QUANDO SCENDERANNO I TASSI ?

L’appuntamento estivo dei banchieri centrali a Jackson Hole è stato spesso in passato l’occasione per affermare le indicazioni di fondo e coordinarsi tra loro in tutto il mondo. E stavolta l’incontro non ha deluso le attese: Jerome Powell, governatore della maggiore banca centrale, la Federal Reserve Bank of America (FED), sembra aver parlato con sufficiente determinazione: ”è giunto il momento di riaggiustare la politica monetaria“ nel senso di un allentamento della stretta operata due anni fa. Ma quanto manca perché si passi dalle dichiarazioni ai fatti? I tassi scenderanno anche a casa nostra?

 

ALLA RICERCA DELL’AUTOREVOLEZZA

A dire il vero negli ultimi anni le banche centrali di autorevolezza ne hanno persa parecchia. E infatti il tema del simposio non poteva parlare più chiaro: “Riaffermare l’efficacia delle politiche monetarie”. Viviamo in un’epoca in cui le principali divise monetarie sono dette “fiat currencies”, perché non risultano legate a particolari riserve di valore e dunque battono una moneta che prescinde dal cosiddetto “valore intrinseco” originario. Pertanto le politiche monetarie, per risultare efficaci, debbono riuscire ad avere un impatto sull’economia reale. E di norma una buona maniera per farcela è quella di anticipare gli eventi, piuttosto che reagire pedissequamente di conseguenza.

LA STORIA RECENTE

Due estati fa i banchieri centrali erano rimasti beffati dagli eventi e a Jackson Hole commentarono assai poco il rapidissimo aumento dei tassi d’interesse cui furono costretti per via dell’inflazione, inizialmente da essi giudicata con troppa superficialità “temporanea”, chiudendo però di fatto il recinto dopo che i buoi erano fuggiti. L’anno scorso questi tassi sembravano aver raggiunto la vetta. Ma poi ci sono rimasti un anno intero, senza scendere mai, dal momento che l’obiettivo al 2% dell’inflazione continuava a venire mancato.


Nemmeno l’anno scorso pertanto a Jackson Hole ci si è detto granché, segnalando semplicemente la volontà delle banche centrali di adeguare le politiche monetarie ai dati statistici quando questi avessero segnalato il calo dell’inflazione (la c.d. “data dependency”). Rinunciando in tal modo di fatto a quel ruolo che le banche centrali dovrebbero normalmente avere, anticipando e “guidando”l’andamento dell’economia reale. Non soltanto: spesso le politiche monetarie “data dependent” di fatto assecondano i movimenti del mercato finanziario, più che quelli dell’economia reale, amplificandone le oscillazioni invece di contrastarle.

Non solo dunque negli ultimi tempi FED & compagni hanno letteralmente “perso la faccia”, ma occorre notare che in tutto questo periodo sono lievitati decisamente anche i tassi d’interesse a lungo termine, cioè quelli pagati per interessi dai governi di tutti i Paesi occidentali, notoriamente stra-indebitati, con effetti ovviamente avversi sui bilanci pubblici. Senza contare il fatto che i tassi d’interesse elevati sui finanziamenti ad aziende e privati prelevano ricchezza dall’industria e dal commercio per ingrossare i redditi della finanza, frenando in tal modo lo sviluppo economico.


COME CAMBIERANNO LE VALUTAZIONI D’AZIENDA

I tassi a lungo termine poi risultano cruciali per le valutazioni d’azienda, soprattutto per quelle piccole e indebitate. Non per nulla le quotazioni delle imprese quotate al segmento Growth delle Borse Euronext sono scese moltissimo negli ultimi anni, talvolta sotto al patrimonio netto. Lo stesso vale per l’indice americano Russell 2000, che solo recentemente ha ripreso un po’ di fiato. In America anche a buona ragione, visto che ancora il 40% dei titoli di questo indice stenta a produrre profitti!


Dunque stavolta l’indicazione fornita dal banchiere dei banchieri appare inequivocabile. Potrebbe inaugurare una stagione di ribassi dei tassi e di rialzo dei titoli azionari “sottili”, soprattutto se in autunno sarà seguita da un comportamento coerente, conseguente (e auspicabilmente graduale) all’annuncio dato. La FED potrebbe anzi essere finalmente tornata ad anticipare i mercati, di fatto realizzando una “guidance” che non può che risultare benefica e stabilizzatrice, soprattutto se il “taglio” dei tassi interverrà prima (o in assenza) di una recessione economica americana, sebbene le parole di Powell siano rimaste vaghe relativamente alla tempistica e all’ampiezza della manovra.

LA DEBOLEZZA DEL DOLLARO

I contratti derivati sui mercati finanziari internazionali infatti scontano già una discesa entro la fine dell’anno dei tassi a breve termine (quelli governati dalla FED) di almeno un punto percentuale pieno (vale a dire dal 5,25% al 4,25%), che poi è esattamente il differenziale attuale con il tasso di sconto praticato dalla Banca Centrale Europea. E i mercati sembrano avere preso molto sul serio questa indicazione, tanto che il Dollaro americano si è immediatamente deprezzato, cosa entro certi limiti positiva un po’ per tutti, dal momento che in passato la sua forza aveva creato importanti e inutili squilibri nel commercio globale. Ovviamente rimane da tenere in conto la possibile evoluzione delle tensioni geopolitiche oggi in atto, prima di poter affermare che il biglietto verde continuerà la discesa.


La Banca Centrale Europea (BCE) ad esempio, la cui euro-zona a differenza dell’economia americana già da un paio d’anni non cresce, non può quindi permettersi una Divisa Unica troppo forte ed è piuttosto probabile che calerà di conseguenza ulteriormente il suo tasso di sconto.

LA ZONA EURO

Nel recinto della zona Euro tuttavia ci vorrà ancora parecchio prima di poter tornare a parlare di efficacia delle politiche monetarie della BCE. E’ dai tempi di Mario Draghi infatti che la banca centrale non mostra alcun segno di autonomia rispetto a quella degli Stati Uniti d’America. Non per niente le uniche economie che danno segni di risveglio nel vecchio continente sono quelle che non hanno adottato l’Euro, come la Svizzera, la Norvegia, i paesi dell’Est Europa e -ultimamente- il Regno Unito.

Eppure la BCE ha un ruolo fondamentale per assicurare la stabilità dei debiti pubblici delle diverse nazioni che vi aderiscono. Dunque avrà molta più necessità della FED di tentare di guidare al ribasso i tassi d’interesse pagati sul debito pubblico. E anche la struttura industriale del vecchio continente ha un deciso bisogno di ridurre la spesa per interessi, dal momento che la produzione arranca e i consumi ristagnano.

Ma soprattutto l’Euro-zona deve riprendere pesantemente a investire nelle nuove tecnologie, essendone rimasta fortemente arretrata. E oggi con i tassi d’interesse attuali e con la scarsa liquidità in circolazione, né le imprese né i governi possono permetterselo. Ecco in breve per quali ragioni i tassi d’interesse, a prescindere dal fatto che in America si materializzi o meno una recessione (che di fatto in Europa c’è da un bel po’ di tempo), dovranno necessariamente scendere parecchio.


QUANTO DURERÀ LA DISCESA ?

Quando ciò potrebbe accadere tuttavia non è così chiaro, dal momento che l’inflazione dei prezzi è rimasta strisciante e dal momento che il suo calo appare soprattutto dovuto al ribasso dei prezzi delle materie prime, più che ai consumi (che erano già risicati In Europa e che non sono calati invece negli USA). Le guerre potrebbero spingere nuovamente al rialzo il prezzo del petrolio, cioè quello dell’energia, che in Europa risulta un nervo scoperto, dopo il taglio del gas importato dalla Russia. Dunque è possibile che, dopo le elezioni americane, questi prezzi riprendano a correre, con il rischio che riparta l’inflazione, tagliando forse le gambe alle volontà dei banchieri centrali. Ma non alle loro necessità. Almeno per un po’ i tassi dovranno scendere ugualmente, per riportare in equilibrio la spesa pubblica per interessi.

E’ quindi possibile che presto i tassi d’interesse vengano guidati al ribasso dalle banche centrali “a prescindere” dalle notizie statistiche sull’inflazione, ma sul lungo termine non è detto che potranno restare bassi. Non importa: oggi i mercati finanziari ne hanno comunque già ricevuto un sollievo: i titoli di stato si sono rivalutati (anche per la diminuita allerta sulla capacità dei governi di remunerare il servizio del debito) e si sono visti recuperi delle quotazioni dei titoli azionari di minor dimensione ovvero di quelli alle prese con maggiori oneri finanziari.

E I TASSI PRATICATI ALLE IMPRESE SCENDERANNO ?

Anche gli interessi sul debito (e i relativi “spread” praticati sul tasso interbancario) potrebbero manifestare una riduzione con i prossimi “tagli”, dal momento che la fine delle politiche monetarie restrittive dovrebbe anche consentire maggior liquidità al sistema bancario e provocare dunque maggior disponibilità di credito. Questo però potrebbe valere per i finanziamenti erogati sul mercato dei capitali dagli intermediari finanziari non bancari, i quali in tal modo potrebbero riallinearsi alle condizioni praticate dal sistema bancario.


Le banche invece non ci stupirebbe che mostrino -anche in fase di allentamento delle politiche monetarie- una qual certa rigidità al ribasso dei tassi praticati al pubblico, per due grandi motivi:

  • il primo è che non esiste praticamente più la concorrenza in ambito creditizio, e
  • il secondo motivo sono le innumerevoli “regolamentazioni” del capitale proprio come calcolato ai fini di vigilanza, che impongono agli istituti politiche del credito sempre più severe e dunque sempre minor disponibilità per i soggetti più deboli.

Come dire peraltro che, anche qualora tutto andasse nel migliore dei modi, i tassi scenderanno per tutti, tranne che per buona parte delle piccole imprese italiane! Sic transit pecunia mundi…

Stefano di Tommaso




NON RESTA CHE L’ORO

In attesa di una panoramica più precisa che potrebbe emergere dal convegno annuale dei banchieri centrali di tutto il mondo la settimana prossima a Jackson Hole (stavolta sembrano fare molto sul serio e il tema prescelto riguarda proprio la loro credibilità: “riaffermare l’efficacia delle politiche monetarie”) gli analisti si interrogano tanto sulle prospettive dell’economia reale quanto su quelle dei mercati finanziari. Nel dubbio, il metallo giallo appare come la sponda più sicura…

 

LE PROSPETTIVE DELL’ECONOMIA REALE E QUELLE DEI MERCATI FINANZIARI

Le prime, per una volta, sembrano oggi più legate alle seconde di quanto storicamente sia successo e i motivi sono strettamente congiunturali:

  • i mercati borsistici hanno ripreso vigore ma, al tempo stesso, appaiono decisamente sopravvalutati, anche grazie all’euforia per le nuove tecnologie e i profitti aziendali;
  • le tendenze macroeconomiche che a fine Luglio lasciavano presagire una recessione oggi sembrano migliorate, ma restano pur sempre incerte, non avendola fugata del tutto.

Dunque le borse valori restano liquide e speranzose in un allentamento della politica monetaria da parte delle banche centrali, ma temono segnali di una possibile recessione dall’economia reale. Che però, ancora una volta, tarda ad arrivare, almeno per il continente americano.

Nel frattempo ci si interroga però sulla sostenibilità degli attuali livelli dei listini borsistici, dal momento che sono vicini ai massimi storici di sempre.

LE BORSE SONO SOPRAVVALUTATE?

Per comprendere se le borse sono sopravvalutate, tre sono i parametri più comuni per la valutazione delle imprese quotate: il CAPE (rapporto prezzo/utile aggiustato ciclicamente), il P/E forward (rapporto prezzo/utile basato sugli utili previsti per l’anno in corso o quello successivo) e infine il ”Modello Fed”, che confronta i rendimenti degli utili azionari con quello dei rendimenti obbligazionari. Tutti e tre suggeriscono che le quotazioni delle grandi multinazionali quotate sulle borse americane sono attualmente sopravvalutate, non solo rispetto ai livelli storici, ma anche rispetto a quelle delle imprese di più piccole dimensioni, a quelle degli altri mercati finanziari internazionali, alle obbligazioni societarie e ai titoli di stato. Secondo questi indicatori il recente rimbalzo delle azioni a grande capitalizzazione (dopo il “lunedì nero”) potrebbe essere un fenomeno ingannevole, destinato a ridimensionarsi.

L’INDICE ”CAPE”

sviluppato dal professor Robert Shiller, è un parametro popolare tra gli investitori per esaminare le valutazioni espresse dal mercato. Secondo questo parametro l’indice di Wall Street Standard & Poor’s 500 è attualmente valutato 35 volte gli utili medi dell’ultimo decennio, aggiustati per l’inflazione, il che lo rende il terzo parametro più caro della storia, dalla fine del XIX secolo. E’ persino più caro di quello del picco delle quotazioni azionarie prima della crisi del 1929.

I

L RAPPORTO P/E FORWARD

si basa sulle previsioni degli utili degli analisti, è stato monitorato dal 1985 da IBES (ora parte del London Stock Exchange Group). Come il CAPE, il P/E forward suggerisce che le quotazioni azionarie sono in media attualmente molto elevate, anche se leggermente più economiche rispetto agli anni di picco del 2000 e della fine del 2020.

IL “MODELLO FED”

coniato dallo stratega Edward Yardeni alla fine degli anni ’90, confronta il rendimento implicito dei titoli azionari (utile per azione diviso per il loro prezzo di mercato) con i rendimenti dei titoli obbligazionari considerati privi di rischio. Spesso utilizzato per determinare il premio per il rischio dell’investimento azionario, attualmente esso indica una certa sopravvalutazione di quest’ultimo. Un mese fa, quando i rendimenti dei Treasury a 10 anni erano più bassi, l’S&P 500 era al suo livello più caro dal 2002.


Anche se lo spavento sui mercati finanziari sembra oggi quasi del tutto rientrato, tuttavia gli investitori, nel tornare alla normalità, tendono ad esprimere maggiore prudenza e approfittano della rotazione dei portafogli in corso per selezionare meglio i titoli.

I TASSI A LUNGO TERMINE NON SCENDONO

Al tempo stesso è durata poco anche la grande domanda di titoli a reddito fisso che era conseguita alla forte volatilità delle borse valori. La situazione di timore aveva portato al rialzo le quotazioni dei titoli obbligazionari e dunque al ribasso i tassi d’interesse a lungo termine espressi da questi ultimi. Oggi siamo quasi ritornati alla situazione pre-crisi e sì spiega anche così il ritorno al 4% del rendimento dei titoli decennali del Tesoro americano.

I gestori del risparmio tuttavia, fugato lo spavento, devono fare i conti non soltanto con l’ipotesi di una recessione (che per il momento sembra quantomeno rinviata all’anno prossimo), bensì anche con la possibilità di nuovi importanti conflitti bellici. Senza peraltro tralasciare né i rischi collegati all’eccesso di indebitamento di tutte le principali nazioni, e nemmeno le forti analogie dell’attuale congiuntura con la situazione del 2008 prima dell’innesco della grande crisi: la sovrabbondanza di strumenti finanziari derivati quali l’eccesso di indebitamento del sistema nel suo complesso, l’artificialità della liquidità che oggi droga le valutazioni dei mercati, o la precarietà dei bilanci delle principali banche del pianeta (in difficoltà per i finanziamenti concessi al settore immobiliare e detentrici di grandi quantità di titoli di stato, a loro volta a rischio di default).

IL METALLO GIALLO COME PRINCIPALE BENE RIFUGIO

I gestori del risparmio e gli investitori istituzionali hanno poi davanti a loro l’incubo della riduzione del potere d’acquisto dei risparmiatori, che potrebbe spingerli a ridurre gli investimenti finanziari per preferire la liquidità o i beni rifugio, come l’oro appunto. Lo scorso venerdì le sue quotazioni hanno superato di slancio i 2500 dollari l’oncia segnando non solo un record storico, ma anche l’avvio di una stagione di possibili consistenti ulteriori rialzi!

Non soltanto infatti il picco della volatilità dei corsi borsistici ha spaventato i più, ma la tendenza di fondo del mercato lascia temere che la volatilità non si fermerà agli acquazzoni di inizio Agosto. Forse anche per questo le banche centrali di tutto il mondo stanno accumulando da anni riserve in oro fisico, come si può leggere dal grafico qui riportato:

GLI INVESTITORI ORA SONO PIÙ PRUDENTI

Nel grafico qui sotto riportato si può vedere quale effetto abbia avuto sul risparmio gestito lo spavento che è seguito al “lunedì nero”.

Inoltre i timori di una recessione non sono stati completamente fugati. Spaventa ad esempio la posizione di allerta espressa da Goldman Sachs a proposito delle prospettive di disoccupazione americane, come si può leggere dal grafico qui sotto riportato riguardo alle previsioni per le buste paga non-agricole nel terzo trimestre 2024:


I TASSI D’INTERESSE SONO ATTESI IN CALO

La conseguenza pratica dei timori per l’economia reale è che il mercato finanziario sta prezzando una decisa riduzione del tasso di sconto (di oltre un punto e mezzo percentuale rispetto agli attuali livelli) da parte della banca centrale americana, cui potrebbero fare seguito quasi tutte le altre banche centrali, come si può vedere dal grafico qui riportato.

Ora però il punto è che il prezzo di mercato delle opzioni non fornisce certezze riguardo ai tagli dei tassi, bensì solamente delle aspettative. E nei prossimi mesi ancora una volta le attese di mercato potrebbero risultare fallaci, (cioè la Federal Reserve potrebbe tagliare i tassi di minor misura o più lentamente). Questo potrebbe accadere per mille e un motivo, anche qualora l’economia americana dovesse risultare in rallentamento (il che appunto non è una certezza).

CONCLUSIONI

Se però ancora una volta le aspettattive di taglio dei tassi d’interesse dovessero rimanere deluse, le quotazioni dei principali indici azionari a Wall Street, oggi tarate su quelle attese di mercato, potrebbero scendere. E il prezzo dell’oro, oggi visto più che mai come bene rifugio per eccellenza, al riparo anche da possibili nuove sorprese dell’inflazione, potrebbe salire ancora una volta!

Non è dunque un caso che il mercato a termine (futures) esprima attese al rialzo per il metallo giallo, visto come una riserva di valore migliore di molti altre categorie di investimento e, per di più, suscettibile peraltro di ulteriori rivalutazioni anche qualora i tassi d’interesse dovessero scendere. Come si può vedere dal grafico qui sopra riportato, che indica l’andamento crescente del prezzo dell’oro espresso dai contratti futures :

Stefano di Tommaso

 




LA FESTA E’ DAVVERO FINITA?

L’America sembra aver dismesso l’entusiasmo dilagante per le nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale che prospettavano una seconda rivoluzione digitale, così come sembra che dopo il “lunedì nero” sia aumentato il numero di scettici sul “soft landing” e, in teoria, molti speculatori sono stati costretti ad abbandonare la giostra del “carry trades” sullo Yen giapponese che li spingeva a gonfiare i portafogli di titoli azionari con “denaro facile”. Anche la liquidità del mercato azionario sembra essersi improvvisamente ridotta a causa del grande travaso di denaro, fuggito verso il mercato dei titoli a reddito fisso dopo l’impressionante altalena delle quotazioni della scorsa settimana. Per non parlare della probabile “fine di un’epoca” di calma piatta sul fronte della volatilità delle borse, adesso ritornata a livelli elevati che non si vedevano da mesi.

 

”HARD LANDING” O ”SOFT LANDING”?

D’altra parte gli ultimi dati macroeconomici pubblicati lasciano presagire una prospettiva di rallentamento dello sviluppo economico, una disoccupazione in ulteriore crescita (dunque un possibile calo dei consumi all’orizzonte) e poi gli investitori professionali non dormono tranquilli di fronte all’ulteriore pericolo di una nuova grande guerra tra Oriente e Occidente che, ovviamente, scombussolerebbe non poco la sua stabilità finanziaria. Qualcuno addirittura torna a parlare di “hard landing” (alla lettera: atterraggio duro, cioè passaggio brusco dall’espansione alla recessione) mentre fino a un paio di settimane fa c’erano analisti che prospettavano addirittura un “no landing” (vale a dire nessun rallentamento dell’economia).


DEBITI PUBBLICI FUORI CONTROLLO

Se poi vogliamo completare il quadro degli elementi congiunturali che preoccupano occorre ricordare il fatto che i bilanci pubblici di tutte le principali economie del pianeta sono appaiono non solo costantemente in deficit, ma addirittura i debiti pubblici che ne conseguono stanno addirittura accelerando la loro crescita e che, ovviamente, questo determina la difficoltà dei tassi d’interesse a scendere in modo più deciso e l’improbabilità di una riduzione più marcata dell’inflazione dei prezzi, a causa della svalutazione monetaria che rappresenta l’ovvia conseguenza della monetizzazione progressiva operata dalle banche centrali su una almeno una parte dell’enorme massa di debito pubblico.

ADDIO ALL’ERA DI “GOLDILOCKS”?

Come si può constatare dai fatti appena citati insomma, nelle scorse settimane gli operatori economici sembrano essersi improvvisamente risvegliati dal letargo in cui erano caduti per mesi, coccolati dalle ottime prospettive dipinte dagli economisti ispirati dalla filosofia di “Goldilocks” (la bambola dai riccioli d’oro). E quel risveglio li ha costretti a prendere atto di tutti i rischi appena indicati. Che sembrano averli convinti del fatto che, almeno per le borse, ”l’aria che tira” sembra essere definitivamente cambiata.

Ma sarà davvero così oppure si tratta di un giudizio che rischia di risultare quantomeno affrettato? È vero che grande è stato lo spavento appena vissuto con il “lunedì nero” dei mercati finanziari. Ed è altrettanto vero che quei rischi testé citati , occorre fare chiarezza, esistono eccome! C’è anche tuttavia -incredibilmente- sull’altro piatto della bilancia una lunga serie di ulteriori indicazioni economiche e finanziarie le quali potrebbero spingerci invece a rivedere all’insù le prospettive macroeconomiche.

MOLTI DATI MACRO SONO POSITIVI

Neanche a citare insomma Mark Twain, quando spiegava che tracciare previsioni è sempre molto difficile, specialmente se riguardano il futuro! Non soltanto infatti sono ancora ottime le attese di crescita per il terzo trimestre (quello in corso) del prodotto interno lordo americano, il quale di solito anticipa quello di buona parte del resto dell’Occidente. Non soltanto la corsa globale all’acquisto di armamenti procura un indubitabile stimolo alla crescita economica


Wall Street ora si aspetta numerosi “tagli” dei tassi d’interesse dalla banca centrale, i quali potrebbero avere un ulteriore effetto di stimolo per l’economia. E, soprattutto, è rimasta l’aspettativa di una copiosa crescita dei profitti delle società quotate, misurabile indirettamente dalle condizioni implicite dei mercati finanziari in una crescita media -per le imprese americane- del 12% da qui a fine anno. Ben oltre dunque le attese sulla crescita del prodotto interno lordo (circa il 2,5%) e di quelle sulla produzione industriale, che viene addirittura prevista sotto zero anche quest’anno.

LE BANCHE CENTRALI

C’è inoltre da tenere conto del fatto che la possibile inversione di rotta delle banche centrali, sebbene già considerata tardiva dalla maggior parte degli osservatori, comporterà non soltanto la riduzione dei tassi d’interesse a breve termine (quelli a lungo termine sono appena calati vistosamente quando i disinvestimenti dalle borse hanno fatto crescere le quotazioni dei titoli a reddito fisso riducendone la redditività implicita) bensì anche l’allentamento della politica monetaria, cosa che potrebbe rilanciare la liquidità.


E quest’ultima può risultare forse il primo e più importante fattore a favore della ripresa della corsa dei listini azionari. Dopo una pausa estiva che per fattori stagionali è quasi sempre ballerina e dopo un inizio d’autunno che potrebbe addirittura risultare riflessivo, molti analisti sono pronti a scommettere che le borse nell’ultima parte dell’anno potrebbero addirittura segnare nuovi record!

MY TAKE

Non ne sarei però così sicuro, per un numero infinito di ragioni pratiche che riguardano innanzitutto la psicologia prevalente sui mercati nonché le caratteristiche implicite dell’industria del risparmio gestito, che a un certo punto ha bisogno di fare cassa per soddisfare le richieste di recesso da parte dei sottoscrittori e che per farlo sarà costretta ad abbandonare altre posizioni azionarie. Non soltanto: il possibile calo dei tassi d’interesse potrebbe affliggere le prospettive di guadagno delle principali istituzioni finanziarie e rilanciare gli investimenti in immobili, che fino ad oggi risultano depresse. Due elementi che, inevitabilmente, possono ridurre almeno in parte la corsa gli investimenti in titoli azionari. Ma il ragionamento sopra riportato, espresso da chi si aspetta altri avanzamenti del listino di borsa, non fa una piega. Spesso le borse salgono quando l’economia rallenta e viceversa.


“MAGNIFICENT SEVEN” VS. “RUSSELL 2000”

Così come occorre tener conto della caratteristica principale dell’ultimo clamoroso movimento prima al rialzo e poi al ribasso dei principali indici di borsa: questi ultimi erano mossi quasi esclusivamente da pochissime grandi multinazionali tecnologiche e, dopo lo sgonfiamento dell’ultima bolla speculativa e le prese di profitto di chi ci aveva costruito grandi plusvalenze, era abbastanza normale attendersi un brusco ribasso di quegli stessi indici. Queste imprese tuttavia continuano a macinare grandi profitti e a investire pesantemente sul futuro: due fattori che molto probabilmente impediranno loro di cadere in disgrazia, nonostante la rotazione dei portafogli.


Nel medesimo ultimo anno tuttavia erano rimaste al palo le quotazioni di un notevole numero di titoli azionari emessi da società quotate di minori dimensionI: quelle rappresentate dall’indice “Russell 2000” a Wall Street. Anche a causa del fatto che la categoria di queste ultime è rimasta segnata più delle altre dal rialzo dei tassi d’interesse, ora essa potrebbe beneficiare più delle altre di un loro eventuale ribasso, e non soltanto in America. Casomai il punto è -in questo caso- lo “stock picking”: ci sarà un’ovvia selezione delle imprese più promettenti e dei settori considerati più “sexy”, dal momento che lo scenario di fondo dell’economia non è tale da consentire facili entusiasmi.


Ma basteranno quei -pochi- titoli più proiettati verso il futuro a trascinare al rialzo indici borsistici come lo “Standard & Poor 500”? Probabilmente no. Non basteranno. Occorre tenere conto del peso specifico di giganti come Apple, Google, Microsoft o Tesla per riuscire a orientarsi sul listino di New York. E questi ultimi sono tutti fortemente dipendenti dall’andamento futuro dei consumi per poter continuare a macinare grandi profitti. Il ragionamento dunque torna in maniera circolare alle attese relative allo sviluppo economico, ai salari, alla disoccupazione e al conseguente potere d’acquisto dei consumatori, che anche per le borse valori risultano fondamentali.


OLTRE LA “SAHM RULE”

Per riuscire a pronosticare la recessione è interessante un nuovo indicatore simile alla “Sahm Rule” che però combina i dati sui posti di lavoro vacanti e quelli sulla disoccupazione. Si basa sulla differenza tra la media finale a 3 mesi del tasso di disoccupazione e il suo minimo negli ultimi 12 mesi -da un lato- e la differenza tra la media finale a 3 mesi del tasso di posti di lavoro vacanti e il suo massimo negli ultimi 12 mesi, dall’altro. Quando l’indicatore raggiunge il livello di 0.3 una recessione potrebbe essere in arrivo; quando arriva a 0.8 la recessione è iniziata di sicuro.

Questo indicatore rileva la recessione prima della Sahm Rule cioè 1/2 mesi dopo il suo inizio, mentre la Sahm Rule la rileva almeno un mese dopo. Tracciando con questo indicatore i dati storici si esso identifica perfettamente tutte le recessioni dal 1930, mentre la Sahm Rule non funziona prima del 1960. Con i dati di luglio 2024. Oggi l’indicatore è a 0,5, quindi la probabilità che l’economia statunitense sia già in recessione è del 40%. In effetti, la recessione potrebbe essere iniziata già nel marzo 2024.

 

Stefano di Tommaso




LA RECESSIONE ORA È PIÙ PROBABILE

Mentre gli ultimi dati economici forniscono segnali negativi la Federal Reserve Bank of America (FED) ha ignorato le attese e non ha abbassato i tassi, scatenando il panico sui mercati finanziari, che hanno chiuso una settimana molto negativa e ne hanno iniziato una addirittura peggiore. Il “sell-off” ha riguardato tutte le borse valori del pianeta ma si è concentrato sulle due categorie che fino a ieri erano sugli scudi: le tecnologie e la finanza. A complicare poi il quadro congiunturale si aggiunge la quasi certezza di un nuovo conflitto mediorientale che getta altra benzina sul fuoco del panico.

 


LA RECESSIONE E’ INEVITABILE ?

Non ci sono al momento segnali assoluti recessione in America e l’Europa arrancava da tempo. Ma si accumulano molti elementi che la rendono più probabile. E se la fiducia degli operatori scema e i consumi flettono, allora il costo troppo alto del denaro inizia a pesare molto più di prima. Scoraggia gli investimenti che aiuterebbero il diffondersi delle nuove tecnologie e riduce l’incentivo alle fusioni e acquisizioni tra imprese, le quali generano efficienza e rilanciano le iniziative di sviluppo.

 

Proprio negli USA, cioè nella patria delle grandi multinazionali tecnologiche e dei più importanti costruttori di armamenti (in un momento in cui tutto il mondo li sta rinnovando), l’indice dell’attività manifatturiera ha continuato a scendere negli ultimi otto mesi di fila!

Dato anche il peso degli enormi debiti pubblici dell’Occidente che necessitano continuamente di essere rifinanziati (sino a ieri a tassi pericolosamente crescenti), si diffonde ora il timore di passare in poco tempo dall’inflazione alla recessione senza alcun ammortizzatore.

LA SAHM RULE

C’è un indicatore in proposito che non si è praticamente sbagliato mai in precedenza: la cosiddetta Sahm Rule, che stavolta sembra aver superato la soglia di attenzione (che nel grafico qui sotto viene chiamato “recession trigger”).

I MERCATI FINANZIARI

Nell’ultima settimana hanno stigmatizzato questa preoccupazione generalizzata e di conseguenza i listini sono calati bruscamente, in funzione di una doppia rotazione dei portafogli da parte dei gestori del risparmio: da un lato si diffonde una certa sfiducia nella capacità delle “big tech” di trasformare i grandi investimenti nelle nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale in maggiori profitti. Cosa che ha generato una forte presa di beneficio sui titoli delle multinazionali tecnologiche e poi nella giornata di lunedì 5 agosto si è trasformato in panico: la borsa di Tokyo addirittura ha segnato un -12,4% in un giorno solo, cosa che non accadeva da quasi 40 anni!


Non sarebbe la prima volta che l’intervento tardivo delle banche centrali nel ridurre i tassi d’interesse sortisca l’effetto di stroncare l’economia. Ma la vera recessione che potrebbe interessare le borse valori sarebbe invece quella dei profitti: questi dipendono dalla capacità dei consumatori di mantenere la loro propensione alla spesa anche in presenza di un credito più caro. Cosa che a sua volta è funzione dell’occupazione e dell’incremento dei salari. Qui sotto un indice elaborato da Citibank che non promette nulla di buono:


Ma la rotazione dei portafogli più imponente è quella della transizione dal mercato azionario a quello del reddito fisso (per motivi prudenziali) e dalle attività finanziarie ai beni-rifugio (come i metalli preziosi), in risposta alle attese di un calo generale dei consumi e della progressiva perdita di valore delle principali divise di conto valutario (a causa della monetizzazione dei debiti pubblici) ha già provocato sul reddito fisso un deciso calo dei rendimenti che i mercati attendevano dalle banche centrali.

Tutto ciò rilancia per l’Occidente il rischio di mancare quel “soft landing” (atterraggio morbido) che avrebbe aiutato a sostenere gli investimenti per la diffusione dell’intelligenza artificiale e per la transizione ecologica. Avrebbe cioè tenuto in piedi quei programmi di spesa delle imprese che a loro volta sostengono l’occupazione e consentono loro di incrementare il gettito fiscale delle amministrazioni pubbliche in costante deficit.

L’EUROPA È IN RITARDO ANCHE SULLE ASPETTATIVE

Il fatto è che la capacità di spesa dei consumatori era già stata messa a dura prova dai morsi dell’inflazione (soprattutto in Europa). E oggi i settori più colpiti dal calo delle aspettative di valore sono quelli più dipendenti dall’atteggiamento dei consumatori. I tassi elevati nel credito al consumo danneggiano soprattutto la spesa per beni durevoli, come ad esempio i veicoli, gli elettrodomestici i mobili e la spesa per le abitazioni.


Non è tuttavia un caso che i consumatori più ottimisti della zona euro sembrano quelli residenti in una delle aree apparentemente più in crisi d’Europa: la Germania. La contraddizione tra la fiducia dei consumatori e il calo del prodotto interno lordo è stata evidenziata la settimana scorsa, quando il paese che pare l’unico dell’Euro-zona ad aver subito un forte calo industriale anche nel secondo trimestre dell’anno ha, al tempo stesso, mostrato un deciso miglioramento dell’atteggiamento dei suoi consumatori: secondo un indicatore pubblicato dalla Commissione europea, essa è ora appena al di sotto del livello in cui si trovava a febbraio 2022, cioè prima della guerra in Ucraina e del violenta risalita dell’inflazione. Né la Francia né l’Italia sono minimamente vicine a quella soglia.


La divergenza tra i consumatori tedeschi, può tuttavia essere spiegata almeno in parte dall’importante adeguamento degli stipendi al maggior costo della vita, che in Germania è stato più consistente che altrove. Nel primo trimestre del 2024 i lavoratori tedeschi hanno registrato addirittura il più elevato aumento dei salari reali dal 2008.

Tuttavia, quale che sia la ragione per cui i consumatori tedeschi sono più tranquilli di quelli del resto d’Europa, questa potrebbe durare poco se le imprese non riusciranno a continuare ad aumentare i salari. Il numero di fallimenti in Germania è ai massimi dall’estate del 2016 e sino ad oggi i sussidi pubblici hanno evitato il peggio.

DIFFICILE FARE PREVISIONI

La recessione, sinanco quella severa (che per adesso non sarebbe nemmeno immaginabile) non è perciò quasi mai univoca, né generalizzata o globale. A volte essa riguarda soltanto alcuni territori, altre volte soltanto determinati settori economici, altre ancora determinate zone valutarie. Anche per questi motivi è difficile prevederla. E qualche giornata di “svendite” per le borse valori non è sufficiente a decretarne una in grande stile.

Senza contare ciò che ci insegna la storia recente: poco prima dell’elezione a presidente USA di Donald Trump (nel periodo Agosto-Ottobre 2016) si reputava inevitabile una recessione, che invece subito dopo l’elezione di qs ultimo si è dissolta nel nulla, a seguito delle politiche fiscali espansive da lui adottate e del conseguente recupero di entusiasmo e fiducia degli operatori economici.

Anche quest’anno dunque potrebbe andare così, ma il problema potrebbe risiedere in ciò che succede nel frattempo. I quattro mesi che ci separano dall’insediamento di un nuovo presidente americano potrebbero farci vedere nuovi cali nei consumi e ulteriori tensioni geopolitiche, le quali a loro volta getterebbero un’ombra sinistra sui debiti pubblici e sulla loro sostenibilità, vale a dire sui tassi d’interesse a lungo termine, che notoriamente dipendono assai meno dalle manovre delle banche centrali.

I TIMORI PER UN NUOVO CONFLITTO IN MEDIO-ORIENTE

Le guerre tra l’altro storicamente finiscono per far innalzare il costo delle materie prime ed esacerbare le tensioni sui cambi per i paesi emergenti, perché i disordini favoriscono la valuta che ancora oggi costituisce di per sé una riserva: il dollaro americano. Il loro maggior costo manterrebbe viva l’inflazione dei prezzi proprio mentre lo sviluppo economico si riduce.

Ma quest’ultimo resta solo un timore perché fino alla scorsa settimana i prezzi di petrolio e materie prime erano in discesa.

Anche i timori per i tassi d’interesse appaiono al momento ingiustificati a causa della citata grande rotazione dei portafogli che, spostando denaro dalle borse al reddito fisso, ne calmiera i rendimenti. Ora poi ci si mette il sell-off sulle borse, che ha provocato un deciso calo nei rendimenti, come si può vedere dal grafico qui riportato:

CONCLUSIONI

È corretto dedurne che la recessione è già arrivata? Probabilmente ancora no ma si diradano le speranze di un atterraggio morbido. Anche se il lunedì nero appena vissuto non presagisce automaticamente la prosecuzione dei crolli dei listini a meno di nuovi “cigni neri” come la guerra o altre disgrazie planetarie. Come sempre i momenti di maggiore volatilità dei mercati possono costituire una vantaggiosa occasione di guadagno per chi ha sangue freddo e liquidità da investire, soprattutto dove c’è più valore. Il panico non è mai un buon consigliere.

Ma se anche la nuova guerra del Medio Oriente sarà evitata, l’economia reale in Occidente appare comunque in frenata, cosa che dovrebbe dissuadere dallo sbilanciarsi su nuove speculazioni sui titoli tecnologici, come sul fatto che il calo dei rendimenti che dovrebbe concretizzarsi nella seconda parte dell’anno sgonfierà la capacità degli istituti di credito di continuare a fare ottimi profitti.

Difficile invece dire se si sgonfieranno le quotazioni dei beni rifugio, dal momento che la svalutazione monetaria dovrebbe sostenerli. Ma le criptovalute al momento sono crollate anch’esse, dunque non è detto. Molto dipenderà dalla possibilità che le tensioni geopolitiche rientrino nei ranghi. La prudenza però al momento è d’obbligo: il mese di Agosto riserva quasi ogni anno formidabili sorprese. E quello attuale è anche un anno bisestile…

Stefano di Tommaso