STRATEGIE E MARKETING PER LE PICCOLE AZIENDE

Le grandi macro tendenze (globalizzazione, digitalizzazione, diffusione dell’intelligenza artificiale, demografia e invecchiamento della popolazione…) senza dubbio influiscono più velocemente e più pesantemente di quanto si possa comunemente ritenere su qualsiasi attività d’impresa e ogni genere di azienda dovrebbe tenerne conto per aggiustare continuamente il tiro e chiedersi se I propri prodotti sono ancora competitivi e se, opportunamente reinventati e manipolati, hanno ancora spazio per crescere.
La necessità di rivedere la competitività e l’attrattivitá dei prodotti porta quasi sempre con se la conseguenza di dover rivedere radicalmente anche la strategia e la struttura della culla dove essi nascono e si realizzano: l’azienda. Ma fare strategia d’azienda è da sempre un’attività complessa e poco idonea al modo di pensare ed agire delle piccole e medie imprese. Di seguito vi propongo una breve “guida galattica per autostoppisti” per indirizzare anche I più piccoli imprenditori verso l’impostazione di una riflessione strategica di fondo.

 

Molto spesso quando si parla di strategie aziendali il pensiero vola subito a ciò che fa il dirigente tipico delle grandi multinazionali: esamina moltitudini di dati e analisi di mercato per cogliere delle indicazioni tendenziali, le confronta con le possibilità dell’impresa di adeguarsi e creare o modificare la propria offerta, analizza I dati gestionali per valutare le possibili manovre e individuarne I costi e le economie di scala, per poi procedere con la definizione di piani operativi da sottoporre al consiglio di amministrazione o a qualche comitato esecutivo.

Tutta roba inarrivabile per la piccola e media impresa che spesso si pone sí il problema di guardare più in là del proprio naso, ma non ha alcuno degli strumenti appena citati: non ha studi di mercato (anche perché costano), non ha laboratori di ricerca e sviluppo né sistemi di elaborazione dei dati industriali o gestionali che permettano di evincere delle tendenze, non ha mai fatto piani e programmi formalizzati e non ha nemmeno un consiglio di amministrazione o un comitato di dirigenti che si riunisce periodicamente.

Eppure esistono modi più semplici per affrontare ugualmente l’argomento della verifica della posizione strategica dell’impresa, del modello di business e della soddisfazione della sua clientela, quantomeno allo scopo di comprendere quali elementi della formula imprenditoriale generano davvero valore nell’attività caratteristica di produzione e vendita di beni e servizi alla clientela.

IL PRIMO PASSO

Il primo punto da chiedersi nel cercare di mettere a fuoco le questioni fondamentali che anche un piccolissimo imprenditore dovrebbe porsi, riguarda la più importante delle domande: cosa vuole il mio cliente e come può soddisfare le sue richieste in alternativa a ciò che gli propone la mia impresa?

I clienti acquistano I miei prodotti perché vi percepiscono un valore. Comprendere quali sono gli acquirenti dei miei prodotti e come si differenziano da quelli della concorrenza, quali caratteristiche geografiche, sociali e quali aspettative di servizio esso hanno risulta fondamentale per comprendere quale valore essi trovano nella mia impresa e nei miei prodotti.

La questione è la più semplice cui si possa pensare nel cercare di asserire una formulazione strategica al riguardo della propria impresa, ma anche la più fondamentale. Rispondervi correttamente significa comprendere meglio possibile tanto I bisogni fondamentali della mia clientela quanto riuscire a interpretare correttamente l’arena competitiva e di conseguenza I punti di forza della mia offerta rispetto a quelli dei miei concorrenti.

Ogni imprenditore che segue attivamente la gestione della propria azienda conosce, oltre ogni ragionevole dubbio, le caratteristiche della concorrenza e il panorama di prezzi e proposte che risultano succedanei o complementari alle proprie. Tuttavia è attraverso la comparazione di tali nozioni con quelle della segmentazione della clientela e dell’articolazione delle sue esigenze e l’approfondimento del livello di loro soddisfazione che un imprenditore può iniziare a mettere a fuoco il primo passo della propria analisi strategica. E più riesce ad articolare le risposte a tali domande, a tali comparazioni e alla verifica dei risultati, più egli riesce a porre le basi per un corretto inquadramento di ciò che ne può conseguire in termini di strategia e struttura.

IL SECONDO STADIO

Il secondo passo è quello della messa a fuoco delle caratteristiche della propria offerta rispetto a quelle della concorrenza e rispetto a ciò che supponiamo che il cliente desidererebbe. Per quanto piccola e destrutturata possa risultare la mia azienda io posso sempre riuscire a descrivere nel modo più accurato le caratteristiche della mia offerta, dei miei prodotti, dei servizi che vi risultano collegati e del livello di prezzo nella quale li posiziono rispetto alla concorrenza. La risposta a tale questione comporta anch’essa una formalizzazione del mio posizionamento ma, nella misura in cui riesco a comparare la mia offerta con le alternative a disposizione del mio cliente e con il livello di soddisfazione che vi è collegato posso iniziare ad affermare un concetto fondamentale nella definizione della mia strategia: la mia “Value proposition” (il valore della mia proposta).

Il concetto di value proposition e di come si può pensare di migliorarla risulterà a breve di fondamentale spessore per indicare uno dei punti essenziali di qualunque formula strategica: l’analisi dei miei punti di forza e di debolezza, attraverso i quali riuscirò a delineare il mio vantaggio competitivo. Quando se ne parla non si pensa soltanto al motivo per il quale si può ricaricare un margine sul costo dei fattori di produzione, ma all’intera sfera dei valori percepiti dalla clientela che fanno sì che essa sia disposta a riconoscermi un adeguato valore e dunque a pagarne il prezzo.

Il valore “consegnato” alla clientela promana da ogni angolo dell’organizzazione aziendale: dal suo posizionamento geografico e commerciale al suo marchio e alla competenza che essa esprime, fino alla durevolezza della soddisfazione della propria clientela, alla difficoltà di rimpiazzarne prodotti e servizi, alla velocità di adeguamento della propria offerta alle variazioni delle esigenze di mercato, e contemporaneamente alla sicurezza, eticità e validità intrinseca della propria offerta.

Quel valore fornito insieme a prodotti e servizi dipende spesso anche dalla capacità delle persone-chiave dell’organizzazione aziendale, che possono andare dallo storico commesso di bottega all’ingegnere dei sistemi di manutenzione, dalla storicità delle figure commerciali di riferimento ad un’aggressiva campagna di comunicazione. È spesso un insieme di fattori ma è importante individuarli quantomeno per non rimuoverli inavvertitamente.

IL TERZO E PIÙ DIFFICILE PASSAGGIO

Seguendo le considerazioni sopra riportate abbiamo visto che ragionamento strategico risulta di vitale importanza per ogni genere di impresa e può esplicarsi talvolta anche solo con considerazioni qualitative e generiche, quindi persino in assenza di dati gestionali e verifiche di mercato. Spesso tuttavia il successo pratico che può derivare dal mettere in pratica le considerazioni sopra riportate dipende anche da un altro essenziale fattore : la capacità dell’impresa di erigere valide barriere all’entrata della concorrenza.

Ogni impresa ha elementi di unicità e delle caratteristiche particolari, che si riflettono tanto nel fascino che essa può promanare quanto nella qualità dei suoi prodotti e servizi, nel livello di qualità dei medesimi. Ma se quegli elementi sono facilmente riproducibili dalla concorrenza, se gli investimenti necessari a qualcun altro per avere successo nell’aggredire il mio mercato sono bassi, se ci sono validi sostituti dei miei prodotti e servizi allora io devo fare qualcosa per incrementare l’unicità della mia proposta, la dipendenza della mia clientela, la difficoltà di essere facilmente sostituibile.

Il tema è di grande importanza perché oggigiorno l’arena competitiva evolve così velocemente che non è letteralmente possibile fare programmi e investimenti se non si riesce a configurare un orizzonte temporale sufficiente nel quale I nostri prodotti possono avere successo per trovare un ritorno adeguato agli sforzi e ai denari impiegati.

A volte non si tratta perciò di mere tattiche per poter mantenere prezzi elevati in presenza di validi ed economici sostituti, o di arguzie di breve termine per riuscire a mantenere artificialmente degli spazi di mercato che in realtà non esistono più. Qualsiasi organizzazione aziendale deve riuscire a dotarsi di una propria unicità e di un suo “fascino” implicito che può permetterle di esprimere valore nel tempo. Se non ci riesce, anche laddove la velocità di rinnovamento del mercato non sia alta, c’è ugualmente il rischio che quest’ultimo evapori perché magari è il personale che trova facile spostarsi altrove o perché non si riesce a finanziare il rinnovamento.

La costruzione di valide barriere all’entrata della concorrenza quasi mai è solo questione di quattrini. Molto spesso è il risultato di una strategia vincente e di un ragionamento strategico integrato, ma quasi sempre è un fattore vitale. Anche laddove esse non sembrano essenziali, riuscire a erigere difese strategiche risulta essenziale per avere un orizzonte temporale adeguato a limitare I danni di un attacco esterno, di un esodo interno o di un brutale rimpiazzo dovuto a tecnologie innovative o a concorrenza sleale. Ci sono mille ragioni per le quali la concorrenza può farci dei danni, ma se si sono riuscite a costruire valide “barriere all’entrata” si avrà probabilmente il tempo di reagire o di ridimensionare utilmente l’azienda.

IL “TICKET MINIMO” DEL BUSINESS

A volte fanno parte di tale ragionamento le necessarie dimensioni minime aziendali per poter chiudere il cerchio di una idonea proposizione di valore alla clientela. Capita che se sono troppo piccolo non riesco ad esprimermi e nemmeno riescono ad esprimere valore, con la mia organizzazione, I miei prodotti. Se non riesco ad avere una diffusione capillare della distribuzione, se non riesco ad esprimere autorevolezza, se non riesco a fare adeguati investimenti, se non riesco a trovare efficienza nella produzione, allora tutti gli altri ragionamenti rischiano di passare in secondo piano perché sono privo di alcune leve fondamentali per riuscire a sostenere la competizione.

Il ragionamento è di assoluta ovvietà e, pur tuttavia, molte imprese italiane ricadono in tale fattispecie di mancanza di adeguate dimensioni aziendali. Per motivi storici, familiari o di difficoltà di trovare risorse adeguate alla crescita. In quei casi ove si riscontra l’impossibilità di raggiungere le dimensioni minime aziendali per poter mettere in campo una strategia, allora l’urgenza è quella di individuare un network di collaborazioni, una rete di imprese, un possibile acquirente del business o I necessari capitali per la crescita. In molti casi gli imprenditori decidono di vendere per questi motivi, o perché si intravedono all’orizzonte le necessità di spostare la competizione su scala globale, o anche solo perché la distribuzione è diventata inefficace se non si investe di più.

Molte imprese (anche decisamente grandi) che si rivolgono alle banche d’affari per trovare risposta alle loro problematiche strategiche arrivano a dare loro un doppio mandato : da un lato per la quotazione in borsa (o il reperimento di capitali per altra strada) e dall’altro per la vendita del business (il cosiddetto “dual tracking”).

Ma anche I ragionamenti relativi alla misurazione delle dimensioni minime aziendali necessarie non sono poi così ovvi. Esistono ed esisteranno sempre delle strategie di “nicchia”. Esistono ed esisteranno sempre degli ambiti speciali, delle situazioni particolari e delle nuove esigenze che possono essere soddisfatte con vecchi prodotti. Anzi: è proprio in questi casi che trionfa il pensiero strategico e che può persino arrivare a superare il problema dimensionale. E’ per questo che è così importante!

Stefano di Tommaso




CONTRATTO DI AFFITTO D’AZIENDA – ASPETTI CONTABILI

Nel caso dell’ affitto d’azienda o di ramo d’azienda, due sono le interpretazioni offerte per l‟inquadramento contabile degli ammortamenti effettuati dall‟affittuario.

In base ad una prima tesi „sostanzialista‟, occorre fare riferimento alla reale disponibilità dell‟azienda.

Pertanto, poiché per effetto della stipulazione del contratto l‟affittuario assume il controllo effettivo dell‟impresa, tutte le attività e le passività devono essere inserite nella sua contabilità generale come beni di proprietà.

Di conseguenza, anche l‟ammortamento dei beni deve avvenire secondo l‟ordinaria procedura di attribuzione della quota di ammortamento a fondo ammortamento ( Circolare Assonime 10 maggio 2000, n. 34).

Secondo, invece, un altro orientamento „formalista‟ (e che trova come suo sostenitore anche l‟Erario), i beni possono essere iscritti nel bilancio solo quando si realizza anche il passaggio della proprietà, con la conseguenza che, nel caso dell‟ affitto d‟azienda senza deroga al regime ex art. 2561 c.c., l‟affittuario deve utilizzare esclusivamente i conti d‟ordine.

Il fondo costituito dall‟affittuario come contropartita delle quote di ammortamento dedotte durante il periodo di locazione è un fondo anomalo, in quanto esso non ha natura rettificativa di valori patrimoniali iscritti nell‟attivo del bilancio, bensì rappresenta gli accantonamenti effettuati dall‟utilizzatore per reintegrare l‟eventuale perdita di valore subita dai beni aziendali durante il periodo di affitto d’azienda in conseguenza del loro deperimento e consumo che dovrà essere reintegrata a vantaggio del proprietario.

L‟applicazione dell‟art. 2561 c.c. comporta per l‟affittuario, da un lato, l‟obbligo di conservare l‟efficienza dell‟organizzazione e degli impianti, effettuando gli investimenti e le manutenzioni (anche straordinarie) necessarie al perseguimento dell‟obiettivo indicato, e, dall‟altro, la configurazione, alla cessazione del contratto di affitto, di una posizione creditoria (o debitoria) nei confronti del concedente, visto che i beni immessi dall‟affittuario, che determinano “differenza tra le consistenze d‟inventario all‟inizio ed al termine dell‟usufrutto”, devono essere ricondotti ad una valutazione “sulla base dei valori correnti al termine dell‟usufrutto” (art. 2561, co. 4 c.c.).
Alla scadenza del contratto di affitto d‟azienda, l‟affittuario riconosce al concedente un conguaglio in danaro quantificato in funzione della differenza di valore dell‟azienda all‟inizio e alla fine del rapporto.

Va, peraltro, opportunamente evidenziato che in tale fase le somme accantonate nel fondo costituito dall‟affittuario non si identificano necessariamente con l‟ammontare del conguaglio. Infatti, come chiarito dalla stessa Amministrazione finanziaria, ai fini fiscali rilevano le possibili sopravvenienze che emergono qualora l‟ammontare delle quote accantonate nel „fondo anomalo‟ nel corso del rapporto contrattuale siano insufficienti a coprire il conguaglio (sopravvenienza passiva per l‟affittuario), oppure l‟ammontare delle quote accantonate nel „fondo anomalo‟ nel corso del rapporto contrattuale superino il conguaglio da corrispondere. Tali sopravvenienze saranno rispettivamente deducibili o tassabili in capo all‟affittuario e tassabili o deducibili nei confronti del concedente (LEO). Ai sensi dell‟art. 101, co. 4 del TUIR si considerano sopravvenienze passive:

a) il mancato conseguimento di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi;

b) il sostenimento di spese, perdite od oneri a fronte di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi; c) la sopravvenuta insussistenza di attività iscritte in bilancio in precedenti esercizi diverse da quelle di cui all’articolo 87, vale a dire le partecipazioni che possiedono i requisiti per l‟esenzione e che possono dar luogo a plusvalenze esenti.

A giudizio dello scrivente professionista, nella registrazione delle scritture contabili, tanto della affittuaria quanto in quelle della concedente deve essere chiaramente evidenziato il rapporto suddetto trovando una corretta mediazione tra l‟orientamento formalista e quello sostanzialista.

Nel caso in cui,  le due società non utilizzino i conti d‟ordine sarà comunque necessario o comunque opportuno:

1. Evidenziare nel libro cespiti della concedente che i beni non sono più soggetti ad ammortamento da parte della stessa.

2. Riportare i beni nel libro cespiti dell’affittuaria che provvederà ad ammortizzarli.

3. Iscrivere in dare il valore originario dei beni indicando  “Immobilizzazione A c/affitto ”, il valore degli ammortamenti già effettuati dalla affittuaria indicato come “Fondo ammortamento immobilizzazione A c/affitto” e un ulteriore fondo rettificativo indicato come “Fondo affitto Immobilizzazione A”.

La scrittura sarà quindi:

Cespite 1 c/affitto                            a            AFFITTANTE c/affitto

e

AFFITTANTE c/affitto                  a             Fondo ammortamento cespite 1 C/affitto

4. Esercizio dopo esercizio la società affittuaria dovrà registrare successive quote di ammortamento del bene che, come detto dovranno essere considerate reintegrative del valore del valore dello stesso mediante la scrittura “Ammortamento Immobilizzazione A C/affitto a Fondo reintegrazione Immobilizzazione A”.

Alessandro Arrighi  




CONTRATTO DI AFFITTO D’AZIENDA – ASPETTI FISCALI

Per effetto della stipulazione del contratto di affitto d’azienda , come è noto, il concedente – proprietario del bene – attribuisce l’intera gestione dell’azienda di cui è proprietario ad un soggetto terzo – affittuario – il quale, in conseguenza di ciò, si obbliga a “gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte” (artt. 2561 – 2562 c.c.).
Il contratto di affitto d‟azienda è disciplinato dall’art. 2561 c.c. il quale, pur regolando l’usufrutto di azienda, si applica anche all’ipotesi di affitto in conseguenza del richiamo ad esso effettuato dall’art. 2562 c.c.

L’affittuario nel contratto di affitto d’azienda – al fine di garantire la conservazione dell’efficienza del ‘sistema’ aziendale – subentra nella pienezza dei rapporti facenti capo al concedente ed acquisisce prerogative di godimento e di disposizione sostanzialmente equivalenti a quelle del proprietario giacché estese non solo sulle dotazioni di scorte (c.d. capitale circolante) ma anche sugli impianti aziendali.
Oggetto del contratto di affitto è una azienda o un ramo della stessa, considerata come il complesso unitario di tutti i beni mobili e immobili, materiali e immateriali concessi in godimento, in quanto organizzati unitariamente per la produzione di beni e servizi.

L‟affittuario nel contratto di affitto d’azienda,  deve gestire l’azienda nella prospettiva di tutelare l’interesse del nudo proprietario a non vedere ridotta l’efficienza del complesso aziendale, in vista di un ritorno nella posizione di imprenditore. A tale scopo si ritiene che egli abbia l‟obbligo non solo di ricostruire ma anche trasformare ed eventualmente alienare le scorte di materie prime e di prodotti finiti, nonché di sostituire gli impianti non più efficienti o tecnicamente superati e, in genere, tutti gli elementi aziendali la cui sostituzione è in linea con la prospettiva di conservazione dell’avviamento.

Illegittimo è, di conseguenza, ogni mutamento nella composizione dell’azienda affittata,  che ne pregiudichi l’avviamento o ne modifichi l’identità. La questione,  nei casi in cui il contratto sia stipulato in condizioni di crisi di impresa, diventa ancora più importante, perché, in caso di fallimento dell’impresa che ha concesso in affitto il ramo di azienda o l’azienda, il depauperamento della ricchezza aziendale potrebbe determinare effetti anche di tipo penale.

La disciplina fiscale dell‟ammortamento dei beni compresi nell’affitto d’azienda è configurata nell‟art. 102, co. 8 (beni materiali) del TUIR, richiamato dall‟art. 103, co. 4 (beni immateriali) del TUIR medesimo. Essa è direttamente collegata alla normativa civile dell‟ammortamento dei beni contenuta nell‟art. 261 c.c. (così come richiamato dall‟art. 2562 c.c.) in base al quale compete all‟affittuario l‟onere di conservare l‟efficienza dell‟azienda, pur potendo le parti derogare a tale principio, mantenendo in capo al locatore detto onere.
Con la sentenza n. 675, depositata il 15 gennaio 2007, la Suprema corte ha statuito che nell‟ipotesi di affitto d‟azienda non compete al proprietario alcuna deduzione delle quote di ammortamento, fino a quando i beni restano nella libera disponibilità dell‟affittuario.
Nell‟ipotesi in cui, non vi sia alcuna deroga contrattuale, l‟art. 102, co. 8 del TUIR prevede la deducibilità delle quote di ammortamento dei beni d‟azienda data in affitto dal reddito dell‟affittuario.

Per effetto di ciò si determina il superamento della regola secondo cui l‟ammortamento di un bene risulta subordinato al verificarsi delle due condizioni coesistenti in capo allo stesso soggetto della proprietà (o di altro diritto reale) e dell‟utilizzo diretto del bene strumentale (Cass. Civ., sentenza 24 gennaio 2001, n. 997. Conforme: Cass. Civ., sentenza 15 gennaio 2007, n. 675). Invero, come da più parti è stato sostenuto (AULETTA, TEDESCHI), sarebbe ingiusto riconoscere al concedente il diritto alla continuazione degli ammortamenti per beni di cui, in conseguenza dell’affitto d‟azienda, non ha più la disponibilità.

L‟Amministrazione finanziaria ha chiarito che nel contratto di affitto d’azienda  l‟affittuario si sostituisce al concedente nelle relative “posizioni fiscali” riferibili agli elementi patrimoniali trasferiti, con la conseguenza che i relativi valori fiscali formatisi in capo al concedente risultano attratti nella sfera giuridico-tributaria dell‟affittuario ( Risoluzione Agenzia Entrate 5 novembre 2008, n. 424/E). Pertanto, dalla data di decorrenza del contratto di affitto, fanno capo all‟affittuario le spese di manutenzione dei cespiti, nonché gli stanziamenti al fondo di reintegrazione del valore degli impianti. Simmetricamente, ai fini fiscali, le quote di ammortamento, durante il periodo di esecuzione del contratto, vengono dedotte dall‟affittuario e non dal concedente secondo il piano di ammortamento predisposto originariamente dal secondo. Ai sensi dell‟art. 102, co. 8 del TUIR, la deduzione delle quote di ammortamento del reddito d‟impresa dell‟affittuario presuppone la regolare tenuta del registro dei beni ammortizzabili (ovvero il libro degli inventari di cui all‟art. 2217 c.c. o, per le imprese minori di cui all‟art. 66 del TUIR, il registro degli acquisti tenuto ai fini Iva) da parte dell‟affittuario, in conformità alle risultanze del registro del concedente, nonché la commisurazione delle quote di ammortamento al costo originario dei beni “quale risultante della contabilità del concedente”.

Nel caso in cui il concedente non abbia tenuto regolarmente il registro dei beni ammortizzabili, è consentita la deduzione delle quote di ammortamento da parte dell‟affittuario fino a concorrenza del costo non ancora ammortizzato dal concedente, considerando dedotto il 50 per cento delle quote relative al periodo di ammortamento già trascorso.

Alessandro Arrighi 




IL TRIONFO DELLE CRIPTOVALUTE

Farsi un’idea del perché il BitCoin è quasi arrivato a valere 6000 dollari americani non è una cosa semplice. Tantomeno se teniamo conto del fatto che solo all’inizio del 2017 il suo valore superava appena 1000 dollari. In un mio precedente articolo dello scorso Maggio ( http://giornaledellafinanza.it/2017/05/15/la-carica-esplosiva-del-bitcoin/ ) accennavo alla difficoltà di sottoporlo a regolamentazione come pure alla probabilità che la sua quotazione sarebbe salita ancora, proprio perché la quantità in circolazione di Bitcoin è sottoposta a rigide regole e la domanda non manca.

Eppure non solo il Bitcoin è volato quotazioni che ridicolizzano ogni più recente apprezzamento delle borse valori, ma la più famosa delle criptovalute è oggi così richiesta che -visto che la sua domanda ne supera ampiamente l’offerta- stanno comparendo sul mercato così tante altre criptovalute da porsi almeno una domanda (sopra tutte le altre) a proposito di questa singolarità del mercato finanziario.

C’È DAVVERO COSÌ TANTO BISOGNO DELLE CRIPTOVALUTE?

Evidentemente la risposta è affermativa, altrimenti avremmo assistito viceversa ad un numero infinito di tentativi senza successo e le quotazioni di quelle più famose non sarebbero arrivate oggi alle stelle. Oltre al Bitcoin infatti vediamo l’Ethereum, il Ripple, il Litecoin e qualcosa come altre 1700 criptovalute comunemente censite.

Ecco di seguito un elenco delle prime 100 in ordine di capitalizzazione complessiva.


UNA VERA E PROPRIA “ASSET CLASS”

Il fatto però che in totale la somma dei valori di queste criptovalute in circolazione arriva a oltre 170 miliardi di dollari significa che qualcosa è cambiato.

Non si tratta più di un interessante esperimento, bensì di una nuova vera e propria “Asset Class” per gli investitori.

Ecco qui sopra un paragone (nemmeno troppo aggiornato, visto che nell’immagine qui riportata la capitalizzazione delle criptovalute arrivava “solo” a 163 miliardi). In teoria quindi questa “asset class” ha già scalato altre posizioni tra I titoli più capitalizzati a Wall Street.


Il fenomeno della diffusione esponenziale delle monete digitali è oramai sulla bocca di tutti, ma il vero boom è arrivato solo a partire dall’inizio del 2017, dal momento che prima di quella data i valori in gioco erano quasi ridicoli. Ecco ad esempio un grafico dell’andamento delle quotazioni delle prime 10 divise digitali: se escludiamo il Dash e l’Ethereum si vede subito che per tutte le altre le quotazioni non sono salite altrettanto velocemente (e solo a partire da inizio anno).


COS’È CAMBIATO?

Dunque cosa è cambiato nel contesto generale dei mercati finanziari perché si è accesa questa nuova stella? Per rispondere a questa domanda non è evidentemente sufficiente parlare del trionfo di internet, dell’esplosione del commercio online, né dell’incremento delle quotazioni di quasi tutti I listini azionari del mondo, perché l’ampiezza del fenomeno non è paragonabile a nessuno di questi fatti, sebbene indubbiamente ciascuno di essi (e molti altri) abbiano contribuito al successo delle criptovalute.

Qualcos’altro perciò ha dato fuoco alle polveri. Probabilmente tra I fattori di contorno è stata presa in considerazione la riservatezza del loro possesso. È virtualmente impossibile infatti darne la caccia ai possessori e l’accesso al denaro criptato può avvenire -senza costi- da qualsiasi internet bar del pianeta. L’incremento dell’interscambio internazionale e la possibilità di non essere tracciati nella titolarità dei movimenti finanziari ne ha fatto una cuccagna per gli agenti segreti, I trafficanti di materiale illecito, gli evasori fiscali e tutti coloro che subiscono restrizioni alla circolazione dei propri capitali.

LA RISERVATEZZA

Ecco però, forse è proprio quest’ultima caratteristica (non essere soggette ai controlli sulla circolazione dei capitali) quella che ha fatto la differenza. L’economia cinese, si sa, da tempo cerca di tenere sotto controllo il deflusso di capitali, anche perché la svalutazione programmata del Renminbi è oggetto di grande attenzione da parte del Governo centrale. La Cina sarebbe infatti diventata la prima economia al mondo (Inntermini di P.I.L.) già nel 2012 se non fosse stato per il fatto che la classifica si fa in dollari e che da allora ad oggi il Renminbi è stato pesantemente ridimensionato. Sembrerebbe infatti che buona parte dell’ascesa dei valori in gioco nelle criptovalute abbia origini nel sud-est asiatico.

Certamente le criptovalute per definizione non hanno territorio, né subiscono limitazioni nei loro movimenti dentro e fuori delle maggiori economie del mondo. Sicuramente la recente maggior diffusione ha contribuito a dare fiducia a questo strumento ribaltando la precedente ritrosia ad affidarsi a circuiti poco trasparenti. Gli esperti però garantiscono che la trasparenza non manca al sistema che presiede alla loro registrazione: la “blockchain”. Anzi! È molto più sicuro di qualunque altro proprio perché nessuno lo controlla.

MEGLIO DELL’ORO


Molti hanno paragonato le criptovalute ad altri beni rifugio, primo fra tutti il principale tra di essi: l’oro. Il paragone non è fuori luogo. Ma c’è un’importante differenza: la quantità in commercio dell’oro è controllata dalle banche centrali, che ne posseggono una forte quota del totale di loro forzieri. Dunque il prezzo dell’oro è controllabile. Quello delle criptovalute invece dipende solo dalla domanda e dall’offerta. E probabilmente l’ascesa dei prezzi è funzione del combinato disposto di domanda a fini protettivi, riservatezza, assenza di fiscalità sui guadagni in conto capitale, offerta limitata e non manovrata che l’ondata di capitali in fuga dalle borse (giudicate troppo care) a caccia di strumenti di investimento alternativi. I valori sono esplosi anche perché l’offerta di criptovalute è direttamente dipendente dalla circolazione della stessa, attraverso un complicato meccanismo chiamato “estrazione mineraria” (mining), anch’esso basato su regole chiare e sull’impossibilità oggettiva di infrangerle.

Con quelle regole la protezione dalla diluizione del valore intrappolato nelle criptovalute è praticamente assoluta. E allora ecco che ci avviciniamo a farci un’idea delle ragioni dell’ascesa: niente costi di trasporto, niente rischi di detenzione, niente tasse e niente controlli. Le criptovalute nascono con la caratteristica di adattarsi perfettamente al contesto generale del commercio elettronico senza frontiere. Soprattutto quando riguarda oggetti smaterializzati (come I titoli azionari) o servizi di ogni genere, digitalmente forniti.

UNICI NEMICI: GOVERNI E DEFLAZIONE

Resta però il rischio (Non banale a questi livelli) che l’aereo che si è alzato in volo torni a terra: che l’interesse verso tali strumenti arrivi a rarefazione, vuoi per normative al riguardo vuoi per qualche altro fattore come un ritorno della deflazione, che spinge al ribasso le quotazioni dei beni rifugio e incita gli investitori ad andare a cacciare rendite “sicure”, al riparo dal calo generalizzato delle quotazioni. Se dovesse affacciarsi all’orizzonte nuovamente uno scenario di Stagnazione Secolare come quello dipinto da Larry Summers (http://larrysummers.com/2016/02/17/the-age-of-secular-stagnation/) in un famoso intervento del 2016 è possibile che il contesto generale, oggi così favorevole alla diffusione delle criptovalute, possa mutare radicalmente. La sensazione però è che un tale scenario non sia dietro l’angolo.

Stefano di Tommaso