ESUBERANZA RAZIONALE?

IL NOBEL A RICHARD THALER PUÒ SPIEGARSI CON IL TENTATIVO DI DARE RISPOSTE AL TEMA DELL’ESUBERANZA IRRAZIONALE DEI MERCATI FINANZIARI? E SE FOSSE IL CONTRARIO?

L’altro giorno leggevo tra i commenti all’ultima premiazione della fondazione Nobel per gli studi economici quelli che fanno riferimento ad un semplicissimo sito web gestito da un altro premio Nobel per l’economia: Robert Schiller. Il nome del sito internet “http://irrationalexuberance.com/main.html?src=%2F#4,0” parla già da solo. Esso si limita ad esporre, accanto alla copertina del famosissimo libro omonimo (vedi immagine copertina), soltanto due grafici: quello dell’andamento dell’indice azionario Standard &Poor di Wall Street (Insieme a quello dell’andamento degli utili aziendali) e quello del rapporto prezzo/Utile insieme all’andamento dei tassi di interesse.


Anche il premio Nobel elargito in precedenza a Robert Shiller riguardava la “Finanza Comportamentale”. Dunque questo tema è percepito dal mondo accademico nonché dai giurati del premio Nobel come uno di quelli davvero importanti in un momento come questo.

I GIUDIZI ED I COMPORTAMENTI UMANI NON SONO DEL TUTTO RAZIONALI. NEMMENO QUANDO CREDONO DI ESSERLO

Il ragionamento di fondo di Schiller e Thaler osserva che il comportamento umano non può essere rappresentato con la sola logica delle aspettative razionali e I modelli economici di conseguenza non possono non tenerne conto. Solo che quel “tenerne conto” può non andare soltanto nella direzione di predire lo scoppio delle bolle speculative. Può invece anche essere interpretato all’opposto per riuscire a comprendere come mai le borse continuano a salire.

Andiamo infatti a leggere cosa ci raccontava Shiller nel suo libro, pubblicato nel 2000 (quando I mercati finanziari avevano toccato un altro picco massimo): che se si vuole interpretare correttamente l’andamento delle Borse Valori bisogna necessariamente tenere conto anche delle psicologie (e non solo delle argomentazioni razionali) le quali aiutano non poco a fabbricare ogni genere di bolle speculative sui mercati. Il libro spiega anche che alla fine le bolle esplodono sempre, anche se a volte in tempi più lunghi del solito.

 

Questi grafici così sintetici e quasi silenziosi ci raccontano però anche dell’altro: se andiamo a guardare il rapporto prezzo utili cui si riferiscono le attuali quotazioni borsistiche, non c’è dubbio che siamo oggi ben lontani dai massimi del 2001, poco prima che finisse l’era della prima “New Economy” e il mondo cambiasse per sempre. Più esattamente su quel rapporto, rispetto ai massimi siamo a metà strada, mentre i tassi di interesse a lungo termine (la linea rossa) sono invece arrivati in picchiata ai minimi di sempre più o meno un anno fa, nonostante le intenzioni più volte espresse dai banchieri centrali di tutto il mondo, concordi con la necessità di continuare a tirarli un po’ su, dal momento che neanche negli anni trenta si erano visti così in basso.

E SE LE ATTUALI QUOTAZIONI DI BORSA RISPECCHIASSERO LA “NUOVA NORMALITÀ”?

Dunque da un lato le azioni quotate a Wall Street non risultano poi così care se comparate con I profitti che esse esprimono, dall’altro lato i tassi sono oggettivamente bassi e dunque essi giustificano (almeno in parte) delle quotazioni più elevate a parità di tutto il resto. Come dire che la bolla speculativa alla fine scoppierà ugualmente, ma di strada da fare per gonfiarsi ancora potrebbe averne ancora tanta. Allora in questo caso ciò che sembra davvero irrazionale è il timore di un crollo, non il suo opposto.

A proposito dei tassi di interesse bisogna poi ricordare che quelli che contano davvero sono I tassi reali prospettici, cioè quelli futuri e al netto dell’inflazione. Per soppesare il livello dei tassi di interesse reali e tenerne conto nel chiedersi come attualizzare i profitti futuri sono perciò importanti le aspettative di inflazione, che fino a qualche giorno fa sembravano puntare verso l’alto mentre poi è arrivata l’ennesima doccia fredda che gli economisti non riescono a spiegare se non con il salto quantico della digitalizzazione.

TASSI, CRESCITA E INFLAZIONE

La crescita economica infatti si accompagna di norma a un surriscaldamento dell’economia che porta qualche tensione sui prezzi al consumo perché aumenta la propensione alla spesa da parte dei consumatori che si ritrovano con un reddito maggiore. Questo sarebbe particolarmente evidente negli Stati Uniti d’America dove l’economia cresce oramai da più di sette anni ( altrove solo negli ultimi tempi l’economia è tornata a crescere ) e la disoccupazione è giunta ai minimi storici, eppure l’inflazione non risale. Senza di essa I tassi di interesse reale attuali, pur bassi, non sono nulli e pertanto hanno più probabilità di restare a livelli simili a quelli attuali.

Dunque I profitti futuri vanno attualizzati a tassi bassi e -in generale- giustificano maggiormente le quotazioni stratosferiche di molte società quotate.

Poi ovviamente per giudicare se le valutazioni espresse dalle borse appaiono o meno eccessive, dipende anche da ciascun settore di appartenenza. Tipico è il paragone che si fa tra I moltiplicatori degli utili di due titoli che sono chiaramente molto grandi ed esprimono business all’avanguardia e globalizzati, sono percepiti entrambi come titoli “tecnologici” ma appaiono tuttavia agli investitori molto diversi tra loro: Apple e Alphabet (Google). Il Financìal Times di stamane faceva notare che la prima, dal momento che buona parte dei suoi utili arrivano dagli apparati cellulari, viene considerata “cara” dal mercato al prezzo di 15 volte gli utili mentre la seconda, I cui profitti derivano per oltre l’80% dalla pubblicità online, quota tranquillamente (e da tempo) ben 27 volte gli utili. Le aspettative di crescita della prima sono infatti diverse da quelle della seconda.

MORALE

Per giudicare eccessive le valutazioni del mercato bisogna prima stabilire quale tasso di crescita dell’economia riduce il fattore di sconto dei profitti futuri. E se quel fattore prima di tener conto della crescita già partiva da un livello basso in assoluto, è sufficiente attendersi una lieve crescita prospettica del. Intesto economico per valutare molto più caro un titolo quotato. E nessuno può negare che, con una previsione di crescita economica globale vicina al 4% nell’anno in corso, le aspettative di crescita ulteriore dei profitti sono più che giustificate. Casomai perché il sistema prezzi/tassi/aspettative sia sostenibile bisogna che restino vere tanto le prospettive di un‘ inflazione limitata quanto quelle di un forte interscambio internazionale, fattore essenziale anche per tenere viva la prospettiva di importanti profitti aziendali. Diverso sarebbe infatti se quelle premesse mutassero.

Tornando alle aspettative-non-esattamente-razionali, appare possibile che se pensiamo di poter giudicare gli eventi sulla base di ciò che è successo in passato stiamo tralasciando quasi certamente una parte della verità. I lavori di Richard Thaler riguardano proprio la verifica del fatto che gli esseri umani si basano moltissimo sul comportamento passato per fondare le loro decisioni, anche quando chiaramente il futuro non rassomiglia più al passato.

Nonostante Thaler abbia espresso chiaramente il suo disappunto per il livello da lui giudicato eccessivo delle borse odierne, resta il fatto che le sue teorie possono funzionare anche all’opposto. Cioè nell’indicare “a prescindere “ come eccessivi I livelli borsistici attuali solo perché in passato non si era vissuto un salto quantico nello sviluppo economico (delle economie emergenti) come quello attuale. Nessuno può vantare delle certezze al riguardo ma il beneficio del dubbio deve continuare ad animare la ricerca dell verità!

Stefano di Tommaso




LA DISCIPLINA DELLA CRISI D’IMPRESA IN ITALIA È LONTANA DA UNA VERA SVOLTA

Ho provato a analizzare le modifiche apportate alla disciplina della crisi d’impresa, ma ne sono rimasto profondamente deluso. Tutte le novità sono indubbiamente (e finalmente) onorevoli tentativi di orientare le procedure verso il salvataggio delle aziende e dei posti di lavoro che esse rappresentano (più che verso la punizione dell’insolvenza), ma mentre le leggevo un quesito è avanzato sopra ogni mia altra considerazione: ma è mai possibile che nessuna delle normative adottate con successo in tutto il resto del mondo si possano importare nel nostro ordinamento?

 

Siamo forse noi Italiani più bravi e più precisi degli altri da non essere interessati a ciò che è già stato testato, lubrificato e verificato altrove?

Abbiamo bisogno di sì tanta “hubris” (tracotanza) da arrivare a giudicare inutili, arretrate o inefficaci le norme meglio testate nei paesi più sviluppati dove un’impresa che resta viva o un imprenditore che ci riprova (perché non è perseguitato dalla giustizia e dalle parcelle degli avvocati) contribuiscono già in maniera decisa a ridurre il bisogno di intervento a sostegno dei salari da parte dei fondi di previdenza pubblica?

Dobbiamo davvero affidare all’attenta lettura del giudice la valutazione della bontà dei piani industriali presentati a supporto del salvataggio? Hanno forse studiato tutti alla Bocconi economia e management? O invece per la maggior parte i giudici della sezione fallimentare (si, questa non ha cambiato nome) sono ex Pubblici Ministeri, perdipiú spesso con decise convinzioni e aderenze politiche (quantomeno nell’ambito del partito prevalente della magistratura: “Magistratura Democratica”)?

E già, tocca far notare che le riforme che si susseguono nella disciplina in questione riguardano la norma, le modalità di approccio alla giustizia, i diritti dei creditori, la forma della presentazione dell’istanza tutelare, la possibilità di accorpare diverse iniziative (eccetera) ma non riguardano mai la magistratura, le carriere di chi è chiamato a giudicare, la loro preparazione, la tempistica che dovrebbero rispettare nell’esaminare le vicende. Mai. La Magistratura non si tocca! E ci mancherebbe! Cosa c’entrano i giudici con le procedure concorsuali?

Nemmeno in ambito europeo, che di solito impone una certa armonizzazione delle norme, si è pensato di imporre sistemi come quello germanico, nel quale l’impresa viene affidata a terzi imprenditori per tutta la durata del procedimento giudiziale. Nessuno ha pensato di far rassomigliare di più il nostro articolo 182bis al Chapter 11 dell’ordinamento americano. Nessuno si è posto il problema di come assicurare (davvero) all’impresa le risorse finanziarie essenziali per sopravvivere nel momento della crisi. Nessuno ha chiarito come risparmiare i manager del salvataggio dalla gogna mediatica e dai rischi penali.

In Italia non esiste soltanto la Casta dei politici, non solo quella dei Magistrati, dei Notai o della Guardia di Finanza. No. Tra le mille corporazioni medioevali ne esiste una informale e potentissima che riguarda i professionisti dei fallimenti. Spesso abili e ben introdotti nelle Cancellerie tribunalizie, sono individui che ne fanno una missione di vita (e una fonte lucrosa di reddito), inscalfibili persino in sede legislativa, che non ha alcuna intenzione di veder superati i propri privilegi attraverso una semplificazione e un’armonizzazione della normativa già solo a quella d’oltralpe.

Chi ci rimette come sempre sono i più deboli, quelli che restano nella precarietà e nell’emarginazione, specie se hanno cinquant’anni o più e sono ancora lontani quasi un paio di decenni dal privilegio della pensione (che invece i parlamentari guadagnano in un paio di annetti di servizio al partito).

Chi ci rimette sono anche i risparmiatori, che vedono fuggire all’estero le menti migliori, i capitali per gli investimenti, le competenze finanziarie e i mercati di sbocco di merci e servizi (a causa del fatto che la gente in precarietà spende meno).

Chi ci rimette sono anche le imprese, che devono riempire faldoni infiniti di firme nei moduli che le banche sottopongono loro per prevenire ogni guaio. Che vedono sempre meno credito e sempre più problemi fiscali a causa della vorace idrovora pubblica. Chi ci rimette sono le pensioni future perché con i blocchi e i licenziamenti collettivi esse si riducono. Chi ci rimette sono i giovani, che piuttosto che andare a lavorare in un carrozzone in crisi scelgono la via dell’estero e lo stimolo di qualche startup innovativa. Magari finanziata con i risparmi in fuga degli Italiani !

Stefano di Tommaso




LE BORSE DIVENTERANNO PIÙ SELETTIVE SULLA BASE DEI PROFITTI INDUSTRIALI

Il dibattito sulle iper valutazioni delle imprese, che emana dallo struggimento degli operatori delle borse valori alle prese con il più enigmatico di tutti i lunghi cicli borsistici di rialzo degli ultimi decenni, si concentra oggi sulla possibilità che, nonostante i corsi azionari abbiano superato di slancio tutti i massimi storici precedenti, in realtà i profitti delle imprese possano in futuro risultare in grado di correre ancora più in alto, giustificando dunque nel tempo ciò che oggi sembra eccessivo.

Da tempo chi scrive sostiene un’ardua tesi:gli investitori sono da troppo tempo alla ricerca di valide alternative alle scelte di asset allocation praticate sino ad oggi perché i corsi azionari attuali arrivino a sgonfiarsi in un baleno. Sebbene sinora i fatti sembrano aver dato ragione a questo assunto, se vogliamo evitare di cadere nel ridicolo con affermazioni fideistiche non possiamo che cercare delle risposte a una domanda di fondo: quali e quante imprese stanno effettivamente moltiplicando la loro redditività? Non tutte evidentemente!

Ovviamente non si può prescindere dai presupposti fondamentali che stanno pilotando da oramai otto anni la corsa al rialzo dei valori mobiliari:

  • i tassi straordinariamente bassi ma contemporaneamente la bassissima inflazione rilevata,
  • la grande liquidità disponibile sui mercati che è seguìta alle politiche monetarie espansive,
  • la “congestione dei risparmi” di un’intera generazione di “baby boomers” che si approssima alla pensione e che riversa sui mercati una domanda eccessiva di carta finanziaria,
  • l’ampiezza delle oscillazioni negative precedenti,
  • la grande ripresa economica globale in corso,
  • l’aspettativa che i profitti delle imprese continuino a moltiplicarsi.

Sebbene l’argomento dei profitti aziendali non sia l’unico a tenere alte le quotazioni borsistiche, forse esso dal punto di vista microeconomico merita qualche ulteriore approfondimento perché il dibattito in questione ha effettivamente preso corpo a seguito di un’impennata degli utili delle grandi corporation quotate a Wall Street e tutti si chiedono se, conseguentemente, c’è da attendersi la stessa impennata anche per le altre imprese nel mondo, fino alle più piccole e alle meno globalizzate (ad esempio le PMI dei paesi emergenti) e, a maggior ragione, fino a quelle meno tecnologiche.

LE SUPER VALUTAZIONI DELLE AZIENDE TECNOLOGICHE

La corsa della tecnologia sembra infatti avere molto a che vedere con le iper valutazioni espresse da Wall Street: sono soprattutto i grandi colossi tecnologici e i dominatori di internet quelli che hanno pesantemente alzato la media delle valutazioni. Le quotazioni borsistiche di questi ultimi viaggiano a multipli di prezzo che superano le duecento volte gli utili. La famosa media del pollo di Trilussa è sempre in agguato dunque è ciò che può giustificarsi nel caso di quei colossi globali potrebbe non essere valido per le imprese periferiche e meno tecnologiche.

I mercati finanziari infatti, se nei prossimi giorni non esprimeranno addirittura una più o meno pesante correzione, quantomeno è probabile che proveranno a ragionare sull’ennesima “rotazione” dei portafogli azionari, allo scopo di selezionare meglio le proprie scelte e, auspicabilmente, di provare a diversificare il più possibile i rischi sistemici del possedere assset finanziari che sembrano a tutti troppo “cari”.

Ma ricordiamoci che sono molti molti mesi che i grandi investitori (e sinanco i banchieri centrali) ci ripetono la stessa solfa: l’eccesso di ottimismo che si registra nelle borse porterà presto ad una loro discesa e, dal momento che quel “presto” non arriva mai, da queste colonne nei mesi scorsi abbiamo più volte ironizzato sul tema con analogie letterarie come “Aspettando Godot” o “Il Deserto dei Tartari”! Il punto è che nessun ciclo borsistico può durare in eterno e nessun gestore di portafogli di investimento può permettersi di non chiedersi cosa succederà dopo che quello attuale si sarà esaurito.

Al riguardo c’è chi afferma con certezza che chi investe a questi livelli otterrà scarsi risultati in futuro, chi esprime una fede indiscriminata verso la crescita economica globale che supporta le valutazioni estreme dei mercati, e chi continua a scavare sul fronte della giustificazione razionale delle valutazioni elevate, per trovare non solo risposte al quesito fondamentale sopra descritto (cosa succederà “dopo”) ma anche per riuscire individuare nuove strategie di investimento o nuove ragioni per “ruotare” ancora una volta i portafogli titoli.

I SETTORI PIÙ INTERESSANTI E QUELLI MENO

Scendiamo perciò nel dettaglio dei principali settori economici:

1. Le maggiori imprese supertecnologiche (come Tesla, ad esempio) scontano nelle loro valutazioni la capacità di raggiungere risultati clamorosi in grado di ridefinire il mercato della mobilità personale e quello degli accumulatori di energia di nuova generazione. Quanto tale fiducia sia ben riposta è difficile dirlo, ma resta l’ineluttabilità del fatto che qelle imprese sembrano destinati a cambiare più radicalmente e più velocemente del previsto i loro mercati di sbocco. Casomai i dubbi degli investitori riguardano la presunzione di relativa inerzia dei produttori tradizionali di autoveicoli e sistemi di energia (tutte da dimostrare) e la presunzione di forte capacità organizzativa e industriale da parte di imprese come quella del tetragono Elon Musk di riuscire a realizzare le quantità richieste dal mercato nei tempi annunciati. Qualora le risposte a tali dubbi siano positive, quanto spazio di mercato resterebbe allora alle altre imprese che si sono buttate all’inseguimento dei leader globali? La mia personale convinzione è che non tutti gli operatori super tecnologici riusciranno infatti a tramutare le loro mirabolanti innovazioni in forti profitti e, in un mondo sempre più globalizzato, i leader mondiali di mercato sono dunque quelli più probabilmente in grado di riuscire a raccogliere i maggiori frutti della loro “brand awareness”. Perciò quanto sopra può valere tranquillamente anche per Amazon, per Google, Apple e Tencent e può dunque fornire un deciso supporto razionale alle astronomiche valutazioni di borsa che essi esprimono;

2. Le imprese invece che fondano sì i loro punti di forza sulla rete internet, ma scommettono soprattutto sulla loro capacità di moltiplicare la clientela e i profitti grazie alla mera digitalizzazione e al business che ne consegue di sostituzione delle attività tradizionali (ad esempio gli operatori dell’entertainment come Netflix quali valide alternative a quelli come Sky di Rupert Murdoch), secondo la mia umile opinione rischiano grosso: non è così scontato che i loro predecessori non saranno in grado di rinnovarsi velocemente!

3. Lo stesso può valere per i nuovi colossi del commercio elettronico come Alibaba e Zalando, che rischiano di incontrare decisi ostacoli nel loro processo di cambiamento delle abitudini della gente al riguardo della distribuzione commerciale perché l’umanità è molto conservativa se il possibile rinnovamento delle abitudini della gente non porta anche dei radicali miglioramenti nella vita quotidiana. In molti casi perciò è ragionevole porre qualche dubbio su talune mirabolanti valutazioni di titoli come Netflix laddove esse non siano congiunte a vantaggi radicali nella vita di tutti i giorni.

4. Un ragionamento invece a favore delle supervalutazioni che oggi il mercato esprime può riguardare i leaders globali nei mercati del lusso e del lifestyle, come ad esempio Ferrari o LVMH, che storicamente si sono sempre mostrati in grado di saper raccogliere la sfida del rinnovamento ma che poggiano le loro pretese di mercato su una loro potentissima “brand awareness”. Per essi l’avanzata delle economie emergenti e lo sviluppo demografico e sociale dell’umanità sono fonte probabile di ulteriori soddisfazioni rispetto ai rispettivi “follower” di mercato e per quanto pazzi possano risultare i prezzi da essi praticati, è possibile che i loro ampi margini restino sostenibili.

5. Al contrario per molte delle grandi imprese che oggi risultano leader nei settori B2B (business to business) ci sono seri dubbi circa la sostenibilità di elevate valutazioni di mercato perché ogni minima novità di mercato potrebbe propagarsi, negli ambiti professionali, alla velocità della luce.

6. Ciò può valere per le compagnie aeree, per colossi informatici come la IBM, per i giganti dell’industria di base come Thyssen o General Electric, o sinanco per i grandi (e innovativi) produttori di sistemi informatici come SAP o Oracle e persino come i grandi produttori di beni di largo consumo come Hewlett-Packard o Samsung la cui offerta commerciale non risulti tuttavia “iconica”, a prescindere da quanto capaci siano di cavalcare le innovazioni. In molti di quei settori la concorrenza dei nuovi astri nascenti provenienti dal sud est asiatico o la possibilità che nuove proposte a valore aggiunto provengano da soggetti completamente nuovi rischia di porre dei limiti alla corsa nel tempo dei loro profitti.

I CRITERI DI SELEZIONE DEI SETTORI INDUSTRIALI

La vera discriminante nell’analisi delle effettive capacità di moltiplicazione dei profitti prospettici non sembra perciò l’eccesso di valutazioni ai prezzi attuali delle maggiori imprese quotate, quanto la loro capacità di mantenere la testa della competizione nel loro settore industriale con i margini economici che ne conseguono (vedi Apple), la loro capacità di esprimere un’effettiva brand awareness globale, e soprattutto la possibilità che la loro capacità di fare business in maniera del tutto nuova possa riuscire ad estendersi a sempre nuove categorie di prodotto (vedi Amazon) mentre al contempo su quelle meglio presidiate vengono lentamente alzate barriere all’entrata dei nuovi competitors.

Al contrario in buona parte dei settori industriali rivolti al B2B e in quelli meno protetti da nicchie di mercato e situazioni fortemente localizzate nemmeno le imprese maggiori potranno mantenere il passo con le attuali valutazioni e la possibile avanzata della de-regolamentazione globale potrebbe mettere in discussione molte aziende leader industriali dei nostri giorni. Le stesse argomentazioni non lasciano purtroppo molto spazio alle supervalutazioni che le borse praticano di molte imprese troppo localizzate o troppo piccole, che dovranno affrontare difficoltà ulteriori nel reperire le risorse per la crescita dei propri profitti. Temo anzi che i fattori di sconto nei prezzi di tali imprese dovranno accrescersi.

I veri rischi degli investitori perciò non risiedono nell’ampiezza dei moltiplicatori di prezzo pagati oggi in borsa, bensì nella rispondenza di tali valutazioni alla loro capacità propulsiva a livello globale e nel cavalcare le grandi ondate di modificazione delle abitudini della gente.

Se queste considerazioni significano che in media i valori azionari sino ad oggi espressi dalle borse potranno proseguire la loro corsa o dovranno necessariamente ridursi in futuro, è materia che qui lasciamo alle personali valutazioni di ciascun lettore. È mia personale convinzione che in assenza di forti scossoni geopolitici o relativi a grandi catastrofi invece i mercati finanziari possano proseguire la loro navigazione relativamente indisturbati, ma che saranno necessariamente costretti a proseguire nel processo di selezione dei migliori asset, così come potranno beneficiare ancora a lungo della relativa calma che regna sui titoli a reddito fisso.

I fattori fondamentali all’opera oggi per tenere bassi i tassi di interesse è possibile che non verranno rimossi nel prossimo futuro. Per prevedere quello più remoto invece ci stiamo ancora attrezzando…

Stefano di Tommaso

 




LA NUOVA CORSA ALL’ORO

Se c’è un argomento sul quale gli analisti finanziari di ogni parte del mondo si dividono di più questo è sicuramente quello delle prospettive per le quotazioni dell’oro. È singolare che dopo un lungo periodo di stasi delle sue quotazioni l’argomento ancora conti parecchio nel dibattito economico ma è ancor più buffo pensare che ciò accada in tempi di iper-digitalizzazione delle economie e di moltiplicazione delle criptovalute e delle loro tecnologie.

SEMPRE MENO UN BENE RIFUGIO

In passato il valore dell’oro è sempre stato legato al suo ruolo di bene-rifugio visto come antidoto alle tensioni sui mercati finanziari che possono derivare da quelle geopolitiche e ai timori che ne conseguono. Non è più stato così negli ultimi anni, vuoi perché il panorama che è seguito al Quantitative Easing (e alla caduta verso lo zero tanto dell’inflazione quanto dei tassi di interesse) ha reso meno conveniente la sua detenzione (non rende nulla, in un mondo in cui la ricerca spasmodica di un rendimento ha condizionato fortemente le politiche di investimento), vuoi perché i mercati finanziari negli ultimi tempi sembrano curarsi infinitamente meno delle vicende geopolitiche e dei rischi che ne conseguono.

A differenza di altri beni-rifugio la cui disponibilità riguarda un numero finito di “pezzi”, l’oro ha un altro difettuccio: l’offerta sul mercato di nuove quantità di metallo fisico può essere elevata e, soprattutto, controllata. Questo significa che a fronte di molta domanda “industriale”, ovvero da parte di investitori che desiderano diversificare i propri rischi, chi lo estrae dalle miniere e chi ne detiene grandi quantità (le banche centrali innanzitutto) può decidere di offrirne sul mercato ammontati maggiori, calmierandone il prezzo ovvero approfittando essi stessi della maggior domanda per guadagnarci. Non è dunque un mercato perfettamente competitivo e questo ne limita il contenuto intrinseco di valore.

MOLTE OPINIONI DIVERSE SULLE SUE QUOTAZIONI

In tale scenario post-crisi del 2008 l’oro non è certo apparsa come la tipologia di investimento più interessante e le sue quotazioni ne hanno indubbiamente risentito. Oggi che il petrolio sta salendo e l’economia globale sembra correre più del previsto l’oro torna ad attrarre più di un interesse come alternativa all’investimento azionario (considerato troppo caro) o a quello obbligazionario (periodicamente considerato a rischio di minusvalenze in caso di rialzo dei tassi) ma non mancano nemmeno grandi economisti che prevedono che la mancata ripresa dell’inflazione e dei tassi d’interesse possa spingere le sue quotazioni nuovamente al ribasso.

Nel grafico di lungo termine qui riportato si può vedere che era dai tempi della crisi del 2008 che la quotazione dell’oro non incrociava la sua media mobile di lungo periodo: un segnale di inversione di rotta?

LE BANCHE CENTRALI CONTINUANO A COMPRARLO. PERCHÉ?

Eppure le banche centrali di tutto il mondo non solo detengono quantità straordinarie di metallo giallo ma soprattutto ne stanno accumulando dell’altro. Perché?

C’è più di un motivo circa la straordinaria attenzione che l’oro attira tanto nel mondo accademico quanto tra gli operatori finanziari e c’è ben più di una risposta al perché le istituzioni più importanti sui mercati finanziari d’oggidì quali sono le banche centrali risultano essere le prime a volersene preoccupare. Strano, vero ?

Prima di provare a rispondere a tali questioni va probabilmente fatto notare come è evoluto negli ultimi anni un dato fondamentale: l’ammontare di oro detenuto dalle stesse banche centrali. Si stima si sia giunti a un totale di oltre 34mila tonnellate (si stima che corrisponda a oltre un quinto del totale dell’oro estratto nel mondo) ma soprattutto sono le banche centrali delle economie emergenti quelle che sembrano aver letteralmente triplicato le loro riserve auree negli ultimi vent’anni.

STORICAMENTE HA RAPPRESENTATO UNA BUONA DIFESA CONTRO LA SVALUTAZIONE

Nello stesso periodo tuttavia il suo valore in Dollari si è moltiplicato di circa sedici volte e molto molto di più se invece tale valore viene rapportato a quasi tutte le divise di cambio che nel frattempo si sono svalutate rispetto al Dollaro. Questa è probabilmente la prima spiegazione per cui la quota in oro delle riserve internazionali delle banche centrali è cresciuta (dal momento che il suo valore è salito le banche centrali si sono comportate in maniera razionale) e la controprova consiste nel fatto che sono soprattutto le banche centrali dei paesi emergenti ad aver moltiplicato le loro riserve in oro. Le stesse che hanno visto svalutare maggiormente le proprie divise di cambio valuta rispetto al Dollaro.

Ho reperito al riguardo due grafici: nel primo si può vedere quanto l’oro ha tenuto il suo potere d’acquisto (sebbene la tabella sia espressa in Sterline possiamo affermare che rimanga assai significativa) e nel secondo quanto quotava la moneta d’oro prima e dopo la crisi del 2008:

QUALCOSA PERÒ NON QUADRA

Tuttavia si potrebbe obiettare che, nonostante l’accumulo di maggiori riserve auree, le stesse istituzioni monetarie dei Paesi Emergenti che ne comprano hanno lasciato (o addirittura preferito, come nel caso di quella cinese) che le divise da esse emesse si svalutassero magggiormente rispetto alle maggiori banche centrali del mondo, le quali hanno mantenuto meglio il valore delle loro divise contro Dollaro (con il picco di quella europea, che ha visto dalla nascita dell’euro ad oggi una sostanziale parità delle sue quotazioni rispetto al Dollaro). Dunque la motivazione del maggior accumulo di oro da parte dei Paesi Emergenti non poteva semplicisticamente consistere nella difesa del valore intrinseco delle loro valute.

Certamente l’oro è considerato il più liquido dei beni rifugio e dunque può essere letto come l’argine più solido contro eventuali puntate speculative al ribasso contro questa o quella divisa valutaria e le banche centrali potrebbero aver voluto dotarsi di maggiori capacità di farvi fronte.

IL RUOLO DELLA RUSSIA

Se seguiamo questo filone di ragionamento potrebbe risultare logico che sia stata in particolare la banca centrale russa quella che ha maggiormente accumulato oro negli ultimi due decenni: la Banca infatti ha portato il totale delle sue riserve internazionali espresse in metallo giallo a oltre 1800 tonnellate, in valore quasi un quinto del suo totale, contro -ad esempio- un quarantesimo soltanto delle riserve della banca centrale cinese espresse in oro. Per fare un paragone con le riserve internazionali detenute dalle banche centrali di tutto il mondo: il Dollaro conta invece per circa il 60% del loro totale.

Senza dubbio la Russia è il paese che ha peggio vissuto gli ultimi anni di svalutazione feroce della propria divisa (il Rublo), mentre è probabilmente possibile affermare che sia stata proprio la banca centrale cinese a voler svalutare il più possibile il suo Renminbi nello stesso periodo. Però se questa fosse la ragione principale non si spiegherebbe come mai anche la Cina stia comperando oggi oro in misura consistente. Guarda caso anche il corso della sua valuta, il Renminbi, sta cambiando direzione (vedi grafico qui sopra).

UN PROCESSO DI DE-DOLLARIZZAZIONE DEL PIANETA?

Un sospetto viene allora in termini di strategia di lungo termine: è ragionevole pensare che le principali nazioni euroasiatiche vogliano sospingere ed accelerare il processo di progressiva de-dollarizzazione del pianeta che deriva dall’andamento inesorabile della demografia? (se infatti una quota sempre crescente di esseri umani del mondo risiede al di fuori degli Stati Uniti d’America e contemporaneamente questi migliorano la loro situazione economica, ecco che il valore assoluto dell’economia americana si assottiglierà rispetto al totale globale).

Già da qualche tempo peraltro la Cina ha annunciato la sua volontà di acquistare petrolio pagando con la propria valuta e non più in dollari.

Russia e Cina (probabilmente accompagnate in maniera silente dall’altro gigante asiatico: l’India) potrebbero avere un interesse strategico a dipendere il meno possibile dal Dollaro in futuro per le transazioni internazionali e questo fatto è probabilmente la vera ragione alla base del cospicuo incremento di riserve d’oro praticate dalla governatrice della Banca Centrale della Russia -Elvira Nabiullina- dal 2014 (anno di suo insediamento) ad oggi: oltre 700 tonnellate d’oro su un totale di circa 1800. Da notare che la Russia non ha bisogno di oro per difendere il proprio debito pubblico in caso di nuove crisi finanziarie: esso ammonta ad un mero 17% del P.I.L., una sciocchezza rispetto a quelli di Giappone, Cina, America e Europa!

GLI INTERESSI AMERICANI A FAR PREFERIRE IL DOLLARO ALL’ORO QUALE STRUMENTO PRINCIPE DI RISERVA INTERNAZIONALE

D’altra parte è arcinoto che l’America ha fatto innanzitutto i propri interessi favorendo la diffusione del Dollaro quale strumento principe delle riserve internazionali detenute dalle Banche Centrali del resto del mondo: l’esportazione di Dollari al di fuori del proprio Paese ha contribuito grandemente ad evitare l’inflazione pur in presenza di un ampliamento della base monetaria ed ha contribuito perciò tanto al sostegno del suo debito pubblico quanto a finanziare il disavanzo del governo federale.

I Treasury Bonds detenuti dagli investitori stranieri al luglio scorso ammontavano a 6.250 miliardi di dollari, di cui 1.166 miliardi in mano alla sola Cina e 1.113,1 miliardi al Giappone. Circa il 40% del debito federale negoziabile (esclusa la quota in mano alla Federal Reserve). Grazie a questa domanda di Dollari quale valuta di riserva, i rendimenti dei titoli americani possono rimanere relativamente bassi e Washington riesce a gestire un debito di circa il 105% del Prodotto Interno Lordo pagando interessi per appena l’1,3% del medesimo (l’Italia con un debito al 134% del P.I.L. paga il 4% del medesimo in interessi, nonostante l’azzeramento dei tassi sull’euro da parte della BCE.

Mano mano che l’economia americana cresce ad un ritmo inferiore a quello del resto mondo il suo peso sul totale del P.I.L. globale scende e diventa più difficile mantenere tale privilegio.

UN NUOVO GOLD EXCHANGE STANDARD?

Ecco che rastrellamento di oro fisico da parte dei principali antagonisti dell’America sulla scena internazionale potrebbe essere letto anche in chiave strategica. Per favorire il processo di de-dollarizzazione forse non ci sarebbe niente di meglio che la diffusione di una cripto-valuta il cui valore sottostante sia tuttavia assolutamente fisico: l’oro. Forse è solo una fantasia di qualcuno ma occorre rammentare che è soltanto di pochi decenni fa la scelta di abbandonare il Gold Exchange Standard (nel quale il valore del Dollaro risultava collegato ad una determinata quantità d’oro detenuto dalla Federal Reserve Bank of America). Chi può affermare con certezza che sia stata la scelta migliore?

Stefano di Tommaso