IL SUCCESSO DELLA “PET ECONOMY”

Abbiamo assistito negli ultimi anni ad un poderoso sviluppo dei cosiddetti “Pet Shop”, vale a dire dei negozi specializzati nel cibo e negli accessori per gli animali domestici. Non soltanto sono comparse un po’ ovunque pubblicità e nuove insegne, tanto quelle di catene di negozi specializzati (tra i più famosi: Arcaplanet, Maxi Zoo, Fortesan e L’Isola dei Tesori, i quali da soli totalizzano quasi 500 punti vendita in Italia), quanto di singoli negozi specializzati (sono quasi 5000 in Italia), ma anche nella Grande Distribuzione è impossibile fare a meno di notare l’espansione degli scaffali che espongono gli stessi articoli.

UN FENOMENO SOCIOLOGICO

Il fenomeno sociale della diffusione degli animali domestici nelle famiglie corrisponde ad una forte crescita del mercato di cibi e articoli per cani, gatti, uccellini, roditori, tartarughe e molte altre diverse tipologie di piccoli compagni domestici, proprio nel medesimo periodo in cui i consumi complessivi nazionali sono sostanzialmente rimasti piatti.

Cosa succede ? Noi italiani ci siamo riscoperti animalisti convinti? Oppure stiamo soltanto allineandoci ad una tendenza globale che riguarda i Paesi economicamente più sviluppati? Poiché nella sola Europa è stimato che vivano nei 75 milioni di famiglie oltre 200 milioni di animali domestici (rapporto ASSALCO-ZOOMARK 2017), è vera senza dubbio la seconda ipotesi, per quanto non si possa esprimere alcun nesso prevalente tra livello del reddito e numero di animali adottati nelle abitazioni: per esempio nella sola Russia pare convivano nelle abitazioni quasi 22 milioni di gatti e 16 milioni di cani!

Per continuare con i numeri europei, i gatti sono senza dubbio la specie maggiormente diffusa, con più di 70 milioni di esemplari, circa il 35% del totale, mentre i cani sono più di 62 milioni, cioè il 31%. La Francia è il paese con il maggior numero di felini: 12,6 milioni, record assoluto rispetto agli altri Paesi comunitari più popolati dai gatti, ovvero Germania (11,8 milioni). Per quanto riguarda i cani, il Regno Unito è la nazione che ne ospita di più, con 8,5 milioni di esemplari, seguito a breve distanza da Francia, Italia e Germania (rispettivamente 7,3 milioni, 7 e 6,8 milioni di cani).

Nei 25,8 milioni di famiglie degli Italiani pare peraltro vivano oltre 60 milioni di animali (vale a dire 2,3 per ogni famiglia, con il 58% delle quali ha un solo animale domestico, il 20% ne ha un paio, mentre il 14% ne possiede 4 o più), con una forte prevalenza dei pesciolini (quasi il 50% del totale) cui fanno seguito quasi 13 milioni di uccellini (oltre il 21% del totale), 7milioni e mezzo di gatti e quasi 7 milioni di cani. I Pet sono visti meglio dalle famiglie con più di 3 componenti (oltre il 54% ne ha almeno uno) e dalle persone più mature: dai 45 ai 64 anni d’età quasi metà degli italiani ne ha almeno uno, mentre il 24% degli Italiani anziani (dai 65 nei d’età) convive con almeno un animale.

I NUMERI DELLA PET ECONOMY IN ITALIA

La presenza degli animali domestici genera dunque non soltanto un cospicuo fenomeno sociale che andrebbe analizzato forse meglio di quanto si è visto e letto sino ad oggi, ma soprattutto determina una serie di consumi che sono arrivati a pesare non poco nel bilancio domestico.

Solo per ciò che riguarda il cibo, il mercato italiano risulta dominato dalle vendite di alimenti per cani e gatti con un giro d’affari di quasi 2 miliardi di euro, per un totale di 559.200 tonnellate commercializzate.

Se lo suddividiamo per Area Geografica (2016), l’Italia Settentrionale con il 52,8% copre oltre la metà del mercato nazionale complessivo, mentre al Centro Italia e in Sardegna gli alimenti per animali sono venduti per il 28,4% del totale. Infine il Sud Italia, con il 18,7%, si caratterizza per la più bassa penetrazione di cibo confezionato per gli animali, oltre che per la ridotta copertura del territorio da parte delle principali catene nazionali di Pet Shop.

Supermercati e Ipermercati risultano il canale di vendita più diffuso per il cibo “Pet” (46,3%), seguiti dagli altri supermercati (10% circa), dai negozi tradizionali specializzati (31% circa) e dalle catene di Pet Shop (7% circa), le quali però sono in forte crescita

Quasi trascurabile appare l’incidenza della spesa per accessori per animali (poco più di 72 milioni in valore nel 2016 rispetto ai quasi 2 miliardi di euro per il cibo), sebbene in crescita decisa. Nonostante le cifre sopra esposte, il mercato del cibo per animali domestici (Pet Food) è atteso in crescita anche per i prossimi anni, soprattutto per gli “snack” per cani e gatti ma ci si aspetta una contrazione del mercato degli «alimenti per altri animali da compagnia».

Da notare però che, nonostante gli «altri» pet rappresentino in Italia circa l’80% della popolazione di animali domestici, il relativo mercato a valore corrisponde a meno dell’1% del totale ed è quindi poco significativo. Sia la Grande Distribuzione che le catene di Petshop presentano trend positivi, soprattutto per quanto riguarda i volumi di vendita di Food. Al contrario, i Petshop tradizionali tendono ad accordarsi e a perdere quote di mercato.

Per il prossimo futuro la direttrice principale del trend positivo è da identificare nella maggiore attenzione dei proprietari nei confronti della cura (è in crescita verticale, sebbene ad oggi di proporzioni trascurabili, il fatturato dei servizi di toelettatura) e della salute dei propri animali, e quindi nella spesa per i veterinari e nella scelta dei prodotti dedicati, dal momento che è stato dimostrato che gli animali nutriti con cibo specializzato prodotto in forma industriale vivono mediamente quasi il doppio di quelli alimentati con gli avanzi della tavola.

Poiché la pet economy è cresciuta nonostante la recente crisi dei consumi ed è attesa in ulteriore crescita, è evidente che il fenomeno attrarrà anche nuove risorse finanziarie, forti sviluppi nelle catene distributive, con la progressiva aggregazione dei negozi singoli in catene specializzate e la crescita del commercio online dei prodotti per la cura degli animali, che ancora oggi rappresentano una frazione infinitesimale dei volumi totali.

Stefano di Tommaso 




È UNICREDIT LA BANCA UNIVERSALE ITALIANA

Mai peggior “bufala” è stata proposta all’economia italiana di quella della “banca universale” concepita qualche anno fa dalla Banca d’Italia dei tempi di Fazio&C. Ai tempi si pensava che il modo migliore per sottoporre a controlli e salvaguardie le attività finanziarie fosse quello di farle passare piu o meno tutte obbligatoriamente da un’autorizzazione bancaria. Si pensava, o c’era una decisa convenienza a che ciò succedesse e a che la maggior parte delle attività finanziarie non controllate dalle banche maggiori finissero nelle mani di queste ultime, pesantemente asservite alla politica. Ma almeno ai tempi c’era ancora un residuo di concorrenza tra i diversi istituti bancari nazionali e stranieri. Oggi non c’è più nemmeno quella e si è visto quanti miliardi (di future tasse) è costata al popolo italiano la scorribanda della politica nella governance delle banche!

LA PREVALENZA DEL MERCATO DEI CAPITALI SIGNIFICA L’ARRIVO DI FINTECH E L’ADDIO ALLA BANCA UNIVERSALE

Più tardi degli altri, l’Italia ha capito che il sistema finanziario nazionale non poteva andare contro la corrente principale degli eventi, che è quella segnata dal mondo anglosassone, dove la maggior parte dei servizi finanziari alle imprese arrivano dal mercato dei capitali, e le banche svolgono solo specifiche funzioni di raccolta dei depositi e di agenti di pagamento, mentre addirittura molte forme di credito finalizzato sono erogate da soggetti specializzati, come le società di credito al consumo, quelle di leasing o di factoring. Anche talune attività di raccolta dei risparmi sono svolte (spesso anche meglio) da società di gestione del risparmio che possono essere completamente indipendenti dalle banche e che impiegano sempre meno personale esecutivo.

Insomma il mondo finanziario oggi si fraziona, si specializza, si dematerializza e si virtualizza, ma soprattutto viene dominato dal mercato dei capitali, sempre più interessato a finanziare anche le imprese e la loro crescita, i progetti e le opere pubbliche, il credito al consumo e il real estate, come forma di diversificazione rispetto al mero acquisto in borsa di titoli azionari e a reddito fisso.

Sul fronte bancario, d’altronde sino a qualche anno fa i requisiti di capitale e di tracciamento dei rischi effettivi erano molto più bassi, dunque le banche potevano contare su un deciso vantaggio competitivo rispetto agli investitori istituzionali e professionali attivi sul mercato dei capitali. Per questi ultimi ad ogni investimento a reddito si è sempre dovuto associare a un rating esplicativo del relativo rischio, mentre per le banche il tema era decisamente più sfumato. Dunque il mercato dei capitali già ragiona da tempo come stanno imparando a fare le banche .

L’INFLUENZA DI BASILEA E LA STRATEGIA VINCENTE DI UNICREDIT

Poi, dopo la crisi del 2008 (e dopo tutto quello che ne è conseguito) sono arrivate le normative di Basilea (1, 2 e 3), che hanno richiesto di applicare un differente approccio al tema dei rischi e, di conseguenza, di capitalizzare adeguatamente chi intende fare business erogando credito. L’impatto è stato tremendo, ma soprattutto sembra oramai evidente che la necessità di definire meglio rischi e rendimenti nel settore del credito non può che portare ad un deciso restringimento generale della presenza delle banche sui mercati finanziari. Oppure no?

È davanti agli occhi di tutti la performance meravigliosa della banca guidata da Pierre Mustier, con crescite a doppia cifra tanto della marginalità quanto della quota di mercato, ma (abbastanza stranamente) non mi è sembrato di trovare grandi consensi nel fornire una risposta alla questione del segreto del suo successo.

Mustier è un forte comunicatore, capace di ripetere all’infinito slogan semplici e “perforanti”, dissimulando bene ciò che non è parso ai più come una vera e propria rivoluzione copernicana: Unicredit ha scelto (a differenza di quasi tutti gli altri) di concentrarsi sul “core business”, tornando a “fare banca” e gradualmente riducendo la sua presenza sui mercati mobiliari e su tutte le altre attività che non sono strettamente “core”. Questo gli ha permesso sinanco di espandersi e il mercato lo ha premiato.


Le citate attività strettamente “core” per UniCredit significano una cosa sola: ottenere commissioni più alte nelle aree di mercato meglio presidiate dalla banca (raccolta, corporate e servizi correlati), limando invece i costi e la prosecuzione delle altre attività che generano significativi impieghi di capitale per tornare ad essere percepita non solo come la banca più performante sotto le Alpi, ma anche quella meno a rischio.

IL RISCHIO ITALIA PERCEPITO DAGLI INVESTORI

Eh, già. Il fattore rischio – se chi lo valuta è seduto fuori dei confini nazionali- è forse il tema principale quando si valuta di acquistare titoli emessi da aziende italiane! Mustier è riuscito a far crescere la credibilità di UniCredit nei confronti della Banca Centrale Europea e delle altre autorità continentali cogliendo prima degli altri un angolo essenziale per far crescere il valore d’impresa percepito dai suoi azionisti: quello del rischio.

Ovviamente per farlo ha dovuto fare emissioni “monstre” di titoli sul mercato diluendo fortemente i vecchi azionisti e ha dovuto scaricare dai bilanci una montagna di crediti non performanti anche a scapito di qualche buon affare lasciato a terzi. Ma ha ottenuto in cambio la credibilità che quasi nessuna altra banca italiana ha in Europa e oggi nessuno più crede davvero che UniCredit nasconda altri significativi disastri tra le pieghe dei suoi libri contabili, a differenza di tutte le altre banche. E c’è da scommettere che continuerà a liberarsi ancora di crediti di dubbia sorte per rafforzare questa convinzione e accreditare il suo ambizioso piano industriale che lo vede esprimere performance e solidità a due cifre nel 2019.

I titoli bancari italiani sono chiaramente -e persino giustamente- sottovalutati in ragione del fatto che il Paese resta a rischio di collasso del suo debito pubblico (che continua a crescere) e che il settore bancario viene conseguentemente visto a rischio (anche) in quanto detentore di grandi quantità di titoli di Stato. Negli ultimi cinque anni le plusvalenze che questi hanno generato hanno contato non poco nel risanamento di buona parte degli istituti di credito, ma oggi tutti si rendono conto del fatto che prima o poi la liquidità in circolazione si ridurrà e i tassi saliranno (non molto, ma lo faranno). E quando l’acqua alta scenderà chi è rimasto nudo verrà allo scoperto.

UN TITOLO “DIFENSIVO”, CHE POTREBBE PASSARE ALL’ATTACCO


Viceversa per UniCredit l’eventuale azzeramento di 17 miliardi di euro di assets “non performing” che residueranno nella non-core bank a fine 2019 avrebbe l’effetto di portare l’Npe ratio del gruppo al 5%, in linea con la media europea e ben al di sotto del livello italiano (14%), di azzerare le perdite della medesima non-core bank (più di mezzo miliardo l’anno). Ciò contribuirebbe al re-rating del titolo con un multiplo prezzo/capitale tangibile che dalle 0,7 volte attuali dovrebbe avvicinarsi a 1 volta, con un apprezzamento potenziale del valore del titolo del 40% .

Dunque oggi la quotazione di UniCredit resta relativamente “sobria” nei portafogli degli investitori, perché la banca ancora deve dimostrare che realizzerà il suo piano e appartiene a un settore economico visto con diffidenza e perché ha sede in Italia. Nonostante la “pro-ciclicità” del settore bancario perciò esso resta un titolo difensivo con un ottimo potenziale.

UN’ACQUISIZIONE IN ARRIVO?

Ed è qui che volevo arrivare: un Amministratore Delegato che sembra aver finalmente deciso di lavorare sul valore dell’UniCredit per i suoi azionisti con ogni probabilità non appena se lo potrà permettere procederà a fare acquisizioni di altre banche al di fuori dell’arco alpino, per uscire da queste limitazioni e godere di multipli più elevati. Non c’è dubbio infatti che se la banca fosse a Francoforte i suoi moltiplicatori risulterebbero migliori!

Forse è questa l’accezione dell‘aggettivo “universale” che Mustier vede meglio accanto al sostantivo “banca”! In senso geografico, non in quello di voler fare di tutto un po’… Ne è corsa di acqua sotto i ponti dai tempi del governatore Fazio e dei suoi slogan corporativi. E ci voleva un transalpino perché qualcuno se ne accorgesse!

Stefano di Tommaso




L’IMPROBABILE SHARING ECONOMY DELLE BICICLETTE ARRIVA A MILANO

Tutti abbiamo visto da qualche mese le prime bici colorate circolare per la città di Milano e venire parcheggiate più o meno ovunque, quasi a dire: rubatemi! Ho ancora davanti agli occhi lo spettacolo quotidiano (che vedo da quarant’anni) di ciò che resta di biciclette private parcheggiate in strada dopo che sono passati i ladri: il telaio ancora incatenato al palo della luce o del semaforo senza più la sella, le ruote e il manubrio.

E non posso non stupirmi quando vedo quelle bici tutte arancione o tutte gialle (sono i colori del parco di circa 12.000 bici appartenenti ai due gestori cinesi già abilitati a Milano: MOBIKE e OFO) disseminate per le strade in attesa di qualcuno che ha scaricato l’App sul telefonino che gli consente di pagarne il noleggio e di sbloccarla. Queste bici non le ruba (quasi) nessuno: sono state progettate per essere difficili da smontare, avere componenti ancora più difficili da riciclare, e per essere trovate tramite il loro localizzatore. Magia della “sharing economy” !

IL PRECEDENTE DI CLEAR CHANNEL

Mi viene pure in mente che prima che arrivassero loro il comune di Milano aveva sequestrato 280 aree di parcheggio auto per sostituirne lo spazio con rastrelliere dove le circa 5000 bici di Clear Channel (3650 a pedali e 1000 a pedalata assistita) si bloccano, si ricaricano e si connettono, concedendone l’utilizzo gratuito per i primi venti minuti a coloro che pagano un canone annuale di 36 euro (29 euro sotto Natale in promozione). In teoria però i due sistemi dovrebbero essere complementari, dato che probabilmente solo quando le bici “libere” disseminate in giro per la città saranno molte di più, il sistema di bici cinesi a parcheggio libero da individuare con l’App del telefonino (vedi immagini che seguono) darà la stessa probabilità di trovare un bici in poco tempo quanto l’aver (quasi) sempre disponibile una bici in una delle 280 rastrelliere.

UN FENOMENO IN RAPIDA DIFFUSIONE

D’altra parte la sola Mobike ha già disseminato in giro per il mondo oltre 30 milioni di bici. OFO invece è un po’ in ritardo e per adesso ne ha piazzata qualcuna di meno (circa 12 milioni) ma, dal momento che ci sono ancora altri grandi competitor nel mondo, una stima indicativa dice che ci sono circa 50 milioni di biciclette nel mondo da noleggiare a libero parcheggio, tutte rigorosamente sfornate dall’industria cinese che in questa maniera ha trovato un altro modo di invadere il resto del mondo. Sono numeri da capogiro, indicativi di una nuova tendenza che in Italia ha solo iniziato a fare i primi passi (piazzando per ora 12.000 bici a Milano e 8.000 in Toscana).

OFO ha appena raccolto dai fondi di venture capital (più o meno tutti di provenienza anglosassone) oltre 1 miliardo di dollari (ed è stata valutata circa 3 miliardi), più o meno quanto MOBIKE che è partita prima nell’allargarsi ai mercati non cinesi. La prima poi è legata al sistema di pagamento online (tramite cellulare) di Alibaba (denominato Alipay), ai cui utenti concede priorità nella prenotazione, mentre MOBIKE ha fatto un accordo simile con il circuito WeChat Pay della rivale Tencent.

Il terzo operatore al mondo conosciuto in occidente (per aver recentemente raccolto 350 milioni di dollari da investitori di venture capital) si chiama HelloBike. Ma ci sono già almeno cinque grandi start-up nel settore del bike-sharing che hanno appena chiuso i battenti e portato i libri in tribunale, dal momento che, con tariffe pari a 15 centesimi per un noleggio di mezz’ora e un solo euro di cauzione per noleggiare una bici, non è facile far quadrare i conti!

CHI CI GUADAGNA È IL SINDACO

Clear Channel che si è aggiudicata una concessone di 15 anni e che ha piazzato meno di 5000 bici nelle 280 rastrelliere spende circa 6 milioni di euro l’anno per gestione e manutenzione, pagando al Comune di Milano il 23% dei propri incassi dalle mille bici elettriche e mantenendo un esercito di 90 persone che lavorano alle bici. Dal momento che i 61.000 abbonati annuali e i 55.000 utenti che sfruttano le tariffe di utilizzo giornaliero versano in totale meno di 2 milioni di euro, Clear Channel copre gli altri 4 milioni con gli spazi pubblicitari che il Comune di Milano le ha concesso gratuitamente.

Dunque Clear Channel fa quadrare i conti in altro modo, pur con un certo successo nelle sottoscrizioni, perché un totale di 116.000 utenti su poco più di un milione di cittadini residenti non è affatto male (ma ogni giorno viene a lavorare in città almeno il doppio di persone in arrivo dai comuni limitrofi) . Figuriamoci quanto sarà difficile per gli altri gestori farli quadrare, dal momento che il Comune di Milano pretende un contributo fisso di 30 euro per ciascuna delle 12.000 biciclette disseminate sul suo territorio.

Tuttavia il fenomeno delle bici in condivisione è in rapida espansione e si calcola che sino ad oggi sia cresciuto di 46 volte in dieci anni. La stessa Clear Channel denuncia un incremento dei ricavi nell’ordine del 27% annuo. È uno dei motivi per i quali gli investitori si sono lanciati nell’iniziativa delle bici “a libero parcheggio” (che in più pagano lo scotto di un certo numero di furti e atti vandalici), accettando di fare perdite per alcuni anni prima di vedere il pareggio.

IL VERO OBIETTIVO È LA PUBBLICITÀ 

Tuttavia c’è quasi la certezza che il modello di business di società come Mobike, Ofo e HelloBike sia in realtà basato anch’esso sull’Advertising, cioè sulla possibilità di catturare il profilo utente dei milioni di persone che si registrano anche solo per un giro di prova nella vita e che, direttamente o indirettamente, forniscono loro informazioni sullle loro abitudini, sul loro stile di vita, sui luoghi frequentati eccetera. Questi profili utente hanno un loro valore intrinseco non trascurabile, riconosciuto da tutti gli operatori che vendono qualcosa al “largo consumo” e costituiscono probabilmente il medesimo incentivo che ha ottenuto Clear Channel dalla convenzione con il Comune di Milano .

Stefano di Tommaso




FOCUS ENERGIA

Il prezzo del petrolio ha sorpreso quasi tutti gli analisti nel corso del 2017, molti dei quali ritenevano che il canale di oscillazione di 50/60 dollari al barile sarebbe rimasto valido molto a lungo a causa dell’eccesso di offerta potenziale di greggio che si sarebbe riversata sui mercati non appena i livelli di prezzo fossero divenuti più interessanti, calmierandoli.

In effetti per un bel po’ di tempo è andata così ma, ancora oggi, nonostante gli ultimi accordi dell’organizzazione dei produttori di petrolio (OPEC), la sua estrazione sta aumentando i propri ritmi senza riuscire a limarne le quotazioni.

Anche il sub-settore dello “Shale Oil” (il petrolio estratto con il “fracking”, un metodo di pompaggio forzoso che permette di accedere anche a piccoli anfratti che in passato non sarebbero stati considerati giacimenti veri e propri) che fino a qualche tempo fa ha conosciuto una crisi formidabile a causa dei cali del prezzo di mercato dell’output, oggi invece sta conoscendo una bonanza che quasi nessuno avrebbe mai previsto, anche perché, nonostante i livelli altissimi di quantità estratta di quest’ultimo siano giunti a nuovi record (per la sola America si parla di 9,3 miliardi di barili al giorno dello scorso Ottobre e un record atteso di 10 miliardi di barili al giorno nel 2018, più di quanto ne veniva estratto negli anni ‘70), quell’incremento di produzione non ha sortito effetti calmieratori sul prezzo di mercato del petrolio.

Se dunque nonostante si incrementino i livelli di estrazione il prezzo del petrolio non scende, cosa se ne può dedurre se non che la domanda di petrolio cresce più dell’offerta?

PREVISIONI PREZZO DEL PETROLIO BRENT

A voler essere pignoli ci sono anche altri fattori da tenere presenti nel considerare le attese del mercato,come l’intesa raggiunta a Vienna lo scorso 30 novembre fra Paesi Opec e non Opec per prorogare fino alla fine del prossimo anno i tagli dell’offerta, così come le attese di un dollaro americano più forte nel corso del 2018. E dal momento che il prezzo al barile è normalmente espresso in dollari, questo significa tanto che il prezzo del petrolio in termini assoluti è atteso al rialzo per buona parte dei consumatori nel mondo, quanto che i rating dei titoli azionari di aziende che operano nel settore dell’energia sono attesi al rialzo.

I titoli delle aziende che operano nello “Shale Oil” ad esempio risentono anche degli effetti della crisi del settore durante gli anni del petrolio a prezzi bassi, che si sono trasformati in una riduzione del numero di nuovi entranti nel settore e in cospicui incrementi di efficienza raggiunti oggi, che consentono loro di incrementare la marginalità in modo più che proporzionale all’andamento del petrolio.

Un altro fattore che sta incidendo non poco nelle aspettative di rialzo del prezzo del petrolio è quello delle temperature registrate all’inizio della stagione invernale, che si sono mostrate più basse di quelle medie facendo innalzare la domanda di energia a scopo di riscaldamento. Questo fattore ha contribuito ad una risalita anche più che proporzionale nel prezzo del gas (di solito fortemente correlato a quello del petrolio) e di quello dell’energia elettrica, sul quale incidono non poco I costi di vettoriamento e il “peso” degli incentivi forniti al settore delle energie ottenute da fonti rinnovabili, che si sommano alla normale bolletta energetica.

Le prospettive di un prolungato periodo di elevata domanda di energia derivano non soltanto alimentano attese di ottime performance dei bilanci delle aziende nell’intero comparto energetico, ma fanno ben sperare nell’andamento globale dell’economia che sembra marciare anche meglio di quanto le statistiche ancora non tradiscano.

Sebbene infatti la recente volatilità nei prezzi dell’energia dovrebbero mettere in guardia dal lasciar vomitare agli analisti delle facili quanto effimere previsioni, non si può non tenere conto di una crescita costante nella domanda che non era così scontata alla luce degli importanti efficientamenti energetici dell’intero comparto manifatturiero nel mondo.

Due (e non necessariamente alternative tra loro) le conseguenze pratiche che se ne possono dedurre :

  • la produzione industriale globale è cresciuta più di quanto si potesse prevedere, e/o
  • la necessità di individuare ulteriori efficienze nel consumo di energia resta elevata.

Dunque, se anche i prezzi del petrolio, del gas e dell’elettricità non cresceranno ulteriormente rispetto ai livelli attuali, entrambi i casi sopra segnalati indicano ottime notizie per l’andamento economico in generale come pure per i titoli azionari legati al settore energetico !

Stefano di Tommaso