VALIUM INVESTING

Nonostante molti grandi investitori, economisti e analisti si facciano più insistenti nel suggerire che i mercati finanziari possano essere prossimi ad incontrare grossi problemi, solo pochi giorni fa i maggiori esponenti delle banche centrali, in ritiro a Jackson HOLE sono sembrati non accorgersene, anzi: invece di preoccuparsi di orientare i mercati -quantomeno a proposito dell’andamento dell’economia globale e dell’inflazione, che è alla base delle possibili variazioni dei tassi di interesse- i due supergovernatori hanno badato solo a dare ragione a se stessi, probabilmente anche perché si approssima il momento del possibile loro ricambio e sono perciò entrati in “campagna elettorale”!

Eppure sono veramente molti gli analisti che riscontrano imbarazzanti analogie con il passato, rintracciando nel comportamento troppo rilassato e dunque irrazionale dei mercati i segni distintivi di possibili catastrofi. Di seguito ad esempio la previsione di un analista tecnico (che probabilmente risulta davvero eccessiva):

Tornando ai discorsi dei banchieri centrali a Jackson Hole è risultato ai più deludente il discorso freddo e distaccato di Mario Draghi, presidente della BCE, così orientato a difendere la sua posizione e a celebrare il libero mercato da non accorgersi che il “nulla di fatto” nella sostanza delle dichiarazioni che il mercato aspettava di conoscere dai banchieri centrali riuniti non poteva che generare nuova (e probabilimente ingiustificata) euforia, che ha portato il cambio transatlantico al livello di 1,20 dollari per un euro, da tutti considerato essere la soglia di dolore per le imprese esportatrici europee.

Come più volte fatto notare su queste colonne, il libero scambio di merci e servizi non è tuttavia una panacea per tutti i mali. A volte per esempio favorisce alcuni paesi e ne penalizza altri, soprattutto quando le regole del mercato risultano uguali per tutti solo in apparenza (come accade nell’Eurozona).

Le imprese americane hanno negli ultimi anni beneficiato dei tassi bassi prima di quelle europee ma poi anche a causa di una minor pressione fiscale hanno potuto distribuire i profitti generati aumentando l’occupazione e i salari.

La possibile caduta di competitività che ne poteva derivare è stata mitigata dalla svalutazione del dollaro che, insieme a un certo numero di dazi e barriere all’importazione, permette alle imprese americane di evitare di danneggiare l’occupazione con inefficienza produttiva.

Le nazioni europee continentali hanno potuto moderare la rivalutazione del cambio che necessariamente deriva dal loro fortissimo avanzo commerciale grazie alla zavorra di paesi come l’Italia, pur senza caricarsi dei costi del ns.welfare e dei ns.immigrati. Dunque hanno di fatto beneficiato dell’Unione monetaria, a scapito dei partners piu deboli.

Ma quello che non hanno detto i grandi banchieri (per non deludere i mercati) è che le tensioni che si accumulano sul fronte valutario europeo difficilmente saranno prive di conseguenze sui margini delle imprese esportatrici e sulla loro competitività.

Indubbiamente gli stimoli monetari delle banche centrali hanno fatto bene ai mercati finanziari e, in ultima analisi, anche alla ripresa economica globale, ma da qualche mese si diffonde il timore il loro equilibrio sia sempre più instabile.

Le valutazioni sono alle stelle, la speculazione sui derivati è sempre più a rischio, i mercati asiatici vanno avanti con estremi livelli di indebitamento mentre i debiti pubblici non sono diminuiti rispetto all’ultima crisi finanziaria.

In particolare uno studio recente di Morgan Stanley ha mostrato che la caduta verticale della correlazione tra le diverse asset classes è indice sicuro di irrazionalità degli investimenti mobiliari (https://www.bloomberg.com/news/articles/2017-08-22/wall-street-banks-warn-winter-is-coming-as-business-cycle-peaks)

Al momento perciò le azioni quotate in quasi tutte le borse del mondo sono per la maggior parte sopravvalutate, mentre i mercati si sono fatti sono ad oggi un baffo delle peggiori minacce alla sicurezza nucleare del pianeta, alla sicurezza pubblica delle principali capitali europee, alla possibile instabilità politica tanto del continente americano (possibile impeachment del Presidente) quanto di quello europeo (possibile vittoria dei movimenti populisti).

Ciò che ha prevalso è stata la constatazione dell’indiscutibile successo avuto dai sistemi di investimento passivo in fondi indicizzati. Ovviamente ciò poteva avvenire anche a causa della sempre minore volatilità dei mercati e della liquidità soverchiante che ha favorito l’investimento nei sistemi di trading.

Però la situazione generale ha del paradossale: da un lato tutti consigliano la decisa riduzione dell’esposizione al rischio azionario, dall’altro lato la calma piatta che si costata sui mercati fa pensare che per ogni investitore che ne esce esista almeno un altro che entra. Cosa che fa pensare che la quasi inspiegabile calma piatta possa proseguire ancora per chissà quanto. Magari anche un semestre, dal momento che i primi effetti del “tapering” (restrizione della liquidità disponibile) -che qualche segno dovranno pur lasciarlo- non arriveranno tanto presto.

Per non parlare della stranezza del ciclo economico americano (il più anziano dopo la crisi del 2008) che  un anno fa sembrava volgere al suo naturale esaurimento (dopo sette anni pieni),  oggi invece pare aver ripreso imprevedibilmente vigore, insieme a tutto il resto dell’economia globale e ai profitti delle grandi aziende, che a loro volta hanno generato un moltiplicatore positivo del credito e maggiore liquidità disponibile.

I dati macroeconomici sono infatti assolutamente confortanti e dell’inflazione sembra essersi perduta ogni traccia al punto che la prossima mossa al rialzo dei tassi di interesse in America è prevista per fine anno mentre in Europa si discute se mai avrà luogo nel 2018.

Morale: nessuno è davvero in grado di spiegare cosa succede davvero, meno che meno i famigerati banchieri centrali. Nessuno è tantomeno in grado di fare previsioni sull’andamento delle borse o dei tassi d’interesse, come dimostrato addirittura dal congresso mondiale dei banchieri centrali.

Perciò se da un lato resta consigliabile per i più continuare a diminuire l’esposizione al rischio dei mercati borsistici (quantomeno per la possibilità che con l’autunno riprendano talune fluttuazioni), dall’altro sono oramai molti mesi che uscire quasi totalmente dall’investimento azionario si è oramai inconfutabilmente dimostrato essere un errore serio, persino per i cosiddetti”cassettisti” (che cercano un dividendo da incassare mantenendo l’investimento azionario).

Meglio ingoiare una pillola di tranquillanti e tenere possibilmente i piedi in più scarpe: la nebbia che impedisce di guardare lontano potrebbe permanere a lungo…

Stefano di Tommaso




PER FCA È INIZIATO IL CONTO ALLA ROVESCIA?

Da un anno a questa parte la quotazione delle azioni di FCA è cresciuta di oltre il 100%, ben più dell’indice Standard&Poor 500 che nello stesso periodo ha guadagnato poco oltre l’11%. Una corsa veramente sorprendente, se pensiamo ai già elevatissimi livelli di partenza dei mercati azionari un anno fa.

 


La notizia dell’apprezzamento da parte del mercato per un’azienda che è ancora un po’ italiana è molto positiva, tanto per i detentori del titolo quanto per entrambe le Borse Valori dove è quotato: Wall Street e Milano ma, ovviamente la domanda sulla bocca di tutti è stata: “che succede?”

Apparentemente la risposta ai continui rialzi della valutazione che il mercato esprime sembra essere arrivata con la notizia che il gruppo cinese “Grande Muraglia” (Great Wall) conferma di esserne interessato all’acquisizione, sebbene invece FCA smentisca. Poco dopo è arrivata anche la smentita dai cinesi: interesse all’acquisto si ma sino ad oggi nessun approccio concreto a FCA.

Quindi né questa notizia né quella dell’ottimo andamento aziendale di FCA bastano a giustificare la sua generosa sovraperformance in borsa, tantomeno se teniamo conto del fatto che la capitalizzazione di borsa (in Cina) di Great Wall è di circa 18 miliardi di Dollari, cioè poco superiore a quella di FCA (circa $16,5 miliardi). Great Wall ha inoltre una posizione di cassa appena positiva (pari a meno di mezzo miliardo di Dollari) dunque se volesse davvero procedere all’acquisto di FCA essa dovrebbe prima assicurarsi la disponibilità di cassa di non meno di una decina di miliardi di Dollari, che oggi non ha.

Infine sono in molti a prevedere dei probabili ostacoli alla possibilità che le autorità americane permettano a un gruppo cinese di acquisire il controllo di uno dei tre colossi automobilistici nazionali, sebbene tecnicamente sia controllato dall’estero.

Per questi motivi l’acquisizione di FCA da parte di Great Wall non è così probabile

Ma se è relativamente improbabile che la concorrente cinese possa effettivamente riuscire a completare l’acquisizione, negoziare un prezzo vantaggioso e riuscire a procurarsi le risorse finanziarie per farlo, allora quali altri scenari si aprono per giustificare una così forte corsa al rialzo del titolo FCA? Per cercare di fare luce sulla vicenda va doverosamente ripercorsa la sua storia recente a partire da alcuni fatti importanti che la contraddistinguono:


– l’essere oggi un’impresa automobilista che, grazie al salvataggio e all’integrazione della vecchia Chrysler avvenuta pochi anni fa sotto la presidenza di Obama, può oggi vantare una fortissima presenza in America (è uno dei tre gruppi principali insieme a Ford e General Motors);

– l’appartenere ad un gruppo di azionisti che fa capo alla famiglia Agnelli-Elkan che ha chiaramente mostrato segni di disinteresse alla prosecuzione della permanenza nel controllo della stessa;

– l’avere in corso un processo di ricambio al vertice aziendale (oggi inconfutabilmente rappresentato dal solo Marchionne), che risulta tutt’altro che concluso e che richiede tempi lunghi;

– l’avere in pancia numerosi “pezzi da novanta”: a partire dalla proprietà della Magneti Marelli e quella dello storico marchio “Jeep” che alcuni analisti stimano valere da solo buona parte della capitalizzazione di borsa complessiva del gruppo. FCA controlla anche i marchi Chrysler, Fiat Lancia, Alfa Romeo, Maserati, Dodge Ram eccetera;

– il mantenere un forte collegamento con Ferrari, che da sola capitalizza in borsa più della FCA (ben 22 miliardi) e che rimane controllata da Exor, finanziaria della stessa famiglia Agnelli-Elkann e presieduta dallo stesso Marchionne;

– il fatto che FCA non venda praticamente nulla in Asia, il mercato di sbocco considerato di gran lunga più promettente per il settore auto, tanto per il divario da colmare con il resto del mondo quanto a numero di veicoli per abitante, quanto per la forte dinamica demografica. Questo rende FCA la preda perfetta per un acquirente asiatico.

Dunque possiamo tranquillamente affermare che la crescita del valore del titolo in Borsa da un lato è ampiamente giustificata da una precedente sottovalutazione e dall’altro si può ben comprendere come mai sia rimasta compressa fino a poco tempo fa: una doppia transizione in corso -tanto manageriale quanto dell’azionariato di controllo – non lascia mai tranquilli gli azionisti di minoranza !

Ma torniamo alla domanda delle domande: perché il titolo corre tanto in borsa?

Innanzitutto riprendiamo il tema della valutazione in forma analitica: quanto valgono i singoli pezzi che compongono la galassia FCA? La risposta, se togliamo il valore presumibile della partecipazione in Magneti Marelli (€3 miliardi) e quello del marchio Jeep (stimata in circa €17 miliardi per analogia con le altre case automobilistiche) l’attuale capitalizzazione di borsa (€16,5 miliardi) porterebbe il valore dei restanti marchi (Chrysler, Fiat, Alfa Romeo, Maserati, Ram eccetera) anche al netto degli €4 miliardi di debiti, in territorio negativo. La sola divisione Maserati-Alfa Romeo potrebbe valere 10 miliardi di Euro!


È evidente perciò che l’attuale capitalizzazione di borsa non esprime tutto il potenziale che salterebbe fuori da un eventuale break-up (spezzatino) del gruppo (appunto almeno una decina di miliardi di euro in più di quanto esprimano oggi le borse) e che questo è anche il vero motivo per il quale con ogni probabilità con Great Wall non c’è partita.

Il ruolo di Sergio Marchionne


Ma soprattutto è evidente che a Marchionne -il quale con la programmazione obbligata della sua successione ha avuto dagli azionisti di controllo di fatto il compito di disporre al meglio della loro partecipazione in FCA- sta riuscendo il gioco di portarla gradualmente alla sua corretta valorizzazione, rendendola contendibile non soltanto nel suo complesso ma anche a “pezzetti”, cosa che peraltro faciliterebbe la soddisfazione degli appetiti degli operatori asiatici (gli unici veri acquirenti sul mercato), i quali altrimenti rischiano di trovarsi la strada politicamente bloccata ad acquisire intere aziende che risultino in un modo o nell’altro americane.

Il prossimo passaggio del complicato risiko cui gioca Marchionne è quindi l’indiretta sollecitazione di altri possibili interessi, magari solo per alcune singole tessere del puzzle FCA (Jeep o Maserati, per esempio), ma gli analisti più avveduti sono convinti che la fine dei giochi l’operazione che prenderà forma non consisterà in uno spezzatino, bensì nella possibile fusione di FCA intera con uno dei grandi concorrenti che fino a ieri hanno storto il naso ad un’aggregazione (GM, FORD, TOYOTA, TATA, PSA ecc…) e che oggi, di fronte all’evidenza di alternative credibili per FCA, non potranno più rimandare una decisione al riguardo.

Una soluzione che risulterebbe molto più psichedelica di quelle oggi circolano sul mercato, e sicuramente la più interessante per un uomo tanto ambizioso quanto machiavellico come lui!

Stefano di Tommaso




L’EFFETTO “AMAZON” SULLA CRESCITA E SUI CONSUMI GLOBALI

Una delle obiezioni più frequenti mosse dagli scettici nel rifiutare di voler prendere atto di un nuovo ciclo economico espansivo risulta essere proprio la debolezza dell’inflazione riscontrata nelle ultime statistiche.

Se ci fosse davvero una crescita economica -essi notano- allora la spesa per consumi crescerebbe ben di più di quanto viene riscontrato di recente dai principali istituti di statistica, così come -per effetto di quest’ultima- si innescherebbe una dinamica non solo di maggiore occupazione, ma anche di incrementi salariali che sfocerebbe in una risalita dell’inflazione. Invece l’inflazione cresce poco o nulla e gli scettici obiettano che dunque manca la prova di una ripresa economica effettiva.

NEL 2017 LA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE DOVREBBE RAGGIUNGERE IL 4% MA LE STATISTICHE REGISTRANO UNA DINAMICA PIÙ LIMITATA DEI PREZZI AL CONSUMO

Con diverse gradazioni di intensità la questione dell’apparente scarsità di domanda di beni e servizi si pone un po’ dappertutto nel mondo, a partire dai Paesi “OCSE” (i più ricchi), e tra questi a partire dagli Stati Uniti d’America, ove l’espansione del P.I.L. prosegue al ritmo più o meno costante del 2% annuo (ma è vecchia di otto/nove anni e perciò sono in molti a presagire un’imminente inversione del ciclo) per proseguire poi con i Paesi dell’Asia continentale, dove la crescita è ben più impetuosa (intorno al 6%) e dal Giappone, che finalmente sembra aver registrato nell’ultimo trimestre (il secondo del 2017) una crescita su base annua dell’ordine del 4%, in linea con la media globale che dovremmo registrare a fine anno (il miglior risultato da anni).

L’Europa invece quest’anno a mala pena dovrebbe toccare l’1,9%, pur registrando la sua crescita del prodotto interno lordo più elevata dai tempi della crisi del 2008 e solo se tutto dovesse andare nel migliore dei modi e l’innalzamento del cambio non rovinerà troppo la festa alle imprese esportatrici. In tutte queste regioni del mondo però la crescita del prodotto interno lordo è più elevata di quella della spesa per consumi. La spiegazione ovvia che se ne potrebbe dare è che la domanda di beni e servizi resta debole, nonostante la ripresa, ma se proviamo ad approfondire, emergono altre dinamiche, ben più complesse!

LA DIFFUSIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO LIMITA L’INFLAZIONE

La diffusione di internet e delle vendite online ha infatti una forza deflativa sui prezzi che resta ancora da misurare con precisione. Ma la riduzione dei prezzi (che si contrappone e annulla l’effetto della crescita dei prezzi dovuta alla maggior domanda di beni e servizi) imputabile alle vendite online (il cosiddetto “Effetto Amazon”) contribuisce solo per una parte alla creazione fenomeno di limitata inflazione cui assistiamo.

L’utilizzo di applicazioni per il telefono cellulare che “in virtualità” sostituiscono beni e servizi (buona parte dei quali è gratuito perché sono sostenuti da ecosistemi di “sharing economy”) è vastissimo e pieno di implicazioni pratiche. Eccone ad esempio un piccolo elenco comparativo (a sx gli strumenti precedentemente utilizzati e a dx quello che si può fare con uno smartphone):

LA DIGITALIZZAZIONE, LA SHARING ECONOMY E LE NUOVE TECNOLOGIE CONTRIBUISCONO AL CONTENIMENTO DEI PREZZI E ALLA DIFFICOLTÀ DI RILEVARE LA VERA CRESCITA DEI CONSUMI

Per non parlare della miriade di servizi offerti tramite la digitalizzazione dell’economia : dalla diffusione del “car sharing” al successo mondiale dell’affitto breve delle unità abitative legato alle catene di Bed&Breakfast e all’esplosione della catena AIRBNB, dei servizi finanziari che vengono forniti con la consulenza computerizzata, per non parlare di tutti i sistemi innovativi di risparmio energetico, dell’aumento della disponibilità globale di pezzi di ricambio e di strumenti tecnici a buon mercato venduti o affittati online, della diminuzione del numero di viaggi aziendali dovuta ai sistemi di videoconferenza, eccetera…

La stessa disponibilità dell’accesso alla rete è migliorata ed è divenuta più economica, dal momento che i costi di connessione tramite cellulari “intelligenti” sono crollati, e con essi è lievitato il consumo di servizi tramite accesso mobile.

L’offerta di beni e servizi è inoltre anch’essa in crescita, a causa della costante espansione della capacità produttiva per i beni a minor valore aggiunto nell’intero sud-est asiatico. Cosa che contribuisce a limitare la pressione inflattiva nonostante la vivacità della domanda, che scaturisce tanto dalla crescita globale quanto dalla dinamica demografica dei Paesi Emergenti.

Morale: non possiamo non tenere conto dei fenomeni economici collegati al concetto di digitalizzazione dell’economia globale nel chiederci per quale motivo l’inflazione non corre altrettanto quanto gli utili aziendali e quanto la crescita del Prodotto Interno Lordo. La corretta interpretazione dei fenomeni economici che discendono da essa sarà probabilmente oggetto di studio ancora per molti anni.

Quando però ci chiediamo perché il mercato mobiliare corra ancora nonostante tutti i segnali di attenzione che da oramai molti mesi gli analisti rilevano, ecco che dobbiamo guardare anche all’altro lato della medaglia: quello che esprime una crescita dell’economia globale, ancora solo parzialmente rilevata dai sistemi statistici di misurazione delle attività economiche basate sulla rete!

 

Stefano di Tommaso

 




LA CHIMERA DELLA CRESCITA ITALIANA

Quando nel corso di una trasmissione televisiva Paolo Gentiloni ha deciso di attribuirsi qualche merito relativamente ai risultati economici dell’Italia nel periodo del suo governo mi sono posto una domanda: ma davvero la ripresa economica italiana in corso dipende dall’incisiva azione di questo governo? Per dimostrare che non è così, proverò a rispondere a questa domanda con qualche numero.

 

A un primo sguardo sembrerebbe di sì: a Luglio la crescita del Prodotto Interno Lordo nel 2017 era proiettata all’1,3-1,4% (la prima cifra è una stima del Fondo Monetario Internazionale, la seconda della Banca d’Italia), la disoccupazione è scesa all’11% (ma è sempre troppo alta, e poi è la trilussiana “media del pollo” tra quella del sud e quella del nord), e persino le vendite al dettaglio sono cresciute dello 0,6% a Giugno scorso, mentre l’inflazione rimane vicina allo zero (0,1%).

Ma poi dobbiamo ricordarci delle politiche monetarie accomodanti della Banca Centrale Europea e, se paragoniamo la nostra situazione con quella del resto d’Europa il quadro cambia completamente. E ci rendiamo conto dell’essere ancora una volta il fanalino di coda della locomotiva della ripresa economica: la crescita media prevista per il 2017 nel resto dell’Eurozona è quasi del 2% mentre la disoccupazione europea in media è scesa al 7,7% (Italia inclusa).


Per essere onesti fino in fondo bisogna ammettere che la produzione industriale italiana è cresciuta da inizio anno al ritmo del 5,3%, ben al di sopra dunque della media europea, molta parte della quale è però dovuta alle esportazioni e alla crescita del settore automotive la cui stagione dorata sta oggi per concludersi.

Questo è anche il limite del discorso di Gentiloni: quanto i risultati economici del Paese sono dipesi dalle politiche del governo e quanto invece dall’impetuosa crescita dell’economia mondiale (le stime per il 2017 parlano di un tasso tendenziale del 4%) e dalla svalutazione dell’Euro nel primo trimestre (che invece nell’ultimo periodo si è notevolmente apprezzato?). Poco, probabilmente, visto che con una così forte risalita della produzione industriale (probabilmente collegata all’impennata delle esportazioni) è presumibile che tutti gli altri indicatori economici siano rimasti al suo traino.

Il problema della rivalutazione della divisa unica dipende peraltro dalla stessa radice della crescita economica: le esportazioni dell’Eurozona già a Maggio avevano creato un surplus commerciale di 22 miliardi di euro, provocando un apprezzamento del cambio che oggi (nonostante i venti di guerra nel sud-est asiatico) resta orientato al superamento della barriera psicologica dell’1,20 contro dollaro. Quella è anche la soglia di dolore oltre la quale chi esporta negli Stati Uniti e in generale nel resto del mondo inizia a fare fatica e teme impatti significativi sui propri ricavi e margini.

La domanda che ne consegue è: come impatterà la rivalutazione della divisa unica sui conti delle imprese italiane? Se lo è chiesto Intermonte SIM che ha pubblicato uno studio riportato dal Sole24Ore:

Come si può vedere, pur avendo in generale un impatto negativo, molto dipende dalla percentuale di esportazioni in dollari, oltre che dalla percentuale dei costi che vengono sostenuti in quella valuta. Altro fattore critico è la competitività delle nostre esportazioni: più alto è il valore aggiunto e maggiore è la capacità di difendersi dalla rivalutazione della propria valuta. Va da sé che anche in questo l’Italia non brilla: laddove non si tratti di lusso, design e meccanica di precisione, le imprese italiane rischiano di essere esposte più di quelle del nord Europa alle oscillazioni dell’Euro, così come l’intera economia nazionale.

Già le previsioni economiche per l’intero vecchio continente erano meno positive per il 2018 ma oggi, con la minor competitività delle imprese italiane rispetto alle consorelle europee, c’è il rischio che da noi l’effetto del buon andamento delle esportazioni divenga nullo in anticipo, rimangiandosi nella seconda parte dell’anno parte dei progressi realizzati sul fronte macroeconomico, esattamente come è avvenuto nel 2016.

Se questo governo volesse davvero segnare la differenza con quelli che lo hanno preceduto (Renzi compreso) dovrebbe dare segnali forti di cambiamento nella riduzione della tassazione delle attività produttive, nell’eliminazione dell’IRAP (una iniqua tassa sul lavoro) e nello snellimento della burocrazia che frena la nascita di nuove iniziative. E se proprio volesse esagerare potrebbe cercare di spianare la strada a quelle opere infrastrutturali che più di tutte provocherebbero un forte stimolo alla crescita economica. Basterebbe solo iniziarne il processo per innestare un circuito virtuoso che, alla lunga, amplierebbe la base occupazionale e renderebbe più allettante per l’industria il fare ritorno in Italia.

È chiaro però che -al di là del fatto che ci vorrebbe una strenua volontà politica- le risorse per realizzare tutto ciò non possono provenire né da nuovo debito e neppure dall’incremento della tassazione (che oramai è chiarissimo provocherebbe solo nuove fughe di concittadini all’estero e una immediata riduzione del gettito complessivo). Perciò quelle risorse possono solo arrivare dalla sottrazione ad altri capitoli di spesa, come quella per i migranti, quella per le maxi-pensioni e per le rendite vitalizie legate alle alte cariche dello Stato (che incidono moltissimo sul disavanzo dell’INPS) e quella per tutte le inutili spese clientelari della politica italiana.

Ma nulla di tutto ciò sembra davvero realizzabile, mentre dovremmo ricordare che la spesa pubblica italiana, in assenza di significative sterzate, è invece votata a una crescita tanto certa quanto insostenibile con poco più dell’1% di avanzamento del prodotto interno lordo. Come dimostrato dall’ultimo DPEF 2016 i cui numeri non sono mai cambiati. Perciò quando Gentiloni ci racconta quelle storielle e poi aspetta solo il momento buono per rialzare l’aliquota IVA, ricordiamoci che la crescita economica italiana in questa situazione resta solo una chimera che, per chi non lo rammentasse, è un leggendario mostro mitologico dalla fiera testa di leone e la viscida coda di serpente!

 

Stefano di Tommaso