L’ECONOMIA CORRE, IL LAVORO E L’INFLAZIONE NO

Solo un paio di anni fa il mondo temeva una “stagnazione secolare” e la possibilità di una contestuale ripresa dell’inflazione (dunque una “stagflazione”) a causa dei timori legati a presunti effetti perversi dei Quantitative Easings (le politiche delle banche centrali volte a immettere liquidità sui mercati attraverso l’acquisto di titoli). Oggi sembra essere cambiato tutto: dai timori siamo passati agli stupori e persino alla noia nel leggere tutti i mesi bollettini economici trionfanti più o meno in tutto il mondo e al tempo stesso ciò avviene in assenza di fiammate inflazionistiche. Viviamo nel migliore dei mondi possibili o dobbiamo rivedere seriamente i metodi di raccolta dei dati statistici per effetto delle mutate condizioni generali al fine di riuscire a rappresentare un quadro più veritiero? Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni.

 

Le borse valori sono passate da una crisi profondissima nel 2008 (che tutti concordavano nell’accomunare a quella del 1929 per la sua straordinarietà) a una grande euforia negli ultimi anni ma adesso destano una generalizzata apprensione per i livelli stratosferici toccati. E per di più godono di una bassa volatilità dei corsi, quasi che la situazione attuale sia percepita come assolutamente normale e non vi sia niente di strano nel poter toccare il cielo con un dito.

Un altro segno che le normali teorie dei cicli borsistici sono anch’esse superate dai fatti e che gli economisti e gli analisti finanziari non sanno più a che santo votarsi? Probabilmente si, sebbene nessuno si senta di escludere la possibilità che domani mattina qualche notizia inaspettata possa far crollare rovinosamente i mercati finanziari e mettere fine al regno del bengodi che stiamo sperimentando negli ultimi tempi.

UNA MONTAGNA DI DENARO FRESCO ASPETTA DI RIENTRARE IN BORSA

Eppure il numero di soloni che hanno sperato di passare alla storia nel riuscire a predire la prossima crisi dei mercati è in continuo aumento. Gli “strategist” delle società di gestione degli investimenti finanziari che consigliano di vendere tutto in borsa sono sempre più numerosi e, tra l’altro, vanno avanti da più di un anno a cercare asset alternativi. Tutto denaro che sarebbe potuto affluire in borsa e che invece ha perduto la giostra dei mercati che ha spedito più in alto del 30% i corsi azionari rispetto a circa un anno fa (quando si pensava che il mercato fosse già ai massimi di sempre) è stato riversato su immobili, opere d’arte, beni rifugio e criptovalute. Solo su queste ultime hanno avuto ragione. Mentre su tutto il resto magari non hanno perduto quattrini ma sicuramente hanno perduto più di un’opportunità di guadagno e si chiedono quando “rientrare” in posizione.

Adesso chiaramente il rientrare in posizione nel momento in cui i mercati toccano l’apice del massimo valore sembra una fesseria e però questa impasse per I grandi investitori va avanti da più di un anno! “Usque tandem?” Direbbe un banchiere centrale in deciso imbarazzo parafrasando Cicerone che si rivolgevano a Catilina! Dunque se da un lato le borse fanno paura dall’altro c’è un’altra montagna di liquidità di coloro che sono rimasti fuori e che si chiedono quand’é che le borse scenderanno un po’ per trovare l’occasione giusta per giustificare il loro ravvedimento. La morale è semplice: le borse difficilmente crolleranno ma anzi, sugli eventuali storni troveranno altro denaro fresco ad attenderle, anche per cogliere l’opportunità dei profitti sempre più grassi che stanno caratterizzando le principali società quotate nel mondo.

LO SPETTRO DELL’INFLAZIONE E DEL RIALZO DEI TASSI

Ma non ci sono solo i mercati finanziari: l’economia mondiale cresce per la prima volta a ritmo elevato e sincronizzato e non si trova quasi traccia di inflazione, nemmeno dove essa dovrebbe naturalmente stare: nei paesi più avvantaggiati dalla crescita nel terzo mondo, che hanno sperimentato il maggior incremento del numero degli occupati e che dispongono perciò di maggior reddito disponibile da spendere nei consumi. Gli economisti se lo chiedono ma, quale che ne sia la ragione, le statistiche fanno piovere numeri che sembrano certi: la stagione dell’inflazione sembra archiviata per un po’ di tempo almeno.

Il punto è che qualche segnale di attenzione relator ai prezzi è spuntato quá e lá: il petrolio è decisamente sui massimi delle medie storiche recenti (ha sfondato il muro dei 60 Dollari, contro molte previsioni che vedevano il permanere di un eccesso di offerta) e sembra puntare ancora più in alto mentre il corso del Dollaro, tanto per le annunciate politiche fiscali accomodanti del Presidente Trump, quanto per l’attrazione dei mercati finanziari americani, sembra di nuovo orientato al rialzo.


Se i prezzi di tutte le altre materie prime verranno influenzati da queste due variabili alla fine un po’ di inflazione la importeremo di sicuro! Tardi magari ma sì: non si colgono al contempo pari forze deflazionistiche all’opera per controbilanciare le pressioni sui prezzi.

Come sempre tuttavia la questione non sta nelle discussioni di principio (inflazione si o no) bensì nella misura delle cose: un leggero incremento ci proietterebbe -più di quanto non sia già oggi- nel migliore dei mondi possibili. Un incremento sostenuto dell’inflazione suonerebbe invece come una campanella d’allarme. Se posso avanzare uno spassionato parere: per molte ragioni è più probabile il primo che il secondo scenario (come si è visto per la Gran Bretagna). Dunque è possibile che la stagione della crescita non sia a un passo dalla svolta, bensì abbia imboccato un lungo percorso.

Le banche centrali tra l’altro sono sul piede di guerra pur senza avere individuato il fronte dove combatterla. Gli incrementi omeopatici dei tassi di interesse con ogni probabilità si concretizzeranno, e contribuiranno a debellare la possibilità di una più forte fiammata inflazionistica, mentre non è affatto scontato che danneggeranno i mercati.

LE PROSPETTIVE ITALIANE

In un quadro internazionale così rassicurante, l’Italia resta un Paese che guarda i grandi avvenimenti in una posizione non esattamente da protagonista, non solo per il macigno del debito pubblico che continua a crescere ma soprattutto perché un’intera area del Paese mostra scarsi segnali di vitalità e a causa delle pesantissime limitazioni della burocrazia. Eppure ha appena incassato una promozione sul proprio rating (quasi inaspettata) e da parte della più autorevole delle Agenzie: Standard & Poor’s, ragione per la quale è probabile che le altre seguiranno.

Un recente sondaggio tra gli analisti finanziari dá per scontati almeno altri sei mesi di crescita economica sostenuta, la cui vera portata sarà probabilmente rivelata solo al termine di tale periodo, cioè a ridosso delle elezioni politiche, vero banco di prova della stabilità.

Nel frattempo la rincorsa ai grandi del mondo continua con relativo successo e una serie di indicatori “fondamentali” porta il segno positivo. È possibile tra l’altro come dicevamo che i migliori dati macroeconomici verranno al riguardo rilasciati il più tardi possibile, per ovvi motivi di campagna elettorale dei partiti oggi al governo, cosa che lascia sperare in una relativa ulteriore forza del sistema bancario nazionale, vero flucro della tenue ripresa subalpina e comparto cardine di una parte consistente della capitalizzazione complessiva della Borsa Italiana, la quale già gode di ottima salute per lo straordinario numero di nuove imprese che decidono di varcarne la porta.

Quasi impossibile comporre dunque un quadro negativo, o anche soltanto fumoso se non fosse per il fatto che si prepara l’ennesimo autunno caldo di lotte sindacali. E questo a ridosso di una ripresa industriale ancora giovane e poco consolidata con molte imprese italiane che invece devono ancora fare quella pulizia nei bilanci (e negli esuberi) la sola cosa che può permettere loro di trasformare una brezza di positività in miglior produttività ed efficienza, essenziali per consolidare le buone performances.

Dunque una frase di cautela concedetemela: il momento è positivo, fin che dura!

Stefano di Tommaso




IL SEGRETO DEL SICURO SUCCESSO DELL’IPHONE X

Non c’è bisogno di consultare i testi sacri della microeconomia e del marketing per rendersi conto del concetto di “consumo cospicuo” (ovvero quel genere di spesa che si fa più per mettersi in mostra che per una reale utilità) eppure noi uomini razionali continuiamo a stupirci nell’osservare il fenomeno in natura: più il prezzo sale piu l’appetibilità cresce!

 

Apple ha giocato anche questa volta una partita decisamente rischiosa innalzando ancora il prezzo del suo prodotto di punta: il telefonino del decimo anniversario (da cui prende il nome: X in numeri degli antichi romani è un 10, concetto ovvio per l’americano medio, meno per noi che ne saremmo I discendenti) perchè la concorrenza asiatica è decisamente agguerrita quanto a prezzi e prestazioni, eppure sembra averla vinta ancora una volta, a giudicare da numeri e fatti delle ultime ore! Non per niente il titolo azionario ha raggiunto in borsa una nuova vetta nella capitalizzazione, battendo tutti I records e tutti I concorrenti!

Nell’interpretare correttamente l’arena competitiva in cui si trova, Apple ha scelto di giocare la carta della sua superiorità tecnologica per poggiarla su una piattaforma di “lusso percepito” che non ha eguali: è evidente che chi può permettersi un telefonino così avanzato esprime indirettamente uno status symbol. E gli status symbols, si sa, non hanno prezzo.

LA NASCITA DEL MITO

Una serie di fattori incidono sulla “creazione del mito”: l’attesa spasmodica (è arrivato mesi dopo la sua presentazione), il prezzo elevato, le nuove funzionalità (seppur relativamente poco essenziali), l’inconfondibilità e persino un pizzico di eccentricità. Se aggiungiamo che a farlo è una delle aziende che più ha giocato la carta dell’affezione al brand da parte dei suoi clienti, ecco che la ricetta è completa: un nuovo mito è nato! E poi, anche questo si sa, se il suo prezzo è elevato la gente tende ad attribuire all’oggetto maggior valore, generando un processo opposto a quello teorizzato dalla microeconomia che ipotizza (sbagliandosi) l’esistenza dell’ “homo oeconomicus” (che si presume razionale) : più il suo prezzo sale più sale il suo desiderio.

Io personalmente non credo che lo acquisterò mai, perché sono più interessato ad altri aspetti di strumenti come il telefonino quali ad esempio l’ampiezza dello schermo (ne esistono anche da 6 pollici e mezzo) o la durata della batteria, ma devo ammettere che la ricetta del nuovo cavallo di battaglia è oggettivamente vincente ed è inoltre profondamente coerente con la filosofia Apple da un decennio a questa parte: la perfezione dell’oggetto, la sua esclusività, un prezzo decisamente superiore alla media, l’innovazione.

L’IMPORTANZA DELLO SMARTPHONE

Viviamo inoltre in un mondo estremamente interconnesso nel quale il telefonino è divenuto un oggetto essenziale della nostra vita quotidiana, molto più di quanto potesse già esserlo pochi anni fa. Oggi le funzionalità di messaggistica, di collegamento ai numerosi social network, di partecipazione alle chat e soprattutto alle “communities” come quella di Waze per gli automobilisti, sono divenute una componente essenziale della nostra vita, per non parlare delle mail: se dopo qualche minuto che ce ne hanno inviata una non rispondiamo prontamente siamo arrivati all’assurdo di avere buone probabilità di lasciare offeso qualche nostro amico o collega!


È probabilmente un’esagerazione ma è anche la dura verità: noi di quel piccolo computer palmare che, tra le altre cose, effettua anche telefonate, non possiamo più fare letteralmente a meno, nemmeno quando ci rechiamo alla toilette! E dunque esso è parte della nostra vita, della nostra immagine, dell’idea che proiettiamo di noi. Penso anzi che per un motivo molto simile tanta gente abbia scelto di indossare uno smartwatch: per sottolineare l’aspetto più moderno della propria persona. E se lo smartphone è diventato parte della nostra vita, allora cosa vuoi che siano 1000 (o più) Euro ? E’ una spesa che ammortizziamo molte molte volte al giorno per 365 giorni del nostro anno.

APPLE FA BENE A FARLO PAGARE CARO

Morale: Apple fa bene a farci pagare caro quel nostro voler apparire aggiornati, tecnologici e interconnessi! E se il telefono incorpora qualche importante innovazione come il “riconoscimento facciale” ecco allora che ne vale anche la pena o quantomeno troviamo una giustificazione para-razionale alla spesa. Ma la verità è che anche per questo Iphone (come per i suoi predecessori) la maggior parte della gente non saprà nemmeno come utilizzarne le funzioni avanzate. Si limiterà a metterlo in mostra. In fondo è un oggetto unico e ancora piuttosto raro. Giusto, no?

Stefano di Tommaso




IL BOOM DEGLI IPO IN BORSA È DESTINATO A PROSEGUIRE CON LO SGRAVIO DEI COSTI DI QUOTAZIONE

Il 2017 rischia di passare alla storia del nostro paese come l’anno del rilancio economico italiano. Non solo le aspettative di crescita del prodotto interno lordo sono ancora una volta al rialzo (adesso si parla di un +1,5%) ma soprattutto non sembra un fuoco di paglia come è stato più volte in passato dopo la grande crisi. La conferma della svolta proviene soprattutto da altri indici, più significativi per il mondo delle imprese, come quello della produzione industriale che spicca in ottobre a un +4% su base annua. Il 2017 verrà ricordato come l’anno delle quotazioni in borsa: già 30 Initial Public Offerings (IPO) sino ad oggi (di cui 17 all’AIM) e si stima ben 40 entro fine anno tra le quali la più grande IPO d’Europa nel 2017: il ritorno in Borsa della Pirelli, che da sola ha collocato titoli per €2,3 miliardi!

La borsa italiana non si è fatta sfuggire l’opportunità di cogliere la ripresa economica e, un po’ per il traino degli altri mercati finanziari internazionali, un po’ per effetto del positivo andamento dell’industria, i suoi livelli sono cresciuti ben più che proporzionalmente: del 20% da inizio 2017 e di ben il 40% da un anno fa ad oggi.

INDICE FTSE MIB BORSA ITALIANA NELL’ULTIMO ANNO

Ancor meglio è andata per l’indice di borsa relativo al comparto delle piccole e medie imprese: +23% da inizio 2017 (anche se la variazione da un anno ad oggi è stata meno significativa di quella dell’intero mercato:+30% da un anno fa ad oggi). L’Alternative Investment Market (AIM) è il segmento di Borsa Italiana dedicato alla quotazione delle piccole e medie imprese. Esse valgono (capitalizzano, si dice in Borsa) in media 52 milioni e con l’operazione di quotazione hanno raccolto mezzi freschi in media per 5,3 milioni.

INDICE FTSE AIM BORSA ITALIANA NELL’ULTIMO ANNO

Sicuramente però -complice il più che positivo andamento degli indici- il dato più significativo della svolta che il nostro paese ha marcato nel 2017 è quello del gran numero di imprese piccole e grandi che hanno deciso di varcare la soglia della Borsa. Non solo le 40 imprese che entro fine anno l’avranno già fatto, ma soprattutto il numero di quelle che hanno deciso di farlo prima o poi: quasi 400 imprese si sono già iscritte infatti al circuito Èlite della Borsa Italiana, un percorso di conferenze e confronti che tende a preparare le “matricole” al grande passo. Una vera e propria rivoluzione se si quotassero tutte, che porterebbe al raddoppio le attuali dimensioni del listino milanese!

Una parte del merito va tuttavia ascritta alla normativa dello scorso anno sui Piani Individuali di Risparmio che hanno già portato alle imprese italiane la bellezza di €10 miliardi di denaro fresco! Sei volte quanto previsto al momento del varo della legge (€1,5 miliardi per quest’anno). Una manna che ha favorito non poco la liquidità dei listini, in particolare dell’AIM.

La quotazione in Borsa porta indubbiamente una serie di vantaggi, a partire dal denaro fresco che affluisce stabilmente in azienda (non bisogna infatti restituirlo né pagarne gli interessi ma casomai remunerarlo -nel tempo e solo qualora non vi siano opportunità migliori- con una politica di dividendi).

In alcuni casi tuttavia il passaggio può risultare traumatico quando l’azienda non è pronta o la governance non è chiara o, peggio, la contabilità non è trasparente e veritiera. Il percorso di adeguamento alle esigenze degli investitori che sottoscriveranno i loro titoli quotati in borsa passa innanzitutto dalla capacità di esprimere un buon piano industriale, un’ottima strategia di accrescimento del valore d’impresa e un controllo significativo dei rischi del business.

La vera novità però deve ancora arrivare (e ci si augura che si trasformi in altrettanto interesse per la quotazione in borsa), perché sono state inserite nella legge finanziaria del 2018 (in approvazione entro fine anno) nuove misure per favore la quotazione in Borsa delle PMI: un credito d’imposta pari al 50% dei costi di consulenza legati alla quotazione (con un tetto di €500mila) e un ampliamento della normativa sui P.I.R.

Dal momento che il costo medio delle operazioni legate alla quotazione storicamente si attesta sugli €800mila (€500mila per advisory, revisione, diligences e oneri vari oltre a €360mila per il collocamento dei titoli per l’importo medio di €7,3milioni), ecco che lo stanziamento previsto, €30 milioni, sembra sufficiente a coprire l’operazione per almeno 60 nuove imprese che rientrano nella definizione di PMI: non più di 250 dipendenti, 50 milioni di fatturato e 41 milioni di attivo di bilancio. Sarebbero il doppio di tutte le IPO del 2017 sino ad oggi e quasi il quadruplo delle di quelle che sino ad oggi si sono quotate all’AIM. !

Insomma tra la normativa sui mini bond, quella sui P.I.R. e quella sulle quotazioni in borsa, bisogna dare atto a questo governo di stare facendo molto più di quelli che lo hanno preceduto per ridurre la dipendenza delle imprese dalle disponibilità di credito del sistema bancario. Chissà che il famoso “dito” di Maurizio Cattelan (il cui nome è L.O.V.E. , acronimo di libertà, odio, vendetta ed eternità) che svetta in Piazza Affari e che tante polemiche aveva suscitato al momento dell’installazione (qualcuno lo aveva definito un invito al risparmiatore italiano a metterselo dove meglio credeva) non abbia invece profetizzato l’attuale rialzo delle quotazioni per le sorti del mercato nostrano dei capitali?

Stefano di Tommaso




LA TRAHISON DES IMAGES (OVVERO: LE BANCHE CENTRALI SONO DAVVERO IN RITIRATA?)

Ci sono artisti che passano alla storia per le loro vite intense (si pensi al Caravaggio o a Van Gogh). E poi c’è René Magritte, un uomo elegante, come tanti, educato e distinto come un banchiere, ma capace di evocare la trasformazione della realtà come nessun’altro. In questo sta il suo genio: nell’invito a osservare il mondo con occhi diversi, a stupirci di ciò che è apparentemente banale, a scavare sotto la superficie per scoprire che la realtà è molto più affascinante di quanto non appaia. « Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa»

 

La Trahison des images (la fuorvianza delle immagini) è un suo dipinto realizzato nel 1928-29 (l’anno della più grande delle crisi di Borsa della storia). L’opera, contestando la raffigurazione della pipa (non si tratta di fatto di una pipa, bensì di una sua immagine), mira a mettere in risalto la differenza di tangibilità e consistenza che il mondo della realtà ha con quello dei segni, invitando alla riflessione sulla complessità del linguaggio. A cinquant’anni dalla morte di Maigritte il messaggio della filosofia surrealista lanciato con forza proprio dalla pittura di grandi evocatori di concetti astratti come lui (ma anche da Miró, Ernst, Dalí, de Chirico ecc…), non poteva essere più attuale nel contesto odierno dei mercati finanziari.

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL TAPERING

Sono quasi due anni che I banchieri centrali ci raccontano della loro volontà di procedere a una graduale ritirata da quello che è stato forse il loro più vasto e profondo intervento nella storia dell’economia: il Quantitative Easing (l’allentamento della politica monetaria seguìto alla brusca riduzione della liquidità in circolazione dopo la crisi borsistica del 2008). All’epoca si rischiava di ripercorrere pedissequamente gli otto anni di crisi economica che erano seguiti alla crisi finanziaria del 1929 e i principali banchieri centrali nel mondo, capitanati da quelli anglosassoni, decisero nel 2008 di controbilanciare con vigore la riduzione del moltiplicatore monetario del credito (e della velocità di circolazione della moneta) con l’acquisto sul mercato di grandi quantità di titoli e dunque con la conseguenza di affogarli di liquidità. I tassi di interesse discesero perciò più o meno bruscamente intorno allo zero e questo fatto risultò a sua volta essenziale per rendere sostenibile un altro macigno che rischiava di schiacciare per sempre l’economia mondiale: l’eccesso di indebitamento generale (tanto privato quanto degli Stati sovrani).

Che la manovra di Quantitative Easing (di stampo chiaramente keynesiano) sia risultata ex-post fortemente appropriata, nonostante le numerosissime critiche che piovevano soprattutto da economisti conservatori, lo dimostra il periodo di eccezionale crescita economica che oggi -a nove anni di distanza- il mondo intero sta vivendo in forma per di più sincrona: tanto per le economie più sviluppate quanto per quelle emergenti.

Il “Tapering” però (che dal punto di vista economico dovrebbe essere l’esatto opposto della manovra espansiva) sbandierato da due anni a questa parte dagli annunci dei medesimi banchieri centrali, preoccupati dall’incessante e dilagante crescita dei valori azionari e obbligazionari, è risultato tuttavia così prudente e graduale da apparire sostanzialmente inesistente. Un caso così estremo da risultare sostanzialmente illusorio di quella “Forward Guidance” (anticipazione verbale delle future manovre) che le banche centrali amano utilizzare per indirizzare i mercati quando vedono degli eccessi che potrebbero trasformarsi in futuri disastri.

Ecco allora che oggi si materializza una fuorviante rappresentazione della realtà: quella che tocchiamo con mano appare molto diversa da quella che ci viene comunicata dalla Yellen (governatrice della Federal Reserve bank of America), da Zhou Xiaochuan (presidente della banca centrale cinese) da Mark Carney (presidente della banca centrale inglese) e via dicendo, sino all’ultimo arrivato nella lista degli “annunciatori”: Mario Draghi (governatore della banca centrale europea).

NESSUNO PUÒ PERMETTERSI UN’IMPORTANTE RISALITA DEI TASSI DI INTERESSE

Ad ascoltare gli annunci bellicosi di aumenti dei tassi di interesse della Yellen sembrava che una nuova crisi dei mercati potesse arrivare solo per effetto di tale manovra, attuata invece sino ad oggi in forma quasi simbolica, perché lo sanno tutti che un vero rialzo dei tassi di interesse I governi di tutto il mondo non possono permetterselo, fino a quando non saranno riusciti a monetizzare buona parte del debito pubblico, cioè per molti anni ancora. Tanto per fare due numeri, dal 2007 i debiti globali (pubblici e privati) sono infatti aumentati di oltre il 70%, arrivando a sfiorare i 140mila miliardi di dollari secondo il Fondo monetario internazionale. E’ chiaro anche a un bambino che -se un’importante risalita dei tassi si materializzasse- il maggior costo del servizio del debito non farebbe che incrementare I disavanzi pubblici e dunque la massa del debito stesso, impedendone il rientro a volumi più fisiologici. Ecco dunque che si procede sistematicamente a graduali rinvii dei rialzi annunciati e a piccoli passi di un quarto di punto percentuale alla volta, augurandosi che l’omeopatia funzioni davvero nel limitare gli eccessi dei mercati finanziari.

Calcola la Banca Pictet che, secondo gli annunci odierni dei loro governatori, dopo i 2.540 miliardi di dollari iniettati sui mercati dalle 5 maggiori banche centrali del mondo nel 2017, si scenderà a “soli” 510 miliardi nel 2018 per poi teoricamente azzerare la liquidità immessa a partire dal 2019. Dunque bisogna aspettare almeno un biennio per verificare se toccheremo con mano una riduzione della liquidità sui mercati.

Per quest’anno invece ancora due triliardi e mezzo di dollari continueranno ad affogare gli acquisti di azioni e obbligazioni.

Poi si vedrà, anche sulla base della misura dell’inflazione dei prezzi al consumo (quasi inesistente), mentre di quella dei prezzi degli “assets” non se ne infischia nessuno.

D’altra parte una fetta consistente di questa liquidità è affluita sotto forma di investimenti nei Paesi emergenti. Negli ultimi anni essi hanno attirato importanti flussi d’investimento (superiori a 300 miliardi di dollari nel solo 2017) e questo ha aiutato decisamente il sincronismo della crescita economica globale che oggi registriamo, unitamente alla loro crescita demografica. È altresì indubitabile che la crescita generalizzata dei profitti aziendali cui assistiamo negli ultimi mesi (che a sua volta traina la corsa delle borse) c’entra parecchio con le maggiori esportazioni che il mondo più industrializzato realizza nei confronti dei Paesi Emergenti.

CHI VUOLE FERMARE IL CAVALLO IN CORSA?

“Davvero qualcuno vuol fermare il galoppo dell’economia ?” (avrebbe chiesto Maigritte con ironia). Nessuno, davvero, nemmeno se “sospinto” da forze artificiali. Anche perché i Paesi OCSE sanno benissimo che senza la manna dell’accelerazione del prodotto globale lordo che oggi finalmente si dispiega essi non potrebbero sostenere le tensioni sociali interne che derivano dal fatto che le classi meno agiate dei paesi più ricchi hanno beneficiato sino ad oggi ben poco della ripresa economica. La crescita indotta dalle facilitazioni monetarie ha in prima battuta favorito i detentori di attività finanziarie. Cioè h ampliato la disuguaglianza economica. Ci vuole tempo perché i suoi benefici si trasmettano all’economia reale.

Lo scenario perciò di graduale riduzione delle facilitazioni monetarie che ci viene propinato va filtrato attentamente con la realtà, che sembra riferirci uno scenario diverso, che nessuno vuole vedere tramontare troppo in fretta. Non lo vuole l’America, che si prepara a controbilanciare il suo tapering (tutto da vedere se poi si materializzerà dopo la nomina del successore della Yellen) con un pacchetto di riduzioni fiscali e incentivi all’industria proprio orientato al miglioramento dei redditi più bassi. Non lo vuole la Cina, ancora pesantemente impegnata a finanziare il suo sviluppo anche per strappare alla fame qualche centinaio di milioni residui di propri cittadini ancora dediti all’agricoltura più retrograda.

Non lo vuole nemmeno l’Europa, preoccupata più di quanto si possa immaginare dalle tensioni interne e dalle spinte separatiste che potrebbero far tramontare presto la stagione di crescita in corso, minacciata dal potenziale tracollo del debito sovrano dei suoi membri più deboli.

“Non credete minimamente a ciò che dico. Non prendete nessun dogma o libro come infallibile” diceva Buddha. E “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”, gli faceva eco Sherlock Holmes nei romanzi di sir Arthur Conan Doyle. Forse un esercizio utile anche in economia.

Stefano di Tommaso