A GLOBAL SHIFT

Era parecchio tempo che non mi capitava di commentare una situazione economica globale tanto positiva quanto contrastata come quella attuale. Se pensiamo ai mercati finanziari sembra di guardare il mondo dalla cima di una montagna: non si potrebbe essere più in alto ma è anche questo il problema, visto che adesso potrebbe iniziare la discesa. Se invece guardiamo alla crescita dell’economia reale, non si può che prendere atto dei decisi miglioramenti a livello globale, con un andamento positivo uniforme un po’ in tutto il mondo. Se vogliamo infine riferirci alle variabili che più interessano l’uomo della strada (reddito disponibile, debiti, uguaglianza sociale, sicurezza e previdenza) allora notiamo se non dei passi indietro comunque non grandi progressi dopo la crisi del 2008. Eppure sono solo facce diverse del medesimo mondo che stiamo vivendo.

LA RIMONTA DEGLI EMERGENTI

Un mondo per molti versi migliore e nel quale iniziano a divenire attori globali molti Paesi Emergenti che sino a ieri costituivano solo una piccola parte dell’economia globale. D’altronde sono loro i veri protagonisti dell‘impennata dello sviluppo economico che stiamo vivendo. Senza la loro avanzata il mondo occidentale si sarebbe probabilmente addormentato in una sorta di “stagnazione secolare”, principalmente a causa della flessione demografica.

Una macro-tendenza globale invece di portata storica come quella in corso sta cambiando il panorama finanziario e persino gli equilibri geopolitici. In testa la Cina, ovviamente, che si prepara ad essere la più grande economia del pianeta (lo sarebbe già stata dal 2012 se la sua divisa -il renminbi- non si fosse ripetutamente svalutata nei confronti del dollaro). Ma in generale l’intero continente asiatico è quello con maggior slancio, forte innanzitutto della crescita demografica (quasi cinque miliardi di abitanti, nove volte la somma dei cittadini d’America ed Europa) e poi del pesante interventismo di stato, che spinge da anni sugli investimenti produttivi e sulla ricerca tecnologica. In Asia è poi anche il Giappone, la terza potenza economica mondiale e la più avanzata del continente dal punto di vista tecnologico.

Se le tendenze in corso continueranno immutate ci avviamo a vivere un periodo di “contro-colonialismo”, nel quale il vecchio continente (e forse anche quello americano) saranno presi d’assedio da ricchi immigranti e colossi commerciali.

Oggi gli indici dello sviluppo delle piccole e medie imprese, quelli della produzione industriale, degli ordinativi all’industria e persino quelli del commercio globale sono tornati ai massimi da molti anni addietro. L’accesso al credito e il suo costo limitato hanno spinto gli investimenti e la nuova ondata di digitalizzazione ha sorpreso per quanto si sia introdotta meglio nei Paesi Emergenti che non avevano le sovrastrutture occidentali. Ma soprattutto sono gli investimenti che sembrano essere letteralmente decollati in quei Paesi.

IL SUCCESSO DEL QUANTITATIVE EASING

Gli ultimi otto anni hanno visto i Paesi Anglosassoni avventurarsi con un certo successo nelle politiche di espansione monetaria operate dalle banche centrali dopo la recessione innescata nel 2008 dal collasso dei mercati finanziari, quantomeno nel far tornare a crescere le quotazioni e la liquidità di quei mercati finanziari. Hanno avuto invece minor successo nel trasmettere tale impulso all’industria e ai commerci, e hanno registrato un’indubbia tensione a livello sociale perché quelle operazioni di acquisto di titoli sul mercato aperto hanno favorito i grandi detentori di capitale finanziario e indirettamente alimentato la disuguaglianza sociale senza essere accompagnate da politiche di perequazione dei redditi da parte dei governi di praticamente ogni paese OCSE, che anzi hanno perseguito impostazioni neo-liberiste.

Anni dopo che quasi il mondo intero aveva perseguito politiche di espansione delle masse monetarie anche i Paesi dell’Eurozona e la sua banca centrale si sono finalmente avventurati in manovre similari e il risultato sembra essere estremamente positivo anche qui.

IL LENTO TRAVASO DAI MERCATI FINANZIARI ALL’ECONOMIA REALE

La speranza è che però la risoluzione del problema sociale, in ritardo ma alla fine arrivi nella catena di trasmissione della liquidità dai mercati finanziari all’economia reale. Questa speranza deriva dalla constatazione che un po’ dappertutto la disoccupazione è in deciso ribasso mentre la dinamica salariale è in moderato aumento.

Ma soprattutto essa deriva dalla crescita industriale in corso, che avviene quasi in assenza di inflazione e con la prospettiva di un deciso incremento della produttività del lavoro a causa del diffondersi dei processi di automazione industriale e della progressione della digitalizzazione, con la riduzione dei costi e dei ritardi della distribuzione di beni, servizi e informazioni.

Ovviamente non fila tutto così liscio come potrebbe apparire leggendo frettolosamente una sintesi estrema come quella appena delineata, per esempio a proposito dell’inflazione, dal momento che non è così chiaro per quali motivi essa si è mantenuta bassa. Al di là delle arcinote motivazioni relative all‘avanzamento dell’economia digitale e dell’intelligenza artificiale, esistono anche questioni più prosaiche circa i prezzi della manodopera, delle materie prime e dell’energia.

I prezzi in questione per esempio adesso stanno salendo anche oltre le aspettative più recenti, sebbene siano in molti a giurare che non ci saranno gravi tensioni per gas e petrolio e che, di conseguenza, nemmeno i prezzi delle altre principali commodities potranno correre troppo

Sicuramente però le tensioni superficiali di quei prezzi riflettono la crescita dei prodotto globale lordo, così come ci si chiede pure quand’é che i mercati finanziari inizieranno a tenere conto (ridimensionandosi) delle innegabili tensioni geopolitiche che emergono un po’ dappertutto. L’esplosione anche solo di qualche conflitto locale può oggettivamente rovinare la festa della crescita economica generalizzata e interrompere quella lenta trasmissione all’economia reale dei benefici effetti della liquidità dei mercati finanziari. Sono questi i motivi di cautela dei banchieri centrali nel fare marcia indietro dopo la stagione del Quantitative Easing, insieme alla necessità di attendere ancora per riuscire a vedere annacquato il potenziale esplosivo dell’eccesso di indebitamento globale attraverso la progressione dell’espansione economica e della monetizzazione dei debiti pubblici.

UN FUTURO POCO AGITATO PER I MERCATI FINANZIARI 

Questa necessità di attendere è anche un’ottima notizia per i mercati borsistici: se la liquidità in circolazione non farà marcia indietro tanto in fretta allora i mercati troveranno qualche ostacolo in più verso la discesa, mentre molto investitori professionali si riposizionano sul reddito fisso abbassando i tassi impliciti dei titoli che comperano e dunque in contrasto con il rialzo dei tassi d’interesse che invece si prepara da parte di principali banchieri centrali. Storicamente l’appiattimento della curva dei tassi (normalmente inclinata positivamente per le scadenze più lontane) è stato un segnale di inversione del ciclo economico, ma questa volta non è detto che succeda ancora, almeno non così presto.

Ci vorrà probabilmente tutto il 2018 perché qualcosa cambi davvero sui mercati. Una pacchia per chi ha già investito in borsa, ma non c’è nemmeno da attendersi grandi progressi per i listini globali, a causa delle molte nuvole all’orizzonte, seppure lontane e probabilmente assai depotenziate.

Se al tempo stesso in cui i mercati tenderanno a flettere l’economia globale e soprattutto i Paesi Emergenti avranno continuato a correre, di crisi vere e proprie sui mercati finanziari non si parlerà ancora per lungo tempo!

Stefano di Tommaso




QUANDO SCENDE LA TASSAZIONE DELLE IMPRESE

La proposta di riforma fiscale che si è consolidata al Congresso Americano (il parlamento degli Stati Uniti d’America) comporta una drastica riduzione dell’aliquota di tassazione del reddito imponibile (dal 35% al 20%) e con ogni probabilità non rimarrà un fenomeno isolato e legato alla parabola politica di Doonald Trump. Esiste una tendenza generale al ribasso della tassazione delle imprese che trae fondamento dall’interesse un po’ di tutti a far sí che il maggior numero possibile di soggetti investa, intraprenda e faccia assunzioni di personale, affinché l’economia cresca e tutti possano trovarsi in una condizione di maggior benessere.

 

In Europa come al solito arriveremo un po’ più tardi a metabolizzare il concetto ma ritengo sia altrettanto probabile, in quanto la prima nazione che muoverà in tal senso è il Regno Unito, adesso che è finalmente fuori dell’Unione Europea e che ne ha toccato con mano di recente i benefici osservando da vicino lo sviluppo economico che ha avuto l’Irlanda, ancor oggi quasi un paradiso fiscale.

COME CAMBIANO LE CONVENIENZE

La riforma fiscale americana tuttavia non arriva in maniera generalizzata a migliorare indistintamente le aspettative di profitto di tutte le imprese. Si porta dietro invece una serie di cambiamenti e novità che non è difficile presumere verranno adottati anche da molte altre nazioni, quali la riduzione della deducibilitá degli oneri finanziari e in generale una semplificazione del sistema di tassazione che ridurrà il numero e l’ammontare delle spese deducibili ai fini del reddito imponibile.

Che tali riduzioni di beneficio porteranno nuovo slancio alle borse è facile intuirlo (sebbene le quotazioni stratosferiche che queste esprimono di fatto ne incorporino già le aspettative).

Ma le misure collaterali che vengono varate accanto alla riduzione delle aliquote (che hanno per molti versi un gran senso, al fine di rendere sostenibili le riduzioni di aliquota per le casse pubbliche), cambieranno senza dubbio le cose man mano che il processo suddetto si espanderà. La riforma americana prevede ad esempio che gli oneri finanziari restino deducibili sono alla soglia del 30% del Margine Operativo Lordo (ebitda).

SARANNO DISINCENTIVATE LE SITUAZIONI AZIENDALI AD ELEVATO INDEBITAMENTO

In generale possiamo quindi immaginare che ciò che verrà disincentivato maggiormente sono le situazioni di elevato indebitamento (e dunque si può desumere che ciò sospingerá le compravendite, fusioni e aggregazioni di imprese, come pure le operazioni di acquisizione con la leva finanziaria, per le quali la convenienza evidentemente si riduce. E insieme a queste ultime subiranno una riduzione della redditività gli operatori che più ne hanno beneficiato in passato: i fondi di private equity.

L’impatto peraltro è stato stimato che sarà piuttosto lieve, quantomeno sintantoché i tassi di interesse si manterranno bassi. Se invece dovessero volgere decisamente al rialzo le cose cambieranno parecchio.

È facile intuire perciò che la tendenza fiscale accompagnerà e sosterrà il processo di ricerca di nuove fonti di capitale (e dunque la tendenza a quotarsi in Borsa) e il consolidamento/la concentrazione dei settori economici più maturi e meno redditizi, ma d’altro canto non potrà che favorire un’ulteriore concentrazione della ricchezza in poche mani forti e in generale a favore dei detentori di capitale liquido.

I fondi di private equity peraltro troveranno un incentivo intatto nell’effettuazione degli investimenti produttivi, ma non avranno la medesima convenienza a comprare imprese fortemente “capital intensive”, dal momento che avranno un beneficio fiscale solo se effettuano “nuovi” investimenti.

Niente male dal punto di vista dell’incentivo alla creazione di nuovi posti di lavoro e allo sviluppo delle nuove tecnologie. Un po’ meno positiva la cosa se osservata dal punto di vista di chi pensa di cedere la propria impresa: la riduzione delle aliquote di deducibilitá della leva finanziaria non potrà che limarne le valutazioni.

Stefano di Tommaso




FINANZIARE UN’IMPRESA SENZA AVERE CREDITO

Quasi tutti gli imprenditori del mondo si sono chiesti, almeno all’inizio della propria avventura, come riuscire a finanziare il proprio business. Spesso il capitale sociale di partenza è minimo e le imprese neonate o recuperate da un dissesto appaiono difficilmente bancabili se non hanno ancora chiuso il primo bilancio oppure se le dimensioni sono troppo piccole. Molte nuove imprese magari rilevano attività esistenti e già avviate ma esse non sono normalmente “bancabili” se non possono parallelamente esibire adeguate garanzie patrimoniali a chi potrebbe finanziarle. Non c’è bisogno di perdersi d’animo in molti di questi casi perché spesso nelle attività di impresa esistono molteplici risorse nascoste o modalità alternative di fare affari che possono costituire una valida alternativa al debito bancario e sostenere l’impresa magari anche solo per qualche tempo.


LA CORRETTA DEFINIZIONE DI CAPITALE

Sicuramente un’impresa che nasce da zero -spesso una startup tecnologica- deve riuscire a dotarsi di un capitale di rischio di importo congruo con il proprio piano aziendale, sempre che ne faccia uno. Ecco, il piano aziendale è veramente importante perché se sviluppato correttamente fornisce indicazioni circa la necessità di cassa prospettica e spesso aiuta a reperire risorse chiarificando i rischi ed i rendimenti attesi dell’impresa. Quantomeno il piano aiuta a capire se il capitale di partenza sarà sufficiente a sostenere l’attività fino a quando non sarà possibile generare cassa ovvero accedere a nuove risorse finanziarie.

IL PIANO D’IMPRESA NON SI PUÒ DELEGARE DEL TUTTO AI CONSULENTI

Il piano però non è soltanto un foglio di calcolo, bensì la disamina approfondita delle variabili di partenza che determinano i risultati attesi e delle modalità di impiego delle risorse necessarie. Quando quelle variabili di partenza sono correttamente confrontate con la realtà e diventano ipotesi credibili alla base dello sviluppo numerico atteso, ciò che bisogna aggiungere sono la descrizione e la quantificazione dei rischi e delle modalità per delimitarne le conseguenze negative.

Un imprenditore “autentico” non può pensare di demandare a terzi il suo piano aziendale, bensì al massimo può farsi aiutare nel tracciarlo. Innanzitutto perché deve riuscire a comprendere se la sua attivitá aziendale consegue veri utili oppure genera perdite (cosa mai tanto scontata ex ante), e poi perché attraverso il piano egli inizia a prendere coscienza delle effettive necessità di investimento per sostenere l’attività (quanto può rendere l’impresa se si investe di più?) e infine per toccare con mano le esigenze di capitale circolante netto (che d’ora in avanti definiremo CCN, il cui importo deriva dalla somma algebrica del magazzino e del credito alla clientela, dedotto il credito di fornitura).

IL RUOLO DEL CAPITALE CIRCOLANTE NETTO

Più il CCN risulta elevato e più assorbe risorse finanziarie, che spesso non producono reddito. Più si riesce a ridurlo (magari aumentando vertiginosamente la velocità di rotazione delle scorte, oppure riducendo i tempi di incasso dalla clientela, o infine ottenendo per le ragioni più svariate dell‘ulteriore credito di fornitura) e meno risorse finanziarie serviranno all’impresa, soprattutto quando dovrebbe impiegarle altrove: nell’efficienza della produzione, nei sistemi di controllo e più che ogni altra cosa, nello sviluppo dei mercati di sbocco.

Il controllo efficiente del CCN è di solito il vero scoglio da superare per chiunque, tanto per il fatto che c’è sempre qualche modo ancora da scovare per ridurlo, quanto perché -se è fisiologico- c’è sempre qualche modalità alternativa per finanziarlo.

LE PIATTAFORME DI CREDITO ALTERNATIVE

Esistono infatti non solo le banche ma anche e soprattutto società di factoring di ogni genere (sino ai cosiddetti “marketplace” online) che si propongono alle imprese che vogliono smobilizzare i loro crediti commerciali verso imprese solide, e in qualche caso propongono persino di finanziare i loro fornitori (reverse factoring) e che in altre situazioni possono finanziare le consistenze di magazzino. Riuscire a coprire in questo modo le esigenze di CCN significa in molti casi trovare quelle risorse altrimenti non reperibili che fanno la differenza.

Volendo stressare al massimo il concetto (e chi non trova risorse alternative spesso non può fare altrimenti) è teoricamente possibile cedere la proprietà degli assets aziendali mantenendo l’uso di quelli più strategici e si può arrivare a ottenere risorse per gli investimenti portando il CCN a un valore negativo, cioè ottenendo più credito di fornitura di quanto ammonti la somma di crediti commerciali e magazzino. Con quella differenza l’impresa può teoricamente finanziare anche i propri investimenti, anche se ovviamente l’arrivare a finanziare l’impresa grazie ai fornitori è un atto estremo e può portare numerose conseguenze negative.

Ma è comunque astrattamente possibile, soprattutto quando lo si faccia per un breve periodo di tempo e per ragioni eccellenti.

IL RAGIONAMENTO DA “IMPRENDITORE SQUATTRINATO” AIUTA COMUNQUE

Un altro metodo per finanziarsi quando non si dispone di cassa è quello di ottenere da terzi senza pagare (in comodato, in noleggio o in cambio di altro) beni strumentali, spazi fisici o altre tipologie di strumenti di produzione (computers, veicoli ecc…). Se io prima pensavo che il capitale sociale di cui dovrei disporre in funzione del mio piano aziendale dovevo impiegarlo per acquisire tali beni e/o per finanziare il CCN ecco che, individuate forme diverse di reperimento di cassa, magari quel capitale potrebbe non servirmi più, o potrebbe servirne di meno o potrei pensare di investirlo meglio in altre direzioni.

Il ragionamento appena accennato, che io chiamo “dell’imprenditore squattrinato” vale infatti anche per chi non lo è davvero, ma può chiedersi se sta utilizzando nel modo migliore le risorse di cui dispone o se invece non varrebbe la pena di sostituire gli attuali metodi di finanziamento con alcuni di quelli indiretti qui citati per reperire risorse al fine di effettuare quegli investimenti che potrebbero risultare davvero strategici per il futuro del business. Molti imprenditori credono di aver fatto tutto il possibile ma dimenticano gli investimenti strategici o semplicemente non si arrischiano a farli perché non ritengono di disporre di sufficienti risorse. Ma si sono mai chiesti quanto è rischioso non farli?

LA NECESSITÀ DI CONTINUARE A CERCARE SOCI DI CAPITALE

Senza dubbio ciò che spesso risulta più odioso dal punto di vista dell’orgoglio dell’imprenditore è l’andare a reperire capitale da terzi investitori, mentre potrebbe da molti punti di vista risultare l’alternativa più sana per far soldi. Non necessariamente infatti allargare la compagine sociale significa aver fallito, anzi! Spesso è un problema strettamente psicologico o di mancata capacità di mettersi attivamente a ricercare i soggetti che potrebbero investire con lui. Le domande che questi ultimi faranno per decidere se investire nella sua impresa molto probabilmente risulteranno essere la miglior consulenza gratuita per un imprenditore che vuole ragionarci sopra.

Nuovi soci di capitale che disturbano perché possono voler dire la loro anche quando non hanno ragione o rischiare intralciare il business, spesso risultano comunque essenziali laddove i rischi del business risultino elevati ovvero poco razionali e dunque nessuna modalità di finanziamento (per quanto irrituale) è altamente indicata. Quando non sarebbe sano finanziarsi (anche indirettamente) la cosa da fare è raccogliere capitale di rischio, magari tramite piattaforme online (crowdfunding) o intermediari specializzati.

Senza parlare della necessità costante delle imprese di crescere e consolidare la propria posizione di mercato, per affrontare le sfide del futuro o anche solo per meglio remunerare degli investimenti che vanno comunque fatti a prescindere dalle dimensioni aziendali. Moltissime imprese italiane tralasciano di pianificare il proprio futuro.

LA NECESSITÀ DI PIANIFICAZIONE E ANALISI STRATEGICA

Qui però torna di attualità il piano aziendale e insieme ad esso la corretta definizione di rischio, rendimento, generazione di cassa e assorbimento di CCN: molte pratiche alternative di reperimento di risorse fuori del mercato dei capitali e del credito bancario possono generare oneri aggiuntivi, rischi e possibili vincoli strategici. Senza una visione strategica del mercato, della concorrenza, delle alternative di fornitura e dei mercati di sbocco, non si ottiene un’immagine nitida del proprio posizionamento e non si elaborano scenari alternativi. In tali casi pratiche come quelle citate, finalizzate al reperimento di risorse finanziarie “alternative”, possono risultare pericolose o più semplicemente possono indurre perdite economiche che non risultano recuperabili in tempi ragionevoli.

Molte imprese possono dunque “guardarsi dentro” e scoprire di disporre di tesori nascosti e capacità vitali inaspettate, ma nel farlo devono cercare di avere le idee chiare e la possibilità di generare valore per tutti i propri “stakeholders” nonostante tutto!

Stefano di Tommaso




E-COMMERCE, PARCEL & LOGISTICA IN ITALIA

E-COMMERCE E FINANZA

L’ultimo Black Friday ha posto sotto gli occhi di tutti lo sviluppo tumultuoso degli acquisti online. Un fenomeno di cui i “retailers” italiani non stanno molto approfittando. La rivoluzione digitale passa anche dal commercio ma i suoi pionieri non sono certo i nostri connazionali, nemmeno sul mercato interno. Ben poche delle catene commerciali italiane hanno fatto qualcosa per adeguarsi alle nuove tendenze di mercato. Chi guadagna posizioni con il rimescolamento che ne deriva sono le grandi corporations multinazionali come Amazon o Alibaba. E mentre il commercio elettronico avanza esso condiziona anche i servizi ad esso collegati, come quelli della logistica e del trasporto.

 

Non è un vero problema di know-how, dal momento che procurarsi la tecnologia di un “market place” o di un sito di e-commerce è veramente alla portata di tutti. La ragione del ritardato sviluppo online degli operatori nazionali è casomai legata alle dimensioni degli investimenti pubblicitari che sono necessari per avere successo e che non si giustificano se non raggiungono l’intera nazione. Altro motivo del ritardato sviluppo online dei nostri operatori commerciali è poi l’ingiustificato timore di danneggiare i propri punti vendita fisici.

Dunque quando parliamo di ritardato sviluppo del commercio elettronico nel nostro Paese vediamo principalmente cause finanziarie e culturali, che sono due facce della stessa medaglia: se l’Italia vuole alimentare la sua industria deve riuscire a evitare che essa risulti incapace di vendere i suoi prodotti, a partire dal mercato domestico. Le motivazioni finanziarie tra l’altro sopravanzano di gran lunga quelle culturali perchè si può constatare chiaramente che gli operatori che oggi risultano leader nel settore del commercio online sono tutti passati dalle forche caudine di due o tre anni di perdita economica prima di veder affermato il proprio successo online.

in Italia con un mercato finanziario e borsistico assai poco capace di far affluire capitali di rischio a operatori dell’e-commerce che vogliano partire da zero e, più in generale. poco capace di avere a che fare con i rischi e le esigenze tipico delle start-up innovative, è più difficile che qualcuno si avventuri a fare vendite online con i quattrini dei soliti “family&friends” a fare vendite online.

IL “DIGITAL DIVIDE” ITALIANO (L’ARRETRATEZZA NEL MONDO ONLINE)

Dal punto di vista culturale il problema è forse ancora più grave: nonostante che per gran parte degli articoli che si possono reperire in rete esista un risparmio di prezzo dell’ordine del 20-40%, oggigiorno le vendite online in Italia appaiono ridottissime, anche perché solo una piccola parte della popolazione è entrata nell’ordine di idee di cambiare seriamente le proprie abitudini. Questo ovviamente riduce la domanda potenziale e di conseguenza l’attrattivitá del settore per chi ci potrebbe investire.

Nel 2016 soltanto un terzo degli italiani ha fatto almeno una volta shopping online, contro il 52% medio dei Paesi OCSE (cui apparteniamo anche noi). Mentre in rete naviga ancora solo il 69% dei connazionali e tra le aziende italiane solo il 71% di esse ha un proprio sito internet e solamente il 37% del totale è presente sui social networks.

Infine esiste un problema oggettivo: se un operatore è basato in America e propone un articolo o un servizio innovativo è molto probabile il mercato di sbocco per quell’articolo sia il mondo intero. Se lo fa in Italia è possibile che esso non risulti interessante nemmeno per certe aree geografiche dello Stato. Dunque il forte impatto sulle prospettive di business della dimensione del mercato potenziale non può che disincentivare quelle iniziative che non nascono subito globali. Per far decollare queste ultime però servono ancora più quattrini. Insomma non esistono in natura le pari opportunità, tantomeno nel commercio.

PARCEL & LOGISTICS (TRASPORTI E LOGISTICA DEL COLLETTAME)

Esiste poi tutta un’attività di supporto al commercio elettronico (stoccaggio, packaging, distribuzione ecc…) che solo ogni tanto affiora sulle prime pagine di giornali e telegiornali ma i cui investimenti e le cui dimensioni sono spesso ignote ai più.

Amazon quando è sbarcata in Italia ha comperato/ realizzato/ automatizzato un certo numero di piattaforme logistiche per potersi attrezzare per le consegne a domicilio, e ciò nonostante che persino nella situazione attuale si affidi ancora poi a operatori logistici e vettori terzi per le consegne.

Allo scorso Agosto Amazon dichiarava ai giornali di aver già investito oltre € 450 milioni e di aver dato lavoro a circa 2000 persone solo in Italia. Non si può certo investire (in tutto il mondo per di più) se non si dispone dei necessari capitali e finanziamenti per far concorrenza a giganti come Amazon.

In realtà Amazon è un commerciante online sbarcato in borsa già vent’anni fa (1997), e oggi per le sue dimensioni, per la sua visibilità, per la capillarità della propria pubblicità e per mille altri motivi pratici appare essere piu visibile di tanti altri grandi operatori. Amazon è dunque solo la punta di un iceberg ben più massiccio che riguarda gli oligopolisti del commercio elettronico, destinato a costringere numerosissime altre imprese ad adeguarsi alle nuove tendenze. (Nel grafico l’incremento di valore solo fino a Maggio scorso).

Ad esempio i corrieri espressi italiani, già presenti da anni sul territorio e in precedenza attivi per altri tipi di consegna, si stanno attrezzando non poco per beneficiare (e anche per resistere all’impatto) di volumi decisamente crescenti nel settore delle consegne a domicilio. La loro appare come un’attività piena di insidie ma con forti prospettive di crescita e con la necessità di incrementare l’automazione dei processi, per mantenersi competitivi!

COME CAMBIANO LE CONSEGNE B2C (BUSINESS TO CONSUMER)

Innanzitutto parliamo delle consegne ai privati, i quali spesso non sono in casa. Quelle consegne devono perciò adeguarsi a tale fattispecie e necessariamente avvenire fuori degli orari di lavoro più comuni. Poi prendiamo in considerazione tutte le problematiche relative alla consegna, spesso impossibile perché spesso, nonostante essa avvenga agli orari concordati, capita ugualmente che all’indirizzo di destinazione non ci sia nessuno al momento dell’arrivo del corriere, generando un traffico di ritorno per il quale nessuno paga nulla. Parliamo infine delle tariffe di consegna, oggi sempre più stracciate per venire incontro alle esigenze commerciali.

Come fa un corriere espresso a consegnare merce di peso (e valore) molto limitato a costi bassissimi per il cliente senza andare in rosso? Può riuscirvi quasi solo con l’ausilio di grandi volumi e dell’automazione (il rilevamento digitale di ogni passaggio, come: picking, deposito, spedizione, logistica e smistamento, consegna) e deve disporre di grande potenza nei sistemi informativi, che devono oggigiorno “dialogare” con il mittente (soprattutto quando è un colosso come Amazon o Zalando) e deve obbligatoriamente riuscire a mostrarne online il “tracking” (cioè deve far vedere in ogni istante all‘acquirente che si collega al sito della Amazon di turno dove si trova in quel momento il suo pacco).

Dimensioni aziendali e automazione sono dunque elementi essenziali anche per i corrieri espressi perché i conti tornino loro in tasca, sebbene la forte crescita del mercato delle consegne di acquisti online ai privati non accenni a flettere e possa quindi ampiamente giustificare la montagna di investimenti ed efficientamenti che risultano necessari per potervi operare.

Se ne può facilmente dedurre che l’intero settore dei trasporti ne subirà uno scossone rimescolando le carte della competizione e facendo rimanere a galla solo i migliori operatori. Ma per qualcuno di essi sarà anche l’occasione di emergere e fare profitti.

Stefano di Tommaso