GEOPOLITICA E INDUSTRIA DELL’AUTO

Le innovazioni nella filiera dell’industria automobilistica corrono sul filo delle politiche ambientali, degli interessi strategici dell’industria nazionale e delle infrastrutture cui i consumi si appoggiano. Il risultato è parallelo a quello delle sfere di influenza strategica delle maggiori economie del mondo, l’affermazione delle industrie USA e Cina innanzitutto.

 

Fino a un anno fa sembrava che i mega-investimenti annunciati da Google e Apple per la realizzazione di veicoli elettrici e automatici avrebbero ridefinito gli equilibri nell’industria automobilistica e orientato ogni altra mossa nel mercato. I giganti di internet pianificavano di spendere decine di miliardi di dollari per entrare da vincitori in un mercato stagnante e adagiato su parametri e abitudini oramai completamente desueti, dal momento che le emissioni dannose dei motori termici (i diesel in particolare) dovranno essere gradualmente abolite, non soltanto per gli effetti sulla salute, bensì anche e soprattutto per i noti problemi climatici.

Oggi invece il mercato dell’auto, tanto per decisioni governative, quanto per esigenze derivanti dalle preferenze dei mercati di sbocco, sta ugualmente virando decisamente verso soluzioni motoristiche ibride o completamente elettriche, ma nessuno dei giganti americani di internet che sembrava sarebbero entrati a pie’ pari sul mercato sbaragliando gli “incumbents” ha invece mosso passi decisivi.

Le ragioni per le quali Apple e Google non lo hanno ancora fatto sono probabilmente molteplici, ma in ogni caso la loro sfida sarebbe stata di quelle più rischiose perché, in attesa di possibili (ma improbabili) colpi di scena, chi ha mostrato di volersi muovere maggiormente sono stati i grandi produttori di auto tradizionali e quelli dei paesi asiatici. I primi per difendere un ricco oligopolio, i secondi perché i loro paesi sono assillati più di altri dalle problematiche ambientali

In avanscoperta si è mossa ad esempio la Cina, con la Volvo (divenuta di proprietà cinese) e con la BAIC (un colosso con oltre 16mila dipendenti): la prima ha annunciato che dal 2019 ogni nuovo veicolo sarà elettrico, mentre la seconda ha annunciato la creazione di uno stabilimento in joint venture con Mercedes-Benz dove investiranno insieme 750 milioni di dollari.

Mercedes ha anche annunciato, in occasione del G20, di aver appena investito in Cina oltre un miliardo di euro nella produzione di batterie al litio. L’investimento non è un caso che sia localizzato in Cina, dove più sono reperibili metalli, minerali e terre rare necessari per la produzione di batterie e motori elettrici.

I DUE POLI DI ATTRAZIONE: CINA E U.S.A.


A livello territoriale chi pare avere più chances di successo nella conversione dell’industria dell’auto verso la trazione elettrica non sono però i paesi europei, che pure vantano i più importanti gruppi industriali del settore, bensì due poli industriali agli estremi opposti del mercato:
•da un lato gli Stati Uniti, sede della Tesla e della sua “Gigafactory” per la produzione di batterie al litio. L’America è anche il paese dove più sono state sviluppate avanzate tecnologie di intelligenza artificiale per la guida autonoma dei veicoli, per i nuovi sistemi di controllo della trazione, di gestione dell’energia erogata (finalizzati alla riduzione estrema dei consumi) e dove si toccano nuove vette nella progettazione di nuove tipologie di veicoli e di sistemi di controllo. Gli Usa contano di avere un ruolo principale non tanto nella fabbricazione di veicoli bensì soprattutto nella produzione di loro componenti e sistemi, non solo perché quel ruolo in realtà lo hanno sempre avuto, ma anche per merito dei poli di ricerca e sviluppo delle tecnologie che li contraddistinguono;
•dall’altro lato la Cina, un paese che ha tutta una serie di vantaggi a promuovere tanto l’assemblaggio locale di autoveicoli prodotti da terzi quanto la crescita delle fabbriche nazionali di auto elettriche low-cost (con tutto l’indotto tecnologico che queste possono generare), nonché l’investimento in nuove infrastrutture per la ricarica dei veicoli, la produzione delle batterie a partire dal quasi-monopolio di terre e minerali rari che le appartiene e, soprattutto, la necessità di riuscire dotare buona parte dei suoi cittadini (che ancora non li posseggono affatto) di autoveicoli a basso impatto ambientale che appartengano direttamente alla nuova generazione! Già lo scorso anno, la Cina ha costruito il 43% degli 873mila veicoli elettrici assemblati nel mondo, in aumento rispetto al 40% del 2015.


LA SONNOLENZA DEL CONTINENTE EUROPEO E LA SOLITUDINE DEL GIAPPONE

Numerosi sono i motivi per i quali l’industria automobilistica del continente europeo, se escludiamo qualche incursione di WW e DAIMLER-BENZ, non ha davvero investito molto nello sviluppo di nuovi modelli di auto elettrica. Hanno sicuramente contribuito le divisioni nazionali che hanno limitato la completa integrazione dei mercati di sbocco continentali, una certa arretratezza nella domanda di veicoli di nuova generazione e i timori diffusi di successive difficoltà nell’assistenza e manutenzione dei medesimi, ma soprattutto le ulteriori difficoltà derivanti dalla limitatezza della rete delle stazioni di ricarica delle auto elettriche, hanno molto contribuito a polarizzare l’utilizzo delle auto elettriche nel segmento lusso (di chi dunque dispone anche di altri veicoli) e nel segmento cittadino, dove è più facile disseminare un reticolo di colonnine elettriche.

Ma per assurdo chi rischia di rimanere come il fanalino di coda della filiera è chi più di tutti sino ad oggi e prima di tutti gli altri operatori nel mondo aveva investito nella trazione ibrida degli autoveicoli: il Giappone, sede della Toyota-Lexus e caratterizzato da un elevatissimo livello qualitativo di tutte le proprie produzioni, nonché da un deciso grado di loro innovatività. Il Giappone però non può godere né delle economie di scala del rivale continentale né della filiera di produttori di componenti e sistemi che è basata negli U.S.A.


Non per niente Toyota ha deciso di scommettere pesantemente con la sua ultima nata: “Mirai” nell’unica vera alternativa alle auto elettriche: quella che utilizza le cellule a idrogeno: una fonte di energia potenzialmente ancora più efficiente e, contemporaneamente ancora più pulita, dal momento che la produzione e il futuro smaltimento delle batterie elettriche porta con se altri tipi di problemi ambientali. Si veda al riguardo un recente articolo del Financial Times denominato proprio: “La Scommessa del Giappone sull’Auto a Idrogeno” ( https://www.ft.com/content/328df346-10cb-11e7-a88c-50ba212dce4d ).

Il punto è che lo sviluppo di automobili basate sull’idrogeno comporta il dispiegamento di una fitta rete di colonnine di erogazione del medesimo sull’intero territorio, cosa che, a meno di un ribaltamento delle attuali politiche industriali, il Giappone rischia di non riuscire quasi a fare al di fuori dei propri confini nazionali ! Un peccato per il progresso ma un risultato scontato sotto il profilo geopolitico: la Cina ha bisogno di adottare tecnologie americane per far funzionare le sue fabbriche e l’America ha bisogno delle fabbriche e dei consumatori cinesi per fare profitti con le sue tecnologie.  Per tutti gli altri restano solo mercati di nicchia…

Stefano di Tommaso

 




SULLE BORSE GLOBALI DUE MONDI CONTRAPPOSTI: TITOLI DIFENSIVI O TECNOLOGICI?

Sui listini di tutto il mondo la galassia dei titoli tecnologici appare avere andamenti sempre più contrapposti a quelli di un’altra galassia, quella dei titoli azionari dei comparti tradizionali. Investire sugli uni risponde infatti a logiche molto differenziate dall’investire sugli altri.

 

Sono oramai molti molti mesi che le borse globali galleggiano su livelli record e che, per questo motivo, i gestori del risparmio si interrogano su come orientare gli investimenti per rispondere alle esigenze dei loro sottoscrittori. L’onda lunga delle nuove tecnologie ha favorito guadagni meravigliosi ma sicuramente i titoli “tecnologici” se da un lato promettono ancora performance eccezionali, dall’altro costituiscono una scommessa forte e rischiosa. I loro corsi sono soggetti a violente oscillazioni anche a causa del fatto che la calma piatta in superficie dei mercati ha incentivato una decisa rotazione dei portafogli.

Sino ad oggi poi anche il mercato dei titoli a “reddito fisso” ha fornito ottime soddisfazioni, ma il livello “quasi zero” dei tassi di interesse fornisce poca attrattiva per gli investitori e per questo motivo essi tendono a preferire investimenti azionari “difensivi” cioè orientati verso titoli a bassa oscillazione e con elevate politiche di dividendi.

Quel che accade perciò rassomiglia ad un processo di polarizzazione degli investimenti. È ormai come se ci fossero per ogni grande borsa del mondo due diversi mercati azionari:

•da un lato quello dei titoli azionari emessi da aziende tradizionali, dove gli investitori hanno da tempo rinunciato a fare scorribande e alla speranza di cospicui apprezzamenti in conto capitale, ma dove cercano invece una sponda di lungo termine, che assicuri loro la cedola e la solidità (per “bondificare” cioè “obbligazionarizzare” i loro investimenti).

•dall’altro lato quello dei titoli emessi da start-up tecnologiche, aziende del mondo internet e società con elevato potenziale di crescita: tutti titoli che esprimono invece forti attese di rivalutazione, assieme ad un’elevata volatilità. Questo mercato risponde al veloce cambiamento delle attese man mano che si chiariscono le tendenze di fondo delle curve esponenziali delle performances. Dunque con titoli come Snapchat che vanno giù e quelli come Amazon o Tencent che invece continuano a correre.

Ovviamente gli investitori non sanno bene se e quando saltellare dall’una all’altra galassia, ma appare loro tuttavia abbastanza chiaro che i titoli appartenenti alla prima sembrano divenuti quasi inscalfibili e immutabili alle oscillazioni degli umori persino quando i peggiori timori geopolitici prendono il sopravvento. Dipendono forse maggiormente dalla liquidità dei mercati che però ancora oggi resta molto elevata (vedi il grafico qui allegato che riporta una delle spiegazioni”tattiche” per cui le borse sino ad oggi non sono andate giù: anche nell’ultimo semestre la liquidità sui mercati si è accresciuta ).

Mentre i titoli appartenenti alla seconda galassia (i “tecnologici”) appaiono molto più sensibili alle oscillazioni degli indicatori economici, al trading online e, in definitiva, al “consensus” del mercato. La loro volatilità è infinitamente più alta anche perché settimana dopo settimana qualcuno di essi appare essere un cavallo stanco, altri corrono più delle aspettative e in media scontano maggiormente i timori di un improvviso ridimensionamento dei listini.

Un interessante comparto industriale rimasto forse a cavallo tra i due mondi appare essere quello dell’automobile, dove convivono FCA e GM da una parte, ancora ostinatamente orientati al design più che all’innovazione e dall’altra parte aziende innovative come Tesla, produttrice di auto elettriche supertecnologiche e capaci di guidare quasi da sole. Con tutte le vie di mezzo come Toyota, WW e Volvo, che hanno saltato il fosso della tecnologia di trazione con motori termici tradizionali ma non del tutto e non prevalentemente.  Ovviamente i titoli di Tesla volano, dominati dalle attese sulle consegne di autoveicoli la cui domanda supera di molte volte l’offerta, mentre sugli altri titoli aleggiano minacciosi i nuvoloni della prossima riduzione della spesa per consumi, cui essi possono risultare più sensibili della media.

Utile anche domandarsi chi ci rimette in una tale forte diaspora tra le due diverse tipologie di titoli azionari, mossa dai timori di fondo di possibili ridimensionamenti delle quotazioni. La risposta è che non rientrano in nessuna delle due categorie oggetto di questa polarizzazione i titoli meno liquidi e quelli a minor capitalizzazione. Ma anche quelli emessi da imprese non fortemente caratterizzate come “market leader” di qualche specifico settore, le start-up in generale e forse anche i progetti di IPO. La polarizzazione degli investimenti in fondo è uno dei tanti modi adottati dal mercato per mettersi sulla difensiva !

 

Stefano di Tommaso

 




METÀ ANNO & METÀ DEL GUADO

Giunti alla svolta dell’Estate, all’inizio del nuovo semestre solare e alla vigilia del nuovo G20, proviamo a fare il punto sulla situazione dei mercati e dell’economia globale e, soprattutto, sulla possibilità di una correzione estiva delle borse.

 

Con i prezzi al consumo stabili in Italia a giugno l’inflazione, grande protagonista di timori e aspettative nella prima metà dell’anno, è in calo dello 0,1% all’1,3% mentre nei prossimi mesi dovrebbe restare poco sopra questi livelli (media annua attesa del CPI a 1,5%). Alla stessa percentuale dovrebbe attestarsi in Eurozona la crescita dei finanziamenti ai privati.

L’OTTIMISMO DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA

Draghi perciò gongola: la situazione è in quella perfetta via di mezzo per la prosecuzione degli stimoli quantitativi (tra inflazione/deflazione, crescita moderata e borse non troppo esuberanti) che può permettergli al tempo stesso di continuare quasi indefinitamente a sostenere la liquidità in circolazione e i rinnovi dei titoli di stato italiani (di un eventuale stop se ne riparlerà oramai nel 2018) mentre l’Euro continua ad apprezzarsi sul Dollaro e su quasi tutte le altre valute (cosa molto gradita ai Tedeschi, che stanno partendo per le vacanze sentendosi un po’ più ricchi).

Nemmeno l’Italia trema: le esportazioni italiane vanno ugualmente un po’ meglio di prima (la fiducia delle imprese nel manifatturiero è passata a Giugno a 107,3 dal 106,9 precedente mentre nelle costruzioni sale a 129,8 dal 128,1 di maggio: ai massimi da quasi un decennio) e, se durante il momento di punta del turismo in Italia arriva un po’ più di valuta forte, la cosa non dispiace a nessuno.

L’Euro in salita invece alle borse europee un pochino disturba: chi fa i conti in Dollari continua a cavarsela con le performances ma concorrono alla debolezza delle borse continentali l’instabilità politica e bancaria italiana, gli effetti negativi (assai limitati invero) dell’uscita della Gran Bretagna e i dubbi sulla capacità di Macron di realizzare ciò che ha promesso. La situazione europea tuttavia non riuscirà a influenzare il corso delle borse, anzi fosse per quelle nostrane ci sarebbero anche segnali di cauto ottimismo.

I PERICOLI PER LE BORSE ARRIVANO DA OLTREOCEANO

Il mercato azionario è però sempre più globalizzato e, casomai, il vero pericolo che una correzione significativa su manifesti nel corso del mese arriva dal resto del mondo, dove un certo numero di tensioni stanno acuendosi: dalle difficoltà crescenti della presidenza Trump a quelle geopolitiche mediorientali, dal timore del crollo del sistema finanziario cinese, fino a quello dello scoppio della bolla speculativa derivante dagli eccessi di leva finanziaria di nuovo presenti sul mercato dei derivati (che nel 2008 è stato il vero detonatore).

Bisogna ricordare infine che buona parte degli shock sul mercato finanziario sono stati storicamente generati dalle mosse delle banche centrali e anche stavolta la Yellen potrebbe trovare il modo di portare avanti la tradizione tanto con il suo recente richiamo circa le valutazioni troppo elevate espresse dal mercato quanto per il fatto che un contesto americano di piena occupazione e crescita moderata potrebbe tentare la FED di continuare con il rialzo dei tassi, cosa che però potrebbe-nello scenario attuale- costituire un ulteriore ostacolo alla partenza degli investimenti nelle grandi opere infrastrutturali promesse da Trump.

A ciò va aggiunto che gli operatori si interrogano sulle implicazioni di una crescita economica americana fin troppo moderata che potrebbe far propendere il Congresso americano verso la definitiva archiviazione della riforma fiscale. Già solo questi ultimi due fatti, una volta incorporati nei modelli statistici degli analisti, possono far temere uno scivolone estivo delle borsa americana e, con essa, di buona parte di quelle asiatiche.

Questo non significherà necessariamente l’avvio di una nuova tempesta perfetta dei mercati, per via della crescita economica globale consistente e generata da variabili cosiddette “fondamentali” (demografia, capacità produttiva, tecnologie e globalizzazione). Ma solo che, all’alba del secondo semestre 2017, l’economia globale -giunta a malapena a metà del guado nel suo processo di rinnovamento- qualche ostacolo lungo il suo cammino verso un mondo migliore è praticamente scontato che lo si incontri

 

Stefano di Tommaso




BENVENUTI NELL’ERA DEL QUANTITATIVE INVESTING

Dopo l’euforia dei mercati arriva una fase di consolidamento che vede gli investitori attenti alle nuove tecniche quantitative di costruzione dei portafogli basate sul concetto di “Bondification”. Vediamo cosa significa.

 

C’era una volta il “Trump Trade”, vale a dire quell’euforia dei mercati finanziari che era immediatamente succeduta all’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America, provocando forti aspettative di riduzione della tassazione e incremento degli investimenti infrastrutturali. Per molti mesi i mercati di quasi tutto il mondo (emergenti compresi) sono saliti uniformemente creando la sensazione che la rinnovata crescita economica globale avrebbe risvegliato il mondo dalla deflazione e alimentato guadagni generalizzati sui mercati.

Oggi invece, alla vigilia di un’estate che si preannuncia algida e relativamente povera di novità sostanziali, salvo il forte rischio di un nuovo acuirsi delle tensioni geopolitiche globali (quantomeno in Siria), con il raffreddarsi delle aspettative di inflazione nei paesi OCSE (che si pensava potesse addirittura tornare prepotente sulla scena) molti investitori stanno facendo “ruotare” i portafogli limitando gli investimenti più speculativi, mentre si torna ancora una volta a parlare di “quantitative investing” e, in particolare, di quella nuova tendenza nelle strategie di investimento che seleziona portafogli di titoli azionari configurandoli per avere caratteristiche simili a quelle di un titolo a reddito fisso di natura sintetica, nota come “bondification”.

ALLA SCOPERTA DELLA “BONDIFICATION”

La strategia, al di là delle sue caratteristiche tecniche (di rischio e rendimento) e dell’intelligenza che essa può esprimere, torna oggi in voga per rispondere ad una fondamentale esigenza di combinare prudenza e ritorni significativi negli investimenti da parte dei gestori di fondi pensione, degli amministratori di riserve tecniche delle compagnie assicurative e dei tesorieri istituzionali di qualunque tipo.

Quello che si è visto infatti dopo le ultime, drammatiche crisi finanziarie, è che anche seguendo una politica di forte differenziazione degli investimenti effettuati e anche limitandosi a selezionare titoli a reddito fisso o collegati ad una importante garanzia sottostante, quando i mercati finanziari picchiano, essi tendono a muoversi più o meno tutti nello stesso modo, provocando ingenti perdite di valore anche nei portafogli gestiti dagli investitori più moderati, quelli che avevano sperato di scambiare minori rendimenti potenziali con una maggior protezione dai rischi.

Una volta cadute quelle certezze del passato relativamente alle cosiddette “asset classes” (cioè alla tipologia di titoli disponibili sul mercato), ecco che quegli operatori del mercato finanziario che sono ugualmente costretti a cercare forme di impiego a limitato rischio speculativo e con buona capacità di pagare un reddito periodico, si sono rivolti a sistemi complessi di analisi quantitativa per trovare delle risposte alle loro esigenze.

Il Financial Times di qualche giorno fa per mano di John Authers ne compie un’ampia indagine per comprendere il fenomeno, descritto come il trend del momento dal Rapporto Annuale fornito da “Create-Research” per Principal Global Investors, che ha intervistato oltre 700 gestori professionali di patrimoni i quali, nel complesso, controllano investimenti per quasi 30.000 miliardi di di Dollari.

Il segreto della Bondification sta sicuramente nella selezione scientifica di titoli azionari emessi da grandi società con basso indebitamento, business stabile, buona generazione di cassa e conseguente forte politica dei dividendi. Più o meno il contrario delle caratteristiche dei titoli tecnologici che sono andati a ruba fino a qualche mese fa.

LA “ROTAZIONE” DEI PORTAFOGLI

Non soltanto in tale modo gli investitori più avversi al rischio possono risultare in grado di costruire l’equivalente di un portafoglio obbligazionario evitando di accettare i rendimenti quasi a zero che si trovano ancora oggi sul mercato.

Quel che sta avvenendo è anche che la rotazione dei portafogli nelle ultime settimane derivante dai timori di qualche significativa correzione sui mercati sta spingendo anche gli altri gestori di patrimoni, che normalmente erano più propensi a prendere dei rischi, tra le braccia degli analisti “quantitativi” capaci di costruire portafogli di titoli diversificati non più sulla base delle “asset classes” bensì soprattutto sulla base dei loro indici statistici di rischio, indipendentemente da quale asset class cui appartengono e, ovviamente, alla “bondification”.

IL TRIONFO DEI “QUANTS”

Per comprendere l’attenzione che sta generando il fenomeno della progressiva sostituzione dei “traders” sui mercati finanziari con ingegneri e specialisti di analisi finanziaria quantitativa, può essere utile dare un’occhiata a un articolo apparso su Bloomberg Finance qualche mese fa denominato “Inside A Moneymaking Machine Like No Other” (ecco il link: https://www.bloomberg.com/news/articles/2016-11-21/how-renaissance-s-medallion-fund-became-finance-s-blackest-box ) dove si spiegava la rivoluzione copernicana negli investimenti proposta da Renaissance Technologies, un misterioso e leggendario gruppo economico, gestore di fondi “hedge” e in particolare del “Medallion Fund”, riuscito a generare profitti per 55 miliardi di dollari dai propri investimenti negli ultimi 28 anni senza quasi mai perdere nemmeno nei momenti più difficili.

Renaissance Technologies ha insomma performato meglio di George Soros e Ray Dalio, prendendo tra l’altro un numero di rischi molto minore e in un periodo più breve!

Quale il segreto? Enunciarlo è più semplice di quanto si possa immaginare: mettere insieme e investire in cervelli e conoscenze scientifiche provenienti dai rami più disparati dello scibile per generare tecnologie interpretative dei segnali provenienti dal mondo reale, applicandole negli investimenti azionari. Più difficile è ovviamente farlo davvero, e per un periodo di tempo così lungo come quasi un trentennio.

Ma al di là della storia straordinaria di questa società di investimenti, campione mondiale del settore, l’impossibile risposta all’eterna questione di dove investire nei momenti più difficili oggi arriva soltanto da quelli che una volta erano definiti i “nerds”, gli intellettuali con la testa fra le nuvole. Che oggi -con il loro approccio pragmatico ai numeri della Finanza- più che mai sembrano aver vinto la battaglia per il successo.

Stefano di Tommaso