LA RIVINCITA DEL REDDITO FISSO

A circa dieci anni dallo scoppio di una delle più grandi bolle speculative della storia sui mercati finanziari essi hanno raggiunto nuovi massimi storici e oggi, mentre le quotazioni di borsa faticano a superare determinati limiti di valutazione, i titoli a reddito fisso raccolgono molta della liquidità ancora in circolazione che non vuole più scommettere sulla giostra delle borse. Però mentre le quotazioni dei bond di conseguenza salgono e i loro rendimenti scendono, i banchieri centrali pensano a rialzare i tassi a breve termine per recuperare spazio di manovra in vista della prossima recessione. Il risultato è un pericoloso appiattimento della curva dei rendimenti, uno degli indicatori storicamente più probabili nell’anticipare l’arrivo di una recessione (peraltro non imminente).

LA CURVA DEI RENDIMENTI

La “curva dei rendimenti” è quel grafico che si ottiene ordinando per scadenze crescenti i tassi di interesse ottenibili sui mercati. La sua normalità è un‘ inclinazione positiva perché per investire a scadenze più lunghe normalmente il risparmiatore vuole vedere rendimenti maggiori. L’appiattimento dei rendimenti a prescindere dalla durata (o peggio, l’inversione della curva) segnala la presenza di fattori distorsivi che spingono chi investe a preferire l’illiquiditá momentanea dell’investimento a lungo termine persino in presenza di suoi rendimenti più bassi di quelli ottenibili a breve. Nel caso che osserviamo oggi chiaramente questi fattori distorsivi corrispondono all’interventismo delle banche centrali.

Oggi il combinato disposto di un costante eccesso di liquidità sui mercati finanziari e di elevatissimi livelli di valutazione dei titoli azionari quotati nelle principali borse del mondo ha fatto si che molti risparmiatori tornassero negli ultimi tempi a preferire di liquidare in parte o tutto il proprio portafoglio di titoli azionari per preferire quelli a reddito fisso (quasi tutti a medio-lungo termine) limandone indirettamente i rendimenti al crescere del loro valore di scambio.

Con la prospettiva di un’ascesa dei tassi a breve termine dovuta alla volontà dei banchieri centrali di far tornare a crescere il livello dei tassi di interesse, e la contemporanea discesa di quelli a medio e lungo termine (per effetto della domanda di bond sul mercato) il risultato che osserviamo è un innaturale abbattimento delle differenze (spread) tra rendimenti a breve e a lungo termine e la tendenza verso addirittura un valore negativo del relativo spread tra breve e lungo termine.

Ora gli analisti e gli studiosi di economia non dimenticano che negli ultimi sette cicli economici, diversi mesi prima dell’arrivo di una recessione, si è potuto statisticamente osservare un appiattimento o un‘inversione della curva dei rendimenti, sebbene non esistano tuttavia certezze e causalità forti nella correlazione tra i due fenomeni.

LA NON PERFETTA SINCRONIA DEI MERCATI GLOBALI

Cerchiamo allora di comprendere meglio lo scenario globale del mercato finanziario: mentre nell’intero mondo anglosassone le principali banche centrali (Federal Reserve in testa) hanno espressamente dichiarato la loro volontà di veder crescere di almeno un punto percentuale in un anno i tassi di interesse a breve termine (quelli da loro meglio controllati attraverso il meccanismo di rifinanziamento delle banche), nel resto del mondo il ciclo economico è più arretrato nel suo sviluppo naturale e sono ancora in corso programmi di “Quantitative Easing” (QE, vale a dire di acquisto di titoli sul mercato secondario) che per definizione hanno un effetto di compressione sul loro rendimento e, al tempo stesso, contribuiscono al successo del collocamento di nuovi titoli di stato in rinnovo di quelli in scadenza.

Questa differenza temporale bei comportamenti delle banche centrali accade perché rispetto al resto del mondo il QE è stato lanciato con anni di anticipo nei paesi anglosassoni e di conseguenza la ripresa economica si è manifestata lì in anticipo. Dunque nel resto del mondo al momento la situazione di più recente ripresa economica e di limitata inflazione dei prezzi, sebbene molto monitorata dalle altre banche centrali, non le ha ancora portate a dichiarare altrettanto esplicitamente la volontà di una stretta monetaria come è invece accaduto nei paesi anglosassoni. Oggi dunque i rendimenti reperibili nell’area dollaro e dintorni sono decisamente più elevati di quelli -quasi a zero- dell’Eurozona e per di più in assenza di indicazioni altrettanto chiare al rialzo.


Questa deriva ha persino delle conseguenze paradossali: se osserviamo il rendimento delle obbligazioni considerate “ad elevato reddito” emesse dalle imprese europee con rating basso, esso oramai è sceso così tanto da coincidere con il rendimento dei titoli di stato americani!


BUONE NOTIZIE SUL CONTINENTE EUROPEO

È evidente che si tratta di una piccola assurdità, ma il tasso di insolvenza per queste obbligazioni dovrebbe restare ancora per qualche tempo sui minimi storici. L’agenzia di rating Moody’s anticipa per quest’anno un tasso d’insolvenza del 2,3% per il debito high yield europeo, in discesa dal tasso storico corrente del 2,8% e si può ritenere che tale stato di cose proseguirà.Un’obbligazione può non essere ripagata perché l’emittente non è in grado di ripagare il debito alla scadenza, non ha liquidità o non può finanziarsi. Oppure l’emittente non riesce a pagare gli interessi maturati sul debito emesso. Al momento, tuttavia, i tassi di finanziamento europei sono bassissimi e, benché potrebbero prima o poi aumentare, sembrano destinati a rimanere rasoterra ancora per qualche tempo.

Neanche in America i tassi di interesse espressi dalle obbligazioni a più lungo termine salgono parallelamente al rialzo dei tassi pilotato dalla Fed, anzi! Se guardiamo alla differenza fra I rendimenti espressi dai titoli di stato americani alla durata di 2 anni e quelli alla durata di 10 anni di vede che non c’è quasi più differenza (0,6%).


LE RAGIONI DELLA FEDERAL RESERVE, DEL DOLLARO E DELL’EURO

Quali ragioni portano a questa situazione? Probabilmente perché la manovra della Federal Reserve è “innaturale” mentre la liquidità abbondante sui mercati e l’assenza o quasi di inflazione non fanno si che i rendimenti a più lungo termine si adeguino alla risalita di quelli a breve termine. Ma la realtà è più difficile da accettare: il lungo ciclo economico positivo è oramai “maturo”ma nessun banchiere centrale ha voglia di dichiararlo apertamente e (prima gli americani e poi sempre in ritardo lo faranno gli europei) semplicemente si cerca di mettere fieno in cascina per poter mantenere una futura capacità di intervento. La manovra inoltre così concertata favorisce la possibile rivalutazione del dollaro (che ne avrebbe bisogno) e la contemporanea compressione delle quotazioni dell’Euro, utile anch’essa a mantenere in positivo la bilancia commerciale dei membri più deboli dell’Unione.

IL TRAINO ARRIVA DAL SOL LEVANTE

Esiste però uno iato tra quanto accade nel vecchio e nel nuovo continente (Europa e America), e ciò che invece si registra in Asia, il continente oggi più dinamico dal punto di vista della crescita economica e quello che ha più bisogno di veder crescere la propria base monetaria per dare fiato alla vigorosa crescita dei consumi: il continente asiatico (India e Cina in testa) deve fare i conti con la necessità di non svalutare troppo le proprie divise monetarie (e il Q.E. ha purtroppo un tale effetto) perché già in passato questo ha provocato la corsa all’esportazione dei capitali, mentre al tempo stesso deve riuscire ad aumentare la propria base monetaria. La soluzione è l’espansione (quasi) indiscriminata del moltiplicatore del credito, con tutti i rischi che ne conseguono.

D’altronde la crescita economica (trainata anche da quella demografica) lì è così potente da attenuare il rischio dello scoppio di eventuali eccessi speculativi, non supportati da sufficiente capitale di rischio. È quella crescita nel continente asiatico tuttavia che oggi sostiene un ciclo economico globale così positivo (con i grassi profitti aziendali che le multinazionali ne derivano) ed è il conseguente eccessivo livello di indebitamento del settore privato che la mette decisamente a rischio.

Il mondo gira più veloce, insomma, ma la sua forza è tenuta da un filo di lana. Anche questo contribuisce ad evitare che si accenda una spirale inflativa, oltre che spingere gli investitori verso i titoli a reddito fisso: in assenza di inflazione e nel caso di inversione del ciclo economico in corso essi risulterebbero senza dubbio essere stati la scelta più prudente!

Stefano di Tommaso




BORSE: È CAMBIATO IL VENTO?

È la seconda settimana di ribasso per le borse di tutto il mondo. L’indice Dow Jones Industrial Average è sceso in totale di quasi l’1% mentre lo Stoxx600 delle borse europee del 3% e quello della borsa italiana (Ftse Mib) ha fatto anche peggio arrivando a perdere quasi il 4% anche a causa di alcune banche (Creval e Carige), utilities (Telecom e Enel) e industrie (Leonardo-Finmeccanica) in difficoltà. Molti investitori si pongono di conseguenza una domanda: è cambiato il vento?

 

Indubbiamente è in arrivo un’altra (piccola) stretta monetaria da parte della Federal Reserve americana (il discorso della governatrice circa il rialzo dei tassi a Dicembre sarà a fine di questa settimana) e poi ci sono numerose prese di beneficio a margine di uno dei più lunghi e proficui periodi di rialzo di tutti i tempi.

Il “consensus” degli analisti è concorde nell’affermare che oramai buona parte della loro corsa al rialzo le borse l’hanno fatta e che non potranno continuare in eterno, ma questo non significa che stanno già iniziando a rovinare precipitosamente, anzi ! Siamo poi così sicuri che intorno a fine anno non vedremo l’ennesimo record? No. Non lo siamo, anzi.

I motivi del (cauto) ottimismo degli analisti meglio informati risiedono innanzitutto sul principale motore della grande risalita dei mercati finanziari: la liquidità disponibile. Tutti concordano oramai sul fatto che è stata la liquidità riveniente dalle manovre delle banche centrali di tutto il mondo a sospingere le quotazioni. Ebbene, questa non sta ancora scendendo, al contrario: per il momento continua a crescere.

In America il più ristretto aggregato monetario misurato, la cosiddetta M1, è cresciuta dall’inizio dell’anno dell’8%, mentre nell’eurozona è cresciuta del 5% (ma in cambio promette di proseguire più a lungo). La Banca Centrale della Svizzera è divenuta il più grande “hedge fund” (fondo speculativo) di tutti i tempi, mentre le attività in pancia dalla Banca del Giappone sono oramai quasi pari al prodotto interno lordo di un anno dell’impero. Anche i profitti netti delle aziende americane sono in crescita verticale (l’attesa è che in totale arrivino quest’anno a 7-8mila miliardi di dollari). Un po’ meno ma con lo stesso segno in tutto il resto del mondo. Un’altro indicatore dell’eccesso di liquidità disponibile è il volume dei titoli obbligazionari quotati che danno un rendimento negativo: oltre 11mila miliardi di dollari! Se anche vogliamo concentrarci sulle disgrazie di Piazza Affari, dobbiamo ricordarci che il 95% del flottante dei titoli quotati a a Milano proviene da mani straniere e che nel frattempo sono arrivati i Piani Individuali di Risparmio (i P.I.R.) a fornire nuova linfa superando di molte misure gli importi attesi.

Insomma è arduo affermare che con questi fiumi di denaro in circolazione le borse tendano a crollare, soprattutto in considerazione del fatto che i dati economici fondamentali sono i migliori degli ultimi anni!

Sebbene sia difficile fare ragionamenti di fondo quando i livelli delle borse sono ai massimi storici, se prendiamo per buono il ragionamento che fino ad oggi ha fatto il mercato spingendo all’insù i titoli (e cioè che dipendeva dall’eccesso di liquidità) allora possiamo affermare che il rialzo non è ancora terminato e che la pausa attuale potrebbe risultare una buona occasione di acquisto.

Tuttavia se guardiamo appena un po’ indietro dobbiamo evidenziare alcune tendenze: è oramai chiaro che in situazioni di questo tipo gli investitori per lo,stesso motivo tendono a frequentare le piazze più liquide, iniziando a rientrare invece dai Paesi emergenti e dalle borse minori, che per almeno un anno hanno fornito loro ottime performances ma che risultano meno “sicure”.

Se confrontiamo infatti questo andamento (indice Standard & Poor 500) con quello dell’indice FTSE MIB della borsa italiana, troviamo un andamento del secondo meno orientato al rialzo (lo sp500 è più o meno raddoppiato in 5 anni) e molto più “ballerino”.

 

In secondo luogo dobbiamo notare che la discesa storica dell’indice di volatilità del mercato americano si è interrotta, sebbene restiamo su livelli poco superiori ai minimi storici. Questo lascia presagire una ripresa della possibile volatilità e minor certezza del trend al rialzo che sino ad oggi era rimasto indiscutibile.

Infine sul fatto che l’ambiente sia distorto dalla liquidità bisogna fare una chiosa necessaria: i tassi di interesse sono scesi troppo in basso e non potranno restarci così a lungo. Per comprenderne l’aberrazione basti guardare il rendimento dei titoli c.d. High Yeld in Europa con quello dei titoli di stato americani. Se siamo arrivati alla parità è evidente che c’è qualcosa che non va!


L’Eurozona e il suo regista , Mario Draghi, terranno lo “stance” attuale sin che potranno per favorire la sostenibilità del debito pubblico degli Stati membri più deboli, ma la pressione al rialzo dei tassi si avvertirà, quantomenomsul cambio, riportando il Dollaro probabilmente a livelli più elevati. Ancora una volta questo dovrebbe favorire le borse europee (soprattutto quella tedesca).

Si insomma non possiamo prevedere crolli rovinosi né ulteriori grandi slanci, ma dobbiamo ammettere che l’aria è cambiata. L’autunno lascia riflettere i gestori di fortune che hanno avuto una fantastica stagione di dividendi e che devono fare i conti con i guadagni accumulati sino ad oggi: davvero conviene loro metterli a rischio in vista del rendiconto di fine anno? È probabile che tendano a liberarsi di buona parte degli investimenti più rischiosi e che aumentino decisamente la liquidità del portafoglio in attesa del nuovo anno.

E poiché il discorso vale per tutti, il mercato non potrà non risentirne, ma non scommetterei su un ribasso marcato e troppo a lungo, dal momento che resta sempre la necessità di allocare la liquidità in eccesso in direzione degli investimenti e, per quanto quelli borsistici siano oggi considerati a rischio, restano tra i migliori se se ne compara il rendimento e la liquidità.

Quindi, nella misura in cui il ragionamento sopra esposto manterrà una sua validità e se un ribasso più consistente del solito si vedrà, il 2018 potrebbe aprirsi all’insegna dell’ottimismo, mentre se i mercati tenderanno a galleggiare sui valori attuali, lo stesso potrebbe prevedersi per l’inizio del nuovo anno.

Stefano di Tommaso

 




PERCHÉ IL “BILICO” DI ELON MUSK CONVINCE LE GRANDI SOCIETÀ DI LOGISTICA

L’uomo è abituato a stupire la sua platea e grazie a questa capacità è riuscito anche ad ammaliare i suoi investitori, sinanco di fronte alle ingenti perdite economiche (e soprattutto finanziarie) dell’ultimo trimestre. Elon Musk ha capito che la sua creatura, l’avveniristica azienda denominata come Nikola Tesla, uno dei più misteriosi geni della tecnologia dell’ultimo secolo, rischiava di essere archiviata nell’immaginario collettivo come un fenomeno da baraccone. E per questo è voluto scendere nella platea più difficile, quella dei veicoli professionali, con un fantastico “coup de théâtre” che ha sedotto gli ingegneri e i managers delle aziende del trasporto e della logistica. L’operazione è senz’altro stata un successo.

 


UN SUCCESSO A WALL STREET

Non solo le caratteristiche tecniche dei veicoli presentati l’altro giorno hanno stupito il pubblico che non si aspettava tutte quelle novità (500 miglia terrestri di autonomia, fortissima accelerazione, forte economicità, prezzo basso e guida autonoma), ma soprattutto sono stati gli analisti finanziari di Wall Street ad essere stati sedotti dalla logica convincente di chi gli ha fatto notare che i vantaggi di un veicolo elettrico (forte coppia motrice ai bassissimi regimi, economia nei consumi e maggiore controllo della trazione) appaiono esaltati quando si parla di trasporto pesante, logistica e consegne a domicilio. Difficile obiettare!

https://youtu.be/nONx_dgr55I
Dopo un periodo deludente in Borsa Tesla è dunque tornata ad apprezzarsi e lo ha fatto dimostrando che può risultare foriera di utili innovazioni che le grandi corporations della logistica apprezzano anche più di quanto i privati amino le sue vetture di lusso, come pure di (futuri) profitti.

PERCHÉ CONVINCE

Ancor più convincente è stato parlare dei numeri e delle statistiche del trasporto (almeno di quelle americane, citate nel corso dell’evento) :

QUOTA DI MERCATO: In un mercato americano di 231.000 unità (nell’ultimo anno) Tesla può aspirare a prendersene già nel 2020 circa il 10%, cioè quasi 25.000 veicoli, per almeno raddoppiare con le vendite previste nel resto del mondo (50mila). Questo significa che nel 2020, capacità produttiva permettendo, solo nella vendita degli autosnodati Tesla può aspirare a fatturare 10 miliardi di dollari ipotizzando un prezzo medio di 200mila dollari l’uno.

PERCORRENZA: Oggi peraltro si calcola che almeno il 20% dei mezzi pesanti venga impiegato attorno al range delle 200 miglia terrestri (poco più di 300 chilometri), cosa che permetterebbe agli autosnodati di Tesla, anche solo raccogliendo metà di quella quota di mercato, di promettere andata e ritorno all’interno dei limiti di sicurezza per l’autonomia dei veicoli, dal momento che promettono 500 miglia di autonomia.

ECONOMIE DI SCALA : Il fatturato previsto, aggiuntivo rispetto a quello previsto per le auto e per le batterie, contribuirà inoltre notevolmente ad ammortizzare i costi di impianto della famosa “Gigafactory” e a renderla più profittevole.

MINORI COSTI DI ESERCIZIO: I bassi costi di gestione del veicolo commerciale, la promessa di una sua durata estremamente lunga e quella,della,sua capacità di guidare da solo promettono risparmi agli operatori professionali dell’ordine di almeno il 20% (qualcuno stima fino al 70%). Intanto Musk snocciola le sue cifre: in America far andare il suo “Semi” costerà $1,26 per miglio terrestre mentre ai prezzi attuali del petrolio un camion diesel equivalente costa $1,51 (se il petrolio non sale).

LA NORMATIVA: Nel settore dei veicoli pesanti non è ancora stata varata alcuna normativa che penalizza l’inquinamento da essi procurato, pari secondo alcune stime al 23% del totale delle emissioni veicolari ( 23 percent of vehicle emissions ) per quelli medi e pesanti. Se dovesse essere varata una tale normativa l’effetto di spiazzamento rispetto all’industria veicolare pesante già esistente sarebbe drammatico e darebbe a Tesla un enorme vantaggio, soprattutto per le consegne nei centri urbani.

IL PERIODO DI AMMORTAMENTO: I bassi costi di gestione del veicolo elettrico aiutano a rimuovere un altro tabù che sembrava inscalfibile: quello del periodo di ammortamento del costo di acquisto: i calcoli sembrano indicare 24 mesi, pari alla media di quelli dei veicoli tradizionali grazie alla combinazione del maggior prezzo iniziale (si stima non meno di $200mila per il “Semi” contro i circa $150mila di un camion diesel equivalente) e dei minori costi di energia.

I PRE-ORDINI PORTANO CASSA: Ad avvalorare la bontà della proposta sono arrivati inoltre i pre-ordini dei grandi operatori logistici (da Amazon a WalMart fino ad una società indiana) il cui successo fa ben sperare che Tesla potrà finanziarsi anche attraverso quei depositi, come è successo con i 600.000 preordini del modello 3 (oltre 2 miliardi di dollari con preordini pagati $3500 al colpo). Nel caso dei veicoli pesanti il ticket richiesto per il pre-ordine è stato fissato in 5000 dollari e si stima ne possano arrivare almeno 100mila (dunque almeno mezzo miliardo di cassa).

I CONCORRENTI ADESSO DEVONO DARSI DA FARE

D’altra parte l’onda lunga del maremoto innescato da Tesla non potrà che bagnare più di concorrente nel settore dei veicoli per il trasporto pesante, dopo aver goduto di un oligopolio che da anni ha permesso loro di restare tanto inquinanti quanto inefficienti nei consumi. Ora dovranno escogitare qualcosa per recuperare il tempo perduto o fare i conti con un mercato che se ne va altrove. Lo sanno bene sia la Mercedes Benz che ha appena lanciato un veicolo totalmente elettrico le cui caratteristiche tuttavia non sono così avanti (Daimler), che

la Mitsubishi che ha lanciato “Fuso”, un veicolo per le consegne urbane (eCanter ), come pure la Toyota, che si è invece lanciata nei veicoli a idrogeno (Toyota Motor Co.) ma sempre con specifiche tecniche assai inferiori a quelle annunciate da Elon Musk.

La corsa ai mezzi di trasporto pesante del futuro è appena cominciata sul serio!

Stefano di Tommaso

 




SCONTRO FRA TITANI: BROADCOM TENTA CON QUALCOMM LA PIÙ GRANDE SCALATA DI BORSA DELLA STORIA

Che i managers di Qualcomm avrebbero risposto “picche” Hock Tan se lo poteva aspettare, ma che avrebbero snobbato così platealmente l’offerta additandola come “non conveniente per i propri azionisti” no. Dopo una proposta da 105 miliardi di dollari (130 miliardi se consideriamo il debito di 25 miliardi dollari in capo a Qualcomm) la contesa tra preda e predatore a colpi di miliardi è veramente diventata una sfida tra titani!

Non solo l’offerta vale il doppio del precedente più grande deal della storia nell’industria tecnologica (l’acquisto nel 2015 da parte di Dell della EMC per 67 miliardi di dollari), ma arriva in un momento in cui la stessa Qualcomm stava per scalarne un’altra: la NXP Semiconduttori per nientepopodimeno che 47 miliardi dollari. Nulla esclude che entrambe le operazioni possano perfezionarsi e che questo possa provocare una nuova ondata di consolidamento in un settore, quello dei grandi produttori di componenti elettroniche ad elevata tecnologia, che promette di dare più soddisfazioni in futuro di quante ne abbia fornito in passato in quanto si approssima ad una possibile fase di maturità.


Aggregare Broadcom con Qualcomm avrebbe molto senso dal punto di vista industriale perché significherebbe creare il terzo grande oligopolista globale nella produzione di semiconduttori, dopo Intel e Samsung, a dividersi le fette più grosse di un mercato che nel complesso vale 300 miliardi di dollari. L’azienda risultante dalla fusione risulterebbe fornitore di componenti essenziali per virtualmente ciascuno del miliardo di smartphones venduti annualmente nel mondo.

LA TASSA QUALCOMM E LA DISPUTA CON APPLE

Di Qualcomm sono famose nel mondo due cose: la cosiddetta “tassa Qualcomm”: una royalty che sebbene sia in riduzione ogni anno, colpisce quasi tutti gli utilizzatori dei semiconduttori moderni a causa di brevetti a suo tempo registrati da Qualcomm, e la famosissima disputa con Apple, per la quale è tutt’ora in corso una causa miliardaria a carico di quest’ultima per aver manipolato il pagamento delle royalties a Qualcomm riducendolo.

Sebbene la proposta valga 70 dollari per azione contro i 63 quotati negli ultimi scambi (ma con un premio del 28% rispetto al momento del lancio dell’offerta, all’inizio di Novembre) e arrivi in coincidenza con un momento particolarmente favorevole per le borse di tutto il mondo, esso tuttavia non soddisfa al 100% gli azionisti storici della potenziale preda perché il titolo Qulcomm per varie ragioni non ha brillato troppo negli ultimi anni, non essendo riuscito più a toccare il massimo di oltre 80 dollari raggiunto nel 2014. È proprio questo probabilmente il valore che hanno in testa i suoi principali azionisti per capitolare. Il mercato non esclude tuttavia rilanci ancora più decisi.

DIVERSE CHIAVI DI LETTURA

Diverse sono le chiavi di lettura dell’operazione, che ad esempio vede schierata la banca d’affari americana Morgan Stanley accanto a Broadcom mentre dall’altra parte della barricata ad assistere Qualcomm (e il suo deal con NXP) è posizionata Goldmann Sachs. Inoltre Broadcom era il nome di una società americana acquisita per 37 miliardi di dollari nel 2016 dalla società di Singapore Avago Technologies. Il suo leader, Hock Tan, ingegnere dell’M.I.T. con un master ad Harvard, ha promesso al presidente Trump di spostare, in caso di vittoria, la sede direzionale della sua azienda negli Stati Uniti d’America, ricevendone il forte plauso. Dall’altra parte Qualcomm è basata nella Silicon Valley, terra notoriamente ostile all’attuale Presidente. Infine l’acquisizione da parte di Hock Tan è cosa nota che potrebbe aiutare non poco la Qualcomm a mettere fine alla disputa con Apple.

LA STRATEGIA DI HOCK TAN

Anche la strategia messa in atto sino ad oggi da Hock Tan sembra piacere al mercato, che lo ha premiato con una rivalutazione del titolo del 1600% dal 2009, tagliando costi e investendo ampiamente in innovazioni e acquisizioni. Ma i managers della Qualcomm sono molto duri da convincere con le buone maniere e, in qualche modo, non hanno tutti I torti se consideriamo il fatto che nonostante la loro giovane età media possono in molti casi affermare di aver fatto la storia della Silicon Valley! Peccato che per i mercati finanziari la performance conti molto più della gloria…

Stefano di Tommaso