L’INDUSTRIA EUROPEA TORNA A CORRERE

Nonostante la forte impennata del cambio dell’Euro che rischia di travolgere le aspettative di veder continuare almeno fino a fine anno il forte flusso di esportazioni che trainano decisamente la crescita europea, le performances industriali del vecchio continente vanno oltre le più rosee stime e, soprattutto, la fiducia degli imprenditori sembra molto al di sopra della media.

Anzi, se la ripresa corre nonostante il più alto cambio della divisa getti acqua sul fuoco delle esportazioni, questo significa che la ripresa può anche durare e soprattutto che essa non si accompagnerà ad una fiammata inflazionistica (per l’Eurozona si stima un’inflazione a fine anno al livello dell’1,1%, in riduzione decisa dal precedente dato dell’1,3%) dal momento che il rialzo del cambio funziona da potente deflattore dei prezzi, tanto per le materie prime quanto per i prodotti finiti. L’Europa poi beneficia di bassi costi di importazioni di gas e petrolio, di una ripresa delle economie dei Paesi Emergenti e -nonostante le sanzioni- di un rapporto privilegiato con l’intera area dell’ex-Unione Sovietica.

Ma è proprio la rilevazione dell’ottimismo generale che fa pensare che non siamo di nuovo a osservare il classico fuoco di paglia! L’indice di fiducia dei direttori acquisti europei in Agosto ha toccato per la prima volta dal lontano 2011 la cifra record di 57,4, un punto sopra la rilevazione di Luglio e ben oltre il confine dei 50 punti, che segna la frontiera tra ottimismo e pessimismo.
Lo stesso indice, rapportato alle piccole e medie imprese, ha totalizzato un bel 56,3 in Italia e 52,2 in Grecia: due tra le aree economicamente più disastrate dell’Unione Europea.

Ci sono perciò due segnali che lasciano ben sperare per il (prossimo) futuro: la bassa inflazione e una robusta ripresa di ottimismo anche tra le piccole e medie imprese.

Si sa che lo sviluppo dell’imprenditoria minore è il primo indice di buona salute di un’economia industriale. Significa fermento e iniziativa, che alla lunga determina maggior gettito fiscale e maggiore occupazione. Senza quel segnale il galoppo delle grandi imprese potrebbe risultare di scarsa utilità per l’economia generale e quasi inesistente in zone depresse come la Repubblica Italiana, che di grandi imprese quasi non ne hanno più.

Ma anche la misura dell’inflazione cinta parecchio nell’auspicio di una continuazione sulla strada del progresso economico: se fossero stati i consumi (a lungo compressi dalle molte preoccupazioni dei cittadini) a fornire lo spunto avremmo registrato un rialzo dei prezzi ma anche la certezza che molta strada era ancora da percorrere prima che l’Unione Europea potesse contare su solide basi. Se invece la ripresa interviene quad in assenza di una crescita significativa dei consumi si può meglio sperare: c’è sempre tempo perché anch’essa si manifesti, completando il quadro di ottimismo.

Senza considerare che la bassa inflazione lascia l’attuale politica monetaria europea (fortemente espansiva) per qualche mese in più nelle mani del governatore in carica, Mario Draghi, prima che la Germania riesca a imporre la propria linea di contenimento del bilancio della Banca Centrale Europea. Cosa che rimane agli occhi dei più oggi come oggi solamente strumentale ai suoi interessi egemonici.

Stefano di Tommaso




L’OCCUPAZIONE ITALIANA TORNA A CRESCERE

Il numero totale di italiani al lavoro è tornato a superare, per la prima volta da prima della crisi, i 23 milioni. Più in dettaglio nel 2016 sono stati creati quasi 300 mila nuovi posti di lavoro, principalmente tra la classe demografica di coloro che hanno superato i 50 anni.

È un importante risultato il cui merito ovviamente, viene rivendicata dal governo Renzi/Gentiloni, e a cui invece Brunetta (a nome dell’opposizione intera) fa eco ricordando che il dato è “drogato” dagli incentivi, al cui termine (un triennio dall’assunzione) e che buona parte di quei posti di lavoro grazie ad essi creati potrebbero essere dismessi.

Giova anche ricordare che la prima metà dell’anno per il comparto industriale del Paese è stata particolarmente positiva (con incrementi superiori a quelli di tutti gli altri paesi europei), prima però che la divisa comune raggiungesse la vetta del cambio attuale, con il rischio dunque che la bonanza che vediamo, oggi trainata soprattutto dal turismo e dalle esportazioni, non continui nemmeno fino a fine anno.

Molto resterebbe da commentare viceversa sul dato assoluto: quei 23 milioni totali di lavoratori attivi a vario titolo, che non solo non raggiungono il 38% della popolazione totale italiana, ma che denunciano ampi strati di attività sommersa e di assistenzialismo se interpretati più in dettaglio: i 5 milioni di immigrati (freschi e regolari) lavorano quasi tutti!
Se dunque facciamo i conti senza di loro e sottraiamo quel numero ai 23 milioni di occupati e ai 61 milioni di residenti, la proporzione cambia ancora in peggio: 18 milioni di italiani originari su un totale di 56 milioni fa appena il 32% del totale: come dire che più di due italiani su tre godono di qualche forma di assistenzialismo, dato anche il fatto che la natalità infantile (e dunque la quota di giovanissimi sul totale della popolazione) è ai minimi di sempre!

Un discorso simile andrebbe fatto anche a proposito della disoccupazione giovanile, circa la quale ci sono miglioramenti ma che resta feroce, per non parlare poi del crescente divario tra nord e sud del Paese, perché il dato statistico totale ovviamente è la risultante di una media trilussiana, fatta di poderose crescite nell’area industriale del Paese e di corrispondente decrescita al sud, di maggiore occupazione dei cinquantenni e di un notevole numero di nuovi posti di lavoro a basso e bassissimo reddito.

In totale comunque il dato preciso non è comunque così confortante: il tasso di disoccupazione italiano di Luglio, dell’11,3% si confronta con una media europea (che comprende tutti, anche i membri più in difficoltà) del 9,1%. Quasi il 25% in più!

Senza contare che ancora l’Italia non ha risolto il suo grosso problema relativo al deficit della spesa pubblica (di nuovo: usualmente e proditoriamente indicato dai media in percentuale del P.I.L. che è una misura di raffronto ammontante a poco meno del doppio della spesa pubblica e che quindi altera significativamente la percezione della realtà del deficit -molto maggiore- rispetto alla spesa stessa). Dove sarebbe oggi la disoccupazione senza lo smisurato esercito di impiegati della Pubblica Amministrazione il cui numero in certe regioni italiane ha generato primati da Guinness?

Il deficit di spesa fa tra l’altro si che il debito pubblico continui ad aumentare (e toccare nuovi record) e pertanto getta un’ombra sinistra sulla capacità futura del governo italiano di avere successo nel collocamento dei titoli di Stato, una volta privo dell’ombrello protettivo della B.C.E. Se quella capacità precipita, la situazione economica italiana peggiora in un istante, avvitandosi in aumenti dei tassi di interesse e strette creditizie che a loro volta determinerebbe altrettanto velocemente l’ulteriore e definitiva insostenibilità del debito.

Se basta così poco per passare dalla speranza di un riscatto (anche dell’occupazione) ad una vera e propria nuova crisi economico-finanziaria simile a quella vista in Grecia, cantare oggi vittoria per noi Italiani non sembra essere una cosa razionale ma soprattutto, come mostra l’immagine qui allegata, Gentiloni ha avuto diversi scomodi predecessori: Berlusconi, Monti, Letta e Renzi, tutti avevano dichiarato lo stesso risultato prima di averlo consolidato e senza che nessuno di essi lo abbia mai traguardato.

Speriamo che le cose cambino, ma per cambiarle occorre favorire lo sviluppo degli investimenti e, con essi, occorre un deciso salto in avanti per l’occupazione “qualificata”, quella cioè che potrà permettere agli italiani innanzitutto, prima che agli immigrati alla ricerca di qualsiasi posto di bassa manovalanza, di poter tornare a costituire nuovi nuclei famigliari, a risparmiare e a guardare al futuro senza la necessità di emigrare o di appoggiarsi ai risparmi dei genitori pensionati!

Stefano di Tommaso




CON LA BOMBA A IDROGENO LA QUESTIONE COREANA SI COMPLICA. QUELLO CHE I MEDIA NON RACCONTANO PERÒ…

A molti mesi dalla presa di coscienza del fatto che il leader della Corea del Nord farà di tutto pur di non farsi mettere nel sacco dagli Stati Uniti d’America (più o meno in coincidenza con l’elezione di Donald Trump), molte sicurezze relative alle possibili opzioni politiche e militari sono saltate. Non stupisce oggi di apprendere che i militari al soldo di Kim Jong-Un siano pronti anche a montare una testata nucleare all’Idrogeno da centinaia di chilotoni sui propri missili balistici intercontinentali.

La dura verità è che per gli Stati Uniti d’America non ci sono opzioni militari “sul tavolo”, a meno di non rischiare la perdita di decine di milioni di vite umane nei primi trenta minuti di guerra, tanto in Corea del Sud, quanto in Giappone e persino a casa propria. Non ci sono nemmeno vere opzioni di riuscire a sferrare un attacco “chirurgico” . Il dittatore Kim lo sa bene e mostra i muscoli perché ha capito che è questo l’unico modo che ha per non farsi invadere o farsi destituire e sostituire da qualche fantoccio inviato da fuori.

E poi, se anche ci fosse, la realtà è che nessuna opzione militare americana sembrebbe accettabile per la Cina, che da sempre ha considerato la Corea del Nord come uno stato cuscinetto. Dopo quel che si è visto ai confini della Russia, dove ogni pretesto è stato utilizzato dalla NATO per ampliare la propria sfera di influenza, la Cina come potrebbe sperare che una Corea domani riunificata non diventi un avamposto americano si suoi confini? Se ci facciamo caso, addirittura ultimamente gli USA hanno fatto pressioni per il riarmo del Giappone, da secoli uno stato antagonista della Cina.


Quello che i media non raccontano è che la corsa al riarmo del dittatore coreano è da mettere in diretta corrispondenza con la progressiva pressione militare esercitata dagli americani tanto sulla Corea del Sud quanto sul suo angelo custode cinese, affinché egli venisse destituito. Anzi ultimamente le forze armate americane avevano forse sperato che -in nome di un’alleanza commerciale- questo lo facesse la Cina stessa, ma la verità è che non succederà, perché ciò andrebbe contro i suoi interessi nazionali.

La situazione paradossale cui si è giunti è che se Kim attacca l’America (ipotesi peraltro del tutto irrealistica) è solo lui contro gli USA, mentre se l’America attacca Kim anche la Cina risulterebbe in guerra con loro, per ovvi motivi di salvaguardia dei propri confini e dopo un istante da quando i soldati americani avessero varcato le frontiere della Corea del Nord anche quelli cinesi lo farebbero, reclamando la loro sfera di influenza (esattamente come è già successo nel 1950) e, di fatto, cambiati i personaggi, la situazione finale non risulterebbe troppo diversa.

L’unica vera soluzione della vicenda è quello di un mutuo scambio: la limitazione della proliferazione nucleare coreana contro un ritiro delle truppe americane dalla Corea del Sud e dal Mar del Giappone, cosa che convincerebbe anche la Cina delle buone intenzioni degli Stati Uniti se con ciò essi perdessero davvero la capacità di un “pronto intervento” nella regione. Lo faranno mai? È psicologicamente difficile per chiunque accettare di fare un passo indietro ma è anche razionalmente molto rischioso fare degli altri passi avanti verso un conflitto che coinvolgerebbe immediatamente oltre alla Cina anche la Russia, il Giappone, tutti i paesi della NATO e di conseguenza quasi l’intero pianeta!

L’opzione nucleare con Kim Jong -Un non è mai stata realistica ma oggi lo è meno che mai. Gli Stati Uniti lo sanno bene, anche se non lo dicono, perché dovrebbero ammettere di essere stati beffati. Forse anche per questo i mercati finanziari si rilassano e dormono sonni tranquilli. Per quante dimostrazioni muscolari militari entrambi i rivali possano inviare alle televisioni di tutto il pianeta, nessuno sta davvero prendendo in considerazione l’escalation  verso un conflitto termonucleare globale.

 

Stefano di Tommaso

 




ECCO DA QUALE SETTORE PROVERRÀ UNA PARTE CONSISTENTE DELLA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE

(da una ricerca dell’Economist di Venerdì 18 Agosto)

Quasi non ci accorgiamo del cambiamento ma ogni giorno che passa consumiamo -direttamente o indirettamente- qualche frazione infinitesimale di carburanti in meno e utilizziamo un po’ di più i sistemi elettrici per spostarci, illuminare, effettuare lavori, riscaldarci o raffrescarci e molti di questi sistemi elettrici/elettronici non potrebbero funzionare senza le batterie di ultima generazione (quelle al litio e simili).
 

I sistemi di accumulo risultano fondamentali inoltre anche per il recupero di energia e dunque per la sua economizzazione. L’esempio più evidente ai nostri occhi sono le auto ibride-elettriche ma in realtà il fenomeno è molto più pervasivo e riguarda anche tutti gli altri sistemi di propulsione e movimentazione, le abitazioni, le fabbriche, e persino l’agricoltura. Ma siamo solo agli inizi di una nuova rivoluzione tecnologica che ci migliora la vita.

La maggior parte delle persone che oggi acquista (a caro prezzo) un’automobile Tesla oppure (a più buon mercato) una Nissan Leaf non lo fa per aiutare l’ambiente, bensì per i vantaggi di confort, prestazioni e innovatività che esse esprimono. Eppure, nonostante ancora oggi i produttori di auto elettriche perdono denaro (o ne guadagnano pochissimo) a costruirle, un recente studio dell’Economist, indica la previsione di una crescita esponenziale per la produzione di auto elettriche nei prossimi vent’anni.


Ma l’industria delle batterie non si muove solo per le automobili. Il primo utilizzo massiccio al di fuori del settore auto sarà quello dell’autonomia energetica delle abitazioni, che in questo modo potranno trovare conveniente l’utilizzo dei pannelli solari.

Altri fronti di forte innovazione nelle batterie, oltre a quello di migliorare la loro capacità, riguardano il numero di volte possibili di carico e scarico dell’elettricità immagazzinata nonché la sua velocità: più saranno elevati e più le batterie rassomiglieranno a dei supercapacitori e potranno perciò essere utilizzate meglio e più economicamente, dunque anche in altri settori. Ma soprattutto è il loro costo di produzione che si prevede possa crollare letteralmente nei prossimi anni, tanto per le fatidiche economie di scala delle nuove mega-fabbriche quanto per l’avanzare della ricerca tecnologica.

Ma ci sono almeno due fattori di incertezza nelle previsioni di un drastico calo dei costi di accumulo di energia:

– il costo futuro del litio e degli altri metalli pregiati utilizzati nella produzione di sistemi di accumulo, che sino ad oggi in media è sceso anch’esso grazie alle economie di scala di estrazione, ma che in futuro potrebbe riservare delle sorprese, come è accaduto ad esempio per il Cobalto o il Nichel. Si narra che siano in Cina e in Corea del Nord i territori più ricchi al mondo di giacimenti di metalli e terre rare utilizzati per la produzione di batterie e questo potrebbe aiutare a spiegare parte dei sommovimenti geo-politici in corso.

– Il rischio che il perseguire economie di scala da parte di tutti i grandi produttori di batterie possa generare enorme sovracapacità industriale rispetto all’assorbimento da parte del mercato di sbocco. Il fenomeno è già in atto e potrebbe creare molto scompiglio se dovesse degenerare.

Viceversa potrebbe risultare sempre più profittevole recuperare materie prime pregiate dal riciclo di batterie e altri materiali esausti mentre si prevede un vero e proprio boom nell’utilizzo delle nanotecnologie per la fabbricazione dei catodi (uno dei due componenti tecnologici fondamentali di ogni sistema di accumulo di energia, insieme agli elettroliti).

Come dicevamo più sopra tuttavia una parte rilevante che si prevede possa svilupparsi sono i grandi sistemi di accumulo stazionari, utilizzati come riserva di capacità elettrica delle reti di distribuzione per i momenti di picco, come pure per ottimizzare l’utilizzo di energie generate da fonti rinnovabili (sole e vento innanzitutto).

Tesla ha anticipato tutti con la proposta commerciale al grande pubblico della sua “Powerwall” da piazzare in garage, ma molti altri produttori come Nissan, ad esempio, stanno attrezzandosi a fare anche di meglio. Il mercato della sostituzione dei generatori di emergenza (tipicamente diesel, di piccola e media taglia ed estremamente rumorosi) è molto ampio nel mondo ma sino ad oggi sono risultati più cari e più complessi da manutenere.

La doppia prospettiva di riduzione dei costi dei componenti e di maggior diffusione della normativa in materia di emissioni inquinanti potrebbe cambiare decisamente lo scenario e aprire nuove possibilità alla tecnologia che vi sottende. I sistemi di “storage” più grandi (dal megawatt in su) utilizzano infatti anche diversi materiali per l’accumulo e molta più intelligenza elettronica per ottimizzare la propria resa nonché la durevolezza. Il loro utilizzo peraltro si estende quantomeno alla capacità di assicurare continuità all’elettricità fornita, eliminando o riducendo fortemente in un prossimo futuro i rischi di black-out e anche quelli di rottura dei sistemi elettronici cui sono collegati.

Esiste un mondo dorato di applicazioni “premium price” (cioè più o meno indifferenti alle tematiche di costo intrinseco) nella ricerca di sistemi mobili per l’accumulo dell’energia che a sua volta costituisce un mercato molto appetitoso (ad esempio per le applicazioni militari e aerospaziali) sino ad oggi quasi nemmeno sfiorato dalla grande industria, dove probabilmente sarà la capacità di ottimizzare le prestazioni e quella di miniaturizzazione dei componenti a farla da padrona. E come si può ben immaginare i sistemi di controllo e gestione intelligente saranno in questi campi più interconnessi che mai con il successo di queste applicazioni.

La riflessione finale riguarda perciò lo sviluppo economico che può derivare dai sistemi di accumulo di energia, che come si può ben intuire dalle poche considerazioni riportate è molto ampio, e le frontiere dello sviluppo tecnologico ad essi connesso ancora di più. Dunque più ancora che dalla digitalizzazione e dallo sviluppo dei futuri sistemi di intelligenza artificiale i valori in gioco nel campo della gestione energetica nei prossimi tre decenni sono immensi e le opportunità di business sono ancora a portata di mano di chiunque!

Stefano di Tommaso