parlano chiaro: ha avuto ragione Draghi e perdipiù il principale beneficiario degli acquisti di titoli della BCE è stata proprio la Germania, il cui P.I.L. è atteso in crescita più che altrove: 2,6% per il 2018. Nonostante il Q.E. la moneta unica resta fortissima (1,24 volte un Dollaro) e le prospettive -non solo economiche ma anche quelle dei mercati finanziari- non accennano ad offuscarsi: le borse europee hanno reagito bene al discorso con una bella risalita di oltre l’1% medio e non sono viste particolarmente a rischio.

Un accenno al pericolo di instabilità politica in Italia ovviamente Draghi lo ha fatto: i Paesi ad elevato debito non possono permettersi pericolose oscillazioni governative. Come dire : attenzione alla tentazione di inventarvi un reddito di cittadinanza senza trovarne abbondante copertura.

Ovvio, come il fatto che il voto nella penisola nel suo complesso non è certo risultato favorevole alle politiche di Bruxelles. La morale è che con le sue misurate parole Draghi distilla anche un messaggio sottile ai suoi burocrati e ai falchi della Bundesbank candidati a guidare la BCE dopo di lui : senza le politiche monetarie accomodanti della BCE l’ultima tornata elettorale nell’Unione Europea sarebbe stata ancor più lacerante.

Chi vuol intendere intenda!

Stefano di Tommaso




L’INFLAZIONE NON ARRIVA

Secondo l’Economist il livello dei tassi di interesse reali non è mai stato così basso dall’epoca della grande crisi finanziaria del 2008. Questa sarebbe la prima ragione per cui le banche centrali starebbero tornando a far crescere i rendimenti nominali, dolcemente ma continuamente e per la quale continueranno a farlo ancora per molo tempo in avanti. Ma di certezze riguardo alla misura dell’inflazione in giro ce ne sono davvero poche. Anzi, ancora una volta come già era successo a Ottobre, l’allarme inflazione almeno negli Stati Uniti d’America sembra di nuovo essere rientrato. L’inflazione avanza si, ma con grande moderazione.

LA RICERCA DI BAIN & Co SUL FUTURO DELL’AUTOMAZIONE

Questa volta a sostenere che -almeno nel breve termine- i tassi cresceranno anche più di quanto oggi ci si possa attendere è l’autorevole società di consulenza e investimenti americana Bain&Co. che afferma che sarà proprio lo sviluppo dell’automazione e della robotica a premere per un nuovo rialzo dei tassi, dal momento che sempre più aziende cercheranno di spingere sull’accelerazione degli investimenti in tal senso, facendo innalzare la domanda dei capitali oltre il limite della loro offerta.

Non importa invece all’Economist che Bain affermi altresì che tali investimenti innalzeranno la produttività del lavoro (e dunque l’offerta di beni e servizi) nonché la disoccupazione (almeno quella di breve termine), due fattori fondamentali per il loro effetto deflattivo, né conta il fatto che gli investimenti industriali si portano dietro un sempre maggiore livello di investimenti collaterali in software, di ingegneria, di finanza e di altri servizi accessori, i quali tutti insieme dovrebbero dare una spinta considerevole tanto al livello di output industriale (che è ancora la prima componente del Prodotto Lordo dell’economia) quanto all’occupazione giovanile, alla creazione di start-up tecnologiche, e alla domanda di nuovi investimenti infrastrutturali, proprio quelli che -dipendendo fortemente dalla politica- a tutt’oggi ancora non si sono visti sullo scenario globale.

L’ECONOMIST CI RICAMA SOPRA

Secondo l’Economist invece l’innalzamento della domanda di investimenti, unita a quello dell’inflazione, procurerà stress ai mercati finanziari, che potrebbero reagire nervosamente. Potrebbero, certo, così come molti altri fattori fondamentali dell’economia potrebbero determinare sfiducia negli operatori economici, ma fino ad oggi l’Economist lo ha scritto da almeno un anno e mezzo e quello che è accaduto è sotto gli occhi di tutti: l’esatto opposto.

NON SARÀ LA DOMANDA DI CAPITALI A FAR CRESCERE I TASSI, BENSÌ LA POLITICA DELLE BANCHE CENTRALI

Quantomeno bisogna osservare che -se la domanda di capitali e finanziamenti per sostenere gli investimenti sarà elevata- per osservare un’eventuale innalzamento del loro prezzo bisognerà guardare anche a cosa succede alla loro offerta, vale a dire all’ammontare complessivo di liquidità in circolazione e alla capacità del sistema finanziario di convogliarla in direzione dell’economia reale. E la liquidità in circolazione -è ben noto- è governata dalle politiche monetarie delle banche centrali. Se queste ultime risulteranno inutilmente o eccessivamente restrittive è certo possibile che la domanda di capitali ne supererà l’offerta, portando al rialzo i tassi di interesse reali. Quelli cioè che vengono misurati dopo aver depurato l’effetto dell’inflazione.

Ma abbiamo appena visto che tra i Paesi maggiormente sviluppati nel mondo l’inflazione non corre, anzi si limita all’intorno del tasso fisiologico lungamente auspicato sino ad oggi dalle banche centrali, quel famoso 2% considerato -non si sa bene perché- “salutare” per l’economia. Dunque se i tassi reali sono rimasti fino ad oggi così bassi un motivo ce lo avranno avuto. Questo motivo è stato l’elevato livello di liquidità immesso sul mercato globale dei capitali proprio dalle banche centrali, perché almeno una piccola parte di essi sgocciolasse più a valle, a stimolare l’economia reale. Ciò confermerebbe l’assunto che, se i tassi saliranno o meno, dipenderà assai poco da domanda e offerta di capitali, e assai più dalle politiche monetarie delle banche centrali, le quali a tutt’oggi non avrebbero molte ragioni per andare a guastare la sincronia meravigliosa che, complice il Dollaro debole, si è creata attorno al mondo nella crescita economica.

I ROBOT PORTERANNO L’AUMENTO DELLE DISUGUAGLIANZE SOCIALI

In una cosa l’Economist sembra invece aver ragione da vendere: in assenza di politiche fiscali incisive e mirate l’incremento degli investimenti in automazione industriale porterà un incremento delle diseguaglianze economiche e della necessità di politiche mirate di sussidio. Secondo Bain lo sviluppo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale porterà infatti entro il 2030 alla cancellazione del 20-25% degli attuali posti di lavoro, soprattutto tra quelli meno qualificati, mentre saranno ancor meglio pagate le professionalità più richieste per permettere di funzionare ad un sistema industriale sempre più automatizzato.

L’INFLAZIONE NON CRESCERÀ PIÙ DI TANTO

Ma c’è da scommetterci che i consumi non cresceranno altrettanto quanto i Prodotti Lordi dell’economia, perché chi già si trova nel benessere tende a risparmiare molto più di quanto facciano le classi meno agiate, con il risultato che potremmo trovarci nella stessa situazione vista negli ultimi anni di “congestione dei risparmi” (savings glut) che ha contribuito a determinare la discesa dei rendimenti e la cavalcata delle borse negli ultimi anni. Come dire che ci sono buone ragioni per credere che, al contrario di quanto affermino ripetutamente da qualche anno le cornacchie dei mercati finanziari, l’inflazione non salirà significativamente e i rendimenti reali potrebbero riprendersi solo un po’, ma non troppo.

I TASSI NON POTRANNO CRESCERE TROPPO

Un ulteriore motivo per rimanere relativamente ottimisti sul fatto che, a maggior ragione se ci si aspetta che l’inflazione possa crescere leggermente, i tassi di interesse reale potrebbero salire si, ma di molto poco, è anche quello dell’eccesso di debito che affligge da almeno un decennio l’economia globale. Per non parlare dei debiti pubblici, i quali a tutt’oggi continuano a crescere e se- come sembra- le necessità di sussidi pubblici non si ridurranno bensì saranno affiancate dalle esigenze di investimenti pubblici infrastrutturali, quei debiti continueranno a restare eccessivi, rendendo politicamente inaccettabili le velleità odierne delle banche centrali di ridurre la liquidità in circolazione e far crescere molto gli interessi.

Come dire che le attese dei mercati sono quelle di molta moderazione nella crescita dei tassi di interesse e, di conseguenza, non troppo negative per le Borse e anzi tutto sommato positive per le banche italiane, che della moderata risalita dei tassi beneficeranno decisamente, erogando più prestiti alle imprese senza che ciò arrivi deprimere le proprie ragioni di credito. Cosa che aiuterà la nostra economia a riavvicinarsi ai ritmi di crescita del resto dell’Unione.

Stefano di Tommaso




FCA PREPARA LE DISMISSIONI

Sin dall’inizio 2016 è divenuto chiaro a tutti gli analisti e operatori di borsa che Marchionne, in previsione del suo ritiro nel 2019, avrebbe perseguito più o meno a qualsiasi costo l’obiettivo dichiarato di far crescere il valore delle azioni FCA (e di quelle Ferrari) che detiene a vario titolo e che sono oggetto della sua stock option. E sino ad oggi sembra esserci riuscito molto bene, soprattutto se confrontiamo l’andamento del titolo azionario con quello dei più diretti concorrenti (nei grafici a 5 anni anche Daimler, VW, Toyota e GM).

Ma il futuro dell’auto non sembra a breve essere così roseo: nell’ultimo mese le vendite di veicoli nuovi in Italia sono scese del 10% e in America di poco meno, sebbene FCA sembri cavarsela meglio degli altri grandi gruppi. E poi ci sono i rincari delle materie prime anche se il dollaro debole controbilancia i maggiori costi della produzione in USA che deriveranno dalle tariffe doganali di acciaio e alluminio.

La vera sfida sembra provenire dalla necessità di cambiare radicalmente strategia sulla tecnologia delle auto, dopo che è divenuto chiaro a tutti che la produzione dei motori diesel ha i mesi contati e che tutti i grandi “incumbent” del settore automobilistico dovranno investire pesantemente per sostenere gli investimenti necessari a passare all’ibrido-elettrico, all’interconnessione digitale e alla guida autonoma.

I CAPITALI REPERITI DALLE DISMISSIONI SARANNO CONCENTRATI SULLO SVILUPPO COMMERCIALE

Dove trovare dunque le risorse finanziarie senza intaccare il valore di mercato di un titolo che nelle ultime settimane è già stato messo a dura prova dalla riduzione dei moltiplicatori se non dalle dismissioni di tutte le attività di fabbricazione di componenti (parte dei quali con le nuove auto non servirà più) e in generale non “strategiche”?

Potremmo discutere a lungo su cosa è davvero strategico e cosa non lo è nell’automotive, ma la buona sostanza è che in momenti come quello attuale con attese di riduzione del numero dei veicoli venduti, è meno necessario produrre in casa propria e cresce invece la disponibilità dei terzisti a fornire componenti a buon mercato e a sobbarcarsi loro gli investimenti necessari agli adeguamenti tecnologici, togliendo dunque più ci una preoccupazione in tal senso alla FCA che deve invece impegnarsi seriamente a rilanciare la scommessa del mercato sui nuovi modelli, come si è visto nel Salone di Ginevra di questi giorni.

LA CAUTELA NEI CONFRONTI DELLE PARTI SOCIALI PORTA A TERZIARIZZARE

Ma FCA non può esporsi troppo nel dichiarare la sua strategia di dismissioni della produzione di componentistica (quantomeno sono circolati i nomi di Magneti Marelli e Teksid, ma la lista potrebbe allungarsi), adesso che ci sono forti rimostranze sindacali e a pochi giorni dal voto politico. Molto meglio parlarne dopo, quando le acque si saranno calmate e magari saranno stati individuati nuovi datori di lavoro con sufficiente credibilità affinché I sindacati non abbiano molto da ridire. Gli acquirenti di quegli stabilimenti sanno che avranno vita relativamente breve, e che potranno sopravvivere soltanto sulla base di diversificazioni e profonde trasformazioni, ma in cambio possono acquisire aziende importanti a prezzi interessanti e con uno “scivolo” significativo da parte del cedente, che continuerà a lungo a rendersi acquirente dei pezzi prodotti. Poi evidentemente questa bonanza si esaurirà e molti stabilimenti chiuderanno, ma non sarà stata FCA a farlo. E’ il mercato che cambia troppo in fretta, diranno. Ma non è così.

LA STRATEGIA DI CREAZIONE DI VALORE PER GLI AZIONISTI PASSA DALLE DISMISSIONI

Qualcosa di valido nella strategia di dismissioni degli stabilimenti che fabbricano la componentistica peraltro c’è eccome: i grandi gruppi come Delphi Technologies o Johnson Controls, che si specializzano in determinate tecnologie “verticali” (ad esempio sull’elettronica di controllo) e possono trovare forti sinergie tanto dalla possibilità di raggiungere volumi consistenti nel fornire più di una casa produttrice, quanto dalle ricadute della loro ricerca e sviluppo globalizzate, che risultano più difficili ai singoli produttori di automobili. Ma la verità è soprattutto un’altra: un produttore di automobili che ha le mani più libere nel potersi approvvigionare da questo o quel terzisti e che si concentra sulla parte di mercato finale che ha i margini più alti (quello delle vetture finite), in borsa vale più soldi e può liberare risorse finanziare per concentrarle sul core-business, alimentando aspettative di crescita e rinnovamento.

Questo concetto (quello di adattarsi o morire nel giro di pochissimi anni) è sempre stato ben chiaro a Sergio Marchionne che sa inoltre di non avere le dimensioni industriali o la capacità di investimento a lungo termine di gruppi come Toyota o come VolksWagen o Daimler, e proprio per questo motivo deve completare prima degli altri la propria metamorfosi industriale -non importa con quali “externalities”- prima che il settore venga ri-definito completamente da nuovi entranti del calibro di Apple e Google, o da colossi produttivi come quelli cinesi o indiani, che possono contare su una leadership di costo che FCA non avrà forse mai. E al momento in questa metamorfosi è il più avanti di tutti, almeno secondo l’opinione delle Borse Valori!

Stefano di Tommaso