CONTRATTO DI AFFITTO D’AZIENDA – ASPETTI FISCALI

Per effetto della stipulazione del contratto di affitto d’azienda , come è noto, il concedente – proprietario del bene – attribuisce l’intera gestione dell’azienda di cui è proprietario ad un soggetto terzo – affittuario – il quale, in conseguenza di ciò, si obbliga a “gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte” (artt. 2561 – 2562 c.c.).
Il contratto di affitto d‟azienda è disciplinato dall’art. 2561 c.c. il quale, pur regolando l’usufrutto di azienda, si applica anche all’ipotesi di affitto in conseguenza del richiamo ad esso effettuato dall’art. 2562 c.c.

L’affittuario nel contratto di affitto d’azienda – al fine di garantire la conservazione dell’efficienza del ‘sistema’ aziendale – subentra nella pienezza dei rapporti facenti capo al concedente ed acquisisce prerogative di godimento e di disposizione sostanzialmente equivalenti a quelle del proprietario giacché estese non solo sulle dotazioni di scorte (c.d. capitale circolante) ma anche sugli impianti aziendali.
Oggetto del contratto di affitto è una azienda o un ramo della stessa, considerata come il complesso unitario di tutti i beni mobili e immobili, materiali e immateriali concessi in godimento, in quanto organizzati unitariamente per la produzione di beni e servizi.

L‟affittuario nel contratto di affitto d’azienda,  deve gestire l’azienda nella prospettiva di tutelare l’interesse del nudo proprietario a non vedere ridotta l’efficienza del complesso aziendale, in vista di un ritorno nella posizione di imprenditore. A tale scopo si ritiene che egli abbia l‟obbligo non solo di ricostruire ma anche trasformare ed eventualmente alienare le scorte di materie prime e di prodotti finiti, nonché di sostituire gli impianti non più efficienti o tecnicamente superati e, in genere, tutti gli elementi aziendali la cui sostituzione è in linea con la prospettiva di conservazione dell’avviamento.

Illegittimo è, di conseguenza, ogni mutamento nella composizione dell’azienda affittata,  che ne pregiudichi l’avviamento o ne modifichi l’identità. La questione,  nei casi in cui il contratto sia stipulato in condizioni di crisi di impresa, diventa ancora più importante, perché, in caso di fallimento dell’impresa che ha concesso in affitto il ramo di azienda o l’azienda, il depauperamento della ricchezza aziendale potrebbe determinare effetti anche di tipo penale.

La disciplina fiscale dell‟ammortamento dei beni compresi nell’affitto d’azienda è configurata nell‟art. 102, co. 8 (beni materiali) del TUIR, richiamato dall‟art. 103, co. 4 (beni immateriali) del TUIR medesimo. Essa è direttamente collegata alla normativa civile dell‟ammortamento dei beni contenuta nell‟art. 261 c.c. (così come richiamato dall‟art. 2562 c.c.) in base al quale compete all‟affittuario l‟onere di conservare l‟efficienza dell‟azienda, pur potendo le parti derogare a tale principio, mantenendo in capo al locatore detto onere.
Con la sentenza n. 675, depositata il 15 gennaio 2007, la Suprema corte ha statuito che nell‟ipotesi di affitto d‟azienda non compete al proprietario alcuna deduzione delle quote di ammortamento, fino a quando i beni restano nella libera disponibilità dell‟affittuario.
Nell‟ipotesi in cui, non vi sia alcuna deroga contrattuale, l‟art. 102, co. 8 del TUIR prevede la deducibilità delle quote di ammortamento dei beni d‟azienda data in affitto dal reddito dell‟affittuario.

Per effetto di ciò si determina il superamento della regola secondo cui l‟ammortamento di un bene risulta subordinato al verificarsi delle due condizioni coesistenti in capo allo stesso soggetto della proprietà (o di altro diritto reale) e dell‟utilizzo diretto del bene strumentale (Cass. Civ., sentenza 24 gennaio 2001, n. 997. Conforme: Cass. Civ., sentenza 15 gennaio 2007, n. 675). Invero, come da più parti è stato sostenuto (AULETTA, TEDESCHI), sarebbe ingiusto riconoscere al concedente il diritto alla continuazione degli ammortamenti per beni di cui, in conseguenza dell’affitto d‟azienda, non ha più la disponibilità.

L‟Amministrazione finanziaria ha chiarito che nel contratto di affitto d’azienda  l‟affittuario si sostituisce al concedente nelle relative “posizioni fiscali” riferibili agli elementi patrimoniali trasferiti, con la conseguenza che i relativi valori fiscali formatisi in capo al concedente risultano attratti nella sfera giuridico-tributaria dell‟affittuario ( Risoluzione Agenzia Entrate 5 novembre 2008, n. 424/E). Pertanto, dalla data di decorrenza del contratto di affitto, fanno capo all‟affittuario le spese di manutenzione dei cespiti, nonché gli stanziamenti al fondo di reintegrazione del valore degli impianti. Simmetricamente, ai fini fiscali, le quote di ammortamento, durante il periodo di esecuzione del contratto, vengono dedotte dall‟affittuario e non dal concedente secondo il piano di ammortamento predisposto originariamente dal secondo. Ai sensi dell‟art. 102, co. 8 del TUIR, la deduzione delle quote di ammortamento del reddito d‟impresa dell‟affittuario presuppone la regolare tenuta del registro dei beni ammortizzabili (ovvero il libro degli inventari di cui all‟art. 2217 c.c. o, per le imprese minori di cui all‟art. 66 del TUIR, il registro degli acquisti tenuto ai fini Iva) da parte dell‟affittuario, in conformità alle risultanze del registro del concedente, nonché la commisurazione delle quote di ammortamento al costo originario dei beni “quale risultante della contabilità del concedente”.

Nel caso in cui il concedente non abbia tenuto regolarmente il registro dei beni ammortizzabili, è consentita la deduzione delle quote di ammortamento da parte dell‟affittuario fino a concorrenza del costo non ancora ammortizzato dal concedente, considerando dedotto il 50 per cento delle quote relative al periodo di ammortamento già trascorso.

Alessandro Arrighi 




IL TRIONFO DELLE CRIPTOVALUTE

Farsi un’idea del perché il BitCoin è quasi arrivato a valere 6000 dollari americani non è una cosa semplice. Tantomeno se teniamo conto del fatto che solo all’inizio del 2017 il suo valore superava appena 1000 dollari. In un mio precedente articolo dello scorso Maggio ( http://giornaledellafinanza.it/2017/05/15/la-carica-esplosiva-del-bitcoin/ ) accennavo alla difficoltà di sottoporlo a regolamentazione come pure alla probabilità che la sua quotazione sarebbe salita ancora, proprio perché la quantità in circolazione di Bitcoin è sottoposta a rigide regole e la domanda non manca.

Eppure non solo il Bitcoin è volato quotazioni che ridicolizzano ogni più recente apprezzamento delle borse valori, ma la più famosa delle criptovalute è oggi così richiesta che -visto che la sua domanda ne supera ampiamente l’offerta- stanno comparendo sul mercato così tante altre criptovalute da porsi almeno una domanda (sopra tutte le altre) a proposito di questa singolarità del mercato finanziario.

C’È DAVVERO COSÌ TANTO BISOGNO DELLE CRIPTOVALUTE?

Evidentemente la risposta è affermativa, altrimenti avremmo assistito viceversa ad un numero infinito di tentativi senza successo e le quotazioni di quelle più famose non sarebbero arrivate oggi alle stelle. Oltre al Bitcoin infatti vediamo l’Ethereum, il Ripple, il Litecoin e qualcosa come altre 1700 criptovalute comunemente censite.

Ecco di seguito un elenco delle prime 100 in ordine di capitalizzazione complessiva.


UNA VERA E PROPRIA “ASSET CLASS”

Il fatto però che in totale la somma dei valori di queste criptovalute in circolazione arriva a oltre 170 miliardi di dollari significa che qualcosa è cambiato.

Non si tratta più di un interessante esperimento, bensì di una nuova vera e propria “Asset Class” per gli investitori.

Ecco qui sopra un paragone (nemmeno troppo aggiornato, visto che nell’immagine qui riportata la capitalizzazione delle criptovalute arrivava “solo” a 163 miliardi). In teoria quindi questa “asset class” ha già scalato altre posizioni tra I titoli più capitalizzati a Wall Street.


Il fenomeno della diffusione esponenziale delle monete digitali è oramai sulla bocca di tutti, ma il vero boom è arrivato solo a partire dall’inizio del 2017, dal momento che prima di quella data i valori in gioco erano quasi ridicoli. Ecco ad esempio un grafico dell’andamento delle quotazioni delle prime 10 divise digitali: se escludiamo il Dash e l’Ethereum si vede subito che per tutte le altre le quotazioni non sono salite altrettanto velocemente (e solo a partire da inizio anno).


COS’È CAMBIATO?

Dunque cosa è cambiato nel contesto generale dei mercati finanziari perché si è accesa questa nuova stella? Per rispondere a questa domanda non è evidentemente sufficiente parlare del trionfo di internet, dell’esplosione del commercio online, né dell’incremento delle quotazioni di quasi tutti I listini azionari del mondo, perché l’ampiezza del fenomeno non è paragonabile a nessuno di questi fatti, sebbene indubbiamente ciascuno di essi (e molti altri) abbiano contribuito al successo delle criptovalute.

Qualcos’altro perciò ha dato fuoco alle polveri. Probabilmente tra I fattori di contorno è stata presa in considerazione la riservatezza del loro possesso. È virtualmente impossibile infatti darne la caccia ai possessori e l’accesso al denaro criptato può avvenire -senza costi- da qualsiasi internet bar del pianeta. L’incremento dell’interscambio internazionale e la possibilità di non essere tracciati nella titolarità dei movimenti finanziari ne ha fatto una cuccagna per gli agenti segreti, I trafficanti di materiale illecito, gli evasori fiscali e tutti coloro che subiscono restrizioni alla circolazione dei propri capitali.

LA RISERVATEZZA

Ecco però, forse è proprio quest’ultima caratteristica (non essere soggette ai controlli sulla circolazione dei capitali) quella che ha fatto la differenza. L’economia cinese, si sa, da tempo cerca di tenere sotto controllo il deflusso di capitali, anche perché la svalutazione programmata del Renminbi è oggetto di grande attenzione da parte del Governo centrale. La Cina sarebbe infatti diventata la prima economia al mondo (Inntermini di P.I.L.) già nel 2012 se non fosse stato per il fatto che la classifica si fa in dollari e che da allora ad oggi il Renminbi è stato pesantemente ridimensionato. Sembrerebbe infatti che buona parte dell’ascesa dei valori in gioco nelle criptovalute abbia origini nel sud-est asiatico.

Certamente le criptovalute per definizione non hanno territorio, né subiscono limitazioni nei loro movimenti dentro e fuori delle maggiori economie del mondo. Sicuramente la recente maggior diffusione ha contribuito a dare fiducia a questo strumento ribaltando la precedente ritrosia ad affidarsi a circuiti poco trasparenti. Gli esperti però garantiscono che la trasparenza non manca al sistema che presiede alla loro registrazione: la “blockchain”. Anzi! È molto più sicuro di qualunque altro proprio perché nessuno lo controlla.

MEGLIO DELL’ORO


Molti hanno paragonato le criptovalute ad altri beni rifugio, primo fra tutti il principale tra di essi: l’oro. Il paragone non è fuori luogo. Ma c’è un’importante differenza: la quantità in commercio dell’oro è controllata dalle banche centrali, che ne posseggono una forte quota del totale di loro forzieri. Dunque il prezzo dell’oro è controllabile. Quello delle criptovalute invece dipende solo dalla domanda e dall’offerta. E probabilmente l’ascesa dei prezzi è funzione del combinato disposto di domanda a fini protettivi, riservatezza, assenza di fiscalità sui guadagni in conto capitale, offerta limitata e non manovrata che l’ondata di capitali in fuga dalle borse (giudicate troppo care) a caccia di strumenti di investimento alternativi. I valori sono esplosi anche perché l’offerta di criptovalute è direttamente dipendente dalla circolazione della stessa, attraverso un complicato meccanismo chiamato “estrazione mineraria” (mining), anch’esso basato su regole chiare e sull’impossibilità oggettiva di infrangerle.

Con quelle regole la protezione dalla diluizione del valore intrappolato nelle criptovalute è praticamente assoluta. E allora ecco che ci avviciniamo a farci un’idea delle ragioni dell’ascesa: niente costi di trasporto, niente rischi di detenzione, niente tasse e niente controlli. Le criptovalute nascono con la caratteristica di adattarsi perfettamente al contesto generale del commercio elettronico senza frontiere. Soprattutto quando riguarda oggetti smaterializzati (come I titoli azionari) o servizi di ogni genere, digitalmente forniti.

UNICI NEMICI: GOVERNI E DEFLAZIONE

Resta però il rischio (Non banale a questi livelli) che l’aereo che si è alzato in volo torni a terra: che l’interesse verso tali strumenti arrivi a rarefazione, vuoi per normative al riguardo vuoi per qualche altro fattore come un ritorno della deflazione, che spinge al ribasso le quotazioni dei beni rifugio e incita gli investitori ad andare a cacciare rendite “sicure”, al riparo dal calo generalizzato delle quotazioni. Se dovesse affacciarsi all’orizzonte nuovamente uno scenario di Stagnazione Secolare come quello dipinto da Larry Summers (http://larrysummers.com/2016/02/17/the-age-of-secular-stagnation/) in un famoso intervento del 2016 è possibile che il contesto generale, oggi così favorevole alla diffusione delle criptovalute, possa mutare radicalmente. La sensazione però è che un tale scenario non sia dietro l’angolo.

Stefano di Tommaso




ESUBERANZA RAZIONALE?

IL NOBEL A RICHARD THALER PUÒ SPIEGARSI CON IL TENTATIVO DI DARE RISPOSTE AL TEMA DELL’ESUBERANZA IRRAZIONALE DEI MERCATI FINANZIARI? E SE FOSSE IL CONTRARIO?

L’altro giorno leggevo tra i commenti all’ultima premiazione della fondazione Nobel per gli studi economici quelli che fanno riferimento ad un semplicissimo sito web gestito da un altro premio Nobel per l’economia: Robert Schiller. Il nome del sito internet “http://irrationalexuberance.com/main.html?src=%2F#4,0” parla già da solo. Esso si limita ad esporre, accanto alla copertina del famosissimo libro omonimo (vedi immagine copertina), soltanto due grafici: quello dell’andamento dell’indice azionario Standard &Poor di Wall Street (Insieme a quello dell’andamento degli utili aziendali) e quello del rapporto prezzo/Utile insieme all’andamento dei tassi di interesse.


Anche il premio Nobel elargito in precedenza a Robert Shiller riguardava la “Finanza Comportamentale”. Dunque questo tema è percepito dal mondo accademico nonché dai giurati del premio Nobel come uno di quelli davvero importanti in un momento come questo.

I GIUDIZI ED I COMPORTAMENTI UMANI NON SONO DEL TUTTO RAZIONALI. NEMMENO QUANDO CREDONO DI ESSERLO

Il ragionamento di fondo di Schiller e Thaler osserva che il comportamento umano non può essere rappresentato con la sola logica delle aspettative razionali e I modelli economici di conseguenza non possono non tenerne conto. Solo che quel “tenerne conto” può non andare soltanto nella direzione di predire lo scoppio delle bolle speculative. Può invece anche essere interpretato all’opposto per riuscire a comprendere come mai le borse continuano a salire.

Andiamo infatti a leggere cosa ci raccontava Shiller nel suo libro, pubblicato nel 2000 (quando I mercati finanziari avevano toccato un altro picco massimo): che se si vuole interpretare correttamente l’andamento delle Borse Valori bisogna necessariamente tenere conto anche delle psicologie (e non solo delle argomentazioni razionali) le quali aiutano non poco a fabbricare ogni genere di bolle speculative sui mercati. Il libro spiega anche che alla fine le bolle esplodono sempre, anche se a volte in tempi più lunghi del solito.

 

Questi grafici così sintetici e quasi silenziosi ci raccontano però anche dell’altro: se andiamo a guardare il rapporto prezzo utili cui si riferiscono le attuali quotazioni borsistiche, non c’è dubbio che siamo oggi ben lontani dai massimi del 2001, poco prima che finisse l’era della prima “New Economy” e il mondo cambiasse per sempre. Più esattamente su quel rapporto, rispetto ai massimi siamo a metà strada, mentre i tassi di interesse a lungo termine (la linea rossa) sono invece arrivati in picchiata ai minimi di sempre più o meno un anno fa, nonostante le intenzioni più volte espresse dai banchieri centrali di tutto il mondo, concordi con la necessità di continuare a tirarli un po’ su, dal momento che neanche negli anni trenta si erano visti così in basso.

E SE LE ATTUALI QUOTAZIONI DI BORSA RISPECCHIASSERO LA “NUOVA NORMALITÀ”?

Dunque da un lato le azioni quotate a Wall Street non risultano poi così care se comparate con I profitti che esse esprimono, dall’altro lato i tassi sono oggettivamente bassi e dunque essi giustificano (almeno in parte) delle quotazioni più elevate a parità di tutto il resto. Come dire che la bolla speculativa alla fine scoppierà ugualmente, ma di strada da fare per gonfiarsi ancora potrebbe averne ancora tanta. Allora in questo caso ciò che sembra davvero irrazionale è il timore di un crollo, non il suo opposto.

A proposito dei tassi di interesse bisogna poi ricordare che quelli che contano davvero sono I tassi reali prospettici, cioè quelli futuri e al netto dell’inflazione. Per soppesare il livello dei tassi di interesse reali e tenerne conto nel chiedersi come attualizzare i profitti futuri sono perciò importanti le aspettative di inflazione, che fino a qualche giorno fa sembravano puntare verso l’alto mentre poi è arrivata l’ennesima doccia fredda che gli economisti non riescono a spiegare se non con il salto quantico della digitalizzazione.

TASSI, CRESCITA E INFLAZIONE

La crescita economica infatti si accompagna di norma a un surriscaldamento dell’economia che porta qualche tensione sui prezzi al consumo perché aumenta la propensione alla spesa da parte dei consumatori che si ritrovano con un reddito maggiore. Questo sarebbe particolarmente evidente negli Stati Uniti d’America dove l’economia cresce oramai da più di sette anni ( altrove solo negli ultimi tempi l’economia è tornata a crescere ) e la disoccupazione è giunta ai minimi storici, eppure l’inflazione non risale. Senza di essa I tassi di interesse reale attuali, pur bassi, non sono nulli e pertanto hanno più probabilità di restare a livelli simili a quelli attuali.

Dunque I profitti futuri vanno attualizzati a tassi bassi e -in generale- giustificano maggiormente le quotazioni stratosferiche di molte società quotate.

Poi ovviamente per giudicare se le valutazioni espresse dalle borse appaiono o meno eccessive, dipende anche da ciascun settore di appartenenza. Tipico è il paragone che si fa tra I moltiplicatori degli utili di due titoli che sono chiaramente molto grandi ed esprimono business all’avanguardia e globalizzati, sono percepiti entrambi come titoli “tecnologici” ma appaiono tuttavia agli investitori molto diversi tra loro: Apple e Alphabet (Google). Il Financìal Times di stamane faceva notare che la prima, dal momento che buona parte dei suoi utili arrivano dagli apparati cellulari, viene considerata “cara” dal mercato al prezzo di 15 volte gli utili mentre la seconda, I cui profitti derivano per oltre l’80% dalla pubblicità online, quota tranquillamente (e da tempo) ben 27 volte gli utili. Le aspettative di crescita della prima sono infatti diverse da quelle della seconda.

MORALE

Per giudicare eccessive le valutazioni del mercato bisogna prima stabilire quale tasso di crescita dell’economia riduce il fattore di sconto dei profitti futuri. E se quel fattore prima di tener conto della crescita già partiva da un livello basso in assoluto, è sufficiente attendersi una lieve crescita prospettica del. Intesto economico per valutare molto più caro un titolo quotato. E nessuno può negare che, con una previsione di crescita economica globale vicina al 4% nell’anno in corso, le aspettative di crescita ulteriore dei profitti sono più che giustificate. Casomai perché il sistema prezzi/tassi/aspettative sia sostenibile bisogna che restino vere tanto le prospettive di un‘ inflazione limitata quanto quelle di un forte interscambio internazionale, fattore essenziale anche per tenere viva la prospettiva di importanti profitti aziendali. Diverso sarebbe infatti se quelle premesse mutassero.

Tornando alle aspettative-non-esattamente-razionali, appare possibile che se pensiamo di poter giudicare gli eventi sulla base di ciò che è successo in passato stiamo tralasciando quasi certamente una parte della verità. I lavori di Richard Thaler riguardano proprio la verifica del fatto che gli esseri umani si basano moltissimo sul comportamento passato per fondare le loro decisioni, anche quando chiaramente il futuro non rassomiglia più al passato.

Nonostante Thaler abbia espresso chiaramente il suo disappunto per il livello da lui giudicato eccessivo delle borse odierne, resta il fatto che le sue teorie possono funzionare anche all’opposto. Cioè nell’indicare “a prescindere “ come eccessivi I livelli borsistici attuali solo perché in passato non si era vissuto un salto quantico nello sviluppo economico (delle economie emergenti) come quello attuale. Nessuno può vantare delle certezze al riguardo ma il beneficio del dubbio deve continuare ad animare la ricerca dell verità!

Stefano di Tommaso




LA DISCIPLINA DELLA CRISI D’IMPRESA IN ITALIA È LONTANA DA UNA VERA SVOLTA

Ho provato a analizzare le modifiche apportate alla disciplina della crisi d’impresa, ma ne sono rimasto profondamente deluso. Tutte le novità sono indubbiamente (e finalmente) onorevoli tentativi di orientare le procedure verso il salvataggio delle aziende e dei posti di lavoro che esse rappresentano (più che verso la punizione dell’insolvenza), ma mentre le leggevo un quesito è avanzato sopra ogni mia altra considerazione: ma è mai possibile che nessuna delle normative adottate con successo in tutto il resto del mondo si possano importare nel nostro ordinamento?

 

Siamo forse noi Italiani più bravi e più precisi degli altri da non essere interessati a ciò che è già stato testato, lubrificato e verificato altrove?

Abbiamo bisogno di sì tanta “hubris” (tracotanza) da arrivare a giudicare inutili, arretrate o inefficaci le norme meglio testate nei paesi più sviluppati dove un’impresa che resta viva o un imprenditore che ci riprova (perché non è perseguitato dalla giustizia e dalle parcelle degli avvocati) contribuiscono già in maniera decisa a ridurre il bisogno di intervento a sostegno dei salari da parte dei fondi di previdenza pubblica?

Dobbiamo davvero affidare all’attenta lettura del giudice la valutazione della bontà dei piani industriali presentati a supporto del salvataggio? Hanno forse studiato tutti alla Bocconi economia e management? O invece per la maggior parte i giudici della sezione fallimentare (si, questa non ha cambiato nome) sono ex Pubblici Ministeri, perdipiú spesso con decise convinzioni e aderenze politiche (quantomeno nell’ambito del partito prevalente della magistratura: “Magistratura Democratica”)?

E già, tocca far notare che le riforme che si susseguono nella disciplina in questione riguardano la norma, le modalità di approccio alla giustizia, i diritti dei creditori, la forma della presentazione dell’istanza tutelare, la possibilità di accorpare diverse iniziative (eccetera) ma non riguardano mai la magistratura, le carriere di chi è chiamato a giudicare, la loro preparazione, la tempistica che dovrebbero rispettare nell’esaminare le vicende. Mai. La Magistratura non si tocca! E ci mancherebbe! Cosa c’entrano i giudici con le procedure concorsuali?

Nemmeno in ambito europeo, che di solito impone una certa armonizzazione delle norme, si è pensato di imporre sistemi come quello germanico, nel quale l’impresa viene affidata a terzi imprenditori per tutta la durata del procedimento giudiziale. Nessuno ha pensato di far rassomigliare di più il nostro articolo 182bis al Chapter 11 dell’ordinamento americano. Nessuno si è posto il problema di come assicurare (davvero) all’impresa le risorse finanziarie essenziali per sopravvivere nel momento della crisi. Nessuno ha chiarito come risparmiare i manager del salvataggio dalla gogna mediatica e dai rischi penali.

In Italia non esiste soltanto la Casta dei politici, non solo quella dei Magistrati, dei Notai o della Guardia di Finanza. No. Tra le mille corporazioni medioevali ne esiste una informale e potentissima che riguarda i professionisti dei fallimenti. Spesso abili e ben introdotti nelle Cancellerie tribunalizie, sono individui che ne fanno una missione di vita (e una fonte lucrosa di reddito), inscalfibili persino in sede legislativa, che non ha alcuna intenzione di veder superati i propri privilegi attraverso una semplificazione e un’armonizzazione della normativa già solo a quella d’oltralpe.

Chi ci rimette come sempre sono i più deboli, quelli che restano nella precarietà e nell’emarginazione, specie se hanno cinquant’anni o più e sono ancora lontani quasi un paio di decenni dal privilegio della pensione (che invece i parlamentari guadagnano in un paio di annetti di servizio al partito).

Chi ci rimette sono anche i risparmiatori, che vedono fuggire all’estero le menti migliori, i capitali per gli investimenti, le competenze finanziarie e i mercati di sbocco di merci e servizi (a causa del fatto che la gente in precarietà spende meno).

Chi ci rimette sono anche le imprese, che devono riempire faldoni infiniti di firme nei moduli che le banche sottopongono loro per prevenire ogni guaio. Che vedono sempre meno credito e sempre più problemi fiscali a causa della vorace idrovora pubblica. Chi ci rimette sono le pensioni future perché con i blocchi e i licenziamenti collettivi esse si riducono. Chi ci rimette sono i giovani, che piuttosto che andare a lavorare in un carrozzone in crisi scelgono la via dell’estero e lo stimolo di qualche startup innovativa. Magari finanziata con i risparmi in fuga degli Italiani !

Stefano di Tommaso